10264 Viaggio a Diyarbakır- Sospeso lo sciopero della fame nelle carceri turche

20121120 15:11:00 guglielmoz

di Francesco Lo Piccolo
E’ terminato domenica 18 novembre, dopo 68 giorni, lo sciopero della fame dei detenuti curdi incarcerati nelle carceri turche.

La fine della protesta, cominciata il 12 settembre per opera di 9 donne nel carcere di Diyarbakır e di 9 uomini detenuti a Bolu, e che era stata preceduta il primo settembre dalla decisione di rifiutare il cibo da parte di un’altra donna detenuta a Bakırköy (Gönül Erdoğan, appartenente al PKK), è stata presa dopo l’appello di porre fine allo sciopero della fame lanciato dal leader del Pkk Abdullah Öcalan e reso pubblico dal fratello che lo ha incontrato tre giorni fa nel carcere di massima sicurezza di Imrali, piccola isola nel Mar di Marmara. “Il messaggio è arrivato – ha detto Öcalan – ora basta, lo sciopero va continuato fuori dalle carceri, la vostra vita è preziosa”.
Un appello che ha messo fine a una inevitabile strage di uomini giunti all’estremo delle forze (almeno settecento secondo molte fonti curde) e già ieri sono cominciati i primi ricoveri in ospedale dei tanti curdi che hanno partecipato al digiuno indetto per poter usare la lingua curda nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle aule di giustizia, per migliorare le condizioni nelle carceri e per far cessare il regime di detenzione dura alla quale è sottoposto il loro leader Öcalan sorvegliato a vista con una telecamera 24 ore su 24 in una cella di 13 metri quadrati, senza poter vedere tv, leggere giornali, posta censurata, condizioni disumane. E che dimostra oltre che il grande ascendente di Öcalan anche la realtà, invano negata dallo stesso governo turco che ha minimizzato l’entità dello sciopero (“vi partecipa un solo detenuto, uno spettacolo, un ricatto, un bluff” ha detto Erdogan). La realtà di un popolo senza diritti.
E lo abbiamo constatato di persona nel nostro viaggio proprio in questi giorni a Diyarbakır e che abbiamo fatto come associazione Voci di dentro con una delegazione internazionale composta da italiani, spagnoli, sloveni, lituani e turchi nell’ambito del progetto Grundtvig “Voices from inside”. Obiettivo del progetto: approfondire e comparare la situazione carceraria e le politiche di reinserimento lavorativo per detenuti ed ex detenuti in diversi contesti europei. Di fatto, nonostante che la nostra richiesta di visita al carcere di Diyarbakır fosse stata avanzata alle autorità turche dalla Scuola di formazione professionale del turismo Otelcilik, partner del progetto, e che dall’aprile 2012 ha avviato due corsi professionali proprio all’interno della prigione di tipo E di Diyarbakir, in carcere non ci siamo potuti entrare: nessuna risposta, nemmeno un no ufficiale. Ignorati, come sono ignorati diritti e doveri. Nemmeno l’autorizzazione ad un incontro formale con la direzione. Il problema è “ hot “ o meglio non esiste finche non se ne parla.
Ma il problema c’è, arrivando a Diyarbakir lo puoi vedere sui ponti delle sopraelevate e sui semafori dove c’è un numero che viene aggiornato e che è il numero dei giorni al quale dello sciopero della fame. Un problema che la Turchia non vuole in alcun modo considerare. Come se curdo fosse uguale a terrorista. E i dati spaventano: i detenuti turchi accusati di terrorismo sono quasi 9000, di questi metà in attesa di sentenza definitiva. Il livello di educazione medio di questi detenuti è alto. Moltissimi di loro sono curdi. Sono deputati, sindaci, sindacalisti, giornalisti (almeno sessanta), intellettuali e studenti tutti accusati di reati di opinione per i quali sono previste pene pesanti (la stessa Unione Europea ha ripetutamente segnalato nei suoi rapporti questa situazione suscitando le dure reazioni di Ankara che giudica le valutazioni non equilibrate).
Silvia Civitarese, vicepresidente della Onlus Voci di dentro, di ritorno da Diyarbakir, scrive nei suoi appunti: Non possiamo dar voce a chi ha deciso di lasciarsi morire piuttosto che rinunciare a lottare per quelli che considera principi irrinunciabili: parità di diritti, dignità e libertà, ma sappiamo che se potessimo udirla,questa avrebbe la dolcezza e la rotondità della lingua curda. Che è diversa dal turco, parlata comunemente in queste zone, che non è un dialetto ma una lingua letteraria , nazionale, storica ma che è vietata a scuola, nei documenti, nei tribunali dove si decide la sorte di quelli che ne difendono la tradizione . [ … ]I nostri ospiti non ci hanno dato l’impressione di essere terroristi separatisti parlando e insegnando a noi le parole di sopravvivenza e cortesia curde, o portandoci in un locale ad ascoltare e ballare musica rigorosamente Kurdish. Hanno invece così condiviso con noi la nostalgia e la veemenza, il romanticismo e la spavalderia la dimensione intima e insieme mitica di questo popolo estremamente ospitale e generoso. E il paesaggio ha la stessa forza evocativa: gli altopiani, le sponde dell’epico Tigri , il ponte a nove arcate sui quale è passato Marco Polo sulla via della seta o San Paolo dirigendosi a Roma, mura di basalto nero , moschee e monasteri, minacciose fortezze arroccate e distese di terra ruvida ma fertile. […]Forse non so abbastanza della storia e della politica della Turchia o delle genti curde ma credo nell’arricchimento che viene dalle differenze, dalle commistioni, dal dialogo tra voci diverse e dalla comprensione delle esigenze dell’altro: cioè quello che il nostro comune progetto europeo promuove e favorisce.
E così Alessandro Fusillo che ha portato a casa un ricco dossier fotografico: Raggiungiamo Dyarbakir il 3 novembre. Quasi due ore di volo da Istanbul fin nel cuore dell’Anatolia sud orientale. Prima della partenza le notizie su ciò che accade al confine turco-siriano: i missili lanciati contro le città turche di confine, le incursioni dell’esercito turco in territorio siriano, i profughi siriani in fuga dalla guerra. […] La Turchia, terza tappa di questo progetto-percorso dopo Italia e Lituania, ne rappresenta un momento chiave. Perché le tematiche legate alle carceri in questa parte della Turchia sono un punto critico, in grado di far vacillare i pilastri dello stato turco e riaprire questioni irrisolte che proprio in questi mesi si stanno riacutizzando. Perché Dyarbakir non è semplicemente una grande città della Turchia, è la capitale del Kurdistan turco. Qui, dopo il colpo di stato militare del 1971, Öcalan, come molti altri studenti di sinistra provenienti dall’Università di Ankara e costretti a lasciare gli studi, si arruolò nel servizio civile. Sette anni dopo aveva fondato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). […] Il primo incontro con i nostri colleghi turchi ci rassicura, la loro cordialità e ospitalità è un ottimo benvenuto. La guerra, sostengono, è lontana più di 400 km. Nel tragitto dall’aeroporto all’hotel passiamo di fronte alla grande base aeronautica di Pirinçlik. La base nacque come base americana negli anni 70, punto strategico della difesa Nato contro l’Urss alle porte del Medio Oriente. Nei giorni seguenti sentiremo spesso l’assordante frastuono dei jet alzarsi in volo. Un amico curdo mi dice che secondo lui quegli aerei si stanno dirigendo verso le montagne del nord dell’Iraq per continuare la guerra nascosta contro i ribelli curdi; io credo che siano invece diretti verso la Siria, con l’obiettivo di prevenire eventuali lanci di missili su territorio turco e spaventare i profughi in marcia. […] E’ notte fonda, accendo la tv dell’hotel: tanti canali, modernità e tradizione si intrecciano senza continuità, ritmi e stili occidentali sono ormai dominanti, osservo CNN Turchia e Al jazeera international raccontare delle elezioni americane. Sfoglio gli appunti raccolti prima della partenza. All’inizio dell’estate un incendio divampato in un dormitorio del carcere di Şanlıurfa ha causato la morte di 13 detenuti. Sanliurfa è a meno di 200 km da Diyarbakir. Il governatore della regione aveva assicurato che non si è trattato di una rivolta dei carcerati ma di una rissa, senza spiegarne le cause. Oggi la situazione è divenuta esplosiva. […] Il 5 novembre ci riuniamo con tutta la delegazione internazionale nella periferia di Diyarbakir in visita presso la scuola di formazione professionale nel turismo Otelcilik, partner del progetto. Dall’aprile 2012 la scuola ha avviato 2 corsi professionali proprio all’interno della prigione di tipo E di Diyarbakir. I corsi di formazione per cuoco e cameriere coinvolgono 50 detenuti. Hanno come obiettivi il miglioramento della qualità del cibo e del servizio all’interno della prigione e soprattutto fornire una chance di vita migliore dopo la detenzione . […] Il giorno seguente attraversiamo di nuovo la sconfinata periferia di Diyarbakir per visitare la lavanderia di Sadil, ex detenuto. Mi fanno notare quanto sia nuova l’urbanistica di questa parte della città, tutta fatta di alti palazzi ed ingressi sorvegliati. La città odierna è il frutto del processo di urbanizzazione forzata che il governo turco ha attuato in questa parte del Paese. I contadini sono stati spinti a lasciare le campagne per la città e Diyarbakir in qualche decennio è passata dai 140000 abitanti del 1970 ad oltre un milione e mezzo di persone. Gli amici curdi sostengono che questo processo sia dovuto alla maggiore capacità di controllo dello Stato sugli abitanti di una metropoli che sui contadini sparsi su vaste aree e dunque terreno fertile per il PKK. […] Arriviamo da Sadil che ci accoglie nella sua nuova attività, ci offre un the, vicino ha suo figlio sorridente. Sadil ce l’ha fatta, dopo 4 anni di carcere, ha ottenuto un finanziamento da parte dei servizi sociali. Il governo gli ha garantito un prestito di 7000 euro da restituire dopo 2 anni. Sadil ha realizzato il suo sogno di aprire una lavanderia nella città vecchia. Ed ora, visto il successo della sua prima attività, si è trasferito in questi grandi quartieri in espansione. E’ felice e riconoscente nei confronti della comunità che gli ha offerto una nuova opportunità.
E così con la storia di riscatto di Sadil si conclude il viaggio di Voci di dentro a Diyarbakir: il fiume Tigri scorrere placido tra queste terre, culla della civiltà, dove un popolo è in lotta per affermare la propria identità e dove il governo turco ha dimostrato ancora tutta la sua reticenza a chiarire la situazione dei detenuti politici curdi.

 

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