N°48 – 30/11/2024 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

00 – Michele Nucci*: Solo il conflitto può frenare la discesa all’inferno. Rapporti di classe. Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale
01 – La Sen. La Marca partecipa al Festival of Italian Creativity a Boston
02 – Federico Giusti*: Contributo alla discussione su guerra e imperialismo – La prima domanda alla quale rispondere ogni qual volta si parla di guerra e di imperialismo dovrebbe essere di natura pratica ossia la valutazione delle iniziative messe in campo per contrastare i processi di militarizzazione delle scuole, dell’università, dei territori, quali iniziative reali abbiamo messo in campo per denunciare la natura imperialista della guerra e le sue ripercussioni sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici.
03 – Ascanio Bernardeschi*: L’Unione europea a propulsione militare – Di fronte al possibile disimpegno di Trump in Europa, l’Unione europea storna verso le spese di guerra i fondi di coesione sociale. Si tratta anche di una risposta in termini di keynesismo di guerra alla grave crisi in atto.
04 – Dino Villatico*: «SIMON BOCCANERA», le lotte del potere e il disincanto del contemporaneo. Musica: l’opera di Roma inaugura la stagione con Verdi. Nella direzione di Richard Jones, una lettura che allude al postfascismo e al nostro presente.
05 – Fabi Anna*: LAVORATORI ALL’ESTERO: WEEKEND A CASA AGEVOLATO- Weekend in Italia fuori dal computo del periodo in Patria ai fini delle agevolazioni fiscali per i lavoratori italiani all’estero: novità in Manovra 2025.
06 – Alfiero Grandi*: Autonomia differenziata, la pronuncia della Corte costituzionale non è un ostacolo al referendum.
07 – Mario Ricciardi*: La visione del mondo che manca alla sinistra – Dopo Trump: Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante.
08 – Claudia Fanti*: Povertà, clima e governance globale: tre spine per il G20 – Rio de Janeiro Lula: «Il mondo sta peggio».
09 – Federico Nastasi*: L’Uruguay torna a sinistra sulla scia di Pepe Mujica – In controtendenza Ballottaggio presidenziale al pragmatico Yamandú Orsi, candidato del Frente Amplio e simbolo di una nuova leadership latinoamericana.
10 – Kaspar Hauser*: Autonomia, la Corte smonta lo «spacca Italia» di Calderoli.

 

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00 – Michele Nucci*: Solo il conflitto può frenare la discesa all’inferno. Rapporti di classe Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale

Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale sui dati cumulativi di 1900 società italiane.
E lo ha presentato in questi termini: «Nel 2023 margini record per le imprese italiane», che vuol dire in concreto «un Ebit medio del 6,6%, il miglior livello dal 2008». Per crescita del fatturato sono in testa le costruzioni, grazie alla droga del superbonus.
Poche settimane dopo un gruppo di ricerca della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma pubblicava i risultati di una ricerca intitolata: Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana. Il direttore della ricerca prof. Riccardo Gallo, nel presentarla su Il Sole 24 Ore del 22 ottobre, ha usato questi termini: «Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti (…) Oltretutto gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni».
Il 29 ottobre l’Istat ha pubblicato la notizia flash Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali, luglio-settembre 2024, dove si legge: «I 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (…) i contratti che a fine settembre 2024 sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale)».
La maggioranza dei dipendenti dunque lavora con contratti scaduti. Ciò significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio. E in più c’è l’inflazione. Inoltre gli aumenti in genere sono premi di risultato incorporati nel Welfare aziendale, non finiscono in paga base.
Risultato? La diminuzione progressiva dei redditi da lavoro, in atto da decenni, continua alla grande. Gli utili, come abbiamo visto, vanno per l’80% agli azionisti, di quel magro 20% rimasto solo il 40% viene reinvestito in fabbrica. Questo avviene quando i profitti sono alle stelle, figuriamoci che succede quando c’è aria di rallentamento o addirittura di crisi. Infatti, le trattative del contratto dei metalmeccanici e del contratto trasporti e logistica, tanto per citare due esempi significativi, sono, al momento in cui scrivo, interrotte. Alle richieste dei sindacati i padroni hanno risposto picche.

SONO DECENNI CHE IN TUTTE LE BUSINESS SCHOOL S’INSEGNA CHE COMPITO DEL MANAGEMENT NON È FAR CRESCERE L’IMPRESA MA REMUNERARE GLI AZIONISTI.

Questa non è finanziarizzazione, è guerra di classe. Ma è la guerra «pulita». Qual è la guerra «sporca»? È quella del sistema di appalti e di subcontracting, dove regnano illegalità ed evasione fiscale. L’illegalità che i giuristi chiamano «intermediazione illecita di mano d’opera» noi la chiamiamo «caporalato», vecchia conoscenza che oggi, dove la base di reclutamento è costituita da forza lavoro immigrata più ricattabile, si è rifatta il trucco. Nella cosiddetta logistica rappresenta il 90% della forza lavoro, il che non significa che al 90% è illegale ma che una notevole componente è fatta di imprese che sotto le finte vesti del contratto d’appalto nascondono la vera natura di serbatoi di mano d’opera.
Il Tribunale del Lavoro di Milano, grazie a un paio di magistrati – guardati con sospetto – ha cercato di mettere un argine ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende. Non pesci piccoli ma multinazionali del calibro di Dhl, Geodis, Amazon, specialisti della home delivery. Hanno recuperato in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale (soprattutto Iva non pagata, contributi previdenziali non versati) e regolarizzato 14 mila lavoratori.
Ma poi c’è un terzo livello, un ulteriore girone di questo inferno, quello della schiavitù. Forse la nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

È difficile immaginare in una situazione come questa una reazione diversa dal conflitto. Perché non ci sono i margini. 80% dei profitti agli azionisti, più del 50% dei dipendenti con contratto scaduto. Solo il conflitto può frenare l’ulteriore degrado. Se è questo che Maurizio Landini intendeva con «rivolta sociale», è il minimo che si possa dire. E se il Pd ogni tanto guardasse a questi numeri e ne facesse argomento di propaganda, piglierebbe il doppio dei voti. Ma quelli pensano alle «politiche industriali», roba che in Italia non si vede dai tempi di Mattei. E allora, piuttosto di votarli, me ne sto a casa. Non s’è ancora capito che l’astensione è «rossa»?

 

01 – La Sen. LA MARCA PARTECIPA AL FESTIVAL OF ITALIAN CREATIVITY A BOSTON

DAL 20 AL 22 NOVEMBRE, LA SEN. FRANCESCA LA MARCA HA PARTECIPATO AL FESTIVAL OF ITALIAN CREATIVITY, UN EVENTO DI GRANDE PRESTIGIO ORGANIZZATO DAL CONSOLATO GENERALE D’ITALIA A BOSTON, GUIDATO DAL CONSOLE GENERALE ARNALDO MINUTI E DAL PROF. PAOLO GAUDENZI, ATTACHÉ SCIENTIFICO DEL CONSOLATO.

Il festival, durato otto giorni, si è inserito nel quadro delle iniziative legate alla designazione di Boston come Capitale Italiana della Creatività nel Mondo per il 2024, un riconoscimento conferito dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Questo forum accademico e culturale ha messo in risalto le menti più brillanti del panorama scientifico e professionale italiano negli Stati Uniti, celebrando l’eccellenza italiana in ambiti chiave come scienza, tecnologia e innovazione.
Il convegno ha affrontato temi di grande attualità e impatto globale, temi variegati tra cui l’Intelligenza Artificiale, la Green Economy, la transizione digitale, l’architettura e il design, la sostenibilità ambientale, i cambiamenti climatici, l’energia, le politiche per lo spazio. Con una agenda fitta ogni giorno di relatori, il festival ha permesso a docenti e specialisti di condividere la loro ricerca, conoscenze e prospettive future in questi settori strategici. Nel corso dei tre giorni, La Sen. La Marca è intervenuta varie volte sottolineando la preziosità di eventi come questo che mettono in risalto il meglio delle eccellenze italiane negli Stati Uniti e rafforzare la cooperazione scientifico-tecnologico con l’Italia.
“Sono davvero onorata di partecipare a un evento che mette in risalto l’ingegno e la creatività italiana in vari settori. Andiamo oltre gli stereotipi, dimostrando il valore del nostro contributo in ambiti strategici come l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, settori nei quali l’Italia è leader a livello globale e rappresenta un modello di eccellenza”, ha dichiarato.
Tra le personalità di rilievo presenti al Festival of Italian Creativity spiccavano il cosmonauta italiano Valter Villadei, una prestigiosa delegazione proveniente da La Sapienza di Roma, e vari delegati dal CERN, insieme a docenti universitari e specialisti di fama internazionale, i quali hanno offerto contributi significativi alle discussioni e ai progetti presentati, sottolineando il ruolo di primo piano dell’Italia in ambiti scientifici e tecnologici di rilevanza globale.
Il festival si è concluso venerdì con un magnifico gala che ha visto la partecipazione di oltre 700 persone. Durante la serata, sono state conferite importanti premiazioni per le eccellenze italiane negli Stati Uniti, nei settori dell’imprenditoria, del servizio al pubblico e nel campo dell’architettura, celebrando i successi e l’impatto positivo degli italiani all’estero.
“Mi impegnerò per rafforzare e consolidare i rapporti tra le realtà italiane e americane. La collaborazione transatlantica è una risorsa preziosa, e sono pronta a sostenere interventi normativi che favoriscano il dialogo e lo sviluppo delle comunità scientifiche, accademiche e professionali. Iniziative come questa sono fondamentali per costruire ponti tra i nostri Paesi e affrontare insieme le sfide globali,” ha concluso la Sen. La Marca.
Con la sua partecipazione al Festival of Italian Creativity, la Senatrice ha voluto ribadire il proprio impegno nel promuovere il talento e le eccellenze italiane nel mondo, sottolineando il valore della ricerca, dell’innovazione e del confronto internazionale come strumenti per costruire un futuro migliore.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

02 – Federico Giusti*: CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE SU GUERRA E IMPERIALISMO – LA PRIMA DOMANDA ALLA QUALE RISPONDERE OGNI QUAL VOLTA SI PARLA DI GUERRA E DI IMPERIALISMO DOVREBBE ESSERE DI NATURA PRATICA OSSIA LA VALUTAZIONE DELLE INIZIATIVE MESSE IN CAMPO PER CONTRASTARE I PROCESSI DI MILITARIZZAZIONE DELLE SCUOLE, DELL’UNIVERSITÀ, DEI TERRITORI, QUALI INIZIATIVE REALI ABBIAMO MESSO IN CAMPO PER DENUNCIARE LA NATURA IMPERIALISTA DELLA GUERRA E LE SUE RIPERCUSSIONI SULLE CONDIZIONI DI VITA DELLE CLASSI LAVORATRICI.

Nella nostra storia abbiamo sempre giudicato la guerra imperialista come una sconfitta per la classe operaia trasformata in carne da macello per rispondere agli interessi finanziari ed economici propri del capitalismo.
La differenza rispetto al passato è che oggi la guerra è arrivata direttamente nel vecchio continente, anzi era già arrivata nel 1999 con l’attacco alla ex Jugoslavia sostenuto dalla Nato anche con la complicità di parte dei comunisti che allora erano presenti nei governi di centro sinistra, in Italia e in altri paesi europei. E non ci sembra che negli ultimi 30 anni sia avvenuta una seria autocritica di quel nefasto operato adoperandosi direttamente, in casa nostra, per contrastare la guerra e l’imperialismo
Rispetto al 1999, o alle mobilitazioni di inizio secolo, la risposta dei movimenti contro la guerra è stata decisamente più debole, le principali organizzazioni sindacali e sociali si sono limitate a qualche passeggiata senza mai mettere in campo iniziative concrete, scioperi, proteste contro l’invio di armi, una costante opera di informazione sulle cause e sugli esiti del conflitto esterno anche sulla nostra società.
Prova ne sia la sottovalutazione dei processi di militarizzazione della scuola e dell’università avviati quasi 20 anni or sono e che oggi vedono militari presenti nelle scuole di ogni ordine e grado in varie vesti, educatori, insegnanti di ginnastica, alfieri del patriottismo e sostenitori di un revisionismo storico che esalta anche battaglie combattute dall’esercito italiano a fianco del nazi fascismo.
La retorica e l’ideologia della patria dovrebbe essere avversata con tutte le nostre forze ad esempio costruendo iniziative attorno al 4 Novembre o in occasione di festività come quella che ricorda le Foibe o per confutare, quando si parla di olocausto, la equiparazione dell’antisionismo con l’antisemitismo. Ma nulla, o ben poco, è stato fatto in questi anni.
Oggi constatiamo non solo la debolezza dei movimenti contro la guerra ma anche la tendenza tipicamente occidentale di impartire lezioni alle Resistenze dei popoli, l’adesione alla piazza del 12 ottobre è stato un grave errore politico schierandosi nei fatti dalla parte di quella ANP che ha assunto posizioni e pratiche compiacenti tanto con la Nato quanto con Israele e finendo con il rafforzare l’egemonia di Hamas.
Ma allo stesso tempo dovremmo anche chiederci la ragione per la quale su un tema rilevante come quello della Nato sia diffuso un silenzio assai preoccupante limitando la critica a qualche considerazione ideologica senza avere mai percepito l’importanza di costruire delle contro narrazioni, delle iniziative in occasione dell’anniversario della nascita di quella alleanza di guerra denominata Alleanza atlantica.
E ancora più sconcertante è stato il silenzio attorno ai piani di riarmo europei, ai libri bianchi sulla intelligenza artificiale che, impiegata in Palestina dall’esercito di Israele, è tra le cause dei cosiddetti effetti collaterali che hanno portato alla uccisione di oltre 50 mila civili.
La domanda, ancora oggi senza risposta, riguarda sia l’analisi dei processi di guerra, tra cui anche la economia di guerra che porta alla criminalizzazione e alla ferocia repressiva contro i nemici interni come dimostra il ddl 1660, lo spostamento di ingenti risorse dal sociale alla produzione di tecnologie duali trasformando la stessa ricerca in campo universitario nel banco di prova scientifico per la realizzazione di efferati e innovati sistemi di arma.
La retorica che accompagna il tema della pace è ormai insopportabile, non si analizzano le cause oggettive della guerra e dei processi di militarizzazione dei territori, non si coglie la natura del nuovo neo Keynesismo di guerra con cui il capitalismo occidentale cerca di superare la crisi di sovrapproduzione oltre a depredare i popoli di metalli rari e risorse energetiche delle quali il capitalismo occidentale ha forte bisogno. E perfino l’analisi del mondo multipolare si limita a narrazioni giornalistiche, magari pregevoli, senza mai porsi il quesito di come costruire una risposta nel corpo sociale.
Una iniziativa contro la guerra, contro i processi di involuzione democratica che ne deriveranno andando a restringere gli spazi di libertà e di agibilità collettiva nei paesi europei dovrebbe indurci a non perdere ulteriore tempo in disquisizioni che poi servono solo a occultare la nostra estraneità ai processi reali in corso.
La decisione di inviare a Kiev dei missili a lunga gittata capaci di colpire infrastrutture a 1000 km di distanza rappresenta una scelta destinata a rendere ancora più acuta la crisi internazionale assoggettando i paesi europei ai voleri del loro padrone statunitense. Ma la parte del capitale europeo ormai vincente spinge direttamente sulla guerra come dimostra il documento di Mario Draghi sulla produttività o le scellerate scelte belliche operate dal centro sinistra in Germania.
Dovremmo avere la forza, ma anche l’onestà intellettuale, di prendere atto della estraneità dei comunisti dai contesti territoriali dove sono nati movimenti e realtà contro i processi di militarizzazione, agire al loro interno per sviluppare consapevolezza che non ci si possa limitare alla lotta contro una nuova installazione militare senza prendere in esame il ruolo effettivo della Nato, la militarizzazione della società e la deriva autoritaria e securitaria in atto nei paesi occidentali. Qualunque discussione si voglia costruire sulla guerra non potrà eludere questi problemi e soprattutto evitare la classica domanda leninista: che dobbiamo fare per contrastare lo stato delle cose presenti?
*(Fonte: Sinistrainrete. Federico Giusti, delegato CUB nel settore pubblico)

 

03 – Ascanio Bernardeschi*: L’UNIONE EUROPEA A PROPULSIONE MILITARE – DI FRONTE AL POSSIBILE DISIMPEGNO DI TRUMP IN EUROPA, L’UNIONE EUROPEA STORNA VERSO LE SPESE DI GUERRA I FONDI DI COESIONE SOCIALE. SI TRATTA ANCHE DI UNA RISPOSTA IN TERMINI DI KEYNESISMO DI GUERRA ALLA GRAVE CRISI IN ATTO.

Trump ha promesso di provocare una pace rapida in Ucraina ma non è detto che possa o intenda mantenere la promessa. L’intento di Trump sembra piuttosto quello di sganciarsi e lasciare il cerino della guerra in mano ai Paesi europei. E l’Unione europea, da buon vassallo, si appronta a prenderne atto.
Per la verità, già prima delle presidenziali Usa era già sul tavolo la discussione sulle spese militari. Già Draghi, nel suo noto rapporto presentato qualche settimana fa a Bruxelles, aveva caldeggiato, col pretesto dell’innovazione tecnologica e della competitività, investimenti dell’ordine di 800 miliardi per sostenere le industrie tecnologiche, militari e dual use, avendo chiaro in anticipo che l’Europa avrebbe dovuto da sola pensare alla propria “difesa”, come se i Russi fossero prossimi a guadare il Danubio.
L’11 novembre, sul «Financial Times» è uscito l’articolo di Paola Tamma, Bruxelles libererà miliardi di euro per la difesa e la sicurezza dal bilancio dell’Ue. Nell’articolo si afferma l’intenzione di Bruxelles di “reindirizzare potenzialmente decine di miliardi di euro verso la difesa e la sicurezza”. Secondo il «Financial», si tratterebbe di stornare verso la difesa circa un terzo dei fondi di coesione dell’Unione europea, corrispondente a 392 miliardi, nel periodo 2021-27. Una buona parte di questi fondi, cioè soldi che miravano a ridurre la disuguaglianza economica tra i Paesi dell’Ue cambierebbe destinazione.
Sempre il giornale londinese riferisce che, allo stato attuale, detti fondi non possono essere utilizzati per la difesa ma sono consentiti investimenti dual use. Pertanto, prossimamente verrà comunicato agli Stati membri che potranno utilizzare i fondi con maggiore flessibilità del passato sia per “progetti di mobilità militare come il rinforzo di strade e ponti per consentire il passaggio sicuro dei carri armati”, che per aumentare la produzione di armi e munizioni, pur rimanendo il divieto formale di utilizzare i fondi Ue per acquistare armi. Non si cambieranno le norme, ma si renderà tutto ciò possibile tramite “un chiarimento ai Paesi dell’Ue su come possono essere utilizzati i fondi”.
Se i fondi di coesione modificheranno in parte la loro destinazione originaria le disuguaglianze fra Paesi membri, che già la sola presenza delle regole di Maastricht ha accresciuto, saranno destinate a esplodere. Così come la militarizzazione del territorio già interessato, quello italiano, da progetti di realizzazione o potenziamento di basi militari e di infrastrutture di collegamento per tali basi.
Il «Financial Times» afferma anche che questa modifica operativa sia solo “un preambolo a una maggiore attenzione alla difesa nel prossimo bilancio dell’Ue a partire dal 2028”. Intanto, il presidente finlandese Sauli Niinistö, in un rapporto alla Commissione dell’Unione, ha sostenuto la necessità di riservare il 20 percento del suo intero bilancio alla difesa e anche il presidente estone caldeggia che in tale bilancio si tenga conto del bisogno di potenziare la difesa al fine di fronteggiare la Russia.
Tutto questo in aggiunta all’aumento della spesa militare dei singoli Stati membri. La legge di bilancio italiana, per esempio, stanzia per tale scopo 32 miliardi di euro, segnando un aumento del 12,4% rispetto al 2024, pari a circa 3,5 miliardi in più. Questa cifra rappresenta un record storico per il Paese, quando già nel 2024 l’incremento era stato del 5,5% e negli ultimi 5 anni l’aumento delle spese per nuovi armamenti è stato del 77%.

PER LE SCUOLE, LA SANITÀ, LE PENSIONI SI TAGLIANO I FONDI ED È PROIBITO INDEBITARSI, PER LA GUERRA TUTTO È LECITO.

Intanto, l’economia langue. La Germania, da “locomotiva” europea è passata a una profonda recessione. Anche il sistema industriale del nostro Paese, in gran parte dipendente dalle commesse di quello tedesco, comincia a mostrare le prime sofferenze. Laura Dalla Vecchia, presidente degli industriali di Vicenza, in un’intervista al «Corriere del Veneto», lamenta che gli ordini sono in calo, gli investimenti sono fermi e l’occupazione è al palo. “Se parliamo di una media tra tutti i vari comparti della manifattura, afferma Dalla Vecchia, il calo oscilla tra il 10 e il 15%”. Ma alcune aziende hanno dimezzato il fatturato è per quanto riguarda la Cassa integrazione già “a ottobre l’ammontare era pari all’intera Cig erogata nel 2023. Se sommiamo i primi accessi alle richieste di proroga, siamo a un incremento nell’ordine del 40%”.
Le sanzioni alla Russia e i dazi alla Cina non fanno che peggiorare la situazione. Evidentemente, i grandi gruppi capitalisti hanno deciso di salvaguardare i loro profitti attraverso il keynesismo di guerra. Fa crescere, al pari della spesa per il welfare, la domanda ma non dà maggiori poteri e benessere ai lavoratori, che così debbono tenere a freno le loro rivendicazioni. In più, il clima di guerra favorisce il disciplinamento sociale. E cos’altro sono il decreto sicurezza del nostro governo e la criminalizzazione un po’ in tutta Europa delle manifestazioni per la pace in Ucraina e in Medio Oriente?
Specie dopo l’avanzare minacciose delle destre estreme in grandissima parte dell’Europa, il riscatto delle classi lavoratrici non può che passare per l’abbandono di quel mostro che è l’Unione europea, costruito appositamente e scientificamente per sopraffarle e accrescere il loro sfruttamento.

*(Fonte: Sinistrainrete – Ascanio Bernardeschi – appassionato di politica, scienze sociali, storia.)
Riferimenti:
Paola Tamma, Brussels to free up billions of euros for defence and security from EU budget, «Financial Times», https://www.ft.com/content/eb0de7f4-5ba1-460a-a83d-1a7302fc1536
Alessandro Zunin, Lavoro e aziende in crisi, Confindustria: “Avevamo predetto il declino ma nessuno ci ha ascoltati. Basta raccontarci favole”, «Corriere del Veneto», https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/vicenza/economia/24_novembre_13/lavoro-e-aziende-in-crisi-confindustria-avevamo-predetto-il-declino-ma-nessuno-ci-ha-ascoltati-basta-raccontarci-favole-61ed61ba-5131-4307-ac61-6f971c6b3xlk.shtml

 

04 – Dino Villatico*: «SIMON BOCCANERA», LE LOTTE DEL POTERE E IL DISINCANTO DEL CONTEMPORANEO, MUSICA L’OPERA DI ROMA INAUGURA LA STAGIONE CON VERDI. NELLA DIREZIONE DI RICHARD JONES, UNA LETTURA CHE ALLUDE AL POSTFASCISMO E AL NOSTRO PRESENTE.

ROMA
Sulla scena un feretro nero sui cui giace Maria, la figlia del nobile genovese Jacopo Fiesco, amata da Simon Boccanegra. Diventerà il letto da cui si alza sua figlia, anche lei chiamata Maria, poi il letto in cui muore, avvelenato, Simone, padre della bambina, creduta dispersa. La scenografia di Antony Mcdonald fa pensare ai quadri metafisici di De Chirico, una città geometrica più luogo della mente che borgo abitabile; ma gli interni ricordano piuttosto Bansky. In comune la pulizia dell’immagine, la sterilizzazione dei sentimenti.
I personaggi vestono abiti moderni, tranne nella scena del Consiglio, che ad apertura di sipario ricorda la Ronda di notte di Rembrant, il soggolo arrotolato, i berretti calati sulla fronte, un’epoca di violenze inenarrabili. La permanenza del potere si fa visibile nel mantello dogale, negli abiti seicenteschi. Richard Jones, di cui si era vista recentemente (nel 2022) al Teatro dell’Opera di Roma una splendida messa in scena della Kat’a Kabanová di Janácek, colloca l’azione del Simon Boccanegra di Verdi in una inquieta contemporaneità allusivamente postfascista, dominata dalla tristezza di una guerra perduta.
L’ALLUSIONE resta nelle intenzioni dichiarate dallo stesso regista britannico nel programma di sala, ma di fatto il pubblico assiste a una spietata lotta di potere nello spazio di una città immaginaria che potrebbe essere qualunque al mondo, non solo Genova. Accade ancora, lo state vivendo.
L’oro guida la battaglia politica e per fare carriera o per ottenere vantaggi è facile cambiare casacca. Un intreccio inestricabile di passioni private e intrigo politico già intessono la trama del dramma di García Gutiérrez da cui Piave, e poi Boito per la riscrittura del 1881, trassero il libretto; ma Verdi colora intrighi e passioni di un «tinta» musicale particolarmente cupa, disperata. Forse la sua opera più pessimistica. Il disincanto, anzi la disillusione, per come alla fine si era realizzata l’unità nazionale, che colse molti intellettuali del tempo, da Manzoni a De Roberto a Verga, trova qui una forma teatrale quasi esemplare.

Michele Mariotti coglie molto bene questo tono sommesso, intimo, di distacco dalla vita, di perdita delle speranze, una malinconia che intride la melodia, l’affonda. Il timido slancio ascensionale dell’inizio si conclude nell’inabissarsi dell’orchestra, alla fine, verso il silenzio: il più piccolo intervallo del sistema tonale chiude come una cadenza mortale tutta la partitura, per risolversi in un accordo pacificato, che registra il silenzio della morte.
Gli interpreti sulla scena sono tutti, protagonisti e comprimari, all’altezza di questa intensa rappresentazione del dolore, che non è solo dolore di perdite – padri che perdono le figlie, figlie che perdono il padre, fallimenti, discordie, un popolo che perde il senso della vita comunitaria, ma già quasi montalianamente, più che dolore, un vero e proprio male di vivere. L’unica presenza femminile – la figlia perduta e ritrovata, che a sua volta perderà il padre, Amelia – è interpretata da una molto intensa Eleonora Buratto, che affida alla impeccabilità del suo canto l’emozione che rifiuta il grido, l’esibizione. Luca Salsi è suo padre, Simon Boccanegra, carattere complesso, introverso, disadattato alla vita, restìo al compromesso, e dunque perennemente sconfitto. Di fronte a lui, il nobile Fiesco, interpretato da Michele Pertusi, che al rancore di casta unisce la sofferenza di un padre privato della figlia, altro sconfitto tra gli sconfitti.
ANCHE Paolo Albiani, cortigiano favorito nonché intrigante e traditore, è ben reso da Gevorg Hakobyan. L’unico vincitore sembrerebbe il Gabriele Adorno di Stefan Pop, che sposa la donna amata e diventa doge: giovane impulsivo e poco intelligente, della realtà che lo circonda non capisce niente, né della vita che gli è toccata in sorte
*(Dino Villatico – saggista, ha scritto racconti, testi teatrali, romanzi ed è stato docente di storia della musica nei conservatori: dapprima ad Avellino, poi a Firenze, infine a Venezia.)

 

05 – Fabi Anna*: LAVORATORI ALL’ESTERO: WEEKEND A CASA AGEVOLATO – Weekend in Italia fuori dal computo del periodo in Patria ai fini delle agevolazioni fiscali per i lavoratori italiani all’estero: novità in Manovra 2025.

La Legge di Bilancio 2025 introduce un’interpretazione più favorevole delle normative fiscali applicate ai lavoratori che prestano attività all’estero, chiarendo un importante dettaglio riguardante le agevolazioni fiscali e contributive a loro riservate.
Secondo la nuova prassi, i lavoratori che svolgono la loro attività fuori dai confini nazionali, ma che trascorrono il weekend in Italia, possono comunque beneficiare delle agevolazioni fiscali previste per coloro che operano all’estero.
La misura offre maggiore equità fiscale e stimola la mobilità internazionale dei lavoratori, un aspetto sempre più rilevante nel contesto economico globale.

INDICE
Tasse e agevolazioni per lavoratori all’estero – esenzione d’imposta sui periodi di soggiorno in Italia- cosa cambia per dipendenti e datori di lavoro

TASSE E AGEVOLAZIONI PER LAVORATORI ALL’ESTERO
Residenza fiscale: basta la presenza in Italia (4 novembre 2024) – Le agevolazioni fiscali per i lavoratori che prestano attività all’estero sono oggi regolamentate dalla normativa italiana in materia di esenzione dalle imposte sul reddito (Tuir) e riguardano coloro che si trovano all’estero per un periodo continuativo di tempo, solitamente superiore a 183 giorni all’anno.
I benefici fiscali (Articolo 51, comma 8-bis del Tuir) sono destinati a favorire l’internazionalizzazione del lavoro italiano e a stimolare la mobilità internazionale, con l’obiettivo di attrarre talenti e favorire l’occupazione in ambito globale.
In particolare, dipendenti e autonomi che prestano attività lavorativa all’estero possono essere esentati da alcune imposte sul reddito, tra cui quelle sul reddito da lavoro, se rispettano determinati requisiti, come la durata della permanenza fuori dall’Italia e la tipologia di contratto di lavoro.

ESENZIONE D’IMPOSTA SUI PERIODI DI SOGGIORNO IN ITALIA
Guida fiscale per italiani che lavorano all’estero: come evitare la doppia imposizione19 maggio 2024Una delle principali novità riguarda la possibilità di continuare a beneficiare delle agevolazioni fiscali anche nel caso in cui il lavoratore trascorra il weekend in Italia.
In base alla nuova interpretazione, infatti, il periodo di soggiorno in Italia non influisce negativamente sul diritto alle agevolazioni fiscali, a condizione che il lavoratore rispetti i requisiti temporali complessivi di soggiorno all’estero, come il limite minimo di giorni lavorativi all’estero (almeno 183 giorni) e la continuità del lavoro svolto fuori dai confini nazionali.
Secondo le nuove disposizioni, i weekend in Italia non vengono più conteggiati ai fini della determinazione del periodo di residenza fiscale. Pertanto, i lavoratori che sono impiegati all’estero durante la settimana e ritornano in Italia solo nel weekend, continuano ad essere considerati lavoratori esteri per l’intero periodo lavorativo e possono godere delle stesse agevolazioni fiscali riservate a chi lavora stabilmente fuori dal paese.

COSA CAMBIA PER DIPENDENTI E DATORI DI LAVORO
Questa nuova interpretazione delle normative fiscali per italiani all’estero offre vantaggi sia ai lavoratori che alle imprese presso cui sono impiegati.
I datori di lavoro che inviano i propri dipendenti all’estero, anche se per periodi brevi, possono infatti beneficiare di una maggiore flessibilità nella gestione del personale e delle risorse umane, senza temere che un ritorno settimanale in Italia possa compromettere le agevolazioni fiscali previste. Allo stesso tempo, per i lavoratori scatta la possibilità di avere una certa libertà nei movimenti senza perdere i vantaggi fiscali, aspetto che si traduce in un incentivo importante ai fini della mobilità internazionale.
In un mondo in cui le professioni sono sempre più globalizzate, la possibilità di tornare a casa senza perdere tutele fiscali è un importante incentivo per chi opera fuori dai confini nazionali.
*(Fonte: PMI.it, Anna Fabi, giornalista)

 

06 – ALFIERO GRANDI*: AUTONOMIA DIFFERENZIATA, LA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE NON È UN OSTACOLO AL REFERENDUM

LA CORTE COSTITUZIONALE CHIARISCE NEL COMUNICATO – CHE PRECEDE IL DEPOSITO DELLA SENTENZA SULLA LEGGE SULL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA – CHE NON RITIENE QUESTA LEGGE (86/24 CALDEROLI) DEL TUTTO INCOMPATIBILE CON LA COSTITUZIONE MA NE SANZIONA PESANTEMENTE 7 PUNTI GIUDICATI INCOSTITUZIONALI E RICORDA DEI PRINCIPI FONDAMENTALI A CUI LE CORREZIONI E L’ATTUAZIONE DELLA LEGGE DOVRANNO UNIFORMARSI, AD ESEMPIO IL RUOLO DEL PARLAMENTO CHE POTRÀ CAMBIARE IL MERITO DI EVENTUALI INTESE GOVERNO/REGIONI.

Le censure della Corte sono pesanti, aprono vuoti importanti nella legge voluta dal governo, ma targata Lega, e approvata senza ascoltare critiche e osservazioni. Al punto – va ricordato – che il testo uscito dal Senato è stato confermato dalla Camera senza cambiare una virgola, un’imposizione che colpisce seriamente il ruolo del parlamento.
Quindi la legge è monca ma tuttora in vita, anche se sostanzialmente inapplicabile senza le modifiche che la Corte ha chiesto. Calderoli e la maggioranza hanno scelto di sminuire (inutilmente) la gravità delle censure della Corte, vantando una sostanziale approvazione e così confermando che la legge vive.

PERCHÉ MAI DALLA SENTENZA DOVREBBE CONSEGUIRE L’IMPOSSIBILITÀ DI EFFETTUARE IL REFERENDUM INTERAMENTE ABROGATIVO?

I RICORSI DELLE REGIONI
La Corte deve giudicare sulla base dei ricorsi di 4 regioni (ben argomentati) sull’incostituzionalità della legge 86/24 e lo ha fatto eliminando 7 punti chiaramente incostituzionali e aggiungendo che si riserva di giudicare sulla base dei principi fondamentali della Costituzione le modifiche alla l. 86/24 che verranno approvate dal parlamento e gli atti che ne conseguiranno, ad esempio sui Livelli essenziali di prestazione.
Questo conferma che la legge in sé continua a vivere, seppure fortemente colpita dalle censure della Corte, quindi resta impregiudicata la possibilità di sottoporla al giudizio di elettrici ed elettori.
Potrebbero esserci nuove ragioni per respingere la richiesta di referendum interamente abrogativo? Non si vede quali e comunque sarebbero le stesse che c’erano prima della sentenza perché il quesito abrogativo riguarda le scelte politiche e istituzionali contenute nella legge non la sua costituzionalità, che era l’oggetto dei ricorsi delle 4 regioni alla Corte.
Qualche esempio: il rischio concreto che la legge Calderoli provochi una frattura dell’unità nazionale, affidando ad alcune regioni funzioni che aprirebbero una fase di competitività/concorrenza tra le regioni che provocherebbe rincorse ed esclusioni sulla base della maggiore o minore capacità economica e di governo. Per di più ci sarebbero conseguenze, ne ha parlato anche il Presidente della Calabria Occhiuto, nei rapporti europei e internazionali, con conseguenti divaricazioni sociali, economiche, anche tra le imprese.
Altro aspetto grave è la contraddizione tra il vincolo previsto dalla legge 86/24 di non produrre maggiori oneri per la finanza pubblica e la possibilità per le regioni che ottenessero maggiori funzioni di avere contestualmente maggiori risorse. Non a caso la Corte ha sanzionato il pericolo che le regioni che ottenessero più risorse per le funzioni trasferite possano essere anche quelle meno in grado di garantire le funzioni attribuite, con la conseguenza che per garantire i diritti dei cittadini dovrebbe intervenire lo stato, in altre parole con oneri caricati sulle altre regioni. Quando Viesti ha sintetizzato la legge Calderoli come la “secessione dei ricchi” qualcuno ha storto il naso, eppure ora la Corte gli ha dato ragione, anche se con motivazione rovesciata.

IL REFERENDUM ABROGATIVO
Il referendum limitato ai Lep proposto dalle regioni potrebbe avere problemi di ammissibilità, giudicherà la Cassazione visto che la Corte costituzionale ha censurato pesantemente le norme sui Lep. Vedremo. Mentre il referendum interamente abrogativo della legge Calderoli, su cui si è formato un largo e unitario comitato promotore, non corre questo rischio. Certamente non ha oggi più rischi di quelli che aveva prima della sentenza.
Forte di 1.291.000 firme, superando il quorum richiesto per la presentazione sia nel telematico che nel cartaceo, il quesito del referendum interamente abrogativo (volete voi abrogare la legge 86/24…) punta a cancellare tutta la legge Calderoli, che è una bandiera della Lega, sopportata dal resto della destra solo perché parte del patto di potere che regge il governo.

QUALCUNO/A HA SBAGLIATO A SOTTOVALUTARE LA PRETESA DELLA LEGA E ORA FORSE SPERA CHE ALTRI RISOLVANO IL PROBLEMA.
Il prof Silvestri (emerito della Corte) nell’iniziativa dei costituzionalisti alla Sapienza il 14 novembre ha riassunto bene la risposta a quanti sperano che il quesito interamente abrogativo non passi il vaglio della Corte. Infatti non c’è ragione per bocciare il referendum abrogativo per il collegamento con la legge di bilancio, che è del tutto posticcio, strumentale e furbesco come afferma la legge stessa (in più punti) quando afferma che non ci saranno aumenti di spesa pubblica, quindi è una finzione.
Non è una legge obbligata per attuare la Costituzione, tanto è vero che negli ultimi giorni del governo Gentiloni furono firmati protocolli di accordo con 3 regioni, 2 sono tra quelle che strillano oggi. È una legge non necessaria per attuare la Costituzione, naturalmente nei limiti e nelle forme indicate dalla sentenza della Corte costituzionale.
Per di più il referendum chiede di abrogare tutta la legge, quindi non manomette il testo, ma chiede agli elettori di abrogarlo come scelta politica perché è sbagliato e pericoloso per l’Italia. Questo consentirebbe di ripartire da capo. Tutto sommato questo risultato converrebbe anche agli imprudenti del governo attuale che hanno appaltato a Calderoli la conduzione della partita. L’abrogazione converrebbe perfino a quella parte della destra che faticherà non poco a chiedere ad elettrici ed elettori di andare al mare nel momento del voto, quando sarà in gioco il futuro dell’Italia.

TERAPIA ANTI-ASTENSIONISTA
L’interrogativo riguarda semmai il raggiungimento della maggioranza degli elettori nel referendum, quindi come arrivare ad almeno 25 milioni di votanti. Sarebbe anche una buona terapia anti astensionista.
È vero cresce il non voto, i segnali sono tanti e preoccupanti. Tuttavia la novità è che la richiesta del referendum abrogativo è fortemente sostenuta dalla società (organizzazioni, e persone) ed è una battaglia che può ridare slancio alla partecipazione democratica nel momento in cui la politica fa fatica ad attrarre. Anche nei referendum del 2011 c’erano dubbi e timori sul raggiungimento del quorum, ma è andata bene. Aggiungo per gli smemorati che Di Pietro insistette per riproporre l’abrogazione della legge sul legittimo impedimento, in gran parte risolto dalla Corte, ed ebbe ragione e così il voto cancellò del tutto il legittimo impedimento dalla legislazione italiana.
Meglio iniziare la campagna referendaria, senza farsi distrarre dai contorsionismi di Calderoli e compagnia e chiedere a chi ha firmato la richiesta, alle energie personali e sociali disponibili di impegnarsi a fare conoscere le ragioni che portano a chiedere l’abrogazione di tutta la legge, costituendo i comitati referendari, meglio se partendo da seminari aperti per approfondire le ragioni che spingono ad insistere con il referendum interamente abrogativo della legge Calderoli 86/24.
*(Alfiero Grandi, politico e sindacalista italiano. Deputato della Repubblica Italiana. Durata mandato, 2001-2006)

 

07 – Mario Ricciardi*: LA VISIONE DEL MONDO CHE MANCA ALLA SINISTRA – DOPO TRUMP LE SINISTRE OCCIDENTALI, CHE STANNO PERDENDO IL PROPRIO RADICAMENTO OPERAIO GIÀ DAGLI ANNI SETTANTA (COME AVEVA LUCIDAMENTE RICONOSCIUTO ERIC HOBSBAWM) SI TUFFANO SULLE NUOVE OPPORTUNITÀ ECONOMICHE CHE SI STANNO APRENDO, ASSECONDANDO IL PROCESSO IN CORSO, E FACENDOSENE IN CERTI CASI GARANTE

QUALI LEZIONI DOVREMMO TRARRE DALLA VITTORIA DI DONALD TRUMP?
Secondo alcuni, i Democratici sono stati sconfitti perché hanno progressivamente perso il carattere di partito della working class.
Per diventare la forza di riferimento dei ceti professionali, delle persone più istruite, e tendenzialmente benestanti. Altri hanno posto l’accento, invece, sulla frattura tra certe aree del paese – prevalentemente urbane e tendenzialmente più sviluppate – e quelle che invece non riescono e riprendersi dallo shock delle delocalizzazioni. Le prime vedono i Democratici meno in difficoltà, le seconde spesso favoriscono Trump. Tutte le spiegazioni devono tener conto dell’appartenenza, ma con sfumature diverse, che possono essere legate al «ruolo nel processo di produzione» (per riprendere un’espressione marxista ancora utile) oppure a elementi di carattere identitario (nazione, gruppo etnico, religione). Qui la faccenda si complica ulteriormente, perché il carattere di terra di emigrazione degli Stati uniti rende il tema dell’identità ineludibile ma sfuggente.
Non c’è dubbio che la prima ipotesi cui abbiamo accennato appare confermata dai dati elettorali, e in qualche misura si armonizza con una tendenza che si sta manifestando in tutti i paesi nei quali il partito principale della sinistra (sia esso di tradizione socialista o meno) si è collocato, dopo la «rivoluzione recuperante» del 1989, al centro. A partire dagli anni Novanta, la restaurazione della democrazia nei paesi dell’ex blocco sovietico si rivela come il momento decisivo per l’instaurazione di un diverso modo di concepire i rapporti tra economia e politica, che esalta gli effetti benefici del mercato e svilisce quelli dell’intervento pubblico.

Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante. Sono gli anni di Clinton, di Blair, e dei loro epigoni continentali. Sono loro a portare alle estreme conseguenze l’idea che i vecchi partiti socialisti o liberal progressisti dovessero diventare i partiti dello sviluppo economico, puntando sulla scommessa che una volta ampliata la torta sarebbero aumentate le porzioni per ciascuno. In realtà le cose vanno in modo diverso dal previsto. Mano a mano che accettano le premesse e gli obiettivi della nuova visione «neoliberale» della politica, questi partiti vengono di fatto «catturati» da una nuova classe dirigente, fatta non più di militanti con un solido radicamento nel movimento operaio e nelle battaglie antifasciste della prima metà del Novecento, ma di consulenti ètecnici» di varia estrazione, che non hanno alcun interesse a distribuire in modo più equo la torta. Chi è più «meritevole», ha diritto a tagliare la fetta che gli spetta prima degli altri, e pazienza se poi non rimane molto da spartire.
Nel nuovo secolo i nodi vengono al pettine. La promozione di politiche di austerità dopo la crisi del 2008 colloca i partiti della nuova sinistra neoliberale in una pozione insostenibile, non solo rispetto a quel che rimaneva – dopo le delocalizzazioni – della classe operaia intesa in senso stretto, ma anche rispetto all’area, dai confini meno netti, dei diversi tipi di lavoratori subordinati. Le politiche di flessibilità del lavoro, difese da queste forza politiche, a partire dagli anni Novanta, come un’opportunità per i lavoratori, si sono rivelate in molti casi una trappola fatta di precarietà, redditi bassi, e subordinazione al debito.
Quindi, in un certo senso, è vero che la sinistra dovrebbe darsi da fare per recuperare il voto della working class intesa in senso ampio, non solo gli operai, ma anche la vasta platea di chi lavora in posizione subordinata (di diritto o di fatto). Si tratta, tuttavia, di una verità parziale. Uno degli effetti più profondi, e più difficili da invertire, della rivoluzione neoliberale, è infatti un mutamento sul piano della visione dell’essere umano, e del suo ruolo nella società.
Ciò che gli attivisti della sinistra più critica nei confronti del neoliberalismo chiamano working class è un’astrazione priva di concretezza, perché le classificazioni sociali che guardano al ruolo nel processo di produzione, o al livello di reddito, non sono allineate con quelle identitarie. In una società dove la solidarietà di classe si è affievolita fino a scomparire, ciascuno solidarizza, nella misura in cui ne sente il bisogno, soltanto con i suoi, con quelli del proprio gruppo. Tutti gli altri sono concorrenti, potenzialmente nemici in una società che sta diventando a «somma zero».
Recuperare il voto della working class in queste condizioni potrebbe rivelarsi impossibile, se non si mette in campo uno straordinario impegno sul piano della «visione del mondo», per erodere le basi su cui ancora si sostiene l’egemonia neoliberale. La sinistra dovrebbe, in questo, seguire la lezione di Stuart Hall. L’intellettuale caraibico che negli anni Settanta indicò alla sinistra britannica sconfitta da Margaret Thatcher la strada di una rilettura del Gramsci studioso dell’egemonia come premessa per comprendere i fattori ideologici del nuovo liberalismo emergente.
*(Mario Ricciardi. Insegna Filosofia del diritto nell’Università Statale di Milano e Legal Methodology nella Luiss Guido Carli)

 

08 – Claudia Fanti*: POVERTÀ, CLIMA E GOVERNANCE GLOBALE: TRE SPINE PER IL G20 – RIO DE JANEIRO LULA: «IL MONDO STA PEGGIO». E ALLORA VIA ALL’ALLEANZA PER SRADICARE LA FAME ENTRO IL 2030. AL SUMMIT BRASILIANO ANCHE LA PROPOSTA DI UNA TASSA DEL 2% SUI PATRIMONI DEI CIRCA 3MILA MILIARDARI GLOBALI PER RIDURRE LE DISUGUAGLIANZE. UN IMPEGNO «NON PIÙ RINVIABILE» SECONDO OXFAM

Dall’emergenza climatica alle guerre, fino alle crescenti disuguaglianze sociali, «il mondo sta peggio», ha dichiarato Lula aprendo ieri il 19mo vertice del G20, con cui oggi si concluderà la presidenza di turno del Brasile (poi toccherà al Sudafrica).
Eppure è un vertice con grandi ambizioni quello che riunisce a Rio de Janeiro i leader del Nord e del Sud globale, del G7 e dei Brics – che insieme rappresentano l’85% del Pil mondiale e l’80% delle emissioni climalteranti -, chiamati a confrontarsi sulle tre priorità indicate dal governo brasiliano: lotta alla povertà, transizione energetica e sviluppo sostenibile, riforma delle istituzioni di governance globale.
TRE TEMI FORTI su cui si sono concentrati anche i lavori del G20 Social che, dal 14 al 16 novembre, ha «finalmente portato la voce del popolo all’interno del G20, secondo il principio che una politica pubblica efficiente non è possibile senza partecipazione sociale», come ha evidenziato il consigliere della segreteria generale della presidenza Gustavo Westmann.

C’è però anche un’altra proposta a cui Lula tiene particolarmente: quella di una tassazione del 2% sui patrimoni dei circa 3mila miliardari globali, la quale garantirebbe un gettito annuale di 250 miliardi di dollari da impiegare proprio a favore della lotta contro cambiamento climatico e disuguaglianze. Un impegno «non più rinviabile» secondo Oxfam, che, proprio in occasione dell’apertura del vertice, ha rivolto un appello per un piano d’azione coordinato, evidenziando non solo come l’1% più ricco nei paesi del G20 detenga il 31% della ricchezza complessiva, contro appena il 5% della metà più povera, ma anche come la ricchezza di quell’1% sia cresciuta del 150% in termini reali negli ultimi due decenni. Tuttavia, se l’impegno assunto finora dai paesi del G20, nella dichiarazione del luglio scorso, è stato quello di cooperare «per garantire che gli individui con un patrimonio netto molto elevato siano effettivamente tassati», è difficile prevedere che si farà un passo ulteriore in questa direzione.
È stata invece lanciata ufficialmente l’Alleanza globale contro la fame e la povertà – con sede presso la Fao a Roma – che avrà come missione quella di sradicare la fame entro il 2030, ridurre le disuguaglianze e cooperare a livello globale a favore di uno sviluppo sostenibile.

A FARNE PARTE, DOPO LA FIRMA di una Dichiarazione di impegno con tanto di definizione di obiettivi concreti, sono già 147 membri fondatori, tra cui 81 paesi (c’è anche l’Italia), insieme all’Unione europea e all’Unione africana, 24 organizzazioni internazionali, 9 istituzioni finanziarie e 31 ong ed entità filantropiche.

Fortemente voluta da Lula, l’Alleanza «è ora pronta a costruire un futuro libero dalla fame e dalla povertà estrema», ha dichiarato il ministro dello Sviluppo sociale Wellington Dias, evidenziando come si tratti non dell’ennesimo forum di discussione, ma di «un meccanismo pratico» rivolto a fornire appoggio tecnico e finanziario per l’elaborazione e l’applicazione di politiche pubbliche, «raggiungendo coloro che ne hanno più bisogno».
Ma se il Brasile si è impegnato a coprire metà delle spese di manutenzione della nuova Alleanza globale, resta da vedere – e sono in molti a esprimere scetticismo al riguardo – quante risorse saranno effettivamente destinate all’iniziativa dai paesi industrializzati, ben più interessati al momento a investire sulle politiche di sicurezza.

NEPPURE È MANCATO l’impegno del Brasile, che ospiterà a novembre del 2025 la Cop30, a creare sinergie tra i due eventi, attraverso la creazione di una task force per la mobilitazione globale contro il cambiamento climatico finalizzata a promuovere investimenti nella transizione verde. Nulla indica però che, su questo terreno, i risultati del G20 possano superare le enormi difficoltà finora incontrate dalla Cop29 a Baku. Senza contare che le contraddizioni ambientali del governo Lula – a cominciare dall’insistenza sulla necessità di sfruttare il petrolio a Foz do Amazonas – hanno inevitabilmente sottratto credibilità al tentativo del Brasile di porsi all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico.
*(Claudia Fanti: Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate.)

 

09 – Federico Nastasi*: L’URUGUAY TORNA A SINISTRA SULLA SCIA DI PEPE MUJICA – IN CONTROTENDENZA BALLOTTAGGIO PRESIDENZIALE AL PRAGMATICO YAMANDÚ ORSI, CANDIDATO DEL FRENTE AMPLIO E SIMBOLO DI UNA NUOVA LEADERSHIP LATINOAMERICANA

YAMANDÚ ORSI, candidato della coalizione di sinistra del Frente Amplio, ha vinto il ballottaggio di domenica 24 novembre ed è stato eletto presidente dell’Uruguay. Orsi ha ottenuto il 49,8%, 1.196.798 voti, superando il candidato del centrodestra Álvaro Delgado, che ha raggiunto il 45,9%, 1.101.296 voti. Il voto è obbligatorio e la partecipazione è stata, come di consueto, molto alta: l’89,4%.
DELGADO, delfino dell’attuale presidente Luis Lacalle Pou, sostenuto dalla coalizione repubblicana di partiti di centrodestra e destra, ha ottenuto 445 mila voi in più rispetto al primo turno, svoltosi lo scorso 27 ottobre, ma non è riuscito a colmare la distanza con Orsi, il quale ha aumentato il suo consenso di 120 mila voti.

ORSI È STATO GOVERNATORE del dipartimento di Canelones, 500 mila abitanti, un Uruguay in miniatura, con fabbriche, agricoltura e allevamenti. Politicamente viene dal Movimiento de Participación Popular, dell’ex presidente Pepe Mujica, ed è considerato un pragmatico, un negoziatore. Figlio di un lavoratore agricolo e una sarta, ha un cognome italiano e un nome charrúa, la cultura indigena preispanica dell’odierno Uruguay; è stato insegnante di storia nelle scuole del suo dipartimento e nell’interno del paese: è il primo Presidente a non essere nato nella capitale.
Con questa biografia è riuscito a convincere la maggioranza dei suoi concittadini, ma non a colmare la frattura tra capitale e zone interne. Montevideo e i suoi dipartimenti confinanti hanno scelto in maggiorana Orsi, mentre nell’interno del paese – zone agricole e scarsamente popolate – ha vinto Delgado.

DAL PROSSIMO 1° MARZO 2025, giorno dell’insediamento, il nuovo presidente dovrà far fronte alla crescente insicurezza nel paese – dovuta soprattutto all’ascesa del narcotraffico – e rilanciare un’economia stagnante, dove a crescere non è il Pil (appena l’1% l’anno scorso), ma i prezzi, la disuguaglianza e la povertà.
Per il suo mandato quinquennale, Orsi potrà contare sulla maggioranza assoluta al Senato, ottenuta al primo turno, mentre invece alla Camera avrà bisogno di due deputati per raggiungere la soglia di tranquillità. Ma dalle parti del Frente Amplio si dicono fiduciosi nelle doti di negoziatore di Orsi. Il quale ha promesso «la rivoluzione delle cose semplici», niente sterzate improvvise per un paese abituato alla stabilità e all’alternanza, in un’America Latina scossa da frequenti terremoti politici ed economici.
Orsi ha assicurato che governerà per tutti, non solo per chi lo ha votato, mentre i leader della coalizione sconfitta hanno subito riconosciuto la sconfitta. Echi di una politesse democratica sempre più fuori moda, l’Uruguay è un’eccezione in una regione dove la battaglia politica è sempre più violenta. Le versioni uruguayane alla Milei e Bolsonaro, come il candidato del Partido Colorado o quello di Cabildo Abierto, non hanno ottenuto grandi consensi e sono rimaste escluse dal ballottaggio.

Domenica sera, la Rambla di Montevideo che costeggia il Rio de la Plata, nel tratto dov’era stato allestito il palco del Frente Amplio, era stracolma di gente.
«FAMIGLIE CON BAMBINI, coppie di giovani, una festa di popolo, con caroselli di auto fino alle due di mattina. Cose alle quali non siamo più abituatati in Italia» commenta al manifesto Fabio Porta, deputato del Pd eletto in America del Sud, recatosi a Montevideo con una delegazione internazionale progressista. «I primi governi del Frente Amplio – 2005-2020 – rientravano nel ciclo progressista che governava l’America Latina. Oggi, con Trump e Milei, e la sinistra in difficolta in Cile e Brasile, la vittoria del Frente Amplio è in controtendenza. In Uruguay poi – aggiunge Porta – assistiamo anche alla nascita di una nuova leadership, al rinnovamento dei vertici, cosa che non avviene né nella sinistra brasiliana né in quella argentina. Per questo, con la vittoria di domenica, l’Uruguay si afferma come una frontiera per la sinistra latinoamericana».
*(Federico Nastasi – viaggiatore, ricercatore e giornalista indipendente. È stato consulente presso la Commissione economica per l’America Latina)

 

10 – Kaspar Hauser*: AUTONOMIA, LA CORTE SMONTA LO «SPACCA ITALIA» DI CALDEROLI
LA DECISIONE CENSURATI I DUE PILASTRI DELLA LEGGE: LA CESSIONE ALLE REGIONI DI TUTTE LE MATERIE PREVISTE NEL TITOLO V, L’ESCLUSIONE DEL PARLAMENTO SUI LEP.

La devoluzione, in particolare, deve riguardare «specifiche funzioni» e deve anche essere giustificata. La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso da altre regioni
La legge Calderoli sull’autonomia differenziata è incostituzionale nei suoi due cardini: la devolvibilità alle regioni di tutte le materie previste dal Titolo V della Carta, nonché le modalità di determinazione dei Lep che escludono il Parlamento dalle decisioni in materia. In più altre norme vanno «interpretate» e attuate in una direzione diversa da quella su cui si stava muovendo il governo. Lo ha detto la Corte costituzionale in un lungo e articolato comunicato in cui ha annunciato le proprie decisioni, che saranno motivate sul piano giuridico nella sentenza che verrà pubblicata ai primi di dicembre.

Una sentenza che «smonta» la contestata legge targata Lega e apre scenari politici ancora da decriptare. Questioni inedite si aprono anche per la Cassazione, chiamata a decidere se vi siano ancora gli estremi per celebrare il referendum abrogativo della legge e, se sì, come riformulare il quesito.
IL COMUNICATO, diffuso ieri nel tardo pomeriggio, spiega che la Consulta «ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata», cosa che permette al governo di salvare la faccia. Tuttavia la Corte, dopo un preambolo sui principi solidaristici e unitari della Costituzione repubblicana, spiega che «ha ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge», con un elenco impietoso, visto che riguarda i cardini del provvedimento.

In primis il fatto che possano essere devolute intere materie o anche tutte e 23 le materie previste dall’articolo 117 della Carta, «laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata». In effetti l’articolo 116 comma 3 parla di «forme e condizioni particolari» di autonomia di competenze.

IN SECONDO LUOGO il fatto che in tutti i suoi passaggi la legge Calderoli abbia messo nelle mani del solo governo la determinazione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che, insiste il comunicato, «concernono i diritti civili e sociali». In particolare la legge Calderoli affida a uno o più decreti legislativi la determinazione dei Lep, sui quali il Parlamento può solo esprimere un parere; a ciò si aggiunge che la legge delega sia «priva di idonei criteri direttivi». In più, le successive modifiche ai Lep sono affidate a dei semplici dpcm, decreti della presidenza del Consiglio – di pandemica memoria – su cui le Camere non possono nemmeno dare un parere.

GIÀ L’ABBATTIMENTO dei due pilastri della legge Calderoli è una Caporetto per il governo Meloni; come se non bastasse i giudici hanno indicato che vanno interpretate in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge: l’escamotage per evitare la bocciatura dell’intera legge, ma che dovrebbe consentire alla Consulta di aprire la strada al referendum abrogativo. «L’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al governo» afferma il comunicato.
Infatti la legge Calderoli prevede che una volta approvata l’Intesa tra il governo e la regione, le Camere possano solo approvare o respingere la legge che la recepisce, come avviene oggi per le Intese con le religioni. «La legge di differenziazione – spiegano invece i giudici – non è di mera approvazione dell’Intesa (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’Intesa potrà essere eventualmente rinegoziata».

FURBESCAMENTE la legge Calderoli, per poter devolvere subito alcune materie a Veneto o Lombardia, prevede che alcune di esse non necessitino di avere dei Lep; ebbene, spiega la Consulta, «se il legislatore qualifica una materia come “no-Lep”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», interpretazione che impedisce la devoluzione disinvolta di molti ambiti di materia.
Dopo aver indicato altri due punti della legge riguardanti la finanza pubblica che vanno interpretati in senso solidaristico e dell’unità nazionale, i giudici concludono con una doccia fredda per i leghisti: «La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale». L’opposto di quanto i governatori Luca Zaia e Attilio Fontana e il ministro Calderoli avevano sempre sostenuto, ritenendo le Intese svincolate dal vaglio di legittimità costituzionale
*(Kaspar Hauser, giornalista)

 

 

 

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