10399 Notizie 25 gennaio

20130125 13:11:00 guglielmoz

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AFRICA & MEDIO ORIENTE
ISRAELE – YAIR LAPID è LA SORPRESA DEL VOTO ISRAELANO / Alle elezioni del 22 gennaio gli israeliani hanno punito il Likud, il partito di governo. Gli elettori indecisi hanno votato in massa per Yesh atid, un nuovo partito di centro .
(PARTITI ARABI 12, PARTITI MINORI DEL CENTROSINISTRA 14, PARTITO LABURISTA 15, YESH ATID 19, LIKUD-BEITEINU 31, HABAYITHAYEHUDIN E ULTRAORTODOSSI 18. )
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha mai vinto un’elezione con un ampio margine. Le sue vittorie sono sempre state di stretta misura, conquistate con sangue, sudore e lacrime. Questa tradizione è stata rispettata anche alle legislative del 22 gennaio. La coalizione formata dai partiti Likud e Yisrael beiteinu, guidata da Netanyahu, ha subito un duro colpo: la lista ha perso undici seggi rispetto a quelli che i due partiti occupano oggi al parlamento. Probabilmente Netanyahu resterà in carica, ma con poteri più limitati e alla guida di una coalizione sicuramente turbolenta. Il malcontento all’inter-no del suo partito, il Likud, non farà che aumentare. A questo punto è difficile che il settimanale statunitense Time torni a dedicare un’altra copertina a "King Bibi" (il soprannome di Netanyahu). Dal 22 gennaio Israele ha un nuovo re: Yair.
La vittoria dell’ex giornalista televisivo Yair Lapid è la vittoria della politica moderna, quella di internet e dei reality show. Lapid è una brava persona, mossa dalle migliori intenzioni, ma la sua esperienza comincia e finisce con gli show televisivi, le sceneggiature e le rubriche sui giornali. Nel giro di un mese potrebbe ritrovarsi nelle stanze del potere a leggere rapporti dei servizi segreti e documenti sulla difesa di cui ignorava perfino l’esistenza. Il partito Kadima, guidato dall’ex ministro della difesa Shaul Mofaz, ha ottenuto solo due seggi parlamento. Lapid, che fa politica da appena da dodici mesi, ne ha conquistati 19. Lo stesso discorso vale per l’imprenditore Naftali Bennett, il leader del partito della destra religiosa Habayit hayehudi, che ha ottenuto undici seggi. Nelle prossime settimane il fenomeno Lapid sarà analizzato approfonditamente per il momento si può dire che negli ulti quindici giorni quasi tutti i sondaggi avevano registrato l’avanzata del suo partito Yes atid (c’è un futuro). Alle elezioni del 22 gennaio Lapid ha catturato tutti i voti degli in decisi. Da un lato, ha incarnato il voto protesta. Dall’altro, molti di quelli eh l’hanno scelto si aspettano che entri a fa parte del governo.
POSSIBILITÀ DI RIFORME
Il quadro politico emerso dalle legislative è chiaro: senza Lapid non ci sarà nessun governo convincente, a meno che Netanyahu non voglia diventare un paria sulla scena politica internazionale. L’unica alternativa per l’attuale primo ministro è formare un governo composto unicamente da partiti d destra e ultraortodossi, ma sa benissimo I che questo sancirebbe la fine della sua car- l riera. Lapid è la pedina più importante nello 1 scacchiere israeliano. Se non farà il primo ministro, gli restano due possibilità: diventare il capo dell’opposizione o scegliere il ruolo di ministro più influente del terzo governo Netanyahu. Se entrerà nell’esecutivo e giocherà bene le sue carte, Lapid potrà mantenere le promesse di cambiamento fatte durante la sua campagna elettorale.
Netanyahu, Lapid e Bennett possono contare complessivamente su 61 seggi, ab-bastanza da formare un governo in grado di portare avanti le riforme di cui il paese ha disperatamente bisogno: cambiare il nuovo sistema di governo, rendere obbligatorio il servizio militare per gli ultraortodossi e ap-provare una legge di bilancio responsabile. In poche parole, l’esito delle promesse fatte da Lapid durante la campagna elettorale è nelle sue mani. Per quanto possa sembrare paradossale, 31 seggi per Likud-Beiteinu non sono un cattivo risultato. A un certo punto i dirigenti della coalizione temevano di scendere sotto i trenta seggi. Ma nelle ultime ore prima della chiusura del voto la tendenza si è invertita.

Da RAMALLAH – Il grande sonno può continuare di Amira Hass / Sono arrivata al mio seggio a Gerusalemme 14 minuti prima della chiusura. Due ore prima avevo partecipato a un dibattito a Ramallah sulla politica coloniale di Israele. La tesi dei partecipanti secondo cui Israele vuole espandere gli insediamenti per impedire per sempre la nascita di uno stato palestinese non ha stupito nessuno. Ha parlato anche un alto dirigente di Al Fatah, Mohammed Shtayeh: "Noi restiamo favorevoli a una soluzione a due stati, ma sta diventando ormai impraticabile". Alle otto di sera si è sparsa la notizia che il premier Benjamin Netanyahu aveva subito un duro colpo alle elezioni. La lista composta dal Likud e da Yisrael beiteinu ha perso circa un terzo dei seggi rispetto alle elezioni precedenti. Ma questo non significa che cambierà la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Il partito centrista Yesh atid, indispensabile per formare un governo, non ha un’opinione in materia molto diversa da quella della maggioranza degli israeliani. Ho seguito i risultati in tv insieme ad alcuni amici. Uno di loro era sinceramente dispiaciuto del mancato trionfo dell’ultradestra. Habayit Hayehudi, formazione che chiede l’annessione del 62 per cento della Cisgiordania, ha preso meno del previsto. Un altro partito che chiede l’annessione totale e l’espulsione dei palestinesi non ha avuto nemmeno un seggio. Il mio amico sperava che un "governo di pazzi" avrebbe svegliato la comunità internazionale. Adesso il mondo potrà continuare a fare finta di niente.

SIRIA – Rimpatriati da Mosca Dopo aver chiuso il consolato di Aleppo, la Russia, principale alleata del presidente Bashar al Assad, ha deciso di rimpatriare parte dei suoi cittadini presenti in Siria, scrive Al Hayat (nella foto una donna all’aeroporto di Mosca). L’annuncio è stato interpretato come un segnale del fatto che Damasco non riesce più a controllare il territorio. Negli ultimi giorni in Siria sono stati uccisi due giornalisti stranieri, ci sono stati combattimenti intorno ad Hama e a Homs (dove sono stati trovati un centinaio di cadaveri di civili), mentre vicino a Ras al Ayn (nord) gli scontri tra milizie curde e ribelli hanno causato una trentina di morti.

GIORDANIA – II 23 gennaio si sono svolte le elezioni legislative per designare 150 deputati della camera bassa del parlamento. Il voto è stato boicottato dai Fratelli musulmani, la principale forza d’opposizione.

IRAQ – Almeno 35 persone sono morte in un attentato suicida contro una moschea sciita a Tuz Khormato, nel nord del paese.

IRAN – Aria irrespirabile "L’Iran deve affrontare un grave inquinamento", scrive Radio Zamaneh. La situazione è così urgente che alcuni medici intervistati dall’agenzia di stampa Irna denunciano una diminuzione del tasso di fertilità, in particolare a Teheran. Le autorità ricorrono a soluzioni a breve termine, come la chiusura delle scuole. Ma secondo gli esperti la colpa è delle auto. Con l’inasprimento delle sanzioni internazionali la produzione interna di benzina è aumentata, ma il prodotto è di cattiva qualità, con livelli di zolfo troppo alti.

ALGERIA -Dall’Africa / Blackout informativo . "L’Algeria ha passato quattro giorni di ansia, paura e dubbi. Anche se l’ansia è finita quando è terminato l’assedio a In Amenas, paura e dubbi non sono svaniti", scrive il quotidiano algerino El Watan. L’attacco terroristico contro l’impianto di estrazione del gas di Tigantourine, nell’est dell’Algeria, è terminato il 19 gennaio, dopo quattro giorni di operazioni militari per liberare i 790 lavoratori tenuti in ostaggio da un commando di 32 uomini. Il bilancio finale è di 37 lavoratori stranieri e un algerino morti. Altri sette cadaveri non sono stati identificati. Tra i rapitori, 29 sono stati uccisi e tre sono in arresto. I componenti del commando erano di otto nazionalità diverse (tra cui anche un canadese) e sono passati per Algeria, Mali, Niger e Libia prima di attaccare In Amenas. "C’è una minaccia esterna che incombe sull’Algeria?", si chiede El Watan. "Cosa rischiamo dopo questo attacco? Il leggendario mutismo dell’esercito ha contagiato anche le autorità civili. Il governo non spiega niente. L’opinione pubblica è ostaggio dei mezzi d’informazione stranieri, che dispensano briciole di notizie prese da agenzie o da fonti scarsamente attendibili".
"Questa guerra non somiglia a nessun’altra condotta finora. Coinvolge un grande numero di fazioni, sia tra i terroristi sia tra chi li combatte", scrive Marwane ben Yahmed su Jeune Afrique. "E i mezzi d’informazione, che dovrebbero chiarire la situazione, non fanno il loro dovere e pubblicano informazioni non verificate e spesso contraddittorie". Per esempio, sostiene Yahmed, non è vero che l’Algeria si sia disinteressata della crisi in Mali, scoppiata un anno fa. Quello che succedeva nel Sahel è sempre stato una priorità per Algeri fin dai tempi dell’intervento in Libia, nel marzo del 2011.
Lo stesso discorso vale per le operazioni militari francesi in difesa del governo di Bamako. "Mali, una guerra muta?", titola il sito Afrik. "Dall’inizio dell’intervento circolano poche immagini del Mali. Adducendo ragioni di sicurezza, le autorità tengono i giornalisti ad almeno cento chilometri dalle zone dei combattimenti".

IRAQ – Tareq Azis: «il papa mi aiuti a essere » / Per mettere fine alle sue "sofferenze", l’ex ministro degli Esteri ed ex vice primo ministro iracheno Tareq Aziz, unico cristiano della cerchia di Saddam Hussein, si propone di lanciare un provocatorio appello al papa. Lo riferiva ieri il suo avvocato. Recluso da quasi dieci anni, malato e «depresso», Aziz, 76 anni, è stato condannato a morte nel 2010 dall’Alta corte irachena per «omicidio deliberato e crimini contro l’umanità». Ma il presidente Jalal Talabani non ha mai firmato l’ordine di esecuzione, mentre numerosi paesi, incluso il Vaticano, hanno chiesto a Baghdad di concedergli la grazia. «Preferisco essere giustiziato piuttosto che continuare in queste condizioni», avrebbe detto Aziz, che si arrese alle truppe Usa nel 2003, circa un mese dopo l’invasione dell’Iraq. Già nell’ottobre scorso l’avvocato di Tareq Aziz aveva affermato che le condizioni del suo assistito erano peggiorate al punto di metterne in pericolo la sopravvivenza, rinnovando la richiesta al premier Maliki perché ne consentisse la scarcerazione.

MALI /ONU – «Soluzione non facile» Anche per l’Onu la guerra francese in Mali rischia di durare a lungo. Si tratta di un «momento cruciale nel conflitto in Mali, ma la soluzione è probabile che non sia semplice, né veloce», ha detto ieri il capo degli affari politici dell’Onu, Jeffrey Feltman, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza sugli ultimi sviluppi della situazione nel Paese africano. Feltman ha avvertito inoltre che «le azioni militari devono essere coordinate con cambiamenti politici». Per il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, l’intervento francese è «coraggioso» ma rischioso per il personale Onu.

ALGERIA / MALI – L’opinione / Alle origini della guerra / Sia la crisi degli ostaggi in Algeria sia i combattimenti in Mali sono una conseguenza della caduta di Gheddafi – Quando ormai era accerchiato dai ribelli, il dittatore libico Muammar Gheddafi aveva avvertito che se lui fosse caduto il Nord africa sarebbe stato travolto dal caos e dalla guerra santa. La sua previsione si è drammaticamente avverata. I francesi sono arrivati in Mali per ostacolare l’avanzata dei combattenti jihadisti che già controllano un’area grande il doppio della Germania. In Algeria un criminale fondamentalista islamico ha organizzato l’occupazione di un impianto di estrazione del gas, sequestrando lavoratori statunitensi ed europei", scrive Robert F. Worth sul New York Times. "Il caos scoppiato in questa vasta regione desertica è stato causato da molti fattori, ma ci ricorda anche in maniera preoccupante che l’euforia prodotta dalla caduta dei dittatori in Libia, in Tunisia e in Egitto aveva un prezzo. ‘È uno dei risvolti più oscuri delle rivolte arabe’, ha commentato Robert Malley, responsabile del Medio Oriente e del Nord africa dell’Intemational crisis group. ‘La loro natura pacifica avrà pure danneggiato Al Qaeda e i suoi alleati dal punto di vista ideologico, ma sul piano logistico la maggiore permeabilità dei confini, l’espansione delle zone ingovernabili, la proliferazione degli armamenti e la disorganizzazione della polizia e dei servizi di sicurezza sono state una vera manna per i jihadisti’".
IN MALI, dove i miliziani islamici tendono a confondersi con la popolazione locale, è improbabile che la crisi si concluda in fretta, sostiene il giornalista statunitense. "La situazione potrebbe mettere a dura prova anche i fragili governi che si sono insediati di recente in Libia e nei paesi confinanti, in una regione dove ogni intervento militare dell’occidente risveglia aspre memorie coloniali e si traduce in una chiamata alle armi in favore dei fondamentalisti. Anche se si è impegnata a dare la caccia ai responsabili del sequestro dei lavoratori del sito algerino di In Amenas, l’amministrazione Obama è in difficoltà a causa della complessità del jihadismo nordafricano. Dietro l’etichetta di Al Qaeda, si nascondono molte fazioni che operano a cavallo di diversi gruppi etnici, clan e reti criminali. Anche i tentativi di individuare e punire i responsabili dell’attacco del settembre del 2012 a Benga-si, in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore statunitense J. Christopher Ste-vens, si sono impantanati. La commissione d’inchiesta che sta indagando sull’episodio ha criticato le agenzie di spionaggio statunitensi per non aver capito le molte milizie della regione, che si dissolvono, si dividono e si riformano costantemente".
A FRENO
Worth scrive che sia la crisi degli ostaggi in Algeria sia i combattimenti in Mali sono una conseguenza della caduta di Gheddafi nel 2011: "Come altri dittatori della regione, Gheddafi teneva sotto controllo le varie fazioni etniche e tribali del paese con la repressione brutale o arruolandoli nelle forze governative. In questo modo riusciva a tenere a freno gli elementi più radicali, e quando quel freno è venuto a mancare i diversi gruppi (ribelli, jihadisti o criminali) sono stati liberi di unire le forze per una causa comune. Invece, secondo alcuni analisti, la caduta di Gheddafi è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso in una zona da anni sempre più caotica, dove gli uomini che si battono all’insegna del jihad hanno accumulato enormi riserve di denaro attraverso il cont

CIAD – II 21 gennaio il presidente Idriss Déby ha nominato primo ministro Djimrangar Dadnadji al posto di Emmanuel Nadingar.

COSTA D’AVORIO – II 21 gennaio la procura di Abidjan ha rinviato a giudizio per crimini di guerra Charles Blé Goudé, leader dei "giovani patrioti" che sostenevano l’ex presidente Laurent Gbagbo. Blé Goudé era stato arrestato in Ghana.

NIGERIA – Diciotto persone sono morte il 22 gennaio in un attacco della setta islamica Boko haram contro un mercato a Damboa, nel nordest del paese.

ZIMBABWE – II 17 gennaio il presidente Robert Mugabe e il primo ministro Morgan Tsvangirai hanno raggiunto un accordo su un progetto di costituzione c

ERITREA – Avvertimento per Afewerki / Il 21 gennaio ad Asmara un gruppo di soldati ha attaccato il ministero dell’informazione, prendendo in ostaggio decine di persone, per chiedere riforme e la liberazione dei prigionieri politici. Il governo ha mandato i blindati a liberare l’edificio. "Non è stato esattamente un golpe", scrive iMaverick, "ma un avvertimento per il presidente Isaias Afewerki, in carica dal 1993: il suo regime non può durare per sempre". Il governo ha un controllo così stretto sui mezzi d’informazione che il Committee to protect journalists definisce l’eritrea il paese più censurato del mondo.
ASMARA – DOPO L’AMMUTINAMENTO / All’Asmara torna la calma / Rientra l’ammutinamento di un centinaio di soldati che lunedì aveva fatto pensare a un principio di golpe in Eritrea. I militari avrebbero lasciato la sede del ministero dell’Informazione e della tv di stato che avevano occupato. Anche i carri armati che avevano circondato la struttura sono scomparsi. Secondo il sito dell’opposizione in esilio Awate.com, i militari hanno interrotto la loro azione di protesta dopo che «il governo ha accolto alcune delle condizioni poste». Non è chiaro se i soldati abbiano ricevuto garanzie rispetto alle riforme e alla liberazione dei detenuti politici. Secondo molte fonti i militari avevano preso in ostaggio la figlia del presidente Issaias Afeworki.

ASIA & PACIFICO
BIRMANIA – Se la Birmania abbandona Pechino / Yun Sun, Foreign Policy, Stati Uniti / appoggiare i gruppi autonomisti del nord del paese / Il cambiamento politico cominciato in Birmania nel 2011 con le riforme democratiche volute da Thein Sein rappresenta ormai un problema per la Cina. Per decenni Pechino ha mantenuto una relazione molto vantaggiosa con il vicino regime, che le ha permesso di avere una specie di monopolio sulle risorse naturali birmane e sulla politica estera di Naypyidaw. Tuttavia, ora che il paese si è trasformato in una caotica semi democrazia, molti birmani accusano la Cina di avere sostenuto la giunta militare e di aver sfruttato economicamente il paese. Nel frattempo Naypyidaw ha rafforzato i rapporti con Washington, aumentando le preoccupazioni di Pechino a proposito della svolta asiatica degli Stati Uniti. E a quanto pare le cose per la Cina potrebbero peggiorare. I monaci e gli abitanti dei villaggi della Birmania centrale protestano da mesi contro l’espansione della miniera di rame di Monywa, la più grande del paese, gestita da un’azienda cinese produttrice di armi e da una holding controllata dall’esercito birmano. Queste proteste hanno alimentato il timore che tutti gli investimenti cinesi in Birmania siano ormai a rischio.
Negli ambienti della politica estera cinese si sta affermando l’idea che per aumentare la sua influenza sulla Birmania Pechino dovrebbe tornare a sostenere i piccoli gruppi etnici birmani che portano avanti ribellioni su piccola scala contro Naypyidaw. In uno studio del 2011 Liang Jinyun, professore di scienze politiche del Police college nello Yunnan, ha scritto che, questi gruppi etnici, se "usati" bene, "diventeranno il più fedele alleato della Cina nel confronto con Washington in Birmania". Per molto tempo la Cina ha mantenuto un legame stretto con le minoranze etniche wa e Kachin, che vivono nel nord e combattono per l’autonomia fin dall’indipendenza della Birmania, nel 1948. Questo rapporto, però, si è interrotto all’inizio degli anni novanta.
STRANE AMICIZIE – Nel settembre del 2011 Naypyidaw ha siglato un accordo di pace con i wa, ma i Kachin sono ancora in guerra con l’esercito birmano. In pubblico, Pechino ha mantenuto un profilo basso, e il ministro degli esteri ha sottolineato i buoni rapporti tra i due paesi. Tuttavia, resta il fatto che il trattamento favorevole che Pechino è convinta di aver riservato alla Birmania non ha prodotto i risultati sperati. Per questo motivo, a novembre un analista del governo cinese ha dichiarato durante una riunione privata che Pechino dovrebbe "diversificare" il suo approccio. Questa visione è condivisa da molti esperti con cui ho parlato personalmente negli ultimi anni. Sono tutti convinti che la Cina dovrebbe mediare tra i Kachin e Naypyidaw in modo da ricordare al governo birmano il suo peso nella regione, e contemporaneamente dovrebbe sostenere i gruppi etnici di confine nella loro lotta contro Naypyidaw. Nelle conversazioni private gli analisti del ministero della difesa respingono quest’approccio. Citando la tradizionale politica cinese di non ingerenza negli affari interni di altri paesi, spiegano che alimentando il conflitto etnico la Cina potrebbe allontanare ulteriormente Naypyidaw. Inoltre sono convinti che la voglia di democrazia del governo birmano finirà per esaurirsi, e alla fine Naypyidaw sarà costretta a chiedere nuovamente il sostegno di Pechino per evitare che il paese sprofondi nel caos. Inoltre, se la Cina decidesse di usare le minoranze birmane contro il governo di Naypyidaw, la sua immagine potrebbe risentirne, soprattutto considerando il fatto che Pechino continua a reprimere le spinte autonomiste dei tibetani e degli uiguri. Ma la politica ha l’abitudine di creare singolari amicizie di letto, e di sicuro quella che prevede il sostegno della Cina a un gruppo etnico ribelle in lotta contro un governo autoritario non sarebbe la più strana.

CINA – Inquinamento subdolo / Caixin / Fin dall’antichità i cinesi hanno paragonato la terra a una madre. Ma oggi questa madre si è ammalata, scrive Caixin. I terreni cinesi, infatti, sono tra i più inquinati del mondo. Il fenomeno può avere diverse cause: pesticidi, fertilizzanti, inquinamento. In Cina è dovuto soprattutto alla presenza di metalli pesanti come il cadmio, il mercurio, il cromo e il piombo. I dati sulla contaminazione dei terreni sono però poco trasparenti, e così gli esperti e le istituzioni non hanno un quadro completo della situazione. Secondo una rilevazione risalente alla fine degli anni novanta, sono contaminati almeno 1,85 milioni di ettari, pari a un decimo dei terreni agricoli cinesi, ma da allora le cose sono sicuramente peggiorate. Nel 2006 il ministero dell’ambiente ha realizzato un nuovo censimento, ma sette anni dopo i risultati non sono ancora disponibili. A differenza dell’inquinamento dell’aria, in questi giorni ben visibile a Pechino, la contaminazione dei terreni è più subdola. Le conseguenze sulla salute pubblica sono evidenti, ma in assenza di dati certi per le autorità locali è molto difficile intervenire.

GIAPPONE – Punizioni corporali / Dopo il suicidio di uno studente di una scuola pubblica di Osaka che aveva subito maltrattamenti, il sindaco Toru Hashimoto ha proposto di sospendere gli esami per l’ammissione ad alcuni corsi dell’istituto. Lo scorso dicembre un ragazzo di 17 anni si è tolto la vita per uno schiaffo ricevuto da un responsabile della squadra di basket della scuola. Secondo il Maini-chi Shimbun, l’inchiesta ha rivelato che le punizioni corporali erano abituali nei club sportivi dell’istituto. Per questo Hashimoto ha chiesto il blocco degli esami finché la scuola non prenderà provvedimenti e sostituirà gli insegnanti coinvolti. Gli studenti hanno però obiettato che sostenere gli esami è un loro diritto.

BANGLADESH – Pena capitale per Azad / Il 21 gennaio un noto predicatore islamico, Abul Kalam Azad (nella foto), è stato condannato a morte in contumacia da un tribunale speciale di Dhaka per i crimini commessi durante la guerra d’indipendenza del 1971. Azad, uno dei leader di Jamaat-e-Islami, il principale partito religioso d’opposizione, è accusato di genocidio, omicidio e stupro, scrive il Daily Star. Ma lo stesso Jamaat, il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp) e alcune associazioni per i diritti umani affermano che il tribunale è stato creato per motivi politici, con l’obiettivo di colpire i partiti d’opposizione prima delle elezioni legislative.

AFGHANISTAN – Torture sui detenuti / Secondo un rapporto delle Nazioni Unite presentato il 20 gennaio, l’uso della tortura nelle prigioni afgane è ancora molto diffuso. Più di metà dei 635 detenuti intervistati ha denunciato abusi o torture, scrive il Wall Street Journal. Le pratiche più diffuse sono le percosse, gli abusi sessuali, le minacce di morte e le scosse elettriche. La Nato ha sospeso il trasferimento dei detenuti verso le prigioni coinvolte. Intanto il 21 gennaio cinque taliban e tre poliziotti sono morti durante l’assalto a un commissariato a Kabul.

PAKISTAN – Ashraf resta in carica / Il 21 gennaio l’ufficio governativo anticorruzione (Nab) ha sospeso l’inchiesta preliminare contro il premier Raja Pervez Ashraf (nella foto), accusato di corruzione, in attesa di chiarimenti sulla morte di uno degli
inquirenti, Kamran Faisal. L’uomo, scrive il quotidiano Dawn, si sarebbe suicidato il 18 gennaio in una camera d’albergo, ma i familiari sostengono che sia stato ucciso. Gli ultimi sviluppi hanno spinto la corte suprema a rinunciare all’arresto di Ashraf, accusato di aver preso tangenti quando era ministro per le risorse idriche ed energetiche. Intanto il 17 gennaio il predicatore Tallir ul Qadri ha messo fine alle proteste di massa contro la corruzione dopo aver raggiunto un accordo con il governo. Qadri ha ottenuto il rafforzamento dei controlli anticorruzione sui candidati alle prossime elezioni, previste in primavera, e potrà proporre alcuni nomi per l’esecutivo ad interim che guiderà il paese dalla fine della legislatura alla nomina del nuovo governo.

AMERICHE
CANADA – La protesta dei nativi infiamma il Canada The Economist, Regno Unito Da settimane le popolazioni native contestano la finanziaria del governo di Stephen Harper e i loro stessi leader. Serve una riforma della legge che regola i rapporti con le minoranze
Nel settecento i coloni britannici e francesi dell’attuale Canada sancirono la pace con gli indigeni attraverso una serie di trattati: le popolazioni locali accettavano di condividere la loro terra in cambio della promessa di sostentamento da parte dei nuovi arrivati. Questa pratica è andata avanti fino al 1867, quando il Canada è diventato indipendente. Poi i diritti sanciti dai trattati sono stati recepiti dalla costituzione del 1982. La corte suprema ha stabilito che il governo federale ha "l’obbligo di consultare" le Prime nazioni (la definizione preferita dai discendenti delle popolazioni native) prima di apportare cambiamenti che violino i diritti sanciti dai trattati.
Secondo l’assemblea delle Prime nazioni, che rappresenta circa 300mila persone sparse in 615 riserve, il governo conservatore di Stephen Harper ha rotto il patto. Nell’ultimo mese e mezzo i manifestanti hanno bloccato strade e ferrovie, improvvisando proteste nei centri commerciali e davanti all’ufficio del primo ministro. Theresa Spence, capo cree della riserva di Atta-wapiskat, nell’Ontario settentrionale, si è stabilita in una tenda vicino al palazzo del governo a Ottawa e si rifiuta di assumere cibi solidi dall’11 dicembre. A scatenare le proteste è stata la legge finanziaria. Potendo contare sulla maggioranza dei seggi sia alla camera dei comuni sia al senato, il governo Harper ha l’abitudine di approvare le leggi senza emendamenti da parte dei partiti di opposizione. La nuova finanziaria modifica 64 leggi e regolamenti, tra cui l’ìndian act del 1876, oltre ad annacquare le tutele ambientali a livello federale. I rappresentanti delle Prime nazioni detestano l’Indian act, una legge paternalista che disciplina molti aspetti della vita nelle riserve tra cui l’istruzione, l’assistenza sanitaria e il commercio. Ma vogliono essere consultati prima che le leggi che li riguardano vengano toccate. A novembre sono cominciate le proteste, dopo che un piccolo gruppo di capitribù è stato fermato mentre entrava alla camera dei comuni per discutere della legge finanziaria. Sempre ; novembre, quattro donne del Saskatchewan hanno lanciato un movimento, chiamato Idle no more (basta stare con le man in mano) contro l’erosione dei diritti sanciti dal trattato. La protesta si è diffusa a macchia d’olio. Le manifestazioni spesso sono! rivolte contro gli stessi capitribù, accusati essere litigiosi, divisi e, in alcuni casi, lontani dalla realtà. Il rapporto tra Harper e le Prime nazioni e gli altri gruppi aborigeni del Canada, i métis e gli inuit dell’Artide, era partito con il piede giusto: nel giugno del 2008 il primo ministro si era scusato pubblicamente per il trattamento riservato ai bambini appartenenti alle popolazioni indigene nelle residential school (scuole create dal governo e gestite dalla chiesa cattolica) e aveva parlato di "riconciliazione collettiva e cambiamenti sostanziali". Ma per ora sono solo parole. Il tema centrale delle proteste, spesso taciuto, è che i tempi sono maturi per una modifica radicale dell’ìndian act. La legge attuale impone alle Prime nazioni condizioni onerose, che spesso impediscono alle riserve di attirare lavoro e reddito. Mentre alcune hanno economie fiorenti, altre sono in condizioni abitative pietose, spesso senza nemmeno l’acqua corrente.
L’ARMA DELLE RISORSE – Il governo non è l’unico responsabile del mancato aggiornamento dell’Indian act. Alcuni capitribù hanno tutto l’interesse a mantenere in piedi un sistema marcio. A livello nazionale non c’è un accordo sulle modifiche da apportare alla legge. Secondo i sondaggi, la maggioranza dei canadesi non dà grande importanza alle rimostranze delle Prime nazioni. Molti pensano che dovrebbero essere assimilate al resto del Canada. Ma questa è un’eventualità sempre più remota: l’esplorazione geofisica per i giacimenti minerari, di petrolio e di gas dà alle Prime nazioni un formidabile potere di contrattazione nei confronti di imprese e amministrazioni pubbliche. In virtù del diritto costituzionale di consultazione e di conciliazione dei loro interessi, le Prime nazioni possono ostacolare per anni i progetti legati allo sfruttamento delle risorse naturali. È già successo con il blocco del Northern gateway, un oleodotto che avrebbe dovuto portare il petrolio dell’Alberta fino alla costa del Pacifico. E potrebbe ripetersi per le sabbie bituminose dello stesso Alberta.

STATI UNITI – Scagionato per le e-mail, il generale Allen alla nato Finito sotto inchiesta per i sospetti sulla fitta corrispondenza scambiata con Jill Kelley, la donna che ha involontariamente portato alla luce la relazione extraconiugale che a novembre ha costretto il generale David Petraeus alle dimissioni da direttore della Cia, il comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan, generale John Allen, è stato di fatto assolto da una commissione d’inchiesta. Di conseguenza, fa sapere la Casa bianca, la nomina di Allen al comando Nato in Europa, in Belgio, sospesa nei giorni dello scandalo, riprenderà il suo iter.
USA – La seconda volta / Washington, 20 gennaio 2013 / Il 21 gennaio Barack Obama ha giurato fedeltà alla costituzione statunitense a Washington, di fronte a un milione di persone, per inaugurare il suo secondo mandato da presidente. Nel suo discorso, durato circa 18 minuti, Obama ha lanciato un appello all’unità, chiedendo al paese di mettere da parte le differenze ideologiche. Nella giornata dedicata a Martin Luther King, ha ripetuto che "il nostro viaggio non è ancora finito" e ha ricordato la necessità di difendere i diritti dei gay, delle donne, degli anziani e degli immigrati.
STATI UNITI – California invecchiata / Meno immigrati, meno nascite e la generazione dei baby boomers che va in pensione: sono gli ingredienti della sfida demografica ed economica che la California si prepara ad affrontare, scrive il Wall Street Journal. Finora lo stato più popoloso degli Stati Uniti aveva bilanciato il progressivo calo delle nascite con l’afflusso di migranti. Ma dagli anni novanta, e poi dopo la bolla immobiliare e la crisi del 2008, l’immigrazione si è spostata verso gli stati in rapida crescita del sud e dell’ovest, dove il costo della vita è inferiore.
STATI UNITI – II 17 gennaio l’autorità dell’aviazione Faa ha raccomandato a tutte le compagnie di sospendere i voli del Boeing 787 Dreamliner dopo una serie di avarie alle batterie al litio. È stata aperta un’inchiesta.

CUBA – Il risveglio della rete / Dall’Avana Yoani Sànchez / Se facessimo un sondaggio per sapere quali sono i problemi più gravi dei cubani, molti risponderebbero le stesse cose. La maggior parte delle persone parlerebbe della doppia moneta, dei bassi salari e delle difficoltà per avere una casa. I più anziani si lamenterebbero delle pensioni basse e molti criticherebbero la mancanza di libertà. I più giovani, invece, denuncerebbero le difficoltà di collegarsi a internet. I cubani con meno di trent’anni non accettano di considerare il ciberspazio uno spazio remoto in cui è quasi impossibile entrare.
Ma questa situazione sta per cambiare. Da metà gennaio la compagnia statunitense Renesys, che supervisiona il traffico su internet, ha notato che il cavo di fibra ottica tra Cuba e il Venezuela è attivo. La linea è stata installata nel febbraio del 2011 a un costo di settanta milioni di dollari, ma non è stato ancora annunciato il suo avvio. In questi due anni la segretezza ha fatto aumentare le voci sui guasti del cosiddetto cavo Alba-i. Ma ora ci sono le prove tecnologiche del fatto che, attraverso le sue fibre ottiche, si stanno muovendo dei dati. I mezzi d’informazione ufficiali mantengono il silenzio e molti programmi televisivi sostengono che in rete proliferano violenza, pornografia e notizie false. Nei pochi internet café pubblici un’ora di navigazione costa ancora un terzo di uno stipendio mensile. Ma forse la grande ragnatela mondiale dell’informazione è più Vicina di quanto sembri.

MESSICO – Pena Nieto contro la fame / Il 21 gennaio il presidente messicano, Enrique Pena Nieto, ha annunciato dal Chiapas il nuovo programma contro la fame, la Cruzada nacional contra el hambre. "Il presidente", scrive El Universal, "ha sottolineato che il programma non è una misura assistenzialista, ma uno strumento d’inclusione sociale per aiutare più di sette milioni di messicani poveri". Secondo Sin Embargo, "da quando è entrato in carica, il nuovo governo ha fatto un annuncio spettacolare ogni settimana. In poco più di cinquanta giorni, Pena Nieto ha promesso cambiamenti nell’istruzione, nella sicurezza e nella povertà"
MESSICO – II 18 gennaio due comuni dello stato di Durango (nord), Lerdo e Gómez Palacio, sono rimasti senza poliziotti. I 158 agenti locali sono stati arrestati per complicità con il crimine organizzato.

COLOMBIA – La tregua è finita / Il 20 gennaio si è conclusa la tregua unilaterale annunciata dalle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) all’inizio dei negoziati di pace con il governo. "Secondo la Defensoria del pueblo", scrive Semana, "in questo periodo le Farc hanno compiuto 57 azioni armate contro la popolazione civile e le forze dell’ordine. Ma il bilancio della tregua è comunque positivo: le operazioni militari sono diminuite".

EUROPA
UNIONE EUROPEA – II 22 gennaio l’olandese Jeroen Dijsselbloem è stato nominato a capo dell’Eurogruppo al posto del lussemburghese Jean-Claude Juncker.

SVIZZERA – ZURIGO / La vicenda degli studenti Erasmus conferma la necessità di riformare le modalità di voto dall’estero. GUGLIELMO BOZZOLINI, CANDIDATO NELLA LISTA SEL PER LA CAMERA DEI DEPUTATI IN EUROPA. La vicenda delle decine di migliaia di studenti Erasmus in giro per l’Europa che nel prossimo appuntamento elettorale non potranno esercitare dall’estero il proprio voto è un’altra conferma della necessità di mettere rapidamente mano alla riforma della legge sul voto.
Vincolare il voto all’iscrizione all’AIRE di e considerare come “temporaneamente all’estero” solo le forze armate e poche altre categorie, vuol dire non aver capito cosa è diventata l’Europa in questi anni e che cos’è la mobilità delle persone in questo continente.
Non solo gli studenti o i ricercatori, ma anche centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici italiani/e lavorano per vari mesi in Europa, ritornando poi in Italia o spostandosi da un paese all’altro, senza iscriversi all’AIRE, che è uno strumento pensato per un altro tipo di migrazione, più “stanziale”.
Negare il voto a queste persone, che mantengono un rapporto continuo e costante con l’Italia, è anacronistico. Lo è ancora di più alla luce del fatto che invece, per i meccanismi della legge sulla cittadinanza, in altri continenti il diritto di voto viene dato a persone che con l’Italia non hanno alcun rapporto e se ne aumenta addirittura il numero dei rappresentanti.
Il fatto che questi problemi, già chiari da tempo, così come quelli legati ai massicci brogli elettorali del 2008, non siano stati affrontati per tempo e non siano state presentate ancora proposte di riforma, è un ulteriore segno dell’inadeguatezza degli attuali parlamentari eletti in rappresentanza degli italiani in Europa.

GERMANIA – Merkel sconfitta / La Cdu di Angela Merkel è stata sconfitta in Bassa Sassonia, nel nord della Germania. Alle elezioni del 20 gennaio, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il partito della cancelliera è crollato dal 42,5 al 36 per cento rispetto al 2008, perdendo il governo del land. Si è imposta la coalizione tra la Spd e i Verdi, guidata dal socialdemocratico Stephan Weil (nella foto), che però disporrà di una maggioranza di un seggio. La vittoria è stata favorita dal successo dei Verdi, passati dall’8 al 13,7 per cento.

AUSTRIA – Sì al servizio militare / Gli austriaci non vogliono rinunciare al servizio di leva e a quello civile. In un referendum che si è svolto il 20 gennaio, scrive Die Presse, il 59,8 per cento degli elettori ha detto si al mantenimento del servizio militare obbligatorio e del servizio civile, come proposto dai conservatori dell’Òvp. Con questo voto viene di fatto bocciata l’introduzione di un esercito di soli professionisti accanto a un anno di servizio civile volontario, proposta alla quale erano favorevoli i social-democratici dell’Spò. Quello del 20 gennaio è stato il primo referendum nazionale tenuto in Austria nel dopoguerra. Ha PARTECIPATO AL VOTO IL 49% DEGLI ELETTORI.

INGHILTERRA – Cameron sfida l’Europa / Dopo il rinvio causato dalla crisi degli ostaggi in Algeria, il 23 gennaio il primo ministro britannico David Cameron ha pronunciato a Londra un atteso discorso sull’Unione europea, considerato il più importante del suo mandato. Cameron, scrive il Guardian, ha an¬nunciato che se vincerà le prossime elezioni organizzerà entro il 2017 un referendum sulla permanenza del paese nell’Ue. Ha poi chiesto a Bruxelles di approvare riforme urgenti per evitare che il Regno Unito possa uscire dall’Ue. Secondo il premier, l’Unione eu¬ropea deve affrontare tre sfide fondamentali: la crisi dell’eurozona, la mancanza di competitività nei confronti dei paesi emergenti e il divario crescente tra le istituzioni e i cittadini europei. "Questo diva¬rio", ha spiegato Cameron, "è dovuto a un deficit democratico delle istituzioni europee, particolarmente sentito nel Regno Unito".

FRANCIA- GERMANIA / Cinquant’anni dì amicizia / Le Monde, Francia / Il 22 gennaio la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande hanno celebrato a Berlino il cinquantesimo anniversario del trattato dell’Eliseo che ha sancito la riconciliazione dei due paesi. I due leader hanno annunciato che a maggio presenteranno delle proposte comuni per rafforzare l’euro. I quotidiani Le Monde e Suddeutsche Zeitung hanno celebrato l’anniversario presentando un’edizione comune. "Oggi il legame tra i due paesi è meno forte che in passato", scrive Le Monde. "La Francia ha perso terreno economicamente e politicamente, mentre la Germania ha sviluppato un modello che ha garantito il suo successo ma non quello del continente. Bisogna ritrovare lo spirito del 1963". Tra francesi e tedeschi ci sono come sempre delle divergenze, osserva la Suddeutsche Zeitung, ma oggi i due paesi "sono vicini e amici che convivono in pace". ♦

SPAGNA – I fondi segreti dei popolari / II21 gennaio un ex deputato del Partito popolare (Pp), Jorge Trias Sagnier, ha rivelato sul quotidiano El Pais che l’ex tesoriere del partito, Luis Bàrcenas, aveva l’incarico di portare avanti una "contabilità alternativa". A partire dal 1993 sarebbero stati distribuiti a dirigenti del partito bonus segreti fino a diecimila euro al mese, provenienti da aziende private e donazioni. Bàrcenas disponeva anche di un conto svizzero con 22 milioni di euro. Secondo Sagnier, il primo ministro Mariano Rajoy avrebbe messo fine a queste pratiche nel 2009, mantenendo però il se-greto. Il 18 gennaio centinaia di persone avevano partecipato a una manifestazione davanti alla sede del Pp a Madrid per protestare contro la corruzione.

RUSSIA – II 20 gennaio quattro persone sono morte a causa di un’esplosione in una miniera di carbone nella regione di Kemerovo, nel sudovest della Siberia. Altri quattro minatori risultano dispersi.

GRECIA – Centinaia di persone hanno partecipato il 19 gennaio a una manifestazione contro il razzismo. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati nel paese gli attacchi contro gli immigrati.

SLOVENIA – L’11 gennaio migliaia di sloveni hanno manifestato a Lubiana contro il governo, chiedendo le dimissioni del primo ministro Janez Jansa e del leader dell’opposizione Zoran Jankovic, entrambi accusati di corruzione. Il settimanale di sinistra Mladina esulta per l’ondata di proteste nel paese: "Questa rivolta è l’evento più positivo dall’indipendenza della Slovenia. Per la prima volta è in corso una mobilitazione collettiva per difendere i nostri ideali e la nostra volontà di plasmare il futuro del paese. Il malcontento è penetrato a fondo nei circoli intellettuali e nella borghesia, le due frange della società che di solito riescono a realizzare i grandi cambiamenti. Se la protesta andrà avanti e assumerà un carattere politico, magari con la formazione di un partito alternativo all elite attuale, potremo cominciare a parlare di un vero rinnovamento della politica slovena e del crollo del mito che circonda Janez Jansa. Due passi indispensabili per la rinascita della Slovenia
THE ECONOMIST, REGNO UNITO
Accusato di corruzione, il primo ministro Janez Jansa è contestato in parlamento e nelle piazze. Intanto la situazione economica peggiora, e Lubiana potrebbe chiedere aiuto all’Europa
Il governo è "clinicamente morto", ha sentenziato il 15 gennaio 2013 il quotidiano sloveno Delo. Quello che non è ancora chiaro è quanto tempo andrà avanti in questo stato. Secondo alcuni analisti, il primo ministro Janez Jansa si dimetterà nel giro di pochi giorni, mentre altri sono convinti che proverà in ogni modo a resistere. I suoi collaboratori finora hanno smentito tutte le voci di dimissioni, ma l’analista politico Tomaz Saunik è sicuro che "in un modo o nell’altro, il governo alla fine cadrà".
Da novembre la Slovenia vive in un clima di forti proteste. L’8 gennaio la commissione anticorruzione ha pubblicato un rapporto che ha fatto indignare l’opinione pubblica. Secondo il rapporto, sia il primo ministro Jansa sia Zoran Jankovic, leader del primo partito in parlamento (all’opposi-
zione), "hanno sistematicamente e ripetutamente violato la legge" nascondendo l’entità del loro patrimonio. Jansa, già sotto processo per corruzione, deve spiegare l’origine di più di zoomila euro di "dubbia provenienza". Jankovic, che è anche il sindaco di Lubiana, deve fare luce sul rapporto tra le aziende di proprietà dei suoi figli, le compagnie che fanno affari con l’amministrazione comunale e le somme di denaro contante trasferite sul suo conto privato. L’11 gennaio diecimila manifestanti sono scesi nelle strade della capitale slovena. Si tratta di un numero notevole, in un paese di appena due milioni di abitanti.
CROAZIA PREOCCUPATA – Cosa succederà nell’immediato futuro? Tre partner della coalizione hanno chiesto al primo ministro di farsi da parte. Jansa però continua a respingere le accuse, e il suo partito parla di una cospirazione organizzata dall’opposizione. Alla fine il primo ministro potrebbe restare al suo posto nonostante le manifestazioni e lo sciopero generale del 23 gennaio. In alternativa potrebbe cedere la guida del governo a qualcun altro. Oppure potrebbe essere sfiduciato o indire nuove elezioni o proporre un governo tec-nico. Anche Jankovic ripete di non essere "un criminale", ma sta perdendo rapidamente sostenitori. Oggi sembra difficile che il suo partito possa entrare in una nuova coalizione.
L’economia del paese, intanto, è in ginocchio. Secondo le stime, il pil è calato del 2,4 per cento nel 2012 e potrebbe perdere un altro 1,4 per cento nel 2013. Il tasso di disoccupazione è al 12 per cento, e la Slovenia potrebbe aver bisogno di un salvataggio da parte dell’eurozona. I cittadini più istruiti non vedono più un futuro in patria. Secondo Bostjan Videmsek, editore della sezione dedicata alla Slovenia del sito Delo, quello che ha scosso gli sloveni dal loro torpore è la sensazione che il paese sia diventato "una piccola Russia, senza risorse naturali ma piena di oligarchi".
La situazione in Slovenia preoccupa la vicina Croazia. Zagabria dovrebbe entrare nell’Unione europea il 1 luglio, ma deve risolvere una disputa finanziaria con Lubiana prima che gli sloveni possano chiedere al loro parlamento di ratificare l’ingresso della Croazia. Se il governo dovesse cadere e ci fossero elezioni anticipate, la Croazia potrebbe mancare l’appuntamento del primo luglio.

ITALIA – Rete Imprese /CONSUMI IN PICCHIATA E FALLIMENTI A CATENA La crisi fa tornare i redditi familiari ai livelli del 1986, 1.300 euro al mese di Riccardo Chiari – CON LA «CURA MONTI» NEL 2012 BEN 100MILA PICCOLE AZIENDE IN MENO RISPETTO ALL’ANNO PRIMA. GLI ARTIGIANI SPAZZATI VIA
Al posto del lungo elenco delle associazioni aderenti (Confcommercio, Confesercenti, Casartigiani, Cna, Confartigianato), da due anni c’è la più agile e mediatica denominazione Rete Imprese Italia. Pronta a farsi sentire dalla politica, a un mese dalle elezioni, con la sua agenda delle priorità e una iniziativa di chiaro stampo pre-elettorale in programma lunedì prossimo.
Manifestazione presentata con tutta una serie di dati choc, elaborati dall’ufficio studi di Confcommercio, sull’andamento negativo del mondo del commercio, dell’artigianato e della microimpresa. Ma anche sui redditi e sui consumi degli italiani nel corso del 2012. Entrambi in netto calo, effetto diretto delle politiche recessive dell’ultimo governo di larghe intese Pdl-Udc-Pd, ben conosciute dagli italiani come «cura Monti». Gli slogan di Confcommercio & co. erano già stato annunciati: «Nel 2012 ha chiuso una impresa al minuto» e «La politica non metta in liquidazione le imprese».
I numeri offerti ieri confermano una sofferenza profondissima. In dettaglio, nei primi nove mesi dello scorso anno hanno chiuso i battenti oltre 216mila imprese artigiane (la maggior parte) e commerciali, mentre le iscrizioni sono state 147mila. Il saldo negativo è di 70mila unità, cui Rete Imprese aggiunge le 30mila perdite nelle microimprese manifatturiere e di costruzioni. Per un totale di 100mila piccole aziende in meno, nel 2012, rispetto al 2011. Di fronte a numeri del genere, la richiesta di Carlo Sangalli è chiarissima: «L’obiettivo prioritario irrinunciabile di politica economica per chiunque governerà deve essere l’impresa». Ma nella fotografia scattata dall’ufficio studi di Rete Imprese, è tratteggiata anche una famiglia italiana sempre più povera e sfiduciata.
Come un cane che si morde la coda, i problemi delle microimprese sono legati alle flessioni dei consumi, a loro volta provocate dal robusto calo del reddito. I consumi l’anno scorso hanno subito una flessione reale pro-capite del 4,4%, in altre parole nel 2012 sono ammontati in media, a 15.920 euro, e questo a fronte dei 16.654 euro del 2011. I consumi sono calati perché è diminuito il reddito, quello disponibile reale pro-capite è sceso del 4,8% rispetto al 2011, ed è stato pari a 17.337 euro contro 18.216 euro dell’anno precedente. Quasi 900 euro in meno. Naturalmente in media, perché sei famiglie su dieci sono ben sotto la soglia dei 17mila euro.
Sul fronte dei consumi i dati vengono confermati dall’Osservatorio nazionale di Federconsumatori, che rileva addirittura una contrazione del 4,7% nel 2012. Pari a una diminuzione della spesa complessiva delle famiglie calcolata, anche per l’anno in corso sulla base delle stime di Rete Imprese, in oltre 44 miliardi di euro. Proprio le stime per il 2013 sono quelle che faranno più discutere, smentendo platealmente i teorici del superamento della crisi. Secondo Confcommercio & co., i redditi degli italiani nel 2013 torneranno infatti al livello del 1986, ben 27 anni fa, scendendo in media sotto i 17mila euro, 16.955 per l’esattezza. Mentre i consumi, anch’essi stimati in calo da 15.920 a 15.695 euro, tornerebbero ai livelli del 1998.

 

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