Ovvero sul distacco tra le sinistre e il popolo
di Stefano Fassina
“Non dovrebbe sorprendere che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia scopra che la classe operaia li ha abbandonati. Prima, era la classe operaia bianca, e ora ci sono anche lavoratori latini e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione. Oggi, mentre i molto ricchi vanno straordinariamente bene, il 60% degli americani arriva a malapena a fine mese e abbiamo più disuguaglianza di reddito e ricchezza che mai. Incredibilmente, i salari settimanali reali, corretti per l’inflazione, per il lavoratore americano medio sono più bassi di 50 anni fa”. È la spiegazione del sen Bernie Sanders del voto di martedì scorso. Si può articolare l’analisi quanto si vuole, ma il punto politico è centrato. Vale non solo per il Partito Democratico a stelle e strisce. Vale anche per l’intero arco delle sinistre ufficiali del “vecchio continente”.
Il distacco tra sinistre e popolo viene da lontano. Riguarda lavoratori e classi medie. Inizia dopo l’89. Cammina lungo le “Terze vie”: da Clinton a Blair, da Schroeder ai nostri epigoni fuori tempo massimo. È una frattura profonda: “Per decenni abbiamo visto emergere qualcosa al posto dell’America più egualitaria e piena di speranza che conoscevamo una volta … È un’America da terzo mondo: un paese diviso non dall’appartenenza ai partiti, ma dalla realtà economica. Il noto economista Peter Temin (The Vanishing Middle Class: Prejudice and Power in a Dual Economy, MIT Press, 2018) ha dimostrato che i cittadini statunitensi ora vivono in due settori distinti: circa l’80% nel settore a basso salario e circa il 20% nel settore ricco” (Lynn Parramore, Institute for New Economic Thinking, 4 Novembre 2024).
Qui stanno le ragioni del voto delle periferie sociali per gli outsiders: i “populisti”, i “sovranisti”, finanche per un miliardario portatore di misure radicalmente classiste sulle tasse e sulla spesa sociale, ma abile a cogliere la domanda di protezione sociale e identitaria e a nominare i “nemici” -reali e caricaturizzati- da esporre: le élite politically correct delle coste, concentrate sulle condizioni post materiali nel disprezzo della tradizione; la concorrenza sleale degli Stati esportatori; l’immigrazione fuori controllo; la costosissima recita della difesa del diritto internazionale in giro per il mondo.
Lo spiaggiamento della classe media e del lavoro mette in tensione le cosiddette democrazie liberali, da tempo ripiegate a “oligarchie liberali”, come riconosce Emmanuel Todd (“La sconfitta dell’Occidente”, Fazi editore, 2024). È una lezione ripetuta a ogni tornata elettorale degli ultimi anni, seppur ogni tanto con accidenti di segno diverso. In particolare, due eventi di spettacolare impatto simbolico nel 2016 avrebbero dovuto indurre a consapevolezza del passaggio di fase: al di qua dell’Atlantico, la Brexit; al di là, il debutto alla Casa Bianca dell’appena rieletto presidente.
In sintesi, il 2016 equivale, per portata storico-ideologica, al 1989: è la fine della “fine della Storia” e la ribellione de “ultimo uomo” irriducibile a consumatore. Invece del muro sovietico a Berlino, crolla nell’epicentro dell’impero e nella sua principale provincia, il consenso politico alla regolazione neoliberista dei movimenti di capitali, merci, servi e persone, tanto globale quanto per il mercato unico europeo. È “la sconfitta dell’Occidente”. La disfatta è dirompente e innegabile con il ritorno dell’ex-outsider a Washington, nonostante il suo curriculum e le sue minacce eversive.
Il presidente Biden e i suoi più lucidi consiglieri avevano chiaro il problema. Lo aveva riassunto efficacemente Jake Sullivan in un intervento alla Brookings Institution ad Aprile 2023. Più volte vi è tornata su anche Janet Yellen, la Segretaria al Tesoro: i mercati senza guida politica e senza filtri protettivi, rigonfiano i portafogli della finanza, ma distruggono il tessuto produttivo manifatturiero e squilibrano ricchezza e potere e destabilizzano tradizioni e appigli spirituali. Da qui, la conferma dei dazi introdotti dalla prima presidenza Trump, le misure aggiuntive proposte per arginare l’import dalla Cina e una serie di programmi keynesiani per le infrastrutture, la conversione ecologica e la trasformazione digitale, attenti al versante domestico (quindi “sovranisti” nel linguaggio mainstream): dal Chips Act all’IRA, oltre 4000 miliardi di dollari in un decennio, senza considerare le regolazioni a tutela del lavoro, delle attività sindacali, dell’ambiente, introdotte attraverso le agenzie federali. Insomma, un Big Deal, analogo per dimensioni finanziarie ed estensione economica e sociale al New Deal di Franklin D. Roosevelt. Una svolta ideologica e di policy, pur parziale e contraddittoria.
Purtroppo, la svolta per manifestarsi ed essere vissuta dalle vittime del dominio del mercato senza frontiere richiede tempi medio-lunghi, nonostante la declinazione di una parte dei progetti mirata alle esigenze elettorali. In un saggio documentato e analitico uscito qualche giorno prima del 5 Novembre sul New Yorker, lo spiega bene Nicholas Lemann. Inoltre, ma è aspetto decisivo, il deficit di credibilità della classe dirigente democratica, al di là dei casi isolati come Bernie Sanders e Elisabeth Warren, era e rimane arduo da recuperare, soprattutto quando il testimone per consolidare e rendere convincente l’inversione di rotta passa nelle mani di una personalità come Kamala Harris, interprete efficace per lo script degli anni ’90, ma fuori posto nel mondo “post-neoliberal”.
Speriamo che il fronte Democratico Usa faccia i conti fino in fondo con l’analisi di Sanders e porti avanti, con gli aggiustamenti utili, la Bidenomics e ribalti l’individualismo consumista sul terreno dei diritti civili. Insieme, per spostare l’agenda dal warfare al welfare, riprenda la visione realista delle relazioni internazionali e operi per un ordine multilaterale. Da questa parte dell’Occidente, possiamo auspicare che la lezione americana sia almeno studiata a fondo da chi è nato per stare dalla parte del lavoro.
FONTE: https://www.huffingtonpost.it/blog/2024/11/07/news/lezioni_americane-17662291/?ref=HHTP-BH-I17653188-P9-S4-T1
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