11863 Un conflitto indefinito e asimmetrico

20151120 14:55:00 guglielmoz

LA FRANCIA E I PAESI DEL MEDITERRANEO SONO IN GUERRA. E I LORO CITTADINI SONO TUTTI OSTAGGI, SCRIVE IL FILOSOFO ETIENNE BALIBAR.
Siamo in guerra. O meglio, ormai siamo tutti dentro la guerra. Diamo colpi e li riceviamo. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, ne paghiamo il prezzo e ne portiamo il lutto. Perché ogni morto è insostituibile. Ma di che guerra si tratta? Non è facile definirla, perché è di diversi tipi, che si sono via via intrecciati e appaiono inestricabili.

Guerre tra stato e stato (o pseudostato, come lo Stato islamico, Is). Guerre civili nazionali e transnazionali. Guerre "di civiltà", o che quantomeno si considerano tali.
Guerre d’interessi e di clientele imperialistiche. Guerre di religioni e di sette, o guerre giustificate come tali. È la grande stasis del ventunesimo secolo, quel conflitto endemico che in futuro – se ne usciremo -sarà paragonato ai suoi modelli antichi: la guerra del Peloponneso, la guerra dei Trent’anni o la "guerra civile europea" del 1914-1945. Questa guerra, provocata in parte dagli interventi statunitensi in Medio Oriente prima e dopo l’u settembre 2001, si è intensificata con la prosecuzione di quegli interventi, a cui ormai partecipano soprattutto la Russia e la Francia, ognuna con i suoi obiettivi. Affonda le radici anche nella rivalità feroce tra gli stati che aspirano all’egemonia regionale: Iran, Arabia Saudita, Turchia, Egitto e, in un certo senso, an-che Israele, che tra questi paesi, per il mo-mento, è l’unica potenza nucleare. Questa guerra fa esplodere tutti i conti lasciati aper¬ti dal colonialismo e dagli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitraria¬mente, risorse espropriate, aree d’influenza contese, giganteschi contratti per la vendita di armamenti. Cerca, e all’occasione trova, sostegno tra popolazioni contrapposte.

DIETRO LA RELIGIONE
Ma la cosa peggiore è che riattiva millenari "odi teologici": gli scismi dell’islam, lo scontro tra i monoteismi e i loro surrogati laici. Nessuna guerra di religione – ripetiamolo chiaramente – ha le sue cause nella religione stessa: sotto ci sono sempre op-pressione, lotte di potere, interessi economici. La troppa ricchezza, la troppa miseria. Ma quando la religione si appropria di questi conflitti, la crudeltà può superare ogni limite, perché il nemico diventa anatema.
Così sono nati dei mostri di barbarie che si alimentano con la follia della loro stessa violenza, come appunto lìs, con le decapitazioni, gli stupri di donne ridotte in schiavitù, la distruzione dei tesori culturali dell’umanità. Ma così proliferano anche al-tre barbarie apparentemente più razionali, come la guerra dei droni del presidente statunitense Barack Obama, che a quanto risulta uccide nove civili per ogni terrorista.
In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, asimmetrica, le popolazioni del-le due sponde del Mediterraneo sono ostaggio. Le vittime degli attentati di Parigi – do¬po quelle di Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara – sono ostaggi, con i loro cari e i loro vicini. I profughi che cercano rifugio o che trovano la morte a migliaia in vista delle coste europee sono ostaggi. I curdi bombar¬dati dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, stretti nella morsa tra il terrore di stato, il monadismo fanatico e i bombardamenti stranieri.
Che fare, allora? Prima di tutto bisogna riflettere insieme, resistere alla paura, alla tentazione di fare di tutta l’erba un fascio, alle pulsioni di vendetta. Prendere, ovvia-mente, tutte le misure – di protezione civile e militare, d’informazione e di sicurezza -necessarie per prevenire o contrastare le azioni dei terroristi. E, se possibile, giudica-re e punire gli autori e i loro complici. Ma mentre si fa questo, bisogna anche pretendere dagli stati democratici la massima vigilanza contro gli atti d’odio verso i cittadini e i residenti che, a causa delle loro origini, della loro fede o delle loro usanze, sono additati come "nemico interno" da autoproclamati patrioti. E ancora, si deve pretendere dagli stessi stati che, nel momento in cui rafforzano la sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi su cui si fonda la loro legittimità. Come dimostrano il Patriot act e Guantánamo, non è facile.
Soprattutto bisogna rimettere all’ordine del giorno la pace, per quanto possa appari-re difficile da raggiungere. Dico la pace, e non la vittoria: una pace duratura, equa, non fatta di codardia e di compromesso né di altro terrore, ma di coraggio e d’intransigenza. La pace per tutti coloro che la desiderano, su questa e sull’altra sponda di quel mare che ha visto nascere la nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali. Non mi faccio illusioni sulla possibilità di raggiungere questo obiettivo, ma non vedo altro modo, all’infuori dello slancio morale che quest’obiettivo ispira, per sviluppare e articolare iniziative politiche di resistenza alla catastrofe. Indicherò tre strade.

IL COMPITO DEGLI EUROPEI
Una è il ripristino dell’efficacia del diritto internazionale, e di conseguenza dell’autorità delle Nazioni Unite, annientate dalle pretese unilateraliste, dalla confusione tra umanitario e securitario, dall’assoggettamento al dominio del capitalismo mondializzato, dalla politica delle clientele che ha preso il posto di quella dei blocchi. Occorre dunque risuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, cosa che presuppone una rifondazione dell’Orni, dando maggior potere all’assemblea generale e alle coalizioni regionali di stati, anzi-ché affidarsi alla dittatura di poche potenze che si neutralizzano tra loro o si alleano solo Un’altra strada è l’iniziativa dei cittadini per superare le frontiere e le contrapposi-zioni tra le credenze e gli interessi delle co-munità, il che presuppone innanzitutto la possibilità di esprimersi sulla pubblica piaz-za. Nulla dev’essere tabù, ma nulla dev’es-sere imposto da un solo punto di vista, per-ché la verità, per definizione, non esiste prima dell’argomentazione e del conflitto. Gli europei laici e cristiani devono quindi sapere quello che i musulmani pensano dell’uso del jìhad come legittimazione del totalitarismo e del terrorismo, e conoscere i mezzi a loro disposizione per opporsi dall’interno. Allo stesso modo i cittadini della sponda meridionale del Mediterraneo, musulmani e non musulmani, devono sapere a che punto sono le nazioni del nord, un tempo dominanti, in tema di razzismo, islamofobia e neocolonialismo. Ma, soprattutto, serve che gli "occidentali" e gli "orientali" costruiscano insieme il linguaggio di un universalismo nuovo, assumendo-si il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro imposizione a danno del multiculturalismo delle società della regione, è già guerra civile.
In questa prospettiva l’Europa ha virtualmente un ruolo insostituibile, che deve assolvere malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o meglio, per por-vi urgentemente rimedio. Ogni paese ha la capacità di trascinare gli altri in un vicolo cieco, ma tutti insieme possono trovare una via d’uscita. Dopo la crisi finanziaria e la crisi dei profughi, sarà la guerra a uccidere l’Europa. A meno che di fronte alla guerra l’Europa non dimostri di esistere ancora. E l’Europa che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, evitare che la sicurezza si realizzi a spese dello stato di diritto, e cercare, nella diversità delle comunità che la compongono, la materia per far nascere una nuova forma di opinione pubblica. Esigere che i cittadini, cioè noi, siano all’altezza di questi compiti è chiedere l’impossibile? Può darsi. Ma significa anche proclamare che è nostra la responsabilità di far succedere quello che è ancora possibile o che sarà possibile in futuro.
ETIENNE BALIBAR è un filosofo francese. È professore emerito all’università di Nanterre, a Parigi.

 

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