N°05 – 01/02/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Giovanna Branca*: Dazi Usa, il mondo con il fiato sospeso. Sconti al petrolio. Stati Uniti Canada, Messico e Cina aspettano di conoscere le «eccezioni» doganali della Casa Bianca
02 – Giansandro Merli*: Albania, governo all’angolo senza un intervento dell’Ue – Finché la barca va Il Viminale promette: «Avanti con convinzione». Ma a livello interno ha armi spuntate.
03 – Vincenzo Comito*: Verso un nuovo (dis)ordine? Parafrasando Gramsci, il vecchio ordine è sempre più vacillante, mentre un nuovo ordine fatica a venire alla luce. Nell’intermezzo, si assiste a svariati fenomeni morbosi, tra cui la presidenza “Trusk”, che pur ispirata all’American First, potrebbe, invece, accelerare il tramonto dell’egemonia USA.
04 – Alessandro Portelli*: Il razzismo come nuovo fondamento – Attacco al cuore. Al centro di questa rinnovata malvagità egemonica sta il ritorno all’arcaico diritto di sangue: sono veri americani (come, peraltro, sono cittadini italiani) quelli che possono vantare che nelle loro vene scorra il puro sangue della nazione.
5 – Capitalismo globale. Ogni settimana quattro nuovi miliardari, mentre la povertà dilaga
di redazione con dati di Oxfam, Onu, IPS e Banca Mondiale (*)
06 – Guerre dimenticate. EMERGENCY. Il Sudan vive una crisi senza precedenti ma resta invisibile al mondo. (*)
07 – Il Messico si prepara alle deportazioni di Trump – di redazione | 23 Gen 2025 | America Latina, In evidenza..
08 – Giovanna Branca, Marina Catucci*: Agenzie Usa nel caos. Stop ai finanziamenti «a marxismo e trans» – American Psycho Colpiti programmi dentro il Paese, come Medicaid, e per il sostegno estero. Una fonte: «Ci è stato imposto sospendere tutte le attività
09 – Trump ci offre su un piatto d’argento l’occasione di mettere all’angolo gli USA, cancro del mondo.

 

01 – Giovanna Branca*: DAZI USA, IL MONDO CON IL FIATO SOSPESO. SCONTI AL PETROLIO. STATI UNITI CANADA, MESSICO E CINA ASPETTANO DI CONOSCERE LE «ECCEZIONI» DOGANALI DELLA CASA BIANCA

“I DAZI CI RENDERANNO MOLTO RICCHI E MOLTO FORTI”, HA DETTO NELLA SERATA USA DI VENERDÌ IL PRESIDENTE DONALD TRUMP DALLO STUDIO OVALE, MENTRE CONFERMAVA L’ENTRATA IN VIGORE DEI DAZI SULLE MERCI DI MESSICO, CANADA (ENTRAMBI DEL 25%) E CINA (10%) NONOSTANTE LE SETTIMANE DI NEGOZIAZIONI INTERCORSE FRA I RAPPRESENTANTI DIPLOMATICI DEI TRE PAESI CON QUELLI DEGLI STATI UNITI, NELLA SPERANZA DI CAPIRE SE ESISTEVA QUALCOSA CHE POTEVANO FARE PER PLACARE LA FOGA PROTEZIONISTA DI TRUMP. «NULLA», È STATA LA RISPOSTA DELLO STESSO TYCOON AI GIORNALISTI CHE GLI PONEVANO QUESTA DOMANDA ALLA CASA BIANCA, CHE HA RESO ANCOR PIÙ EVIDENTE LA PRETESTUOSITÀ DELLE SUE RICHIESTE AFFINCHÉ MESSICO E CANADA LIMITASSERO L’INGRESSO DI «MIGRANTI ILLEGALI» NEGLI STATI UNITI, E LA CINA QUELLO DEI PRODOTTI CHIMICI USATI PER PRODURRE IL FENTANYL.

TRUMP ha anche annunciato che nelle prossime settimane imporrà dazi sull’importazione di acciaio, alluminio e rame, e che al più presto nel mirino finirà il più grande partner commerciale Usa, l’Unione europea. Che «ci ha trattati orribilmente» – il suo gabinetto sta lavorando a misure protezionistiche e punitive «sostanziali» – ha detto il presidente ai reporter senza specificare come o perché Washington sia stata trattata così male. Uno degli oggetti del suo risentimento sono senz’altro le misure per regolare il settore tecnologico emanate dalle istituzioni europee, particolarmente invise al “vicepresidente ombra” Elon Musk e alla Silicon Valley tutta, che ha fatto quadrato intorno al nuovo presidente americano.
Uno dei settori che ci si aspetta verranno colpiti con maggiore forza infatti è proprio quello tecnologico, con sanzioni sui microprocessori provenienti principalmente da Taiwan: colpiremo «anche i chip e le cose associate ai chip» ha detto il Tycoon. Che pochi giorni prima, in risposta al terremoto causato dalla nuova app cinese di intelligenza artificiale DeepSeek, aveva incontrato il Ceo di Nvidia Jensen Huang. Sul tavolo «semiconduttori e politiche sulla Ia», e come «rafforzare la tecnologia Usa e la sua leadership nel campo dell’intelligenza artificiale».
L’amministrazione Trump starebbe anche considerando una restrizione sulla vendita dei chip H20 prodotti da Nvidia appositamente per il mercato cinese, dopo che il governo Biden aveva messo sotto embargo la vendita dei chip più performanti della compagnia tecnologica proprio per dare un vantaggio al settore statunitense – sforzo vanificato proprio dal debutto di DeepSeek.
DAL CANTO SUO l’Unione europea si limita per il momento a opporre una debolissima risposta attraverso un portavoce: «L’Ue resterà fedele ai suoi principi e, se necessario, sarà pronta a difendere i propri legittimi interessi». Si prende tempo in attesa di comprendere le intenzioni di Donald Trump, o magari di trovare un modo per porre un argine alla valanga di dazi promessa.
Non sono molto dissimili le risposte dei due paesi sinora più colpiti, Canada – che pure si era impegnato a investire un miliardo di dollari canadesi per incrementare la sicurezza ai propri confini con gli Stati uniti – e Messico. Ottawa è «pronta a rispondere con forza, e immediatamente», ha scritto su X il primo ministro canadese Justin Trudeau dopo la conferenza di Trump allo Studio ovale. «Nessuno, da entrambi i lati del confine, vuole vedere dazi americani su merci canadesi».
«SIAMO PREPARATI», ha dichiarato invece la presidente messicana Claudia Sheinbaum. «Difenderemo sempre la dignità della nostra gente, il rispetto della sovranità e il dialogo fra uguali, senza subordinazioni». Il mondo intero ieri è rimasto con il fiato sospeso in attesa che Trump annunciasse – troppo tardi per noi – l’effettiva entrata in vigore dei dazi, e soprattutto di capire quali eccezioni il presidente Usa ha concesso nella sua guerra protezionista: il bene su cui ci si aspettavano maggiori concessioni è il petrolio canadese, dopo che lo stesso Trump aveva detto alla stampa che pensava a tariffe “solo” del 10% sull’oro nero proveniente da nord, pressato anche dal sindacato delle acciaierie United Steelworkers.
Lo ha confermato ieri sera un comunicato della Casa bianca, Intanto la stessa economia americana si prepara all’impatto: venerdì sera le borse statunitensi hanno chiuso al ribasso riflettendo l’ansia degli investitori per i dazi, mentre uno studio del Budget Lab of Yale stima che il loro costo annuale per le famiglie americane ammonterà a circa 1.300 dollari.

02 – Giansandro Merli*: ALBANIA, GOVERNO ALL’ANGOLO SENZA UN INTERVENTO DELL’UE – FINCHÉ LA BARCA VA IL VIMINALE PROMETTE: «AVANTI CON CONVINZIONE». MA A LIVELLO INTERNO HA ARMI SPUNTATE.

L’IPOTESI DI ANTICIPARE PUNTI DEL PATTO EUROPEO. «PARTNER COMUNITARI E COMMISSIONE STANNO PENSANDO DI RAFFORZARE LE NORME UE CHE SOSTENGONO LE PROCEDURE IN FRONTIERA APPLICATE ANCHE IN ALBANIA», DICE IL MINISTERO DELL’INTERNO
«Andare avanti a ogni costo»: sì, ma come? Il giorno dopo l’ennesimo flop del progetto Albania le dichiarazioni bellicose del governo stridono con la realtà: a meno di nuove e ben più gravi forzature del quadro normativo, i centri d’oltre Adriatico resteranno vuoti per un po’. «Continueremo su questa strada con convinzione», dice il Viminale, a cui fanno eco i parlamentari FdI. Intanto, però, agli operatori italiani della cooperativa che gestisce le strutture di Shengjin e Gjader è stato detto di tornare a casa. Mentre i 43 migranti, bangladeshi ed egiziani, sono stati trasferiti ieri nel Cara di Bari, accolti in porto tra gli applausi da un presidio dell’Arci. Per ora la prossima scadenza sul tavolo è l’udienza della Corte di giustizia Ue sui rinvii pregiudiziali a tema «paesi di origine sicuri» fissata il 25 febbraio. Per la decisione servirà qualche mese, è attesa in primavera.
SIAMO «AL LAVORO per superare anche questo ostacolo», aveva fatto sapere palazzo Chigi venerdì, subito dopo che la Corte d’appello ha rimesso la vicenda ai giudici del Lussemburgo determinando la liberazione di tutti i cittadini stranieri trattenuti al di là del mare. Il governo, però, non è entrato nel merito di come intende procedere. A oggi non ci sarebbero nuovi interventi legislativi già pronti e anche le indiscrezioni che circolavano l’altro ieri su un nuovo ricorso in Cassazione sono state smentite. Anche perché la Suprema corte ha già sospeso il giudizio nei casi relativi ai primi trasferimenti e da allora è cambiato ben poco.

Come previsto da giuristi ed esperti, trasformare la lista dei «paesi sicuri» in una norma primaria non ha ribaltato l’esito delle richieste di convalida. Tra le altre cose, quella legge stabilisce che il Consiglio dei ministri deve preparare entro il 15 gennaio di ogni anno, sulla base delle informazioni delle fonti qualificate citate dalla direttiva Ue, una relazione che entri nel merito della situazione di ogni Stato presente nell’elenco. Per il 2025 ancora non c’è, tanto che il tribunale di secondo grado della capitale ha richiamato le «schede paese» allegate al vecchio decreto interministeriale di maggio dell’anno scorso, zeppe di eccezioni per categorie di persone sia in Bangladesh che in Egitto.

IL RAGIONAMENTO che ha seguito è lo stesso delle sezioni specializzate in immigrazione, a cui la competenza era stata sottratta a dicembre. Se l’esecutivo l’ha attribuita alle Corti d’appello è perché scarseggiavano altre possibilità. Come quella, pur ventilata, del giudice di pace o perfino del Tar. Una forzatura molto grave perché sarebbero consegnate decisioni che riguardano la sfera dei diritti soggettivi, come l’asilo e la libertà personale, a organi che si occupano di tutt’altro. È però vero che i giudici di pace decidono sui trattenimenti nei Cpr dei cittadini stranieri in situazione di irregolarità amministrativa. In ogni caso se non hanno già trasferito a loro anche la competenza sulla detenzione dei richiedenti asilo, magari in virtù degli altissimi tassi di convalida, qualche motivo deve esserci. Probabilmente la contrarietà del Colle. Farlo adesso per aggirare il secondo organo giurisdizionale sgradito renderebbe ancor più evidente la pretesa di scegliersi i giudici.
L’altra ipotesi del governo italiano è un intervento a livello Ue. In questo senso vanno le ultime dichiarazioni del Viminale. «I partner comunitari in piena sintonia con la Commissione stanno pensando di rafforzare le norme Ue che sostengono le procedure in frontiera applicate anche in Albania non solo con una anticipazione dell’entrata in vigore di alcune norme del Patto ma anche con soluzioni innovative», ha ribadito ieri il ministero. Concretamente si tratterebbe di rendere subito validi alcuni punti del Patto su immigrazione e asilo che sarà effettivo dal giugno 2026. Basterebbe farlo con l’articolo che riguarda i «paesi sicuri»: prevede la possibilità di considerare tali anche quelli che presentano eccezioni territoriali e per categorie di persone.
PER GIORGIA MELONI e Matteo Piantedosi significherebbe smentire la linea sostenuta per mesi, secondo la quale le norme attuali permettono i trattenimenti in Albania. Ma in questi casi non conta avere ragione, conta portare a casa l’obiettivo: la coerenza è un agnello sacrificale di poco valore.
Finora la possibilità di anticipare alcuni punti del Patto è stata ventilata solo a livello informale, ma tecnicamente è possibile. La Commissione dovrebbe presentare una proposta, piuttosto semplice perché limitata a pochi articoli, poi parlamento e Consiglio dovrebbero approvarla. Siamo nel campo delle ipotesi, ma il clima globale è quel che è: da Washington a Berlino la propaganda anti-migranti è sempre più forte. Su questo scommette il governo Meloni.
*(Fonte: Il Manifesto. Giansandro Merli, redattore di Dinamo Press.)

 

03 – Vincenzo Comito*: VERSO UN NUOVO (DIS)ORDINE? PARAFRASANDO GRAMSCI, IL VECCHIO ORDINE È SEMPRE PIÙ VACILLANTE, MENTRE UN NUOVO ORDINE FATICA A VENIRE ALLA LUCE. NELL’INTERMEZZO, SI ASSISTE A SVARIATI FENOMENI MORBOSI, TRA CUI LA PRESIDENZA “TRUSK”, CHE PUR ISPIRATA ALL’AMERICAN FIRST, POTREBBE, INVECE, ACCELERARE IL TRAMONTO DELL’EGEMONIA USA

Appare evidente che stiamo vivendo in questi anni nel mondo in un periodo di grande confusione, anzi, se vogliamo, di vero e proprio caos. Tra i segni più evidenti ci sono indubbiamente la guerra in Ucraina e quella israelo-palestinese, la confusione siriana, la lotta su tutti i fronti e con tutti i mezzi degli Stati Uniti per contrastare l’avanzata economica, tecnologica, politica cinese, la grande incertezza economica e politica in Europa, ma dalle prospettive comunque poco incoraggianti e ancora le lotte armate interne in diversi paesi africani e asiatici, a cominciare da quella, terribile, che si svolge da tempo in Sudan. Si aggiungono dopo quelle atomiche le minacce ecologiche e tecnologiche sempre più incombenti.

IL VECCHIO ORDINE INTERNAZIONALE VACILLA
Al di là delle ragioni specifiche di ognuno di questi accadimenti essi sembrano collocarsi tutti sostanzialmente nel quadro di una situazione nella quale il vecchio ordine internazionale vacilla sempre di più. Non regge il potere degli Stati Uniti, e più in generale dell’Occidente, sul resto del mondo, con tutte le loro presunte regole sempre violate a piacimento e le sue istituzioni ormai cadenti, mentre il nuovo assetto globale che dovrebbe sostituirlo non si è ancora affermato; se ne intravede appena qualche segno iniziale

Tra l’altro, la Cina ha mostrato al mondo e in particolare ai paesi del Sud globale che il vecchio mito per cui la modernizzazione economica comporti necessariamente l’occidentalizzazione dei vari paesi non sta più in piedi e che l’Occidente non ha tutte le risposte da dare ai paesi in via di sviluppo.
Tutto questo accade in un periodo in cui sono all’opera dei grandi cambiamenti nel mondo, spinti da almeno sei forze principali (De Lens, Gijsels, 2024): accanto all’affermarsi prepotente sulla scena dei paesi del Sud del mondo, bisogna aggiungere il forte, nonché per alcuni aspetti devastante, impatto dell’innovazione tecnologica, ora con lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale e le conquiste della biologia, l’avanzare della crisi climatica, i mutamenti nei processi di globalizzazione e per alcuni aspetti la loro regressione/trasformazione, il peso minaccioso dei debiti pubblici e privati nel mondo, in continua crescita, e infine l’invecchiamento della popolazione, particolarmente evidente nei paesi più sviluppati (De Lens, Gijsels, 2024), ma evidente anche nella gran parte dei paesi del Sud del mondo. Alle tendenze elencate bisogna ancora aggiungere le pesanti e crescenti diseguaglianze rilevabili tra i vari paesi e all’interno di moltissimi tra di essi.

LA STRUTTURA REALE DELL’ECONOMIA MONDIALE
Cominciamo da un aspetto fondamentale spesso trascurato, quello demografico. I paesi occidentali pesano ormai per poco più di un miliardo di abitanti, quelli del Sud del mondo per almeno sette. Un aspetto molto rilevante dell’attuale declino statunitense viene a questo proposito ad esempio segnalato da Lucio Caracciolo, quando egli suggerisce che un paese di 340 milioni di abitanti, come gli Stati Uniti, non può pretendere di governare un mondo che ne conta ormai più di otto miliardi. Si prevede comunque che nel 2030 i due terzi delle classi medie mondiali siano collocati in Asia, continente sempre più dominante sul piano economico.
Dal 1900 al 1980 il 70-80% della produzione di beni e servizi era concentrata in Europa e negli Stati Uniti (Thomas Piketty). Le statistiche del Fondo monetario internazionale indicano che, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, il pil dei paesi del Sud del mondo è pari al 60% circa del totale mondiale, con tendenza alla crescita. In particolare l’Asia è oggi la regione con i più elevati tassi di sviluppo del mondo. Nel 2024 sempre le stesse fonti calcolano che il pil cinese sia pari al 19% di quello mondiale, quello statunitense al 15%. Peraltro a nostro giudizio il pil cinese è in qualche modo sottovalutato, mentre quello Usa sopravalutato. Il peso della produzione manifatturiera cinese è pari a circa un terzo di quella mondiale, quella statunitense intorno al 15%, mentre l’Unido prevede che entro non moltissimi anni quella del paese asiatico possa raggiungere il 45% del totale e quella degli Stati Uniti ridimensionarsi sino all’11%. Le previsioni al 2030, sempre nei termini del criterio della parità dei poteri di acquisto, vedono nella classifica dei paesi il pil della Cina al primo posto, seguita da Usa, India e Russia. I paesi europei vengono dopo.

LA CINA È ANCHE DIVENTATO IL PIÙ GRANDE FINANZIATORE DEI PAESI EMERGENTI. COSÌ LE CIFRE RELATIVE AL PERIODO 2014-2021 INDICANO CHE ESSA È STATA ALL’ORIGINE DI CIRCA 670 MILIARDI DI DOLLARI DI FLUSSI FINANZIARI PUBBLICI VERSO TALI PAESI, MENTRE GLI STATI UNITI INSEGUONO ALLA LONTANA CON CIRCA 320 MILIARDI (AIDDATA).
In questi ultimi anni stiamo assistendo nel mondo ad una esplosione tecnologica forse senza precedenti. Anche in tale campo studi recenti nostrano come la Cina possa tendere a diventare più importante degli Stati Uniti (secondo una ricerca australiana recente essa sarebbe al primo posto nel mondo in 37 dei 44 settori tecnologici analizzati), anche se essa presenta ancora diverse debolezze su alcune attività, quali ad esempio i chip e il settore della produzione degli aerei civili. Oggi, secondo la rivista Nature, tra i primi dieci centri di ricerca a livello mondiale collegati alle università ben sette sono cinesi. Peraltro i tentativi dei presidenti degli Stati Uniti di bloccare l’ascesa tecnologica del paese si stanno rivelando dei sostanziali fallimenti.

UN “CAPITALISMO TRUCCATO”
Un aspetto molto rilevante della crisi occidentale riguarda la recente e profonda trasformazione nelle caratteristiche della sua economia.
Si è assistito all’affermarsi di un’“economia della rendita”, o anche, come afferma Martin Wolf (Wolf, 2024, a), il più noto giornalista del Financial Times, all’imporsi di un “capitalismo truccato”. Non che – sottolinea l’autore – un capitalismo della rendita sia una novità assoluta: i potenti sono sempre stati dei redditieri, ma essi in alcune fasi dello sviluppo hanno dato in cambio un certo grado di sicurezza sociale, cosa che avviene sempre meno, mentre i benefici della crescita sono stati distribuiti in maniera sempre più diseguale.
Questo capitalismo truccato, come suggerisce l’autore, ha portato alla finanziarizzazione dell’economia, soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, con un cambiamento radicale del ruolo della finanza rispetto al passato; essa tende oggi a controllare le attività imprenditoriali, mentre essa è stata, tra l’altro, all’origine delle crisi finanziarie del 2007-2012; la finanza ha nella sostanza smesso di servire l’impresa per farsene invece padrona.
Sottolineiamo incidentalmente che, come ci ricorda il grande storico francese Fernand Braudel, l’affermazione dei processi di finanziarizzazione è normalmente il segno del maturare di una civiltà, di una sua crisi di prospettive.
Questo ci mostra che la crisi degli Stati Uniti non è soltanto esterna, legata certo all’emergere sulla scena di altri paesi protagonisti, a cominciare dalla Cina, cosa che fa traballare il dogma America First; la crisi è anche da collegare ad altri profondi problemi interni, segnalati tra l’altro dall’elezione di Trump, spia di un malessere crescente della società, collegabile tra l’altro all’arricchimento eccessivo dei più ricchi, legato alla crescita dei profitti e delle rendite, all’impoverimento delle classi medie e popolari e alle lotte feroci di una ristretta élite per il potere.
Va inoltre ricordato che, a partire almeno dal dopoguerra in poi, i paesi occidentali abbiano predicato al mondo il libero commercio e la piena libertà di impresa, ma ora che tali principi si rivolgono a loro danno li rinneghino del tutto.

I SEGNI DEL CAMBIAMENTO
Chi scrive pensa che tutto ha avuto inizio con le riforme dell’economia cinese volute da Deng Tsiao Ping nel 1979, anche se va sottolineato che dietro la crescita cinese e ora anche dell’India ci sono due grandi civiltà che avevano avuto per molte ragioni un momento di appannamento ora superato.
Tali riforme sono state il punto di partenza di quelle trasformazioni che con il tempo sono diventate una valanga; il prodigioso sviluppo economico della Cina che ne è seguito ha avuto poi conseguenze fortissime, che fanno sentire ancora i loro effetti, sui destini del mondo. Si può poi considerare che due altri punti di svolta importanti siano stati costituiti da una parte, nel 2001, dall’ingresso della stessa Cina nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), dall’altra dalla crisi del sub-prime del 2008, crisi che ha mostrato la debolezza del modello economico e finanziario occidentale e crisi da cui l’Europa non si è più sostanzialmente ripresa. Più di recente, sono ulteriori manifestazioni delle difficoltà in atto la fuga precipitosa degli Stati Uniti dall’Afghanistan nel 2021 e il caos del Medio Oriente, nel quale gli Stati Uniti, che una volta governavano l’area, si mostrano del tutto impotenti ad intervenire, mentre mostrano il doppio standard di giudizio che essi e i loro amici occidentali perseguono a seconda delle loro convenienze.

In ogni caso non va sottovalutata la forza ancora presente del paese, come già sottolineavamo in un altro articolo apparso di recente in questo stesso sito; intanto esso ha una situazione geografica molto favorevole, nonché una piena autosufficienza alimentare ed energetica, mentre sul fronte soprattutto finanziario, ma poi anche militare, o del cosiddetto soft power, gli Stati Uniti mantengono ancora una rilevante leadership a livello mondiale, anche se essa appare progressivamente erosa dalla Cina.

CINA E PAESI DEL SUD: LA “DE-OCCIDENTALIZZAZIONE”
Ci sono pochi dubbi che Cina e Stati Uniti saranno i due massimi protagonisti della scena mondiale ancora almeno per un lungo periodo, mentre la stessa Cina dovrebbe accrescere nel tempo il suo peso rispetto al rivale.

Ma la lotta tra i due paesi non sembra poter esaurire il quadro del nuovo ordine (o disordine) internazionale in via di formazione. Molti prevedono l’affermazione di un mondo pluralista, in cui, accanto ai due giganti, si affermeranno anche una serie di potenze intermedie che, cercando di tenere buoni rapporti con entrambe, comunque molti mostrandosi più vicini all’uno o all’altro contendente, tenderanno ad affermare la propria autonomia e a pesare in maniera consistente sui destini del mondo. E in effetti, accanto alla sbalorditiva ascesa della Cina, bisogna considerare anche la volontà di emancipazione delle potenze regionali, il secondo fatto che sta sovvertendo l’ordine geostrategico mondiale. Paesi come l’Arabia Saudita, l’Indonesia, l’India, il Brasile, la Turchia, il Sud-Africa mirano a una crescita economica molto forte e a tale fine scommettono ancora sulla globalizzazione. In sostanza, tali paesi rifiutano la lettura delle crisi del mondo contemporaneo proposta dagli Stati Uniti e dai loro alleati (Kauffmann, 2023). Invece di un menu di alleanze a prezzo fisso, in cui bisognava scegliere uno dei due campi, si potrebbe affermare un mondo con scelte à la carte (Russell, 2023), in cui magari gli altri paesi provino a mettere le due grandi potenze una contro l’altra, per ottenere il massimo dei vantaggi possibili.
Gli stessi cinesi non sembrano mirare – come invece suggeriscono una miriade di testi occidentali che denunciano una Cina aggressiva e pronta a conquistare l’intero globo con il suo partito comunista – all’egemonia mondiale, ma sembrano anch’essi auspicare la costruzione di un mondo multipolare.
Bisogna comunque sottolineare che mentre i processi di de-occidentalizzazione mostrano correttamente la ricomposizione in atto della gerarchia mondiale degli Stati e delle loro alleanze, tale concetto non ci dice invece molto né della natura dei progetti che i paesi nuovi portano avanti, né in quale misura essi tendono a rifiutare di aderire alla logica di accumulazione predatoria delle potenze occidentali (Billion, Ventura, 2023).
In effetti, tra i paesi del Sud del mondo non appare all’orizzonte, al di là della contestazione dell’ordine mondiale e delle sue istituzioni a guida occidentale, un progetto unitario in positivo né un leader riconosciuto da tutti.

NON SIAMO ALLA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE, MA…
Nel dopoguerra la spinta ai processi di globalizzazione è stata portata avanti dagli Stati Uniti che pensavano così di estendere e di approfondire il loro dominio sul mondo. Ma il piano non è andato come programmato.
Comunque, alcuni risultati sul fronte della de globalizzazione la politica di Biden li ha ottenuti. Ma i legami economici e finanziari tra gli stessi paesi occidentali e la Cina sono ormai così forti e le catene del valore sono così interlacciate che una sostanziale cessazione dei rapporti appare difficile. Il mondo degli affari occidentale è poi per la gran parte ostile ai tentativi di allentamento delle relazioni economiche.
Il 2024 registra in ogni caso un allargamento nel mondo delle misure protezionistiche, in particolare, come abbiamo già ricordato, da parte dei paesi occidentali verso la Cina. Ma tali misure rischiano in qualche modo di estendersi con la presidenza Trump.
Ricordiamo che con tali decisioni tutti alla fine ci perdono. I risultati negativi si manifesteranno sotto forma di inefficienze, prezzi più elevati dei prodotti interessati da tali misure, perdite di competitività e di produttività, riduzione del pil ed anche spesso tutte queste cose insieme (De Bolle, 2024). Il protezionismo, una volta avviato, è difficile da controllare e limitare (De Bolle, 2024).

I BRICS
Quella dei Brics, organizzazione che vede gran parte dei paesi del Sud del mondo pronti a parteciparvi (attualmente essa è composta da dieci paesi membri e ventisei paesi osservatori, mentre altri premono per entrarvi), appare la principale alleanza in atto dei paesi emergenti, anche se da una parte si tratta di una cooperazione in gran parte informale, mentre dall’altra l’opinione sulle varie questioni non è sempre unanime tra tutti i paesi del raggruppamento.
I Brics mirano apparentemente alla messa in opera di un nuovo ordine economico internazionale nel quale cambino le regole del gioco e il ruolo dei paesi emergenti diventi molto più importante, riducendo l’egemonia di quelli occidentali, a partire dagli Stati Uniti. Così, da una parte, si sta cercando di rinforzare la banca di sviluppo del gruppo creata nel 2014, dall’altra di mettere a punto dei meccanismi di sganciamento dall’utilizzo del dollaro nelle loro transazioni commerciali e finanziarie.
I Brics potrebbero funzionare alla fine come i poli di aggregazione generali di un nuovo ordine internazionale alternativo a quello precedente e che i paesi occidentali cercano in qualche modo di puntellare.

IL PROCESSO DI DE-DOLLARIZZAZIONE
L’egemonia residua degli Stati Uniti sul resto del mondo riposa per una parte molto consistente sul controllo dell’unica moneta internazionale di fatto, il dollaro e più in generale di gran parte del sistema finanziario globale, tema nel quale sono anche compresi i mercati finanziari più importanti del mondo; in essi si concentra una disponibilità enorme di risorse e di strumenti finanziari per le imprese, le organizzazioni e i governi di tutto il mondo, mentre poi il sistema elettronico Swift, in sostanza controllato sempre dagli Usa, permette di regolare le transazioni di tutte le istituzioni finanziarie del pianeta. I grandi fondi statunitensi rivestono il ruolo di raccolta delle risorse finanziarie dei vari paesi del globo e il loro trasferimento sotto il dominio delle istituzioni Usa.
Ora un insieme di fattori si sono combinati nel ridurre nell’ultimo periodo la dipendenza dello stesso sistema dai capitali, dalle istituzioni e dalle reti dei pagamenti occidentali e in particolare da quelli statunitensi (The Economist, 2024).
Intanto i centri finanziari dell’Asia stanno diventando progressivamente sempre più importanti. Molti dei paesi che dovevano ricorrere per indebitarsi al mercato dei capitali in dollari adesso possono farlo nella loro moneta. Più in generale molti paesi di medie dimensioni stanno sviluppando i loro mercati dei capitali interni, isolandosi progressivamente dalla volatilità dei movimenti internazionali dei capitali (The Economist, 2024), anche se si tratta di un processo che deve ancora farsi pienamente strada.
Una seconda forza che sta trasformando il sistema finanziario globale appare il suo uso crescente come arma da parte dell’Occidente.
Come è noto, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti e l’UE hanno reagito con il sequestro delle riserve in dollari della Russia e la sua esclusione dal sistema dei pagamenti Swift; ma è anche noto che tale misura ha scosso i governi della gran parte dei paesi del Sud, che hanno cominciato a temere che la stessa cosa avrebbe potuto succedere anche a loro in futuro per qualsiasi pretesto che gli Usa avrebbero potuto avanzare nei loro confronti.
Così, a partire appunto dallo scoppio della guerra, abbiamo assistito a una serie di iniziative anche disordinate volte a ridurre il peso del dollaro nel regolamento delle transazioni commerciali tra i vari paesi; tali iniziative continuano ad andare avanti. Comunque l’abbandono almeno parziale del dollaro da parte dei paesi del Sud, che a chi scrive sembra ormai inevitabile, si potrà svolgere apparentemente solo lentamente e con fatica, visto il radicamento profondo dell’attuale sistema e la resistenza occidentale a ogni cambiamento.

LA SUDDITANZA POLITICA DELLA UE
Bisogna ricordare che le due guerre mondiali hanno posto fine alla centralità europea nell’ordine mondiale, centralità durata alcuni secoli. Oggi l’Unione Europea appare nient’altro che un’area assoggettata alla volontà degli Stati Uniti e non in grado di esprimere alcuna volontà politica autonoma, come mostra, tra gli altri, un esauriente volumetto di Luca Caracciolo (Caracciolo, 2022. L’unione rifiuta di assumere un ruolo autonomo ponendosi da ponte tra Stati Uniti e Cina e mostrando attenzione alle esigenze nuove espresse dai paesi emergenti.

Nel 1960 i paesi dell’UE più la Gran Bretagna rappresentavano il 36,3% del pil mondiale; oggi siamo al 22,4% e per la fine del secolo, secondo le previsioni, esso dovrebbe collocarsi a meno del 10%, mentre gli Stati Uniti sono riusciti, dai tempi dell’amministrazione Kennedy ad oggi, a mantenere una quota che si colloca più o meno intorno al 25% (Stephens, 2024), almeno usando il criterio di misura dei prezzi di mercato; certo, molto meno (intorno al 15% e la stima appare ancora ottimistica) utilizzando invece il criterio della parità dei poteri di acquisto.
Si può poi tra l’altro ipotizzare che con la guerra in Ucraina, gli Stati Uniti abbiano anche cercato di indebolire l’Europa e in particolare la Germania, paese troppo incline a ricercare nei fatti un qualche avvicinamento alla Russia (paese con il quale il paese teutonico ha storicamente avuto per secoli forti legami) e alla Cina.

IL RITORNO DI TRUMP
Ci si chiede cosa potrà cambiare veramente con l’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, al di là delle sue dichiarazioni sempre bellicose. La stampa internazionale più qualificata, dal Financial Times al New York Times (Foy, Russell, Stott, 2024; Sanger, 2024) sembra segnalare che l’ordine mondiale che era emerso dopo la fine della guerra fredda mostrava già da tempo segni di grandi difficoltà, come abbiamo del resto segnalato nel testo, ma che la rielezione di Trump minaccia di accelerare il suo declino, se non di renderlo del tutto irrilevante (Foy, Russell, Stott, 2024). Il Financial Times sottolinea come Trump non abbia certo tenuto segreto il suo desiderio di distruggere lo stesso ordine mondiale (Sanger, 2024) e la sua preferenza per accordi bilaterali. Per altro verso, il ritiro almeno relativo degli Stati Uniti dal suo ruolo dominante sul palcoscenico mondiale crea delle ulteriori opportunità alle potenze intermedie per accrescere il proprio ruolo. Le istituzioni internazionali, dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario, all’Organizzazione Mondiale per il Commercio (sin qui governate di fatto dagli stessi Stati Uniti), alla stessa Onu, si troveranno ancora di più in un vicolo cieco. Acquisirà un nuovo, ulteriore slancio, presumibilmente, l’organizzazione dei Brics.
Su di un altro piano, il già citato Martin Wolf segnala come la guerra commerciale che Trump promette porterà il caos nel mondo (Wolf, 2024, b). La guerra tariffaria non ridurrà i deficit commerciali degli Stati Uniti, semplicemente li sposterà verso altri paesi, mentre farà crescere l’inflazione in casa che lui dichiara invece di voler combattere come compito prioritario, porterà ad un conflitto con la Fed e farà perdere fiducia nel dollaro. Paradossalmente egli, con una evidente contraddizione, vuole ridurre l’offerta di beni con i suoi dazi e nello stesso tempo invece stimolare la domanda. Questo, tra l’altro, peggiorerà la bilancia commerciale, invece di migliorarla. Mentre la crescita del debito continuerà in maniera esplosiva. Si arriverà nel mondo a un rapido declino nel commercio internazionale e nel pil Usa e globale. Ma alla fine non si arresterà negli Stati Uniti, come invece promette il nuovo presidente, il declino della quota degli occupati nel settore manifatturiero e più in generale il processo di reindustrializzazione del paese non farà grandi passi in avanti. Incidentalmente si può ricordare che le industrie nazionali dipendono in larga misura da fattori produttivi importati.
Mentre gli Stati Uniti si isolano sempre più, le mosse di Trump consentirebbero alla Cina, che è tra l’altro impegnata a tessere legami economici sempre più forti in Asia, Africa, America Latina, come appare molto evidente poi negli ultimi mesi, ad avanzare ancora le sue pedine (Basu, 2024) e ad accrescere il suo peso. La Cina dovrebbe presumibilmente assumere il ruolo di guida della lotta al cambiamento climatico.

IL RECENTE VERTICE DI KAZAN
In questi ultimi mesi la grande stampa internazionale è stata tutta concentrata sulle elezioni degli Stati Uniti, mentre ha sostanzialmente ignorato un evento più importante per le sorti del mondo, il vertice di ottobre 2024 a Kazan dei paesi dei Brics (Le Nagard, 2024). Tale incontro appare fondamentale nell’evoluzione politica ed economica del mondo. Il vertice si iscrive nella tendenza in atto verso la messa in opera di un ordine mondiale multipolare e multilaterale nel quale i paesi del Sud del mondo si mostrano capaci di difendere i loro interessi di fronte alle potenze occidentali (Le Nagard, 2024). Il leader presenti al vertice hanno concordato di promuovere una agenda incentrata sulla cooperazione, il reciproco rispetto, la sovranità degli Stati membri, l’uguaglianza nel quadro dei Brics, il rifiuto del meccanismo delle sanzioni internazionali, il tutto in opposizione all’egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Tra l’altro, durante gli incontri sono state approvate 1300 risoluzioni operative.

IL RUOLO DI CINA E INDIA
L’India è da qualche anno il paese il cui pil cresce di più tra gli Stati più importanti.
Gli Stati Uniti e più in generale i paesi occidentali sperano da tempo di sospingere il paese nella loro crociata contro la Cina e parlano dell’India come dell’anti-Cina. È vero che essa partecipa a molti accordi politici, tecnologici, militari con gli stessi Stati Uniti. Ma le relazioni tra i due paesi, al di là della superficie, appaiono fondamentalmente fragili (Grosman, 2024).
Gli Stati Uniti sono preoccupati tra l’altro per i forti legami del paese con la Russia, paese da cui l’India acquista grandi quantità di armi e di petrolio, nonché per la sua partecipazione al raggruppamento dei Brics e a quello dello Sco, organismi nella sostanza a guida di Cina e Russia e a cui partecipano anche altri paesi ostili agli Stati Uniti come l’Iran.
Al momento dell’avvio delle riforme economiche cinesi alla fine degli anni settanta del Novecento il pil dei due paesi aveva sostanzialmente lo stesso valore. Oggi quello cinese è superiore di circa sei volte rispetto a quello indiano utilizzando nel calcolo il criterio dei prezzi di mercato, di circa tre volte con quello della parità dei poteri di acquisto.
I rapporti tra i due grandi paesi asiatici sono stati nel tempo piuttosto burrascosi. Senza entrare troppo nei dettagli si può ricordare lo scontro del maggio 2020 per una disputa sui confini. Da allora l’India ha moltiplicato gli episodi di ostilità verso il paese vicino. La sostanziale proibizione di nuovi investimenti, la creazione di difficoltà a quelli già presenti, la proibizione tra l’altro delle attività di Tik Tok e di Huawei nel paese, la difficoltà nell’ottenere visti di ingresso nel paese per i manager delle imprese cinesi, ne sono alcuni segni. Ciò nonostante gli scambi commerciali sono cresciuti nel tempo, sino a raggiugere i circa 118 miliardi di dollari nel 2023, ma con un fortissimo saldo negativo dell’India.
Di recente sembra avviarsi un processo di riavvicinamento tra i due paesi. Si è giunti ad un accordo sia pure ancora non completo sulla disputa territoriale, si stanno allargando le maglie per i visti, qualche ministro suggerisce una nuova apertura agli investimenti e più in generale alle imprese cinesi, i due leader si sono incontrati di recente.
Tra l’altro il progetto indiano di creare una forte base industriale nel paese appare in difficoltà e il gruppo dirigente del paese si rende conto che un apporto cinese al progetto sarebbe fondamentale, mentre i promessi investimenti delle imprese occidentali non si sono materializzati.
L’eventuale avvio di nuovi rapporti di amicizia tra i due paesi, mentre potrebbe contribuire ad attenuare gli effetti economici delle decisioni di Trump, porterebbe tra l’altro ad un forte ulteriore declino della presa dell’Occidente e ad una parallela crescita del peso dell’Asia e in generale dei paesi del Sud sui destini dello stesso mondo.

TESTI CITATI NEL VOLUME
-Basu K., Perché i dazi creeranno danni soprattutto negli Usa, Domani, 20 novembre 2024.
-Billion D., Ventura C., Désoccidentalisation, repenser l’ordre du monde, Agone, Marsiglia, 2023.
-Caracciolo L., La pace è finita, Feltrinelli, Milano, 2022.
-De Bolle M., Latin America is the victim of protectionist contagion, www.ft.com, 17 giugno 2024.
-De Lens K., Gijsels Ph., The new world economy in five trends, Lannoo ed., Tielt, 2024.
-Foy H., Russell A., and Stott M., «Brave new world»: Trump’s victory signals end of US-led post-war order, www.ft.com, 7 November 2024.
-Grosman D., Us-India ties remain fundamentally fragile, Foreign policy, 4 aprile 2024.
-Kauffmann S., 2023, L’année du Sud global, Le Monde, 21 décembres 2023.
-Le Nagard M., Sommet de Kazan : « La domination occidentale sur le monde est terminée », in Le choc des civilisations, Front Populaire, dicembre 2024-février 2025.
-Russell A., The à la carte world: our new geopolitical order, www.ft.com, 21 agosto 2023.
-Sanger D. E., Trump’s win ends a post-world war II era of U.S. leadership, www.nytimes.com, six novembre 2024.
-Stephens B., This D-day, Europe needs to resolve to get its act together, www.nytimes.com, 4 giugno 2024.
–The Economist, Special report, the deglobalisation of finance, 11 maggio 2024.
-Wolf M., La crisi del capitalismo democratico, Einaudi, Torino, 2024a.
-Wolf M., Why Trump trade war will cause chaos, www.ft.com, 19 novembre 2024b.

 

04 – Alessandro Portelli*: IL RAZZISMO COME NUOVO FONDAMENTO – ATTACCO AL CUORE. AL CENTRO DI QUESTA RINNOVATA MALVAGITÀ EGEMONICA STA IL RITORNO ALL’ARCAICO DIRITTO DI SANGUE: SONO VERI AMERICANI (COME, PERALTRO, SONO CITTADINI ITALIANI) QUELLI CHE POSSONO VANTARE CHE NELLE LORO VENE SCORRA IL PURO SANGUE DELLA NAZIONE

Quando ho visto la foto delle persone in fila per essere deportate ho pensato che doveva essere un falso. Invece è proprio una comunicazione ufficiale della Casa Bianca: non solo non si vergognano delle deportazioni di massa di gente che non ha fatto nulla di male, ma se ne vantano – come tanti nostri governanti da anni si vantano del numero di espulsioni di migranti dalle nostre sacre e incontaminate rive.
Commentando certi episodi di mobilitazioni anti Rom nel mio quartiere, una giovane compagna diceva anni fa: questo non è razzismo, è cattiveria. È cattiveria, nel senso preciso di godere della sofferenza di altri, e invitare a fare di questo perverso godimento il senso comune del nostro tempo.
Al centro di questa rinnovata malvagità egemonica sta il ritorno all’arcaico diritto di sangue: sono veri americani (come, peraltro, sono cittadini italiani) quelli che possono vantare che nelle loro vene scorra il puro sangue della nazione.
A questo punta una promessa-minaccia ancora più radicale della presidenza Trump: l’abolizione dello ius soli, grazie al quale chiunque nasca sul suolo degli Stati uniti è cittadino americano. È qualcosa che sta nelle vene stesse degli Stati uniti, la spina dorsale di quella democrazia inclusiva e molteplice che sono stati e che l’Italia non riesce a diventare (tanto più che adesso potrà contare anche sul modello di un paese da cui scegliamo sempre di imitare il peggio).
L’abolizione dello ius soli infatti va anche oltre la minaccia alle famiglie non interamente «autoctone». Si tratta infatti di un principio garantito dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione, varato subito dopo la Guerra civile: «Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati uniti e dello Stato in cui risiedono».
Varato prima della grande immigrazione di massa, l’emendamento aveva una funzione ancora più radicale: serviva a dichiarare che erano cittadini degli Usa gli afroamericani, appena usciti dalla schiavitù. Pochi anni prima della Guerra civile una memorabile sentenza della Corte suprema aveva sancito, infatti, che gli afroamericani non erano, e non potevano essere, cittadini degli Stati uniti e non avevano nessun diritto che un bianco fosse tenuto a rispettare. C’era voluta la più grande strage che la storia avesse visto prima di allora per cancellare questo orrore.
Cancellare il principio sancito dal quattordicesimo emendamento significa, in ultima analisi, anche cancellare il fondamento della cittadinanza degli afroamericani – non necessariamente in modo esplicito, non necessariamente in tempi brevi (come stanno subito obiettando quei giudici che ancora ci sono in California e altrove, un ordine esecutivo non può cancellare un diritto costituzionale), ma sul piano dell’ideologia e delle pratiche quotidiane. Diventa, in altre parole, la sanzione ufficiale dì quelle pratiche violente e discriminatorie che il movimento Black Lives Matter e le proteste dopo l’assassinio di George Floyd avevano denunciato ma che continuano indisturbate e, adesso, ancora più protette.
C’è un’altra clausola nella prima sezione del quattordicesimo emendamento, che viene evocata da quella foto: «Nessuno Stato potrà privare nessuna persona di vita, libertà o proprietà, senza giusto processo di legge». Attenzione: non dice «nessun cittadino» ma nessuna persona, cittadino o non cittadino, legale o illegale. Le retate di massa, le deportazioni a tamburo battente violano anche questo principio. Ma niente paura: è tutto in regola, l’emendamento dice «nessuno Stato» e a deportare le persone non sono i singoli Stati, ma il governo federale e il suo autocratico presidente, che da oggi si proclama al disopra della legge e al disopra dell’umanità – e se ne vanta.

 

5 – CAPITALISMO GLOBALE. OGNI SETTIMANA QUATTRO NUOVI MILIARDARI, MENTRE LA POVERTÀ DILAGA – DALLA REDAZIONE CON DATI DI OXFAM, ONU, IPS E BANCA MONDIALE (*)

Sradicare la povertà e, più di tutto, ridurre le disuguaglianze diventa sempre più difficile in un sistema capitalista globale. Anzi, si fanno continui passi indietro a causa del liberismo dominante. Un nuovo rapporto della ong internazionale Oxfam, “Takers Not Makers“, rileva che solo nel 2024 i miliardari hanno accumulato 2 trilioni di dollari di ricchezza e ogni settimana sono nati quattro nuovi miliardari.
“Non solo il tasso di accumulo di ricchezza dei miliardari è accelerato ― di tre volte ―, ma anche il loro potere. E l’aumento dei miliardari genera quello dei trilionari. A questo ritmo, vedremo almeno cinque trilionari in un decennio”, denuncia Ofxam. Nel frattempo, aggiunge la ong, il numero di persone che vivono in povertà (circa 3,5 miliardi) è rimasto pressoché invariato dal 1990.
Secondo le Nazioni Unite, se gli attuali modelli persistono, il 7% della popolazione mondiale, ovvero circa 575 milioni di persone, potrebbe ancora ritrovarsi intrappolata nella povertà estrema entro il 2030, con una concentrazione significativa nell’Africa subsahariana.
“Il nostro mondo, in cui l’1% più ricco possiede più del 95% della popolazione totale, non è sulla buona strada per porre fine alla povertà, né per affrontare la portata della crisi climatica. Gli sforzi sono vanificati da livelli estremi di disuguaglianza economica. Il numero di persone che oggi vivono al di sotto della soglia di povertà di 6,85 dollari è vicino a quello del 1990”, denuncia Nabil Ahmed, direttore per la giustizia economica e razziale di Oxfam America. “Abbiamo bisogno di azioni che includano la tassazione degli ultraricchi, l’investimento in beni pubblici e non la loro privatizzazione, la rottura dei monopoli e la riscrittura delle regole globali dal debito sovrano”, aggiunge Ahmed.

La Banca Mondiale calcola che se gli attuali tassi di crescita continueranno e la disuguaglianza non diminuirà, ci vorrà più di un secolo per porre fine alla povertà.

Nel 2024, il numero di miliardari è salito a 2.769, rispetto ai 2.565 del 2023. La loro ricchezza complessiva è aumentata da 13 trilioni di dollari a 15 trilioni in soli 12 mesi. Questo è il secondo aumento annuale più elevato della ricchezza dei miliardari. La ricchezza dei dieci uomini più ricchi del mondo è cresciuta in media di quasi 100 milioni di dollari al giorno: anche se perdessero il 99% della loro ricchezza da un giorno all’altro, rimarrebbero miliardari.
Questa ricchezza in continua crescita è resa possibile da una concentrazione monopolistica del potere, con i miliardari che esercitano sempre più influenza sulle industrie e sull’opinione pubblica. L’analisi economica di esperti internazionali dimostra che le imposte sulla ricchezza sbloccherebbero miliardi di dollari per combattere la povertà.

Il rapporto di Oxfam include dati fondamentali:

• IL 60 PERCENTO DELLA RICCHEZZA DEI MILIARDARI DERIVA OGGI DA EREDITÀ, POTERE MONOPOLISTICO O LEGAMI CLIENTELARI.
• NEL 2023, L’1% PIÙ RICCO DEI PAESI DEL NORD DEL MONDO, COME STATI UNITI, REGNO UNITO E FRANCIA, HA SOTTRATTO 30 MILIONI DI DOLLARI ALL’ORA DAL SUD DEL MONDO ATTRAVERSO IL SISTEMA FINANZIARIO
.

I paesi del Nord del mondo controllano il 69% della ricchezza mondiale, il 77% della ricchezza dei miliardari e ospitano il 68% dei miliardari, nonostante rappresentino solo il 21% della popolazione mondiale. Pertanto, è essenziale cancellare i debiti, soprattutto del Sud del mondo, e porre fine al predominio dei paesi ricchi e delle aziende sui mercati finanziari e sulle regole commerciali. Ciò significa rompere i monopoli, democratizzare le regole sui brevetti e regolamentare le aziende per garantire che paghino salari dignitosi e limitino lo stipendio dei manager.
Occorre, sollecitano varie voci internazionali, ristrutturare i poteri di voto nella Banca Mondiale, nel FMI e nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per garantire un’equa rappresentanza dei paesi del Sud del mondo. Infine le ex potenze coloniali devono affrontare il danno duraturo causato dal loro dominio passato su decine di paesi e popoli – ancora presente di fatto specie in Africa – offrire scuse formali e fornire riparazioni alle comunità colpite. Il rapporto completo di Oxfam è disponibile su: https://oxfam.box.com/s/v8qcsuqabqqmufeytnrfife0o1arjw18
*(Fonte: redazione con dati di Oxfam, Onu, IPS e Banca Mondiale)

06 – Guerre dimenticate. EMERGENCY. Il Sudan vive una crisi senza precedenti ma resta invisibile al mondo. (*)

A Khartoum da settimane i combattimenti tra forze governative, Sudanese Armed Forces (SAF), e forze paramilitari, Rapid Support Forces (RSF), si sono intensificati soprattutto dopo la riconquista da parte dell’esercito governativo della città di Wad Madani, capitale dello stato di Gezira, riferisce Matteo D’Alonzo, hospital manager di EMERGENCY a Khartoum.
“Il conflitto in Sudan è considerato al momento la peggiore crisi di sfollati al mondo – aggiunge D’Alonzo – con 12 milioni di persone che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, l’80% di loro è in fuga da Khartoum, la capitale, fin dal 15 aprile 2023 la più colpita dagli scontri armati. Allo stesso tempo rappresenta una delle più gravi crisi umanitarie in atto tuttavia rimasta invisibile agli occhi del mondo: saranno 30.4 milioni i sudanesi in necessità di aiuti umanitari nel 2025, circa due terzi dell’intera popolazione del Paese”.
Nella mattinata di giovedì 16 gennaio un’esplosione avvenuta a meno di due chilometri di distanza dal Centro Salam di cardiochirurgia di EMERGENCY a Khartoum, capitale del Sudan, ha provocato la rottura di alcuni vetri e piastrelle nel compound dove abitano gli operatori umanitari dell’associazione. Le schegge sono state ritrovate anche nel parcheggio dell’ospedale.
“È il secondo episodio negli ultimi quattro mesi di cui vediamo direttamente delle conseguenze – prosegue D’Alonzo – L’esplosione è avvenuta al di là del ponte sul Nilo che collega l’area in cui ci troviamo a quella in cui avvengono i combattimenti. Ha provocato la rottura di alcuni vetri delle finestre nel nostro compound, di alcune piastrelle, e ha creato alcune crepe sul soffitto. Alcune schegge sono state ritrovate all’esterno della struttura. Nessun paziente o membro dello staff è stato ferito. Lavoriamo rispettando criteri di sicurezza stringenti, e il nostro ospedale non è e non è mai stato un obiettivo militare. Tuttavia, le conseguenze della guerra sono tangibili anche per noi.”
EMERGENCY, presente nel Paese dal 2003, prosegue le sue attività nella capitale Khartoum con il Centro Salam di cardiochirurgia e con un ambulatorio pediatrico; a Port Sudan, nello stato del Mar Rosso dove stanno affluendo migliaia di profughi, con un altro centro pediatrico. A Nyala, in Sud Darfur, città ancora colpita da attacchi aerei quotidiani con un centro pediatrico riaperto dopo essere stato saccheggiato nell’ottobre 2023. Ha aperto, inoltre, una clinica per pazienti cardiaci ad Atbara nel nord-est del Paese, una a Kassala, vicino al confine con l’Eritrea, e sta lavorando all’apertura di un’ulteriore clinica a Gedaref, a sud-est.
*(Fonte: EMERGENCY. di redazione | 22 Gen 2025 | Africa, Mappamondo)

 

07 – IL MESSICO SI PREPARA ALLE DEPORTAZIONI DI TRUMP – DI REDAZIONE | 23 GEN 2025 | AMERICA LATINA, IN EVIDENZA.

Le autorità messicane hanno iniziato a costruire rifugi temporanei su larga scala a Ciudad Juarez, una delle città di confine, in preparazione a un possibile flusso di messicani deportati dagli Stati Uniti.
Questa iniziativa fa parte di un piano del governo messicano per gestire le deportazioni di massa annunciate dall’amministrazione Trump. I rifugi, che saranno dotati di tende giganti, sono destinati a ospitare migliaia di persone e dovrebbero essere pronti in pochi giorni. Enrique Licon, funzionario comunale, ha dichiarato che la situazione è senza precedenti, con i lavoratori impegnati a montare le strutture vicino al fiume Rio Grande, che separa Ciudad Juarez da El Paso, in Texas.
Questi rifugi fanno parte di una strategia più ampia che coinvolge nove città del Messico settentrionale, in cui verranno creati centri di accoglienza per i deportati. Il governo messicano ha annunciato che fornirà ai migranti cibo, alloggio temporaneo, cure mediche e assistenza per ottenere documenti di identità. Inoltre, sono previsti autobus per trasferire i deportati dalle città di confine verso le loro località d’origine. Il piano, denominato “Il Messico ti abbraccia”, è stato pensato per affrontare l’afflusso previsto di deportati.
Donald Trump ha promesso di attuare la più grande operazione di deportazione della storia degli Stati Uniti, mirando a rimuovere milioni di immigrati irregolari. Tuttavia, tale impresa richiederebbe enormi risorse e anni di lavoro. Secondo i dati del think tank messicano El Colegio de la Frontera Norte, quasi 5 milioni di messicani vivono negli Stati Uniti senza documenti, molti dei quali provengono da regioni del Messico segnate dalla violenza e dalla povertà. In particolare, circa 800.000 messicani senza documenti provengono dagli stati di Michoacán, Guerrero e Chiapas, dove le lotte tra bande criminali hanno costretto migliaia di persone a fuggire, lasciando interi paesi e città abbandonati.
Nonostante il governo messicano abbia dichiarato di essere pronto a gestire l’eventuale flusso di deportati, ci sono preoccupazioni riguardo alla capacità del Paese di far fronte a questa situazione. I sostenitori dei diritti dei migranti temono che le deportazioni di massa, combinate con le politiche di Trump per limitare l’ingresso di migranti, possano saturare le città di confine, creando una crisi umanitaria.
L’amministrazione Trump ha recentemente annullato il programma CBP One, che permetteva ad alcuni migranti di entrare legalmente negli Stati Uniti, e ha ripristinato i “protocolli di protezione dei migranti” (MPP), che obbligano i richiedenti asilo non messicani ad aspettare in Messico la risoluzione dei loro casi negli Stati Uniti. Questo ha suscitato preoccupazioni da parte di alcuni funzionari messicani, come Jose Luis Perez, direttore delle questioni migratorie di Tijuana, che ha sollevato dubbi sulla preparazione del Messico per affrontare un afflusso massiccio di deportati. Perez è stato poi licenziato per aver espresso pubblicamente tali preoccupazioni.
Il governo messicano, rappresentato dal ministro degli Interni Rosa Icela Rodriguez, ha comunque affermato che il Paese farà tutto il necessario per accogliere i deportati, ma l’incertezza economica del Messico, con una crescita prevista lenta nel 2025, potrebbe rendere difficile affrontare la situazione. L’eventuale aumento del numero di deportati potrebbe causare gravi difficoltà economiche, specialmente nelle città e nei villaggi che dipendono dalle rimesse inviate dai messicani negli Stati Uniti. In particolare, la perdita di queste rimesse potrebbe portare a interruzioni significative dell’economia locale.
Nel frattempo, a Ciudad Juarez, le operazioni di costruzione dei rifugi procedono con il supporto di soldati, che stanno preparando anche strutture per la distribuzione di cibo e altri servizi necessari per i deportati. Questo intervento arriva a pochi anni dalla visita di Papa Francesco nella città, dove, nel 2016, aveva pregato per i migranti e avvertito della crisi umanitaria che coinvolgeva molte persone in transito attraverso il Messico.
In sintesi, il Messico sta cercando di prepararsi a una situazione difficile e potenzialmente destabilizzante, ma le preoccupazioni sul piano economico e logistico, unite alla gestione delle politiche migratorie di Trump, pongono numerosi interrogativi sulla reale capacità del paese di affrontare il massiccio ritorno dei suoi cittadini deportati.
*(Fonte: redazione Pagine Estere)

 

08 – Giovanna Branca, Marina Catucci*: AGENZIE USA NEL CAOS. STOP AI FINANZIAMENTI «A MARXISMO E TRANS» – AMERICAN PSYCHO COLPITI PROGRAMMI DENTRO IL PAESE, COME MEDICAID, E PER IL SOSTEGNO ESTERO. UNA FONTE: «CI È STATO IMPOSTO SOSPENDERE TUTTE LE ATTIVITÀ»

«L’uso di risorse federali per l’avanzamento di eguaglianza marxista, transessualismo, e politiche green new deal di ingegneria sociale sono uno spreco di dollari dei contribuenti e non migliorano la vita quotidiana di coloro che serviamo». Lo si legge in un memo inoltrato alle agenzie federali nella serata di lunedì dall’ufficio budget della Casa bianca, che parallelamente ha messo in pausa tutti i finanziamenti e prestiti dei programmi di assistenza federale, con l’eccezione di Social Security e Medicare. Il memo offre molta poca chiarezza e spalanca le porte a panico e incertezza: dei programmi sospesi «fanno parte, ma non esclusivamente, assistenza finanziaria per aiuti esteri, organizzazioni non governative, Dei (i programmi di diversità, eguaglianza e inclusione già presi di mira da un ordine esecutivo, ndr), ideologia gender woke e il Green new deal».
GLI AIUTI ESTERI erano già stati sospesi venerdì da un ordine esecutivo di Donald Trump, seguito dalle istruzioni diramate dal nuovo segretario di Stato Marco Rubio che impone lo «stop work» sugli aiuti già in corso e mette in pausa tutti i nuovi finanziamenti – con un impatto disastroso per tantissimi paesi, da Haiti all’Ucraina, che dipendono da quegli aiuti, e per i programmi internazionali nati per far fronte a emergenze come la malaria o l’Aids. E ieri Abc News riportava che un altro memo ricevuto da UsAid (Us Agency for International Development) richiedeva «dettagliate informazioni» a giustificazione delle spese sostenute: poco dopo 60 impiegati dell’agenzia sono stati messi in congedo.
IL TESTO inoltrato ieri dalla Casa bianca minaccia però anche programmi interni rivolti all’assistenza dei cittadini americani, a partire da Medicaid – che non viene citata fra i programmi esentati e fornisce assistenza sanitaria ai cittadini a basso reddito: interpellata in merito durante una conferenza stampa, la portavoce della Casa bianca Karoline Leavitt non ha smentito che possa accadere: «Devo controllare».
L’ampiezza delle misure ventilate e la vaghezza del linguaggio impiegato potrebbe rallentare o bloccare anche altri servizi essenziali: nel corso della giornata di ieri i media riportavano il panico dilagante negli ospedali, le scuole, le organizzazioni no profit, nel tentativo di comprendere quando, e in che misura, i tagli (spacciati come temporanei mentre viene valutata l’aderenza ai dettami trumpisti delle politiche di spesa delle varie agenzie) avrebbero colpito.
«COME LEADER delle Commissioni per lo stanziamento di Camera e Senato – hanno scritto ieri in un comunicato le due parlamentari a capo delle Commissioni, le democratiche Patty Murray e Rosa DeLauro – scriviamo con estremo allarme dei tentativi dell’amministrazione di compromettere il potere della borsa del Congresso (che è cioè a capo del bilancio, ndr), mettere in pericolo la nostra sicurezza nazionale e negare risorse a stati, località, famiglie e imprese americani». L’illegalità della sospensione dei finanziamenti è stata sottolineata anche dal leader della minoranza dem al Senato Chuck Schumer, che ha spiegato come gli investimenti approvati dal Congresso siano «legge», e ha messo in guardia contro l’illusione che il congelamento dei finanziamenti sia temporaneo: «Nessuno dovrebbe crederci».
UNA PERSONA che lavora per un’agenzia con base in Danimarca che si occupa di aiuti umanitari e di progetti di sviluppo ci ha descritto una situazione di caos: «Quello che è chiaro è la totale incompetenza di chi ha fatto questa operazione. Ci è stato comunicato che dobbiamo sospendere tutte le attività e che le uniche operazioni che possono continuare sono quelle di emergenza ‘salvavita’, senza dare ulteriori specifiche. Ci sono settori dell’agenzia che sono borderline fra sviluppo e aiuto umanitario, e cosa sia ‘salvavita’ è interpretabile, perché in alcuni casi le cose si sovrappongono. Invece è arrivato solo uno stop con decorrenza immediata. Anzi, retroattiva di qualche giorno». I finanziamenti Us Aid, aggiunge, «rappresentano il 20%dei nostri fondi, rimpiazzare una fetta così sostanziosa è impossibile». Ma «tutte le operazioni sono state fermate e anche i salari. Niente è confermato, tutto è incerto anche le posizioni di lavoro».
«L’INCOMPETENZA di chi sta gestendo un’operazione così delicata – aggiunge un’altra fonte all’interno di una delle agenzie colpite – è imbarazzante. Da noi gli stipendi sono ancora assicurati ma questo sul campo vuol dire poco. Ad esempio, se sei uno dei nostri medici continui ad essere salariato e puoi visitare le persone, ma se prescrivi una medicina non hai più i fondi per acquistarla. È un approccio da chiacchiera da bar, dove sono tutti allenatori della nazionale. Forse iniziano a rendersene conto perché dopo il congelamento immediato hanno aggiunto un’eccezione per gli aiuti alimentari. Ma questo è mettere una toppa, non avere un piano, che può essere anche malvagio, ma che per essere attuato ha bisogno di seguire un iter burocratico».
*(Fonte: Il Manifesto. BRANCATO GIOVANNA. Professore Associato. Settore scientifico disciplinare di riferimento, Chirurgia generale – Marina Catucci, Corrispondente dagli Stati Uniti per Il Manifesto)

 

09 – TRUMP CI OFFRE SU UN PIATTO D’ARGENTO L’OCCASIONE DI METTERE ALL’ANGOLO GLI USA, CANCRO DEL MONDO
Trump ha dichiarato apertamente guerra al vecchio ordine mondiale frutto di 40 anni di globalizzazione neoliberista (che, detta così, suona anche parecchio bene), se non fosse che il modello proposto assomiglia da vicino all’era dei conflitti inter-imperialistici che ci ha portato dritti a due guerre mondiali e che Trump inaugura con una valanga di regali senza precedenti alle multinazionali USA, che dovranno essere finanziati tassando in varie forme il resto del pianeta; e, quando le tasse coloniali non basteranno, annettendo direttamente le aree che più gli interessano. Con stupore di tutti – a essere onesti – nonostante la produzione da record di ordini esecutivi nelle prime 24 ore di mandato, sul fronte dei dazi e della guerra commerciale per ora Trump ha fatto solo annunci: il primo è stata la minaccia di dazi del 25% per i veicoli che arrivano da Messico e Canada, dove vengono prodotti il 40% dei veicoli venduti ogni anno negli USA, in parte non irrilevante da produttori europei – a partire da Stellantis che, ricordiamo, significa anche marchi come Chrysler, Jeep e Dodge; anche Volkswagen subirebbe una botta gigantesca, a partire dal suo mega-stabilimento di Puebla, che da solo produce oltre 450 mila veicoli l’anno, l’80% dei quali è destinato al mercato USA.
Come degli Zuckerberg qualsiasi, le case automobilistiche però, invece che incazzarsi, hanno sconsigliato e sono corse da Re Donald per promettere che si adegueranno ai suoi diktat: John Elkann, dopo essere entrato nel CDA di Meta, come il capo Mark si è trasformato ormai in una sorta di militante MAGA; Volkswagen, invece, ha rafforzato il suo impegno per i 10 miliardi di investimento per lo stabilimento di Chattanooga e per la joint venture col marchio locale Rivian. Tutti soldi che, ovviamente, verranno tolti dagli investimenti in Europa, dove non c’è nessun Trump che prenda per le orecchie la casa automobilistica e la costringa a fare gli investimenti necessari per evitare la prima chiusura nella storia del gruppo di 3 stabilimenti in Germania.
Mentre bastonava le multinazionali altrui, Trump faceva un regalo gigantesco alle sue, soprattutto a quelle degli oligarchi del big tech che per primi si sono inchinati al regno di Re Donald e hanno sfilato prima in ginocchio alla Versailles di Mar-a-Lago e poi si sono presentati in ghingheri tutti insieme appassionatamente alla cerimonia di investitura imperiale; tutte aziende che devono una buona fetta della ricchezza e della loro capacità di colonizzare digitalmente il nostro continente a un particolare che ha molto a che fare con l’imperialismo e il neocolonialismo, e molto poco con la capacità di innovazione: pagano meno tasse di una qualsiasi kebabbaro di periferia. Contro questo vero e proprio furto sistematico di ricchezza da parte della nuova aristocrazia del tecno-feudalesimo, dopo lunghissime trattative e tentennamenti, l’OCSE era arrivata a negoziare un’imposta minima globale sulle società: questa imposta permetteva di andare a chiedere alle aziende che, attraverso triangolazioni di vario genere o accordi fiscali ad hoc, pagano poco o niente di tasse, di pagare la differenza. Come abbiamo sottolineato svariate volte su Ottolina, la global minimum tax aveva una quantità infinita di limitazioni, a partire dall’aliquota che è appena del 15%; rappresentava, comunque, un primo timido (ma significativo) passo avanti per far pagare qualcosa anche a chi ha sempre vissuto parassitando su tutti gli altri. Gli USA, che sono sempre molto attenti all’equità e alla giustizia da ben prima che tornasse Re Donald, hanno sempre temporeggiato e non l’hanno mai adottata; ora Re Donald ha fatto il passo successivo: non solo l’ha definitivamente stracciata, ma addirittura ha ordinato la messa a punto di sanzioni contro tutti i Paesi che si azzardano ad applicarla contro le multinazionali dei suoi amichetti multimiliardari che gli hanno garantito fedeltà. Come scriveva ieri Consortium News, tra le tante sparate di Re Donald di una cosa si può essere certi: “non è davvero un traditore della sua classe”.
Intanto, però, un piccolo risultato concreto l’attesa del regno di Trump lo ha già portato: secondo i dati di Bank of America pubblicati ieri, a gennaio c’è stato il record di capitali che dai mercati finanziari statunitensi sono fuggiti verso quelli europei; le borse europee, per la prima volta in quasi 10 anni, hanno doppiato quelle d’oltreoceano segnando un +5,5% dal primo gennaio, contro il +2,8 di quelle USA. A pesare, come sottolineiamo da mesi, è il timore che le priorità dell’agenda Trump – dai dazi alla lotta all’immigrazione – tornino a far salire l’inflazione e, quindi, giustifichino tassi di interesse più alti più a lungo da parte della FED, un timore che, ricordiamo, nelle ultime settimane ha causato un altro fenomeno piuttosto indicativo: mentre la FED infatti tagliava, per quanto di poco, i tassi di interesse, gli interessi effettivi che il Tesoro era costretto a riconoscere agli investitori per piazzare i suoi titoli di Stato continuavano a salire e il dollaro continuava a rafforzarsi fino a sfiorare la parità con l’euro; due ostacoli giganteschi per Make America Great Again. Secondo stime del prestigioso Pictet Group riportate da Morya Longo sul Sole di stamattina, “LE POLITICHE DI TRUMP AGGIUNGERANNO, NELL’ARCO DEI QUATTRO ANNI DI MANDATO, 3 PUNTI PERCENTUALI DI INFLAZIONE IN PIÙ RISPETTO A SCENARI SENZA QUESTE POLITICHE”.

Ma, come sempre, pensare che i vincoli esterni (che il mercato, in qualche modo, impone) siano sufficienti per far cambiare direzione alla politica può risultare velleitario: per cambiare la direzione politica servono scelte politiche e nessuno come Re Donald, con tutta la spavalderia del suo ciuffo arancione, sta spingendo in una direzione che potrebbe rendere quelle scelte politiche inevitabili. Ieri, infatti, è successa una delle cose più incredibili alle quali abbia mai assistito: in mezzo alla solita sequela di minchiate, Ursula Bordeline (ripeto: Ursula Borderline) ha detto delle cose sensate. Giuro! L’ho proprio sentita con le mie orecchie, ‘nce potevo crede! Anzi no, spe’, non è tutto: anche dove le ha dette è significativo. A Davos, al World Economic Forum. Avete capito bene: una delle peggiori e più servili politiche di tutti i tempi, nel luogo simbolo per eccellenza della gigantesca rapina avvenuta sulla nostra pelle che si chiama globalizzazione neoliberista, ha detto cose che (con un piccolo sforzo di ottimismo) possono essere interpretate come ragionevoli. “Le regole di ingaggio tra le potenze globali stanno cambiando”, ha affermato; e non dovremmo dare nulla per scontato. Dobbiamo cercare nuove opportunità ovunque si presentino e impegnarci oltre i blocchi e i tabù. L’Europa è pronta al cambiamento”
Oltre i blocchi vuol dire tante cose, ma il giorno dopo l’insediamento di Trump, principalmente una: la Cina. “È tempo di perseguire una relazione più equilibrata con la Cina, in uno spirito di equità e reciprocità”, “approfondire le nostre relazioni” ed “espandere i nostri legami commerciali e di investimento”: altro che decoupling! E l’obiettivo principale è chiaro: l’autonomia energetica dell’Europa che – visto che di materie prime non ce ne abbiamo e visto che gli USA hanno sempre utilizzato la loro colossale macchina bellica per controllare le rotte commerciali di chi ce l’ha – significa sostanzialmente una cosa sola: le rinnovabili. “L’energia pulita è la risposta a medio termine, perché è economica, crea buoni posti di lavoro in patria e rafforza la nostra indipendenza energetica” sottolinea la Borderline: “Già oggi l’Europa genera più elettricità da vento e sole che da tutti i combustibili fossili messi insieme, ma c’è ancora molto lavoro da fare” e per farlo, va da se, bisogna integrare le nostre filiere produttive con il leader indiscusso di tutto quello che ha a che fare con la transizione ecologica – dalle materie prime, all’apparato produttivo, a tutte le tecnologie di frontiera – e cioè, appunto, la Cina. Integrando le filiere produttive con quelle avanzatissime costruite dai cinesi, saremmo in grado di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica non solo dell’Europa, ma anche dei nostri vicini, a partire dall’Africa alla quale potremmo offrire l’opportunità di avviare un processo di sviluppo che è l’unica risposta seria e strutturale che possiamo dare ai fenomeni migratori; in cambio, potremmo sfruttare per il nostro consumo domestico un po’ delle sterminate risorse del continente in termini di sole e di vento. Per farlo, serve un investimento gigantesco in termini di infrastrutture. La buona notizia, però, è che i capitali non ci mancano; nonostante il PIL nominale in dollari dell’Unione europea, negli ultimi 15 anni, da essere superiore a quello USA oggi è inferiore di oltre il 30%, i cittadini europei continuano ancora oggi a risparmiare poco meno del doppio di quelli statunitensi: 1.400 miliardi l’anno, più che sufficienti per fare tutte le transizioni che vuoi; solo che oggi, in buona parte, invece che rimanere in Europa vanno a finanziare la bolla finanziaria USA, che gli USA poi usano per farci concorrenza sleale a noi finanziandoci i monopoli tecnologici che fagocitano tutti i mercati più avanzati, e ci condannano alla decrescita infelice. L’obiettivo ora sarebbe che tornino a finanziare lo sviluppo dell’Europa e non del nostro padre padrone; ovviamente, gli strumenti che l’ultraliberista Von Der Leyen pensa debbano essere utilizzati per ottenere questi obiettivi sono sempre e solo quelli di chi come unico scopo ha arricchire chi i soldi ce li ha già e non permettere agli altri di vivere una vita dignitosa.

Il punto è che, a differenza del passato, senza ritagliarsi un po’ di sovranità anche per quelli che vuol difendere la Borderline le cose si sono cominciate a mettere maluccio: fino a un po’ di tempo fa, infatti, gli USA e le sue oligarchie erano saldamente al centro dell’impero; erano quelli che guadagnavano di gran lunga di più sia in termini di quattrini che di potere e influenza, ma il loro sistema garantiva di rubare risorse a tutto il resto del mondo e una fetta andava in tasca anche agli alleati europei; mano a mano che il resto del mondo ha cominciato a organizzarsi per provare a farsi rubare meno risorse possibili, quella torta da spartirsi s’è rimpicciolita e le briciole che spettavano agli amici della Borderline sono diminuite, fino a che non solo non ce ne sono rimaste più, ma addirittura le oligarchie USA hanno cominciato a fregarsi anche un pezzettino sempre più consistente della torta che producevamo qua in Europa. Con i democratici, però, questa cosa era coperta da un bello strato di retorica e gli amici della Borderline (che non hanno mai brillato per coraggio) continuavano a sperare si trattasse di una cosa passeggera; ora l’innegabile merito di Trump è di aver cominciato a dire chiaramente che, invece, è solo l’inizio e che fino a che gli amici della Borderline non troveranno il coraggio di puntare i piedi, lui e gli oligarchi amici suoi della nostra fetta continueranno a prendersi un pezzo sempre più grosso. E ora, appunto, per la prima volta sembra che qualcuno ‘sti piedi abbia iniziato (timidamente) un po’ a puntarli.
Ora, a questo punto, la domanda che sorge spontanea è: ma cosa mai me ne dovrebbe fregare a me se la torta se la prendano gli amici di Trump o gli amici della Borderline? A me comunque non mi rimane in mano niente! Nì: sì, perché se speri che gli amici della Borderline siano più generosi e ti concedano la tua parte da buoni samaritani, evidentemente non hai capito come funziona il giochino; ma anche no, perché in realtà una differenza c’è, eccome, che è sempre la solita vecchia differenza che c’è tra vivere in un Paese indipendente o in una colonia, o un protettorato e, cioè, che se sei un Paese indipendente, poi come viene spartita la torta dipende anche dallo scontro tra le diverse classi sociali. Se sei una colonia, è tutto deciso a tavolino prima di iniziare la partita. Le regole del gioco della partita che ha in mente la Borderline come rappresentante delle borghesie europee che vorrebbero ritagliarsi qualche margine di autonomia sono piuttosto chiare: i capitali devono rimanere qui non perché ce li obblighiamo, ma perché è più conveniente; per farlo, dobbiamo rafforzare il mercato unico dei capitali, che adesso è troppo frammentato. In soldoni, significa che dobbiamo favorire la concentrazione in ogni modo possibile e creare dei monopoli su cui dirottare il grosso delle risorse finanziarie; e per favorire questo processo di concentrazione e la creazione dei monopoli, ovviamente – come vecchia ricetta liberista insegna – dobbiamo deregolamentare il più possibile.
La nostra ricetta, ovviamente, è diametralmente opposta: per noi i capitali rimangono in Europa non perché è più conveniente, ma perché è obbligatorio; e quei soldi non servono a formare i monopoli, ma a finanziare aziende che competono tra loro sulla base di chi è più bravo a innovare. Come succede in Cina, dove, per un fenomeno incomprensibile ai nostri analfoliberali, più l’economia cresce, più i margini di profitto diminuiscono (e pure il numero dei miliardari). Insomma: ovviamente non è che la Borderline è la soluzione ai nostri mali; anzi, fino ad oggi ne è stata una delle cause principali (e siamo sicuri che farà del suo meglio per esserlo anche in futuro), come in generale il capitalismo tedesco e l’Unione europea nel suo insieme. La buona notizia è che se davvero fossero costretti dalla rivoluzione trumpiana a provare a giocarsi una nuova partita domestica – per quanto la nostra squadra, quella di chi vive del suo lavoro, sia ad oggi oggettivamente scalcinata – in realtà qualche chance ce la potrebbe pure avere; il punto è che il modello che propone la Borderline, che non brilla per lungimiranza e inventiva, potrebbe non essere sostenibile: la Borderline, infatti, in soldoni ripropone il vecchio modello mercantilista che la Germania ha sempre perseguito dai tempi delle riforme di Schroeder, un modello iniquo e perverso allora come oggi, ma che in più oggi, molto banalmente, potrebbe non essere nemmeno realistico.

Per essere mercantilista, infatti, c’hai bisogno di qualcuno che poi le merci te le compri e quel qualcuno, stringi stringi, fino ad oggi sono stati proprio gli USA, che producono niente e consumano parecchio (tanto che, come abbiamo visto, manco risparmiano); anche da questo punto di vista Trump e la sua agenda protezionista potrebbero farci un bel regalino: se il mercato USA non c’è più e nel resto del mondo hanno questa strana abitudine di lavorare e produrre, non ci rimane che consumare in casa, sia le famiglie con i consumi veri e propri che le aziende e lo Stato con gli investimenti. E per permettere a famiglie, aziende e Stato di consumare, bisogna dargli i soldini, il contrario dell’austerity che piace alla gente che piace; quindi la strada per imporre politiche un pochino più generose potrebbe essere meno in salita di quanto pensiamo. E forse un pochino l’ha capito addirittura la Borderline: la scelta di puntare tutto sulle rinnovabili, infatti, è quella che meglio si adatta a questo modello; con le rinnovabili, infatti, invece che attraverso materie prime che non hai, l’energia la produci attraverso cose che puoi costruirti a casa (dai pannelli, alle pale, alle batterie) e, quindi, non c’ha la scusa di dover competere sui mercati internazionali per esportare robe a prezzi concorrenziali per bilanciare le importazioni di zozzerie fossili e dintorni.
Grazie presidente! Era da quando Francia e Germania, a differenza dell’Italia, si rifiutarono di partecipare alla guerra criminale in Iraq che aspettavamo un assist del genere per tornare a parlare in questi termini, quasi come se non fossimo una colonia: non ce lo scorderemo!
*(Fonte: Sinistrainrete. Red. OttolineTV)

 

 

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