
01 – Luca Kocci*: Con il rito del funerale si chiude il pontificato di Francesco. Oggi le esequie del papa argentino A San Pietro i “potenti della terra”: 164 delegazioni fra cui 14 sovrani, 54 capi di Stato e 15 premier.
02 – Micaela Bongi*: La resistenza non chiude per lutto – 25 Aprile Per questo splendido 25 aprile c’è chi merita dei ringraziamenti particolari. Per primo il ministro della protezione civile e soprattutto, in questo caso, del mare perché è anche merito suo […]
03 – Giovanna Branca*: Cento violazioni in 100 giorni. L’assalto Usa ai diritti umani – Stati uniti Alison Parker di Human Rights Watch commenta il report dell’organizzazione. «La democrazia americana si sta dirigendo verso un regime che rifiuta ogni nozione di giustizia»
04 – Roberto Ciccarelli*: Non si sa nulla su dazi e riarmo, voto al buio sulla finanza pubblica
Il caso Legge di bilancio ai primi passi e già nel tunnel: le Camere si esprimono su un documento scritto sull’acqua. Il governo guidato dal pilota automatico: senza programmazione, “ma i conti sono solidi…”. Giorgetti, assente in aula, a Wasghinton dall’FMI si è detto “rammaricato
05 – Marco Santopadre *: Trump invia le truppe a Panama “contro l’influenza cinese”, proteste nel paese.
06 – SIRIA. La vendetta dei jihadisti contro le donne alawite: rapite e uccise Rapite in pieno giorno, torturate e poi fatte sparire
07 – Trump: prove di compromesso? Il presidente statunitense si avvicina ai cento giorni alla Casa Bianca, ma dopo la spinta propulsiva delle prime settimane si ritrova a fare i conti con i limiti imposti dalla realtà, soprattutto economica. (*)
08 – Lorenzo Lamperti*: La Cina gela Washington: «Non c’è alcun negoziato». Dazi Un braccio di ferro simmetrico, così Pechino replica alle aperture e chiusure degli americani.
09 – Matteo Bartocci*: Incontro Trump-Zelensky dentro la basilica di San Pietro.
01 – Luca Kocci*: CON IL RITO DEL FUNERALE SI CHIUDE IL PONTIFICATO DI FRANCESCO. OGGI LE ESEQUIE DEL PAPA ARGENTINO A SAN PIETRO I “POTENTI DELLA TERRA”: 164 DELEGAZIONI FRA CUI 14 SOVRANI, 54 CAPI DI STATO E 15 PREMIER.
Ad attendere il feretro, all’entrata della basilica di Santa Maria Maggiore, «un gruppo di poveri e bisognosi» Da domani la marcia di avvicinamento al Conclave che sceglierà il nuovo papa, fra il 5 e il 10 maggio si chiuderanno le porte della Cappella Sistina e inizieranno le votazioni
In una Roma protetta da truppe di terra (4mila uomini e donne delle forze dell’ordine), di mare (il cacciatorpediniere lanciamissili della Marina militare Caio Duilio ancorato al largo di Fiumicino) e di aria (elicotteri e uno squadrone di Eurofighter pronto a decollare da Grosseto), tutto è pronto per i funerali di papa Francesco.
LA MESSA inizierà oggi alle dieci sul sagrato di San Pietro, sarà presieduta dal cardinale Re, 91enne decano del collegio cardinalizio, e concelebrata da 150 fra cardinali e patriarchi e almeno altrettanti vescovi.
Oltre 200mila le persone attese in piazza San Pietro, lungo via della Conciliazione e davanti ai cinque maxischermi piazzati in zona Vaticano. Imprecisato il numero di coloro che aspetteranno dietro le transenne lungo il tracciato di sei chilometri che, al termine della messa, verrà percorso dal breve corteo funebre che in automobile porterà la bara con il corpo di Bergoglio fino a Santa Maria Maggiore, dove verrà tumulato.
Ad attenderlo, all’entrata della basilica, «un gruppo di poveri e bisognosi», informa una nota della sala stampa della Santa sede: una quarantina di persone senza fissa dimora, migranti, transessuali, donne vittime di tratta, detenuti in permesso che hanno ricevuto aiuto o assistenza da enti e strutture cattoliche.
A SAN PIETRO, invece, ci saranno i “potenti della terra”: 164 delegazioni nazionali (fino all’ultima comunicazione di ieri alle 13), fra cui 14 sovrani e principi ereditari, 54 capi di Stato e 15 primi ministri che parteciperanno alle esequie.
In prima fila, secondo protocollo, Argentina e Italia, Paese natale e Stato ospite di Bergoglio, con i presidenti della Repubblica Milei e Mattarella, la premier Meloni e diversi ministri. Poi i rappresentanti degli altri Paesi – prima i regnanti poi i capi di Stato – disposti nell’ordine alfabetico francese, la lingua della diplomazia vaticana.
Grandi assenti il presidente russo Putin (che si farà rappresentare dalla ministra della Cultura Lyubimova) e il primo ministro israeliano Netanyahu (che invierà l’ambasciatore presso la Santa sede Sideman), sui quali pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale, che però non sarebbe stato eseguito: l’Italia ha rilasciato un generale libico assassino e torturatore, figuriamoci se arresterebbe l’amico Bibi o il presidente russo.
Negli ultimi tre giorni, comunica la sala stampa vaticana, circa 250mila persone fra fedeli e turisti hanno reso omaggio a papa Francesco, la cui salma è rimasta esposta nella basilica di San Pietro fino alle 19 di ieri sera.
Alle 20 il rito di chiusura della bara, all’interno della quale – in base al cerimoniale – è stata posta una borsa con le monete coniate dallo Stato vaticano nel periodo in cui Bergoglio è stato papa e un tubo di metallo con il rogito, un suo breve profilo biografico.
CON IL FUNERALE e la sepoltura oggi si chiuderà, anche simbolicamente il pontificato di Francesco, il papa venuto «quasi dalla fine del mondo», come disse egli stesso ai fedeli in piazza subito dopo l’elezione, il 13 marzo 2013.
Da domani la marcia di avvicinamento al Conclave che sceglierà il nuovo papa procederà in maniera più spedita fino a quando, in un giorno ancora da definire fra il 5 e il 10 maggio, si chiuderanno le porte della Cappella Sistina e si darà inizio alle votazioni.
Ieri mattina si è svolta la quarta Congregazione generale, la riunione dei cardinali già a Roma, con 149 presenti su 252 (ma gli elettori under 80 sono 133, con due defezioni per motivi di salute già comunicate), durante la quale è cominciata la «riflessione condivisa sulla Chiesa e il mondo».
LE RIUNIONI riprenderanno lunedì e, oltre ad alcune decisioni importanti – come l’ammissione in Conclave del cardinale Becciu, condannato dal Tribunale vaticano per truffa e peculato –, si entrerà nel merito: qual è la situazione della Chiesa? E del mondo? Chi è il più adatto a fare il papa?
È da questo confronto, rigorosamente a porte chiuse, che prenderanno corpo, si consolideranno e si dissolveranno candidature e autocandidature al soglio pontificio. Prima dell’extra omnes (fuori tutti quelli che non sono chiamati all’elezione, ndr) e dell’apertura delle urne elettorali.
*(Luca Kocci (Roma, 1973), insegnante di italiano e storia nelle scuole superiori. Collabora con il quotidiano il manifesto e con l’agenzia settimanale Adista.)
02 – Micaela Bongi*: LA RESISTENZA NON CHIUDE PER LUTTO – 25 APRILE PER QUESTO SPLENDIDO 25 APRILE C’È CHI MERITA DEI RINGRAZIAMENTI PARTICOLARI. PER PRIMO IL MINISTRO DELLA PROTEZIONE CIVILE E SOPRATTUTTO, IN QUESTO CASO, DEL MARE PERCHÉ È ANCHE MERITO SUO […]
Per questo splendido 25 aprile c’è chi merita dei ringraziamenti particolari. Per primo il ministro della protezione civile e soprattutto, in questo caso, del mare perché è anche merito suo se nella soleggiata Milano dal cielo terso ieri soffiava quella brezza leggera.
Non sarebbe giusto però farlo salire da solo sul podio: anche se è stato lui a mettersi più di altri in mostra chiedendo di festeggiare la Liberazione dal nazifascismo con «sobrietà» causa lutto nazionale, a ispirarlo (per non dire a dettargli legge) è stata la sua capa, la presidente del consiglio Giorgia Meloni.
Forse con le sue disposizioni la premier sperava di seminare non un venticello, ma una tempesta: reazioni esacerbate, rabbia scomposta, violenze e saccheggi. E invece ha raccolto cortei festosi corredati dall’inevitabile dose di rabbia, colori, vino, musica e protesta.
Ma nelle varie piazze, nessuno ha prestato il fianco a una destra pronta a scagliarsi contro la sinistra che usa il 25 aprile – si è sentito anche questo dalle parti degli ultrà meloniani – per giustificare il “comunismo” putiniano (sic!) e l’islamismo (arisic!).
Ma forse invocando sobrietà il governo cercava solo l’ennesima occasione per acquattarsi sobriamente in una giornata che sotto l’esecutivo più a destra della storia della repubblica suscita grande nervosismo. Una giornata che, vale la pena di ricordare, ai tempi del “liberale” Silvio Berlusconi, il padre che tutto alla sua destra inglobava, era stata ridotta con la complicità di una parte del centrosinistra a un trito gioco delle parti.
E invece la ricorrenza del 25 aprile, grazie a una risposta in primo luogo “democratica” e “civile”, non guidata da partiti ancora disorientati, è tornata centrale negli ultimissimi anni, animata da una forza capace di smontare nuove trappole e vecchie retoriche.
Come l’ultimissima provocazione – non troppo bene orchestrata dal governo – che non solo non ha suscitato morti e feriti, ma non ha nemmeno fornito argomenti utili per essere utilizzati dai governisti compiacenti dell’entourage mediatico, pronti a sostenere la tesi insostenibile ma comoda del “chiudiamola qui con un a pari e patta”. Ma ha invece corroborato, da Roma a Milano, piazze vivaci e determinate.
DOPO LE POLEMICHE MUSUMECI INSISTE
Dal canto suo la presidente del consiglio quest’anno si è spinta addirittura a sostenere che il 25 aprile «onoriamo quei valori democratici che il fascismo aveva negato».
Forse è stato l’inciampo (per non dire l’enormità) del tentativo di contrapporre il lutto per Bergoglio alla festa più importante della repubblica a farla riflettere. Forse è stata una suggestione arrivata dal Colle più alto: «È sempre tempo di resistenza» ha rimarcato Sergio Mattarella a Genova.
Quello che le piazze di ieri hanno chiarito, nonostante gli imbarazzanti, per non dire allarmanti eccessi di zelo (multe, divieti e anatemi contro le iniziative per la Liberazione) è che la Resistenza non chiude per lutto perché il 25 aprile si commemora la fine di una guerra che ha provocato milioni di orribili lutti.
Forse chissà, inciampo dopo inciampo, anche la premier erede di Giorgio Almirante e della sua fiamma ci arriverà. Lo auguriamo a lei e soprattutto lo auguriamo a tutti noi
*(Micaela Bongi, Giornalista, Gruppo Il Manifesto),
03 – Giovanna Branca*: CENTO VIOLAZIONI IN 100 GIORNI. L’ASSALTO USA AI DIRITTI UMANI – STATI UNITI ALISON PARKER DI HUMAN RIGHTS WATCH COMMENTA IL REPORT DELL’ORGANIZZAZIONE. «LA DEMOCRAZIA AMERICANA SI STA DIRIGENDO VERSO UN REGIME CHE RIFIUTA OGNI NOZIONE DI GIUSTIZIA»
Cento attacchi ai diritti umani in cento giorni, quelli raggiunti ieri dall’amministrazione di Donald Trump. La lista è stilata da un report di Human Rights Watch «per illustrare – dice al manifesto la vicedirettrice dell’ufficio statunitense dell’organizzazione, Alison Parker – la magnitudine di ciò che questo governo sta facendo alle vite delle persone comuni negli Stati uniti e in tutto il mondo». È importante notare come questa lista, che ha l’aspetto di un bollettino di guerra, riguardi danni arrecati a «ogni aspetto della vita delle persone»: dalla loro «capacità di sfamare se stesse e i propri figli», all’aspettativa di «ricevere un trattamento giusto e imparziale da parte del governo». Dal «diritto alla salute» alla «previdenza sociale, la libertà di parola, la possibilità di accedere alle informazioni e manifestare il proprio dissenso».
MOLTE DELLE VIOLAZIONI citate sono note: hanno occupato in queste settimane le prime pagine dei giornali. A partire dal ritiro dall’accordo di Parigi che, si legge nel report, accelererà il cambiamento climatico ai danni non solo degli statunitensi – i secondi produttori al mondo di gas serra – ma di milioni di persone in tutto il mondo.
Uno dei casi più gravi è quello delle «sparizioni forzate» di centinaia di migranti. La vicenda di Kilmar Abrego Garcia, finito in una prigione di massima sicurezza del Salvador, ha fatto il giro del mondo e rischia di precipitare gli Usa in una crisi costituzionale dopo il rifiuto dell’amministrazione Trump di riportarlo negli Stati uniti nonostante gli ordini dei giudici. «Una chiara dimostrazione – dice Parker – di come questa amministrazione si senta al di sopra della legge».
TANTI CASI analizzati dal report di Hrw sono però passati sotto i radar dei media, bombardati quotidianamente da decine di dichiarazioni, ordini esecutivi, assalti alla legge. Un esempio fra i tanti: la revoca di un ordine esecutivo dell’ex presidente Joe Biden che istituiva un registro federale delle forze di polizia dove venivano annotati i casi di cattiva condotta e violenza, per fare in modo che i dipartimenti di polizia non riassumessero quegli agenti. O l’attacco ai diritti dei nativi, penalizzati su ogni fronte – a partire dalla revoca delle già poche agevolazioni disposte per l’amministrazione degli affari tribali.
In molti sono al corrente di uno dei punti denunciati con maggior forza dal report: la guerra dichiarata dal governo americano alle misure Dei (diversità, equità e inclusione), che ha fatto sì che in istituzione pubbliche e private sia stata abbandonata ogni linea guida sull’inclusione delle minoranze. A partire dalla comunità afroamericana, con i docenti che sono arrivati ad autocensurarsi sull’insegnamento della storia dello schiavismo, e anche sulle pari opportunità di genere. Ma resta ignoto ai più che, dopo aver sospeso le indagini dell’Ufficio per i diritti civili, il dipartimento di Giustizia è arrivato a ordinare controindagini sulla «discriminazione inversa» nei confronti dei bianchi.
IN QUESTO, i giornalisti hanno un ruolo fondamentale anche se, come osserva ancora Parker, «le loro voci e le loro testate sono minacciate». «A fornirne le prove è proprio l’attività giornalistica, ma a minare la comprensione di ciò che accade, facendo il gioco dell’amministrazione Trump, c’è anche la pratica di prestare troppa attenzione al caos deliberatamente messo in scena: «Riportare le dichiarazioni dell’amministrazione, o le sue politiche caotiche, ha meno importanza della realtà vissuta dalla gente negli Stati uniti».
Le violazioni riportate ha Hrw sono troppe per essere elencate, da quelle alla legge internazionale – ancora una volta sui diritti delle persone migranti, alle quali è ora proibito anche solo presentare domanda d’asilo – a quelle dei dati sensibili e della privacy dei cittadini, con le squadre del Doge di Elon Musk che gettano i dati di milioni di americani in pasto all’intelligenza artificiale, e a «opachi algoritmi».
ABBIAMO CHIESTO a Parker perché, secondo lei, la risposta delle opposizioni, compresa quella di piazza e nonostante le manifestazioni che si sono cominciate a vedere nelle ultime settimane, sia ben più silenziosa rispetto al primo mandato di Trump. «Il movimento per i diritti umani – dice – è basato sulle azioni delle persone normali, che si fanno avanti ed esigono le libertà essenziali a cui tutti gli esseri umani hanno diritto». «Le manifestazioni delle scorse settimane ne sono una prova, e ce ne aspettiamo altre. Per prendere parola e assembrarsi liberamente le persone fanno affidamento su quegli stessi diritti umani che ora sono sotto attacco: la posta in gioco è molto alta».
È IL RISCHIO dello scivolamento nell’autoritarismo: «La democrazia americana è eretta su valori di libertà e eguaglianza ma non ha mai rispettato allo stesso modo i diritti di tutti – americani neri, comunità Lgbt, donne e molti altri gruppi storicamente svantaggiati». Ma questi gruppi, «e ora tutta la popolazione degli Stati uniti, affrontano ora minacce nuove e crescenti. La democrazia americana si sta dirigendo rapidamente verso un regime che rifiuta ogni nozione di giustizia, uguaglianza e dignità umana, e che denigra alcune persone per distrarre l’attenzione da mosse politiche ed economiche a beneficio di una piccola minoranza».
*(Fonte: Il Manifesto – Giovanni Branca – Docente-ricercatore Senior e Responsabile Gestione edifici, Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito …)
04 – Roberto Ciccarelli*: NON SI SA NULLA SU DAZI E RIARMO, VOTO AL BUIO SULLA FINANZA PUBBLICA – IL CASO LEGGE DI BILANCIO AI PRIMI PASSI E GIÀ NEL TUNNEL: LE CAMERE SI ESPRIMONO SU UN DOCUMENTO SCRITTO SULL’ACQUA. IL GOVERNO GUIDATO DAL PILOTA AUTOMATICO: SENZA PROGRAMMAZIONE, “MA I CONTI SONO SOLIDI…”. GIORGETTI, ASSENTE IN AULA, A WASGHINTON DALL’FMI SI È DETTO “RAMMARICATO”
Più di quello che è scritto nel Documento di finanza pubblica (Dfp), sul quale ieri le camere hanno votato una risoluzione di maggioranza, è interessante ciò è sottinteso. Il primo passo verso la prossima legge di bilancio ha confermato che la politica economica del governo Meloni la fa il «pilota automatico»: il patto di stabilità che ha già imposto dal 2025 12 miliardi di tagli; il piano di riarmo dell’Europa e della Nato, con l’aumento della spesa militare al 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) che l’esecutivo si è impegnato a realizzare senza però avere la certezza di poterlo fare.
L’idea di recuperare almeno 11 miliardi di euro, da oggi a dicembre, contabilizzando le spese dei carabinieri, della guardia di finanza e di quella costiera come spese militari è stata più volte rifiutata dalla Nato. I soldi devono essere freschi e vanno messi sui cannoni e missili. Forse Meloni è riuscita a convincere Trump nel recente bilaterale a Washington. Altrimenti dovrà trovare i soldi. Dalla spesa sociale, probabilmente. In ogni caso ieri il rapporto annuale del segretario generale della Nato Mark Rutte ha confermato: l’Italia spende l’1,5% del Pil. Deve trovare lo 0,5% in più in pochi mesi.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto di non voler ricorrere alla clausola di salvaguardia chiesta e ottenuta dal patto di stabilità Ue per le spese militari. Non vuole fare un scostamento di bilancio. Se fosse questo il caso, andrebbe votato entro il 30 aprile. In più non si sa a quanto ammonta il pizzo chiesto dalla Nato e da Donald Trump: il 3% del Pil? Il 3,5%, o il 5%? Lo si deciderà, forse, al vertice dell’Aja, in Olanda, il 24 e 25 giugno. Da allora anche la presidente della Commissione Ue von der Leyen capirà se il suo piano di riarmo avrà un futuro.
BIG TECH, GAS E ARMI: IL COSTO SALATO DELL’ALLEANZA TRUMP-Meloni
Il governo italiano aspetta un’altra data per sapere come procedere al buio. È il 9 luglio, allora scadrà la tregua sui dazi concessa da Trump all’Unione Europea, per sapere se e quanto inciderà la guerra commerciale lanciata dall’amico americano. In fondo non si sa nemmeno quanto impatteranno i dazi. E se mai li metterà, visto che riceverà una bastonata mentre digrigna i denti. Fino ad allora Meloni & Co. continueranno a non avere idea se il Pil resterà dimezzato allo 0,6% (lo avevano stimato all’1,2% pochi mesi fa) o andrà più su o più giù.
IL DONO DI MELONI AL GANGSTER TRUMP: SPESA MILITARE AL 2% DEL PIL
L’idea dell’economia delle destre al governo è: il destino è cinico e baro, aspettiamo la pioggia e apriremo gli ombrelli. In realtà, qualcosa dicono anche i documenti scritti sull’acqua. Lo 0,6% di crescita nel 2025 è il risultato di 25 mesi di calo consecutivo della produzione industriale. Insomma, qualcosa ha fatto questo governo. Valutazioni di «economia reale», si sarebbe detto un tempo, che però non rientrano nell’orizzonte del governo. Ieri durante il dibattito parlamentare, la maggioranza ha usato la stessa logica. Non contano gli effetti storici di una politica economica, ma i criteri contabili stabiliti dal patto di stabilità che ha imposto l’austerità per riportare i «conti in ordine». È su questa base che Giorgetti può sostenere che la finanza pubblica è «solida» o è stato salvaguardato il potere di acquisto delle famiglie. Non dice che i soldi del taglio del cuneo fiscale (10 miliardi) o gli aumenti in alcuni contratti nazionali non hanno recuperato l’inflazione cumulata e i salari restano bassi.
CRESCE SOLO LA SPESA PER LE ARMI: I LAVORATORI PAGANO L’AUSTERITÀ SELETTIVA
Questa politica vive in una surreale sospensione. Ieri il Pd ha sostenuto che il documento di finanza pubblica sarebbe «illegittimo» perché «non esiste nella normativa contabile vigente, lo stanno approvando perché lo ha chiesto il governo e la maggioranza in parlamento ha obbedito». A riprova dello scarso interesse dello stesso governo, ieri mancava in aula Giorgetti. Il ministro si è detto «rammaricato», ma era a Washington per gli incontri di primavera del Fondo Monetario Internazionale. La legge di bilancio non vale un cambio di agenda.
05 – Marco Santopadre *: TRUMP INVIA LE TRUPPE A PANAMA “CONTRO L’INFLUENZA CINESE”, PROTESTE NEL PAESE – PAGINE ESTERI – SABATO SCORSO NEL PICCOLO PAESE CENTROAMERICANO ALCUNE MIGLIAIA DI PERSONE SONO SCESE IN PIAZZA RISPONDENDO ALL’APPELLO DEI PARTITI DELL’OPPOSIZIONE, DEI MAGGIORI SINDACATI E DELLE ORGANIZZAZIONI STUDENTESCHE CHE ACCUSANO WASHINGTON DI AVER LANCIATO UNA VERA E PROPRIA “INVASIONE CAMUFFATA” DI PANAMA CON LA SCUSA DI “PROTEGGERE IL CANALE DALL’INFLUENZA MALIGNA DELLA CINA”.
“ACCORDO STORICO”
Ad appena tre giorni dalla visita del Segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth – anche questa accolta da proteste popolari – per la firma di un accordo con il suo omologo locale Frank Ábrego, il presidente Donald Trump ha avvisato di «aver inviato molte truppe a Panama».
Da parte sua Hegseth ha informato che nei prossimi giorni Washington aumenterà ulteriormente la propria presenza militare dislocando i propri soldati in tre ex basi che erano già state affidate agli Stati Uniti fino al 1999 quando – sulla base degli accordi siglati nel 1977 tra i rispettivi presidenti Torrijos e Carter – il controllo del Canale passò interamente sotto il controllo del governo locale.
L’invio delle truppe statunitensi a Panama avviene in un momento di forte tensione tra Washington e Pechino proprio sullo sfruttamento dello strategico collegamento ed è il risultato di forti pressioni economiche e di minacce dirette di intervento militare dell’amministrazione Trump nei confronti del presidente José Raúl Mulino, espressione di una coalizione di destra.
Grazie ad un accordo siglato dal governo locale con la Casa Bianca e della durata iniziale di tre anni, ora gli Stati Uniti potranno schierare le proprie truppe e i membri di società militari private presso le installazioni controllate da Panama per la realizzazione di attività di addestramento, esercitazioni e compiti umanitari.
Si tratterebbe, secondo l’esecutivo, di una presenza “non permanente” che non violerebbe quindi il trattato di neutralità del Canale secondo cui nessuna potenza straniera può mantenere sul territorio nazionale di Panama forze o basi militari di alcun tipo.
Ma l’opposizione denuncia quella che Ricardo Lombana, leader del “Movimiento otro camino”, ha definito «un’invasione realizzata senza sparare un colpo, ma grazie all’uso del manganello e delle minacce».
Nonostante le rassicurazioni da parte del presidente Mulino sul fatto che il paese non accetterà mai di concedere basi militari a Washington, il Memorandum d’intesa siglato con la Casa Bianca include riferimenti diretti al fatto che le forze militari statunitensi utilizzeranno per le proprie attività Fort Sherman, la base navale di Rodman e quella aerea di Howard. L’accordo inoltre non fissa alcun limite massimo al numero di soldati statunitensi da “ospitare”.
Di fatto le minacce di Trump hanno riportato il paese ad una condizione di sudditanza diretta da Washington esistente prima del 1999, e l’invio di truppe statunitensi richiama alla mente i bombardamenti e l’invasione americana del 1989, realizzata per rovesciare il regime di Manuel Noriega, che causarono centinaia di morti e la distruzione di interi quartieri della capitale.
Secondo vari sondaggi due terzi dei panamensi disapprovano l’operato del governo Mulino che sembra non solo incapace di frenare gli appetiti statunitensi sul Canale, ma ha anche fatto approvare una impopolare riforma della previdenza sociale e potrebbe ora concedere la riapertura di una grande miniera di rame chiusa nel 2023 dopo massicce proteste ambientaliste.
Come se non bastasse, gli accordi siglati da Washington e Panama – annunciati dopo settimane di negoziati tenuti in gran parte segreti – prevedono che le imbarcazioni militari statunitensi siano sostanzialmente esentate (attraverso un meccanismo di compensazione ancora non del tutto chiaro) dal versamento dei pedaggi dovuti per l’attraversamento del Canale in cambio di non meglio precisate attività di sorveglianza e di sicurezza. Potrebbe essere un primo passo, accusano le opposizioni, verso l’esenzione di tutte le merci americane su cui insistono da mesi Trump e i suoi collaboratori e comunque una ulteriore violazione del trattato di neutralità.
Anche se dopo l’incontro tra Hegseth e Mulino quest’ultimo ha affermato che il membro del governo statunitense avrebbe riconosciuto la “sovranità inalienabile” di Panama sul canale, nella conferenza stampa organizzata mercoledì scorso il segretario Usa alla Difesa non ha fatto alcun cenno al tema e nella versione in inglese della dichiarazione congiunta diffusa dai due governi il passaggio presente in quella in spagnolo è stata eliminata.
Inoltre, nel corso di una riunione del governo americano, Hegseth ha affermato: «Abbiamo firmato diversi accordi storici (…) e stiamo procedendo alla riconquista del canale. La Cina ha avuto troppa influenza». Contemporaneamente Mulino, in visita in Perù, ha affermato che Washington pretendeva non solo la concessione di basi militari permanenti ma anche la cessione di alcuni territori.
PECHINO CERCA DI BLOCCARE LA VENDITA A BLACKROCK DEI PORTI SUL CANALE
L’offensiva dell’amministrazione Trump contro Panama si è indurita dopo che il governo cinese ha annunciato la volontà di opporsi alla vendita ad un consorzio guidato dal fondo di investimento statunitense BlackRock di due porti situati ai due ingressi nel Canale sul Pacifico e sull’Atlantico, da parte di un’impresa sussidiaria della CK Hutchinson Holdings, con sede a Hong Kong.
La vendita delle due strategiche installazioni, annunciata all’inizio di marzo nell’ambito della cessione a BlackRock di un totale di 40 porti in tutto il mondo, sembrava consegnare definitivamente a Washington il controllo commerciale del Canale.
Ma in un clima di crescente tensione alimentato dalla decisione statunitense si imporre dazi draconiani sulle merci cinesi, il governo Pechino ha annunciato la propria opposizione ad autorizzare la cessione delle infrastrutture, che rappresenterebbe una minaccia agli interessi nazionali del gigante asiatico e che per ora è stata rinviata, in attesa del pronunciamento da parte dell’autorità cinese sulla concorrenza.
Per tutta risposta, su pressione della Casa Bianca, il governo panamense ha accusato la Panama Ports Company, che gestisce le attività del Canale ed è controllata dalla CK Hutchinson, di non rispettare i propri obblighi contrattuali.
Mentre la società ha respinto una verifica contabile che suggeriva il mancato pagamento di 1,3 miliardi di dollari dovuti in base alla concessione, il revisore generale dei conti di Panama, Anel Flores, ha annunciato l’intenzione di intentare una causa contro i funzionari governativi che hanno dato il via libera al rinnovo, nel 2021, della concessione alla PPC della gestione dei porti di Balboa e San Cristobal.
IL CANALE RALLENTA
Intanto, a causa della guerra commerciale innescata da Washington, delle tensioni sul controllo del Canale e di una contrazione dei commerci mondiali, il traffico di merci lungo il collegamento tra il Pacifico e l’Atlantico che gestisce il 40% del traffico container degli Stati Uniti e il 5% del commercio mondiale sembra diminuire.
Secondo i dati diffusi nei giorni scorsi dall’autorità amministrativa, a marzo il numero di imbarcazioni commerciali che hanno attraversato il Canale è sceso a una media di 33,7 al giorno dalle 34,8 di febbraio. Pagine Esteri
* (Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria)
06 – SIRIA. LA VENDETTA DEI JIHADISTI CONTRO LE DONNE ALAWITE: RAPITE E UCCISE RAPITE IN PIENO GIORNO, TORTURATE E POI FATTE SPARIRE.
È QUANTO EMERGE DAI RACCONTI DI UN NUMERO CRESCENTE DI DONNE, QUASI TUTTE ALAWITE, RAPITE SULLA COSTA SIRIANA. UN FENOMENO CHE SI CONSUMA SOTTO GLI OCCHI DELLA COMUNITÀ LOCALE E CHE SI NASCONDE DIETRO UN MURO DI SILENZI IMPOSTI DALLA PAURA, DALLO STIGMA E DA MINACCE DIRETTE. E SOPRATTUTTO NEL DISINTERESSE DEL NUOVO REGIME CHE FA CAPO AD AHMAD SHARAA, PRESIDENTE AUTOPROCLAMATO DELLA SIRIA E LEADER DEL GRUPPO QAEDISTA HAY’AT TAHRIR A-SHAM
Rabab, nome di fantasia per proteggerne l’identità, è una delle poche sopravvissute al rapimento che ha trovato il coraggio di raccontare. È stata rapita in una piazza pubblica di un villaggio costiero, in pieno giorno. Spinta con forza su un furgone che non si è fermato a nessun posto di blocco, è stata portata in una casa sconosciuta. Con lei c’era Basma, anch’essa rapita, anch’essa alawita. Legate, picchiate, insultate. «Ci torturavano e ci vietavano di parlarci», ha raccontato Rabab. «Uno parlava con un accento straniero, l’altro con uno di Idlib. Ci odiavano perché eravamo alawite».
Il caso di Rabab non è isolato. L’associazione Daraj ha documentato almeno dieci rapimenti analoghi, ciascuno con dinamiche diverse, accomunati però dalla brutalità e dalla costante minaccia di morte. Le vittime sono tutte donne giovani, rapite nei mercati, lungo le strade, talvolta mentre si recavano a scuola o al lavoro. Basma non è mai tornata a casa. Rabab l’ha lasciata in quella casa-prigione, dopo che uno dei rapitori avrebbe dichiarato di «essersi innamorato di lei». Il silenzio delle famiglie è un macigno che grava sulla possibilità di fare luce. «Speriamo di morire», ha dichiarato il padre di una ragazza rapita, esprimendo la disperazione di chi non solo perde una figlia, ma si ritrova muto davanti a una società che giudica, e a uno Stato che non protegge. In molti casi, le famiglie hanno ricevuto minacce dirette: «Se parlate, la restituiremo cadavere». Alcune ragazze sono riuscite a contattare i familiari tramite messaggi vocali o telefonate da numeri stranieri, persino dalla Costa d’Avorio o da paesi arabi. «Sto bene. Non dite nulla. Sono viva», ripetono le voci registrate. Poi, il silenzio.
L’“operazione militare” lanciata il mese scorso dal nuovo governo siriano per “ripulire” la regione costiera dalla presenza di ex combattenti lealisti del deposto presidente Bashar Assad ha lasciato dietro di sé un’ombra lunga. Human Rights Watch e Amnesty International hanno denunciato centinaia di uccisioni indiscriminate e casi di tortura contro civili alawiti. Ma nessuna cifra ufficiale è stata fornita. Secondo i centri di documentazione fuori dalla Siria, oltre 2.000 persone sono state uccise. Nelle ultime settimane migliaia di siriani alawiti sono scappati dalla Siria cercando rifugio in Libano.
È in questo contesto che si inserisce il fenomeno dei rapimenti, in un ambiente devastato dalla vendetta politica, dal collasso istituzionale e dalla riemersione di pratiche antiche. Alcune voci parlano di bande autonome, altre evocano lo spettro del ritorno della “prigionia” delle donne, una pratica già vista con l’ISIS ai danni delle ezide.
La difficoltà di ottenere prove è accentuata dalla paura dei sopravvissuti e delle famiglie. In un contesto sociale conservatore, una ragazza rapita è vista con sospetto al suo ritorno, nella sua comunità si ritiene che sia stata stuprata. Alcune famiglie hanno ricevuto “consigli” dalle autorità: «Lasciate la Siria» o «Ora che è tornata, è come se fosse divorziata». Nessuna parola di conforto, nessuna promessa credibile di giustizia. «Non c’è nessuno a cui chiedere conto», ha detto una madre, disperata. Le indagini sono inconsistenti: furgoni senza targa, telefoni non rintracciabili, mancanza di mezzi e volontà. In un caso, le telecamere di sorveglianza hanno immortalato un furgone durante un rapimento, ma il veicolo era senza targa e non ha potuto essere identificato.
Spesso i funzionari di polizia, legati al nuovo regime sunnita imposto da Sharaa, mostrano simpatia proprio per i sequestratori, ritenendoli gli esecutori di “giuste vendette” contro la comunità alawita considerata alleata di Assad e “apostata” da un punto di vista religioso.
Il blackout mediatico imposto nelle zone costiere complica ulteriormente la situazione. Le notizie faticano a emergere. Gli appelli delle famiglie si moltiplicano online, spesso accompagnati da foto delle ragazze scomparse e da numeri di telefono. Ma ogni pubblicazione comporta il rischio di nuove minacce. «Se pubblicate ancora, la uccidiamo», recitano i messaggi anonimi. La pratica del terrore si accompagna a una strategia sofisticata di controllo dell’informazione.
Nel vuoto lasciato dallo Stato, la paura si è trasformata in normalità. I rapimenti continuano, le storie si accumulano sui social media, come quella di ragazza rapita a Latakia e ritrovata giorni dopo a Damasco. Senza spiegazioni. Senza giustizia. La sensazione è che nulla cambierà.
Nel video la telefonata di Aya Qasim, una giovane donna alawita, rapita alle 8 del mattino dopo essere uscita di casa. Più tardi, quello stesso giorno, il suo telefono è stato acceso e la sua famiglia ha ricevuto due telefonate dai jihadisti ritenuti responsabili del rapimento. La ragazza Aya è disperata e chiede aiuto. Non è più tornata a casa.
07 – TRUMP: PROVE DI COMPROMESSO? Il presidente statunitense si avvicina ai cento giorni alla Casa Bianca, ma dopo la spinta propulsiva delle prime settimane si ritrova a fare i conti con i limiti imposti dalla realtà, soprattutto economica. (*)
Il best seller “The Art of the Deal”, redatto da Donald Trump in collaborazione con il Ghostwriter Tony Schwartz, suggerisce di iniziare qualsiasi trattativa con propositi ambiziosi, persino inaccettabili, anche se si è disposti a cedere qualcosa, con l’obiettivo di ottenere il massimo risultato possibile. Questo stile sembra aver guidato i primi tre mesi dell’amministrazione Trump 2.0, insediata il 20 gennaio scorso. Nelle ultime settimane, tuttavia, l’inquilino della Casa Bianca è stato costretto a rimodulare alcune sue posizioni o a fare – del tutto o in parte – marcia indietro su determinati dossier. Ultimo in ordine di tempo, il caso di Jerome Powell, capo della Federal Reserve (FED), che Trump aveva minacciato di silurare, per poi tornare sui suoi passi tranquillizzando i mercati (già scossi dal clima d’incertezza dovuto ai dazi). Altro esempio, nelle ultime ore, le dichiarazioni di apertura verso la Cina del segretario al Tesoro Scott Bessent, che ha fatto sapere di aspettarsi una de-escalation nella guerra commerciale con Pechino in un “futuro assai prossimo”. Anche il fatto di essere flessibili ed imprevedibili è parte della “Art of the deal”, ma quelli in atto sembrano piuttosto chiari segnali della necessità di scendere a compromessi, almeno in determinati contesti.
POWELL NON SI TOCCA?
Il presidente degli Stati Uniti aveva ripetutamente criticato Powell in varie occasioni, soprattutto per non essersi mosso più rapidamente per abbassare i tassi di interesse. Powell, presidente del Consiglio dei governatori dal 2018, è stato nominato dallo stesso Trump e poi confermato per un secondo mandato da Joe Biden nel 2022. “Vorrei vederlo un po’ più attivo riguardo alla sua idea di abbassare i tassi di interesse. Questo è il momento perfetto per farlo. Se non lo fa, è la fine? No, non lo è. Non ho intenzione di licenziarlo”, ha dichiarato Trump alla stampa in riferimento a Powell. La smentita sulla rimozione del capo della banca centrale è stata salutata positivamente dai mercati: nella giornata di martedì, l’indice S&P 500 ha chiuso in rialzo di oltre il 2,5%, mentre il Nasdaq ha chiuso in rialzo di oltre il 2,7%, per poi muoversi positivamente anche nella giornata di mercoledì. L’eventuale cacciata di Powell, cosa mai successa a un capo della FED nel pieno del suo mandato, avrebbe aggiunto ulteriori tensioni a un contesto già scosso dalle politiche commerciali di Trump, al netto dell’annunciata sospensione dei dazi reciproci imposti nel ‘Liberation Day’, il 2 aprile scorso.
USA-Cina: lavorare insieme?
Ad allentare ulteriormente il nervosismo a Wall Street e sulle altre piazze sono arrivate le dichiarazioni di Bessent, titolare del Tesoro, che si sta ritagliando sempre più il ruolo di ‘mitigatore’ degli eccessi trumpiani. Secondo quanto riporta la Cnbc, in un incontro a porte chiuse l’esponente dell’amministrazione repubblicana ha dichiarato che si aspetta “una de-escalation” nella guerra commerciale con la Cina. “Nessuno pensa che lo status quo sia sostenibile”, con le tariffe ai livelli attuali, ha affermato Bessent. Il segretario al Tesoro ha esortato la Cina a smettere di fare affidamento sulle esportazioni e ad aumentare i consumi, affermando che ciò contribuirebbe ad allentare le tensioni commerciali. “Se vogliono riequilibrare, facciamolo insieme”, ha aggiunto Bessent. L’apertura verso la Cina, rilanciata poi anche dallo stesso Trump, è stata tuttavia smorzata da Pechino. In risposta a una domanda riguardante un articolo del Wall Street Journal, secondo cui la Casa Bianca starebbe valutando di ridurre i dazi verso la Cina dall’attuale 145% a una percentuale compresa tra il 50 e il 65%, il portavoce del ministro degli Esteri cinese Guo Jiakun ha attaccato l’atteggiamento “unilaterale e aggressivo” degli USA. “Se gli Stati Uniti cercano davvero di risolvere i problemi attraverso il dialogo e la negoziazione, dovrebbero abbandonare il loro approccio di massima pressione, smettere di fare minacce e di ricorrere alla coercizione e avviare un dialogo con la Cina sulla base di uguaglianza e rispetto reciproco”, ha affermato.
SCENDERE A PATTI?
L’atteggiamento possibilista di Bessent – che il Telegraph britannico già ha incoronato come “L’uomo che ha salvato l’economia mondiale, per ora” – sembra riecheggiare un certo tipo di approccio verso la Cina adottato anche nell’era Biden: competere quando possibile, cooperare quando necessario. In generale, al netto della guerra tariffaria in sé, lo scenario a tre mesi dall’insediamento vede Trump puntare sempre in alto, usare toni aggressivi e slogan potenti, senza timore di cadere in contraddizione, per poi fare i conti con la realtà e ‘aggiustare il tiro’ tramite il suo gabinetto (o su pressione del medesimo). Il presidente, spiega l’emittente CNN, sperava che i primi 100 giorni del suo secondo mandato avrebbero portato con sé una serie di accordi lampo, simile a quelli descritti “nel testo fondamentale del trumpismo”, ossia il libro di Trump sulle trattative. Ma il Tycoon newyorchese si è ritrovato a dover ammorbidire i toni sulla sua guerra commerciale con la Cina, a mettere in pausa i dazi reciproci e a perdere la pazienza per la guerra in Ucraina, dopo aver promesso per mesi che sarebbe finita in 24 ore. Le trattative da presidente, conclude un’analisi firmata da Elisabeth Buchwald e Kevin Liptak, si stanno “rivelando più complesse”, dal momento che “la posta in gioco non sono grattacieli e casinò, ma intere economie, la credibilità dei leader e la sovranità nazionale”.
IL COMMENTO
DI GIANLUCA PASTORI, ISPI SENIOR ASSOCIATE RESEARCH FELLOW
“Le battute d’arresto e le retromarce dell’amministrazione Trump riflettono i limiti di un’agenda politica costruita, sinora, più sugli slogan che sui fatti reali. Allo stesso tempo, mettono in evidenza come il sistema dei ‘pesi e contrappesi’ che sta alla base del sistema istituzionale statunitense continui a funzionare in maniera – tutto sommato – efficace. Per un Presidente dalle ambizioni ‘decisioniste’ si tratta di uno smacco pesante, che il tentativo di presentare alcuni di questi passi indietro come prove del successo della sua strategia non riesce davvero a mascherare. Tuttavia, sembra improbabile che Trump decida di rinunciare al suo atteggiamento antagonistico. Più probabilmente, la retorica della ‘guerra contro il deep state’ e i ‘nemici del paese’ finirà per trovare alimento nelle contraddizioni della politica concreta; uno sviluppo che, d’altra parte, appare in linea con un personaggio che deve il successo politico anche alla capacità di veicolare all’elettorato robuste dosi di contro-verità”.
*(Fonte: ISPT – Gianluca Pastori, PhD, is Associate Professor, History of political relations between North America and Europe, Faculty of Political and Social Sciences,
https://www.ispionline.it › Home › – Peoples)
08 – Lorenzo Lamperti*: LA CINA GELA WASHINGTON: «NON C’È ALCUN NEGOZIATO». DAZI UN BRACCIO DI FERRO SIMMETRICO, COSÌ PECHINO REPLICA ALLE APERTURE E CHIUSURE DEGLI AMERICANI.
TAIPEI
«Pura speculazione che non si basa su fatti concreti». La Cina raffredda gli entusiasmi sui possibili progressi nei colloqui commerciali con gli Stati uniti. He Yadong, portavoce del ministero del commercio, ha chiarito che al momento non è partito nessun vero negoziato. Poco più di 24 ore prima, il ministero degli esteri aveva definito «spalancate» le porte della Cina di fronte a eventuali colloqui, anche se i media internazionali hanno in ampia parte tralasciato la precondizione posta da Pechino: la fine di «minacce ed estorsioni» da parte della Casa bianca.
In realtà, la promessa di Trump di abbassare sensibilmente i dazi sui prodotti cinesi rappresenta proprio quel passo concreto necessario alla Cina per giustificare il potenziale avvio dei colloqui. Per Xi Jinping, è fondamentale non mostrarsi debole né bisognoso o eccessivamente desideroso di cercare un accordo. Il possibile taglio delle tasse aggiuntive da parte di Trump consentirebbe invece di mostrare gli Usa come la parte debole e con maggiore fretta di sedersi a un tavolo. Convinta che la «prova di resistenza» contro quello che definisce «bullismo unilaterale» stia funzionando, E Pechino rallenta, consapevole che in ogni caso l’obiettivo primario di Washington sia proprio quello di colpirla.
Per questo la risposta alle mosse di Trump continua a essere simmetrica. Non solo in termini di dazi, ma anche di postura politico-strategica. Ieri sono stati annullati gli ordini di carne suina americana: cancellate le spedizioni di 12mila tonnellate. Qualche giorno fa, il presidente americano ha chiesto ad aziende e paesi terzi di scegliere da che parte stare tra Washington e Pechino. Il colosso asiatico ha risposto dichiarando di «opporsi fermamente» a qualsiasi accordo commerciale che la prenda di mira. Un avvertimento esplicito ai governi (Italia compresa) che pensano di inserire clausole o garanzie anti-cinesi nei loro negoziati con la Casa bianca. Così come gli Usa bloccano le esportazioni in Cina di prodotti tecnologici che contengono componenti americani, Pechino si muove sulle spedizioni di terre rare. Nei giorni scorsi, diverse aziende della Corea del sud hanno ricevuto degli avvertimenti ufficiali dal governo cinese di interrompere l’esportazione di qualsiasi apparecchiatura elettrica contenente metalli pesanti con origine nella Repubblica popolare. Il divieto vale in particolare per gli appaltatori militari e le forze armate americane.
La Cina prova anche ad allargare il circolo degli amici. Dopo il viaggio di Xi Jinping nel Sud-est asiatico, il premier Li Qiang ha inviato una lettera al suo omologo giapponese Shigeru Ishiba per sollecitare una risposta coordinata ai dazi. La missiva, trasmessa tramite l’ambasciata cinese a Tokyo, invita i due paesi a «combattere insieme il protezionismo». Difficile che possa esserci un vero allineamento, ma la Cina prova a fare leva sulla percezione di instabilità e incertezza trasmesse (tregua o non tregua) da Trump, sia sul fronte commerciale che su quello strategico. Si guarda anche all’Europa. Il parlamento di Bruxelles ha confermato le indiscrezioni della stampa tedesca, secondo cui Pechino si sta preparando a revocare le sanzioni imposte ad alcuni deputati europei nel 2021. In tal modo, si spera di rilanciare i colloqui per l’accordo sugli investimenti che Xi vorrebbe rimettere sul tavolo prima del summit Cina-Ue di luglio.
C’è poi ovviamente il Sud globale. William Ruto, presidente del Kenya in visita in questi giorni in Cina, ha firmato una serie di nuovi accordi su infrastrutture ed energia. E soprattutto ha annunciato l’intenzione di aderire ai Brics, rafforzando la presenza africana nella piattaforma delle economie emergenti che nella prospettiva cinese sta diventando sempre più un’alternativa al G7. In questa sede, si punta ad ampliare l’utilizzo dello yuan. Intanto, le principali banche russe hanno istituito un sistema di compensazione dei pagamenti denominato “China Track” per le transazioni con la Cina, allo scopo di ridurre la loro visibilità alle autorità di regolamentazione occidentali e mitigare il rischio di sanzioni secondarie. Un test per schermarsi da sanzioni e dazi, in modo forse più sicuro degli incerti colloqui con Trump.
*(Fonte: Il Manifesto – Lorenzo Lamperti, giornalista professionista, di base a Taipei. Per Wired si occupa di Asia orientale, con particolare attenzione agli intrecci tra …)
09 – Matteo Bartocci*: INCONTRO TRUMP-ZELENSKY DENTRO LA BASILICA DI SAN PIETRO .
Il presidente americano Donald Trump e il presidente ucraino Volodymir Zelensky hanno avuto un colloquio durato circa 15 minuti dentro la basilica di San Pietro a margine dei funerali di […]
La Casa bianca ha definito l’incontro “molto produttivo”.
Secondo Kiev, l’Ucraina avrebbe presentato agli Stati uniti una propria proposta di pace con la Russia.
Successivamente, si sarebbero uniti al breve colloquio anche il premier britannico Starmer e il presidente francese Macron.
Il tweet di Zelensky
“Un incontro positivo, abbiamo discusso faccia a faccia molte cose. Spero che seguiranno risultati concreti su tutte le questioni che abbiamo affrontato. Proteggere la vita del nostro popolo. Un cessate il fuoco totale e senza condizioni. Una pace reale e duratura che prevenga l’esplosione di un ulteriore conflitto. Un incontro molto simbolico ma che ha il potenziale per diventare storico, se otterremo risultati condivisi. Grazie presidente Trump”
*(Matteo Bartocci è un giornalista italiano esperto di progetti editoriali digitali. Giornalista parlamentare, è tra i fondatori nel 2012 di il nuovo manifesto società cooperativa editrice)
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