n° 12 – 29/3/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

01 – Roberto Ciccarelli*: Caos Pnrr: il Mef dà l’allarme, la premier si fa i complimenti . Fondi Ue La protesta delle opposizioni: «Sui ritardi il governa venga a riferire in Parlamento». A rischio tagli le missioni 4 (istruzione), 5 (inclusione) e 6 (salute)
02 – Angelo Mastrandrea*: La scure di Trump si abbatte sulle regioni di destra – Guerre commerciali Coldiretti conta i danni, i produttori protestano ma Lollobrigida minimizza
03 – Anna Fabi *: Lavoro e pensione di vecchiaia senza vincoli, limite di reddito per quella ai superstiti
04 – L’OSSESSIONE DI TRUMP PER LA GROENLANDIA – Alla fine la visita di JD Vance in Groenlandia si limiterà alla base militare di Pituffik. Ma l’ambizione di Trump di annettere l’isola artica è tutt’altro che accantonata e preoccupa l’Europa. (*)
05 – Pierluigi Ciocca*: I dazi, la guerra e Keynes. L’azzardo americano – Stati Uniti Economia debole, crescita drogata dall’eccesso di spesa. I cittadini Usa consumano troppo e vivono a spese del resto del mondo. Una lezione del «migliore di tutti» nel 1944
06 – Luigi Pandolfi*: Volano solo oro e armi, i dazi di Trump fanno crollare la fiducia dei consumatori – Stati Uniti Superati i 3000 dollari l’oncia, record storico del bene rifugio per eccellenza. Kaja Kallas: «Così la Cina se la ride». Tutti i listini di Wall Street in “territorio di correzione”, cioè cali di oltre il 10% sul picco massimo
07 – Giovanni Federico*: Trump, Vance e l’Europa scroccona – Anche il parassita è un titolo di merito. Ai tempi di Atene, i parassiti erano funzionari addetti al culto di divinità. Gente, insomma, d’appetito e con un rango di tutto riguardo
08 – Luciana Cimino*: «I sovranisti italiani non fanno gli interessi del paese» – Dazi e dispetti Intervista a Stefano Vaccari (Pd)
09 – Filippo Ortona*: PARIGI – Il nuovo Fronte popolare su tre diverse posizioni – Francia Per La France Insoumise la priorità resta un cessate il fuoco al più presto
10 – Mauro Casadio*: Il crollo dell’illusione euro atlantica – Unione europea nuova bandiera bruciata.jpg Lo scontro fra Trump e Zelensky, e per interposta persona con l’Unione Europea, ha assunto forme inaspettatamente virulente per tutti ed ha fatto emergere la vera questione che nel tempo è stata rimossa nella discussione a sinistra. Ma alla fine ha anche mostrato la natura profonda della contraddizione: quella tra interessi imperialistici divaricanti in Occidente

(a cura di Gugielmo Zanetta)


01 – Roberto Ciccarelli*: CAOS PNRR: IL MEF DÀ L’ALLARME, LA PREMIER SI FA I COMPLIMENTI. FONDI UE LA PROTESTA DELLE OPPOSIZIONI: «SUI RITARDI IL GOVERNA VENGA A RIFERIRE IN PARLAMENTO». A RISCHIO TAGLI LE MISSIONI 4 (ISTRUZIONE), 5 (INCLUSIONE) E 6 (SALUTE)

Il filosofo Etienne Gilson ha scritto: «La ricerca del Santo Graal è la ricerca dei segreti di Dio, inconoscibili senza la grazia». Oggi il Santo Graal è stato più prosaicamente considerato come la crescita del prodotto interno lordo che avrebbe dovuto risollevare l’economia dopo il Covid. Lo strumento che permetterebbe lo svelamento del mistero è il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nemmeno in questo caso la grazia è stata trovata. La ricerca durerà a lungo. Ma il tempo stringe: i 194 miliardi erogati dalla Commissione Europea, prestiti da restituire per due terzi ed elargizioni per il resto, devono essere spesi entro giugno 2026. Mancano 13 mesi.

LA PREOCCUPAZIONE per il termine perentorio è stata enunciata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti l’11 aprile dell’anno scorso (il manifesto 12 aprile 2024): l’Italia non è in grado di spendere i soldi nei tempi stabiliti e ha bisogno di più tempo. Il rischio è rispedire indietro i fondi. Ciò confermerebbe la tragedia di un paese che non è in grado di spendere soldi quando li ha e non può fare investimenti perché deve aumentare gli avanzi primari di bilancio come richiesto dal patto di stabilità. Anche ieri Giorgetti ha ribadito il rischio. Ha fatto di nuovo filtrare, senza smentire, su Repubblica la richiesta di un rinvio di un anno del Pnrr. Salvo schiarite nel cielo di piombo di Bruxelles, Giorgetti sa di trovarsi in una trappola. Dall’altra parte, però, c’è il blocco totale. Il commissario Ue Piotr Serafin ieri: «Una proroga di un anno non è possibile». Lo ha confermato Raffaele Fitto, messo da Giorgia Meloni a Bruxelles per sovrintendere al fallimento che lui stesso ha co-gestito quando era il ministro al Pnrr. L’Italia, ha detto il vicepresidente italiano della Commissione Ue, deve rispettare gli impegni. Lo scorso febbraio l’Osservatorio Openpolis ha sostenuto che è stato speso effettivamente un terzo dei 194 miliardi del Pnrr.

LA RELAZIONE della Corte dei conti ha certificato: «I dati mostrano un rinvio di spese programmate per il biennio 2023-2024 pari a circa 2,4 miliardi. Inoltre, la carenza di personale negli uffici di rendicontazione e controllo ha prodotto un rallentamento sulle verifiche di spesa». I ritardi maggiori riguardano «le missioni 4 (istruzione), 5 (inclusione e coesione) e 6 (salute), che registrano un avanzamento della spesa pari, rispettivamente, al 25%, 14% e 27% dei finanziamenti destinati». Come se nulla fosse, ieri il nuovo ministro alla rogna del Pnrr, Tommaso Foti, ha officiato il rito della cabina di regia con ministri, sottosegretari ed enti locali. Nella sesta relazione approvata dalla riunione – sarà discussa la prossima settimana in parlamento – Giorgia Meloni ha celebrato «il primato europeo dell’Italia nella realizzazione del Pnrr per numero di obiettivi conseguiti, risorse complessive ricevute e numero di richieste di pagamento formalizzate e incassate». Ciò ha permesso al governo di ricevere il pagamento della quinta e sesta rata (11 miliardi e 8,7 miliardi) e di richiedere il pagamento della settima da 18,3 miliardi. I fondi destinati al Sud sono 59,3 miliardi, il 40,8% del totale, come previsto. Insomma è il migliore dei mondi possibili, quello raccontato da Meloni in un video in cui ieri ha celebrato la longevità del suo esecutivo.
LA CONFUSIONE è gigantesca: non si sa chi dice il vero e come stanno le cose. Ed è così che ieri, dopo aver recitato la preghiera sulla stampa del giorno, le opposizioni hanno chiesto per l’ennesima volta al governo di presentarsi in parlamento per chiarire ciò che in fondo non ammetterà mai. «Questa confusione, con i ministri che si smentiscono a vicenda, è la dimostrazione che anche sul Pnrr il governo è nel caos» ha detto Elly Schlein (Pd). I 5 Stelle Mariolina Castellone e Antonio Caso hanno dettagliato: «Dopo aver eliminato centinaia di strutture, a oggi è stato attivato solo un quarto delle case e degli ospedali di comunità non tagliati dal programma. Di queste, appena il 3% è stato dotato del personale necessario. Solo il 25,2% dei fondi destinati agli asili nido è stato utilizzato ed è probabile un taglio di 30 mila posti letto per gli studenti universitari».
A NESSUNO tra i critici dell’opposizione, e gli ottimisti meloniani, è venuto in mente di mettere in discussione la logica dirigistica e neoliberale del Pnrr condivisa dalle maggioranze che l’hanno concepita. Un pugno di persone ha plasmato il futuro e i progetti cadono dall’alto. La loro “messa a terra” non ha coinvolto la società, né si è capito che non è possibile spendere cifre colossali in un tempo così breve. E poi c’è Bruxelles che ha fretta. Ha scoperto di essere diversamente “resiliente”: non più alle pandemie, ma alla guerra. Ora c’è l’ipotesi di destinare i soldi non spesi ai cannoni.
*(Roberto Ciccarelli. Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto».)

02 – Angelo Mastrandrea*: LA SCURE DI TRUMP SI ABBATTE SULLE REGIONI DI DESTRA – GUERRE COMMERCIALI COLDIRETTI CONTA I DANNI, I PRODUTTORI PROTESTANO MA LOLLOBRIGIDA MINIMIZZA
Ci ha provato fino all’ultimo, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida a far credere che i dazi annunciati dall’alleato Donald Trump non avranno effetti sulla filiera del vino italiana. «Il primo problema che noi abbiamo non sono i dazi, è la criminalizzazione del vino», ha detto ieri alla presentazione della più importante fiera del settore, Visitali, che si svolgerà a Verona dal 6 al 9 aprile.
Stavolta però non lo ha seguito nessuno. Non ci sono stati ulteriori interventi di esponenti del governo o dei partiti della destra, e non ha raccolto le sue indicazioni neppure la più «amica» fra le organizzazioni agricole, cioè la Coldiretti, che ha stimato in 6 milioni di euro al giorno il danno economico immediato per la filiera italiana del vino.
L’IMBARAZZO della destra è legato al fatto che a essere penalizzate dai dazi saranno soprattutto le regioni del nord che governano, e i loro effetti rischiano di mettere in crisi alleanze ed equilibri politici già traballanti. Secondo la Confederazione italiana agricoltori (Cia), i vini che dipendono di più dalle esportazioni sono i bianchi Dop del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, con una quota del 48% e un valore esportato di 138 milioni di euro nel 2024, i rossi toscani e piemontesi e il prosecco. Non solo. A rischio è praticamente l’intero made in Italy: dalla pasta all’olio, dall’alta moda all’industria farmaceutica.
L’APRILE NERO DELL’AUTOMOTIVE IN CRISI PREOCCUPA TUTTI TRANNE IL GOVERNO
«I DAZI SONO UN CONTROSENSO E UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO. Colpiranno sì i nostri prodotti agroalimentari e quelli di molti altri settori, ma faranno anche molto male ai consumatori e agli utilizzatori americani», ha commentato l’altro ieri il presidente della Regione Veneto Luca Zaia.
IL VENETO GOVERNATO dalla Lega, che rischia di dividersi alle prossime elezioni regionali, è il territorio che potrebbe essere più colpito, soprattutto per il tracollo delle vendite di prosecco. Ieri il Corriere della Sera ha sottolineato come i dazi proposti da Donald Trump potrebbero cancellare intere produzioni venete, come l’Asolo Docg, un prosecco che vende 32 milioni di bottiglie all’anno, il 75 per cento di queste negli Stati Uniti. I tre consorzi di tutela del prosecco, che complessivamente esportano negli Usa quasi 150 milioni di bottiglie, hanno scritto una lettera al ministro Lollobrigida per chiedere un suo intervento, e difficilmente si accontenteranno del suo tentativo di minimizzare l’effetto dei dazi sull’industria vinicola italiana.
GLI IMPRENDITORI e le associazioni di categoria denunciano che gli importatori americani hanno annullato i loro ordini dopo che la Wine trade alliance, l’associazione che riunisce grossisti, produttori e rivenditori americani, ha raccomandato ai suoi soci di sospendere tutte le ordinazioni per paura di dover pagare dazi fino al 200 per cento.
Poiché le navi che partono oggi arriverebbero non prima della metà di aprile, cioè a dazi già in corso, migliaia di bottiglie sono ferme nei magazzini e nei porti. «I dazi sono già applicati anche se non esistono perché le esportazioni sono bloccate, gli americani hanno bloccato l’importazione dei nostri vini temendo di dover farsi carico loro del dazio perché non c’è una norma che quantomeno adesso escluda dai dazi i prodotti che sono in transito», ha spiegato Paolo Castelletti, direttore generale Unione italiana vini. «Abbiamo chiesto alle istituzioni italiane ed europee di intervenire senza indugio per rimuovere i vini e i whisky statunitensi dalla lista tariffaria europea», ha detto il direttore generale di Federvini Marco Montanaro.
SECONDO L’UNIONE italiana vini (Uiv), le esportazioni di vino italiano negli States sono triplicate negli ultimi vent’anni, hanno raggiunto il valore di 1,94 miliardi di euro e rappresentano quasi un quarto delle esportazioni totali di vino italiano. Per l’Uiv i dazi inciderebbero in particolare sui vini italiani di fascia «popolare», cioè quelli che costano meno. Si tratta di 350 milioni di bottiglie, dal costo medio di 13 dollari.
*(Fonte: Il Manifesto – Angelo Mastrandrea è un giornalista e scrittore italiano.)

03 – Anna Fabi *: LAVORO E PENSIONE DI VECCHIAIA SENZA VINCOLI, LIMITE DI REDDITO PER QUELLA AI SUPERSTITI. CON LA PENSIONE AI SUPERSTITI SI POSSONO EFFETTUARE NUOVE COLLABORAZIONI DI LAVORO AUTONOMO (DA 3.500 L’ANNO) SENZA SUBIRE DECURTAZIONI?
Il trattamento di vecchiaia è compatibile con attività da lavoro mentre la pensione ai superstiti subisce decurtazioni in presenza di altri redditi che superino determinate soglie.
QUANTIFICAZIONE PENSIONE DI REVERSIBILITÀ AL CONIUGE SUPERSTITE
Se il destinatario della pensione ai superstiti (SO) ha anche un reddito aggiuntivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (che per quest’anno è pari a 23.579,22), allora la pensione di reversibilità non subisce alcuna riduzione. Se il reddito aggiuntivo si colloca tra tre e quattro volte il minimo c’è un taglio del 25%, tra quattro e cinque volte il minimo la pensione si riduce del 40% e sopra le cinque volte il minimo la riduzione è del 50%. Per il 2025:
• nessun taglio per redditi aggiuntivi entro 23.579,22 euro
• taglio del 25% per altri redditi tra 23.579,22 e 31.438,96 euro
• taglio del 40% per redditi aggiuntivi tra 31.438,96 e 39.298,70 euro
• taglio del 50% per redditi aggiuntivi superiori a 39.298,70 euro.

A rilevare è dunque il reddito aggiuntivo rispetto alla pensione di reversibilità. Per calcolare questi limiti, si conteggiano tutti i redditi assoggettabili a IRPEF (lavoro dipendente e autonomo, redditi e pensioni all’estero, redditi finanziari…) mentre non si conteggiano i redditi da prima casa, TFR, arretrati, altra pensione di reversibilità, assegni di invalidità, assegni sociali e rendite vitalizie INAIL.
In caso di cumulo della pensione di reversibilità con altri redditi, non è comunque possibile decurtare l’assegno per una quota che risulti maggiore del proprio reddito da lavoro cumulato. In pratica, la decurtazione sulla pensione di reversibilità cumulata con altri redditi non può eccedere l’importo complessivo di questi altri redditi.
Un CONSIGLIO farsi seguire da un consulente, un CAF o un patronato per calcolare il reddito effettivo e di conseguenza la convenienza delle diverse opzioni a sua disposizione.
*(Fonte: PMI.it – Anna Fabi. Esperta di Economia, Fisco e Information Technology, scrive da anni di attualità legata al mondo delle piccole e medie imprese.)

04 – L’OSSESSIONE DI TRUMP PER LA GROENLANDIA – Alla fine la visita di JD Vance in Groenlandia si limiterà alla base militare di Pituffik. Ma l’ambizione di Trump di annettere l’isola artica è tutt’altro che accantonata e preoccupa l’Europa. (*)

Prima l’annuncio, seguito dalle polemiche, poi la parziale correzione di rotta: la visita di JD Vance in Groenlandia risponde ad uno schema ormai consolidato nella gestione delle relazioni internazionali da parte della amministrazione Trump. Così, dopo aver sollevato un vespaio annunciando che avrebbe accompagnato la moglie Usha in Groenlandia, dove avrebbero assistito alla gara nazionale di slitte trainate da cani, il vicepresidente statunitense aggiusta il tiro: visiterà ‘solo’ la base Pituffik per valutare la “sicurezza della Groenlandia”. “È davvero importante: molti paesi minacciano la Groenlandia, i suoi territori e le sue acque per minacciare gli Stati Uniti, il Canada e, naturalmente, per minacciare la popolazione della Groenlandia”, ha detto Vance. La realtà, però, è che non ci sono state minacce pubbliche alla sicurezza dell’isola, territorio autonomo della Danimarca, se non da parte del presidente degli Stati Uniti, che si è rifiutato di escludere l’uso della forza militare pur di annettere la grande isola artica, dotata di ingenti risorse naturali e di una posizione geografica strategica e sulle cui acque il cambiamento climatico aprirà nuove rotte di navigazione. Il fatto che Washington sia il principale garante della sicurezza, fornitore militare e alleato della Nato e della Danimarca è un’altra dimostrazione del disprezzo di Washington per il diritto internazionale, gli alleati e la relazione transatlantica.

CORSA DI SLITTE O TERRE RARE?
L’annuncio della visita di Vance, seppur ridimensionata, non resterà senza strascichi. Il primo ministro danese Mette Frederiksen si è già lamentata del fatto che Washington stia esercitando una “pressione inaccettabile” sulla Groenlandia, le cui forze politiche – pur contrarie ad essere annesse agli Usa – sono in vario modo favorevoli ad un processo che porti l’isola all’indipendenza da Copenaghen. Della delegazione statunitense, guidata dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, fa parte oltre a JD Vance e sua Moglie Usha, il Segretario all’Energia ed ex dirigente minerario Chris Wright. La motivazione ufficiale è che avrebbero partecipato alla gara nazionale di slitte trainate da cani. A nessuno sfugge, però, che la Groenlandia detiene enormi riserve minerarie e petrolifere inutilizzate, ma soprattutto che il suo sottosuolo contiene quelle terre rare, indispensabili per l’industria informatica e la transizione ecologica. Si tratta di cobalto, grafite, litio e nichel – utilizzati nella costruzione di batterie, ad esempio per i motori elettrici – di rame e di zinco, e anche di metalli di nicchia come il titanio, il tungsteno e il vanadio, utilizzati per creare “superleghe”. Inoltre, a causa del riscaldamento globale e del fenomeno noto come ‘amplificazione polare’, nell’arco di due decenni – secondo gli studiosi – aree limitrofe al Circolo Polare Artico resteranno prive di ghiaccio per mesi rendendo percorribili rotte che ridisegneranno il ruolo commerciale dell’isola, rendendola un hub strategico per il trasporto di materie prime e prodotti petroliferi.

I GROENLANDESI SONO PREOCCUPATI?
È fuor di dubbio che l’approccio aggressivo degli Stati Uniti preoccupi i circa 57mila abitanti dell’isola artica, che fino a poco tempo fa guardavano all’interesse di Trump nei loro confronti come ad un elemento da sfruttare per ottenere l’indipendenza dalla Danimarca. Oggi invece, come ha sottolineato il premier uscente Mute Egede, si va facendo strada la sensazione che la Groenlandia abbia bisogno di aiuto dall’esterno per resistere alle crescenti pressioni di Washington. Nelle ultime settimane centinaia di persone hanno preso parte a manifestazioni contro gli Stati Uniti, alcune delle quali esponevano cartelli con la scritta “Rispettate gli accordi internazionali” èYankee tornate a casa”. Il fatto che una delegazione di alto livello di funzionari statunitensi visiti la Groenlandia senza essere stata invitata, soprattutto dopo le elezioni nazionali e mentre i partiti sono ancora in trattativa per formare il prossimo governo, solleva numerosi interrogativi. Jens-Frederik Nielsen, capo del partito Demokraatit e probabile prossimo primo ministro, ha detto lunedì ai groenlandesi che devono “restare uniti” ma che non c’è motivo di farsi prendere dal panico: “Non dobbiamo essere costretti a un gioco di potere a cui noi non abbiamo scelto di partecipare”.

L’EUROPA È IN RITARDO?
La possibilità che l’isola possa diventare l’ennesima pedina della competizione tra USA e Cina preoccupa anche gli europei. Soprattutto alla luce di un rapporto in rapido deterioramento con Washington, le attenzioni che l’amministrazione americana continua a riservare alla Groenlandia hanno fatto scattare più di un campanello d’allarme nel Vecchio Continente. Lo shock provocato dalle dichiarazioni di Trump infatti, ha evidenziato il colpevole disinteresse per il territorio, a lungo trascurato dalle cancellerie europee e in cui solo nel 2024 l’Ue ha finalmente aperto un ufficio di rappresentanza. Perfino la Danimarca si sta rendendo conto di aver sottovalutato l’importanza cruciale dell’isola per più di due secoli. Eppure non è la prima volta che il presidente americano si dimostra interessato ad annettere la Groenlandia agli Stati Uniti. Già nel 2019 aveva avanzato l’idea di acquistare il territorio. A peggiorare le cose c’è il fatto che il tycoon che siede oggi nello Studio Ovale non è più il novellino del suo primo mandato, e che intende approfittare di in un momento in cui la Cina è alle prese con difficoltà economiche e l’Europa è divisa e priva di una leadership forte. Da parte di Bruxelles si è dato per scontato che una situazione che languiva da tempo sarebbe rimasta immutata. È stato un errore. E oggi le evoluzioni geopolitiche rischiano di essere più rapide di quanto non riesca ad esserlo l’Europa.
*(redazione: ISPI Daily Focus)

05 – Pierluigi Ciocca*: I DAZI, LA GUERRA E KEYNES. L’AZZARDO AMERICANO – STATI UNITI ECONOMIA DEBOLE, CRESCITA DROGATA DALL’ECCESSO DI SPESA. I CITTADINI USA CONSUMANO TROPPO E VIVONO A SPESE DEL RESTO DEL MONDO. UNA LEZIONE DEL «MIGLIORE DI TUTTI» NEL 1944.

Si può dubitare che gli americani sarebbero amici dell’Europa se solo non vi fossero Trump e Vance. Per due lunghi anni gli Stati uniti non si impegnarono militarmente a favore dell’Inghilterra aggredita da Hitler. Keynes sperimentò la durezza americana nel 1944. Due anni dopo dovette ripetere l’esperienza. Morì anche per questo.
Nel 1944 Londra avevano delegato a Bretton Woods Keynes, Robbins e Robertson.
Ma i migliori cervelli non bastarono. Nello scorcio del conflitto Roosevelt, Morgenthau e White non escludevano di ricondurre la Germania, cuore dell’Europa, allo «stato di pastorizia». Keynes non riuscì a ottenere il Bancor e la Clearing Bank: né la moneta né la banca centrale che proponeva per ricostruire il mondo. White, coriaceo negoziatore, respinse senza appello la pretesa di Londra di conservare il commercio preferenziale con i Dominions.
Nel 1946 l’Inghilterra era altamente indebitata con gli Usa quando Keynes venne spedito a Washington per ottenere un ulteriore prestito all’Inghilterra stremata dalla guerra, ridotta a razionare il cibo. Le condizioni del prestito strappato da un Keynes fisicamente minato dalla trattativa furono meno favorevoli di quanto egli stesso aveva sperato e fatto sperare a Londra. Nemmeno allora bastò «il più intelligente di tutti», come lo definì Harrod, l’economista illustre, amico e allievo di una vita, insuperato biografo. A guerra finita, l’opinione pubblica e il Congresso degli Stati uniti volevano che gli inglesi ormai facessero da soli. Il pericolo rosso europeo era ancora poco avvertito. Solo nel 1948 Truman e Marshall finanziarono la ricostruzione dell’Europa, estesa alla Germania nazista che con l’Italia e gli altri alleati fascisti aveva sterminato 27 milioni di russi e sei milioni di ebrei. Non lo fecero per solidarietà, ma come barriera contro il comunismo.

E oggi? La differenza rispetto ad allora è che l’economia americana è debole. La sua crescita, sull’orlo dell’inflazione, è drogata dall’eccesso di spesa, dagli alti salari, dalla produttività che ristagna nonostante Ict, Ai, social, Musk. L’investimento eccede il risparmio nella misura di quattro punti di Pil. La manodopera scarseggia, eppure Trump deporta immigrati in catene. Il bilancio pubblico è passivo per il 7% del Pil, il debito supera il 120% del Pil. La Fed non può ridurre i tassi dell’interesse.
Gli americani consumano troppo, vivono a spese del resto del mondo. Che finanzia la loro bilancia dei pagamenti in rosso da mezzo secolo. Il deficit di parte corrente sfiora il trilione di dollari, tre punti di Pil. Riflette la carenza di risparmio ma anche la perdita di competitività di prezzo, rispetto alla stessa Europa. Quindi la posizione debitoria netta verso l’estero degli Stati uniti va ad avvicinare 25 trilioni. Un terzo del credito proviene da Cina, Giappone, Germania. Se questi paesi – o i Brics – lo vendessero, il dollaro crollerebbe con penose ripercussioni, inflazionistiche e recessive, per gli americani.
Trump ha intuito che la minaccia alla leadership del suo Paese è radicata nei conti con l’estero. Ma i dazi significano debolezza, e non risolvono. Aggiungono all’inflazione. Creano incertezza. Possono diffondere recessione. Proposti da Smoot e Hawley ben prima dell’ottobre 1929, in un parlamento di repubblicani filo-contadini i dazi superarono l’opposizione di Hoover – presidente fra i più colti – e quella di economisti, industriali, banchieri. La scelta «asinina» contribuì non poco a trasformare in mondiale la crisi di una Borsa.
Per evitare l’inflazione e riequilibrare la bilancia dei pagamenti, Trump dovrebbe piuttosto frenare la domanda interna con la politica fiscale e monetaria e attuare una svalutazione del dollaro controllata e accettata dai detentori, in un accordo «Plaza» nuovo e diverso.
Gli europei, dal canto loro, non devono rispondere con dazi a dazi che tolgono al commercio mondiale due punti già nel 2025. Se i dazi americani frenano le sue esportazioni, l’Europa sostenga la domanda interna con investimenti pubblici produttivi, tagliati da decenni. La Russia è fiaccata anche sul piano economico da tre anni di aggressione all’Ucraina. L’Europa, Londra inclusa, già spende molto per le armi, non meno di Mosca. La deterrenza è mero pretesto.
Obiettore di coscienza durante il primo conflitto, nel 1924 Keynes sottolineò come con le spese di guerra «le merci e i servizi ottenuti siano destinati a estinzione immediata e infruttifera,
*(Fonte: Il Manifesto – Pierluigi Ciocca, economista italiano. Pierluigi Ciocca è stato vicedirettore generale della Banca d’Italia dal 1995)

06 – Luigi Pandolfi*: VOLANO SOLO ORO E ARMI, I DAZI DI TRUMP FANNO CROLLARE LA FIDUCIA DEI CONSUMATORI – STATI UNITI SUPERATI I 3000 DOLLARI L’ONCIA, RECORD STORICO DEL BENE RIFUGIO PER ECCELLENZA. KAJA KALLAS: «COSÌ LA CINA SE LA RIDE». TUTTI I LISTINI DI WALL STREET IN “TERRITORIO DI CORREZIONE”, CIOÈ CALI DI OLTRE IL 10% SUL PICCO MASSIMO

Tra gli effetti della guerra commerciale scatenata da Trump c’è anche la corsa all’oro come «bene rifugio». Ieri nuovo record, il tredicesimo dall’inizio dell’anno: 3006 dollari per un’oncia. Ma per molti osservatori il rally non è ancora finito, indicando come prossimo target, addirittura, i 3500 dollari. È un segnale di quello che in gergo si chiama «ricalibrazione dei mercati»: può rappresentare una prima risposta a condizioni economiche avverse ma anche un’anticipazione di cambiamenti strutturali nelle dinamiche finanziarie globali.
Alla base di tutto, ci sono infatti le crescenti tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo che stanno alimentando i timori di un rallentamento economico globale, spingendo gli investitori a «rifugiarsi» in asset più sicuri, ma anche l’aspettativa di ulteriori tagli dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, che renderebbero meno attraenti altri investimenti. A ciò si devono aggiungere le scelte di alcune banche centrali, come quella cinese, di incrementare le loro riserve auree per diversificare le riserve valutarie e ridurre l’esposizione al dollaro statunitense, percepito adesso come valuta meno stabile rispetto al passato. Più fattori, ma un’unica matrice, insomma: la Trumpeconomics.
I rischi collegati a questa «febbre dell’oro» sono in ogni caso molteplici. Tra tutti, quello di una eccessiva volatilità dei mercati. Un’impennata del prezzo dell’oro, riflettendo una certa incertezza economica, può determinare infatti una riduzione della liquidità in altri asset come azioni e obbligazioni, con effetti destabilizzanti sul sistema, se tale riduzione, per di più, avviene in maniera repentina. È quello che si intravede dai listini dei principali indici statunitensi, d’altra parte, tutti in «territorio di correzione», il fenomeno che si verifica quando i titoli scendono di oltre il 10% rispetto al loro recente massimo.
Con l’oro corrono soltanto i titoli delle multinazionali delle armi, da una sponda all’altra dell’Atlantico. Un segno dei tempi, anche questo. Il piano di riarmo europeo, prima ancora di essere attuato già sta facendo la fortuna degli azionisti delle industrie produttrici. In Italia, il valore delle azioni di Leonardo, detenute per il 50,3% da investitori istituzionali, tra cui i principali colossi finanziari americani (BlackRock, The Vanguard, Goldman Sachs, ecc.), è aumentato del 70% dall’inizio dell’anno.
Oro e armi, un binomio che la dice lunga su che strada si è messo il mondo. Intanto, proprio negli Stati Uniti crescono di giorno in giorno i timori di un deterioramento del quadro economico. JPMorgan ha aumentato la probabilità di una recessione al 40% per quest’anno. Ed anche i mercati delle scommesse rispecchiano la stessa incertezza. Non va meglio dal lato della fiducia dei consumatori, ai minimi degli ultimi 29 mesi. A marzo, secondo le stime dell’Università del Michigan, l’indice è sceso a 57,6 punti dai 64,7 del mese precedente (le aspettative erano di 63,1). Un crollo del 27,1% su base annua. «Molti consumatori hanno fatto riferimento all’alto livello di incertezza sulle politiche del presidente Donald Trump e su altri fattori economici», è stato il commento di Joanne Hsu, che ha diretto il sondaggio.
Mentre l’America trema, a Pechino si fissa invece un obiettivo di crescita al 5% per quest’anno e si vara un robusto piano per rilanciare la domanda interna e mitigare gli effetti dei dazi di Trump. Le misure di stimolo prevedono l’emissione di 4,4 trilioni di yuan (570 miliardi di euro) in obbligazioni speciali per finanziare progetti infrastrutturali, 1,3 trilioni di yuan (168 miliardi di euro) in obbligazioni del Tesoro a lunghissimo termine e 500 miliardi di yuan (65 miliardi di euro) in obbligazioni sovrane per sostenere le maggiori banche commerciali del Paese, nonché politiche per sostenere l’industria dell’intelligenza artificiale e aiutare i progetti di energia rinnovabile. Una risposta keynesiana alle incertezze del momento. E numeri, soprattutto, che all’Alto rappresentate per la politica estera dell’Unione Kaja Kallas hanno fatto dire, con sarcasmo verso gli Usa e la loro politica protezionista, «la Cina se la ride».
*(Luigi Pandolfi – giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine)

07 – Giovanni Federico*: TRUMP, VANCE E L’EUROPA SCROCCONA – ANCHE IL PARASSITA È UN TITOLO DI MERITO. AI TEMPI DI ATENE, I PARASSITI ERANO FUNZIONARI ADDETTI AL CULTO DI DIVINITÀ. GENTE, INSOMMA, D’APPETITO E CON UN RANGO DI TUTTO RIGUARDO

A causa di un grossolano errore, informazioni “classificate” del Governo USA su azioni di guerra in Yemen, scambiate sulla piattaforma Signal, sono finite anche al Direttore della rivista The Atlantic. Ne è venuto fuori che il Vice Presidente Vance ha detto come “odia salvare l’Europa”.
Nello scambio di battute con Hegseth, il segretario della Difesa ne è venuto fuori il ritratto di un Europa “patetica.” Trump, a commento dell’episodio, ha detto che gli Europei sono dei parassiti e che il Direttore del giornale è un farabutto. Siamo di fronte ad un frasario ruvido e di tutta franchezza verso il vecchio Continente.
Nel film “Questa specie d’amore” una coppia in crisi cede al tradimento. Solo con l’intervento del padre di lui ritroveranno intesa e morale d’un tempo. Il sentimento che ha unito Usa ed Europa è svaporato fino ad arrivare, almeno da una parte, alla detestazione. Forse un giorno un padre della patria interverrà a riportare la ragionevolezza ed un antico afflato tra le due terre, ma per adesso le cose sono così.
Trump ha girato le spalle a quella che fu la genitrice dei pellegrini che sbarcarono secoli addietro oltre oceano per dare vita al paese più forte al mondo. Sull’accaduto ha sostanzialmente fatto spallucce. Non ha fatto ricorso a frasari diplomatici per addolcire le parole, anzi rimarcandole. Ha dato una spallata a quel poco che ancora restava in piedi di buona considerazione verso una madre annebbiata ed affannata ma non priva di sapienza storica.
Sembra che adesso Trump voglia disarcionarsi di dosso la storica alleata e far correre libero e leggero il mustang americano senza traini ad infiacchirlo. Non a caso “mustang” si riferisce ad una razza di cavallo che non ha padrone, dal carattere selvaggio e che non risponde a nessuno se non a sé stesso. Mustang è per definizione “l’animale che si allontana” e quella degli Usa è per certo una presa di distanza dalla cara vecchia Europa.
Sin dalla sua origine l’Europa è sempre stata fucina di guerre interne e di conquista del mondo. Su questo ha dato lezione all’umanità fino al momento attuale. Oggi, invece, ha perso smalto. Non ha più voglia di menare le mani. È demograficamente malconcia ed i soldi che in tasca preferisce spenderli per una migliore qualità di una vita che investirla in armi. Su questo, a vederla in positivo, potrebbe rappresentare uno stadio evolutivo, che paga essere andata troppo avanti rispetto ad uno scenario che urla ancora il piacere e la necessità di conflitti e di sangue.
Putin e Trump hanno dato una spallata decisa agli equilibri in corso per rimescolare le carte e fare una nuova partita di gioco. Sull’Europa, che non c’è, aleggiano instancabili sparvieri in attesa di sfinirne quel poco che la tiene in piedi. In caccia si attacca sempre la preda più debole. Si è cominciato con l’Ucraina e quando si avrà nuova fame forse si continuerà, puntando sulla disunione del branco.
Eppure messe le cose in questo modo versiamo in errore. La realtà dice altro e che, malgrado le apparenze, stiamo cadendo in un gigantesco equivoco. Il fatto va letto invece con compiacimento. Ci sarebbe, infatti, tutto da rallegrarsi per la targa di pateticità assegnata positivamente all’Europa.
Ci sarà stata senz’altro una forbita suggestione riferita all’ascolto della splendida “Patetica” di Beethoven per cui il termine va inteso non come commiserazione e disprezzo ma al contrario secondo lo spirito di Schiller. Così, “il patetico è la vera essenza del sublime e solo mediante la rappresentazione della natura sofferente si raggiunge il sublime”. A tradurla in volgare, solo attraverso il rantolo europeo si può gustare la sublimazione dei paesi che ne sono compromessi.
Sono sempre i nostri pregiudizi a vedere nero lì dove è il bianco. Anche il parassita è un titolo di merito da non trascurare. Infatti, da principio, ai tempi di Atene, i parassiti erano funzionari addetti al culto di divinità a cui spettava dividersi la vittima sacrificale. Gente, insomma, d’appetito e con un rango di tutto riguardo.
Solo successivamente, al tempo del teatro dei Romani, sembra siano stati trasformati in personaggi addetto a provocare la risata, ingordi furbacchioni che si muovono alle spalle di ignari padroni. A farla breve, sono degli scrocconi.
Stupidi noi a non capire che “patetici e parassiti” sono dei complimenti, appena camuffati per non arrossire per l’elogio attestato. Sembra che l’Europa debba allora ravvedersi, finire di bearsi nella sua bellezza di arte ed eleganza e tornare ad allenarsi per far scrocchiare le nocche delle proprie mani pronta a stendere l’eventuale avversario. È una triste prospettiva, il prezzo da scontare per essersi spinti troppo avanti in un modello di civiltà che non contempla sangue e pallottole. Più che un ritorno al futuro si tratterà di andare indietro nel futuro e possibilmente tentare di restarci. Sarebbe solo un sogno.
*(Giovanni Federico, storico e filosofo, storico economico di professione)

08 – Luciana Cimino*: «I SOVRANISTI ITALIANI NON FANNO GLI INTERESSI DEL PAESE» – DAZI E DISPETTI INTERVISTA A STEFANO VACCARI (PD) Stefano Vaccari, capogruppo Pd in commissione Agricoltura alla Camera, mercoledì scorso la premier dalla manifestazione Agricoltura è, organizzata dal ministro Lollobrigida, ha detto che per tutelare i prodotti agroalimentari italiani dai dazi imposti da Trump serve diplomazia e «farli conoscere» con iniziative come quella, appunto.

LA CONVINCE COME POSIZIONE?
Assolutamente no. È un atteggiamento non all’altezza della gravità della situazione innescata da Trump e rivendicare, come ha fatto in Parlamento, l’equidistanza tra il presidente Usa e l’Europa attesta che la presidente del consiglio ha più a cuore il rapporto con l’alleato sovranista rispetto agli interessi del paese. Sui dazi finora non abbiamo ascoltato nessuna presa significativa di distanza, forse preoccupata di non rompere definitivamente con Salvini e la Lega.
Non si tratta solo dei rapporti diretti con gli Stati Uniti: sulla nostra economia potrebbero abbattersi anche le conseguenze dei dazi su altri partner europei.
I dazi di Trump potrebbero innescare ritorsioni a catena e potrebbero prevalere sui mercati prodotti che non garantirebbero qualità e salubrità, quelle riconosciute alle nostre eccellenze agroalimentari. Senza contare che certe produzioni risultano discutibili anche dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. Una questione non secondaria è quella legata all’accrescimento dell’italian sounding, prodotti che attraverso denominazioni ed etichettature particolari rimandano al nostro paese ma che in realtà solo brutte e cattive copie.
Nell’agroalimentare i dazi ci costerebbero 2 miliardi: una cifra insostenibile che metterebbe in ginocchio intere filiere produttive e causerebbe migliaia di occupati in meno
Stefano Vaccari
La premier ha annunciato che andrà a Washington.
Con Trump deve parlare l’Europa sulla base di una proposta che non accetti la ritorsione e forte della possibilità, sostenuta da risorse, che si possano spostare i mercati europei dell’export. Andare in forma singola sarebbe deleterio e minerebbe la coesione e la solidarietà che è alla base dell’Ue.

Anche Confindustria ha usato toni duri. Cos’è che sta sottovalutando il governo?
L’Italia della destra guarda con fastidio a una Unione europea forte e unita. Cosa che è invece la premessa, come indicano anche le forze produttive del paese. La sottovalutazione è la conseguenza di un atteggiamento arrendevole nei confronti di Trump e delle sue politiche sovraniste e separatiste. A Trump interessa governare gli equilibri mondiali per affermare i grandi interessi. Sta succedendo anche nei conflitti in atto, in Ucraina e a Gaza. L’idea predominante non è la pace duratura ma come con altri oligarchi ci si divide i bottini di guerra.

COSA SUCCEDERÀ IL 2 APRILE?
Se la premessa sono i dazi al 25% già annunciati sulle auto, senza un accordo sarà un disastro per tutti. Anche in caso di reciprocità. Aumenterebbero a dismisura i prezzi finendo per gravare sui cittadini. Pensiamo ai farmaci. Alcuni perché non più convenienti potrebbero essere ritirati, altri costerebbero così tanto da non poter essere utilizzati da gran parte delle popolazioni.

La questione è grave anche per l’agroalimentare.
In questo settore l’export negli Usa è cresciuto del 158% in dieci anni e oggi sono il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino, con 7,8 miliardi di euro incassati nel 2024. Siamo primi in Europa. I dazi ci costerebbero oltre 2 miliardi: una cifra insostenibile che metterebbe in ginocchio intere filiere produttive. Aggiungo che dazi al 20% secondo l’Istat produrrebbero -0,2% di Pil e 57 mila occupati in meno.

LA SINISTRA ITALIANA COSA PUÒ FARE IN EUROPA?
Dire che la nuova Pac, che il commissario europeo vuole riscrivere, deve essere equa e deve redistribuire le risorse verso le imprese agricole che rispettano giustizia sociale e ambientale, accompagnandole con strumenti che salvaguardino il reddito.
*(Luciana Cimino – Giornalista, Consulente comunicazione politica · Giornalista professionista. Il Manifesto. Ho scritto la graphic novel sull’inventrice del giornalismo sotto.)

09 – Filippo Ortona*: PARIGI – IL NUOVO FRONTE POPOLARE SU TRE DIVERSE POSIZIONI – FRANCIA PER LA FRANCE INSOUMISE LA PRIORITÀ RESTA UN CESSATE IL FUOCO AL PIÙ PRESTO

Alla chiusura del summit di Parigi, ieri, la sinistra francese non aveva ancora espresso alcuna posizione chiara, men che meno unitaria, sulle principali proposte dell’Eliseo. Così, di fronte alla «coalizione dei volenterosi» avanzata da Macron, o rispetto allo stanziamento di ulteriori finanziamenti per sostenere Kiev, la gauche rimane divisa sulle grandi linee che hanno segnato le fratture del Nuovo Fronte Popolare negli ultimi mesi: il Partito socialista sostanzialmente d’accordo con la compagine macronista, La France Insoumise contraria, e gli ecologisti in mezzo al guado.

«Gli europei devono mostrare che sono pronti non tanto a fare la guerra, ma a garantire la pace», ha detto l’ex-presidente e attuale deputato socialista François Hollande, durante un’intervista in tv ieri mattina, nella quale ha espresso approvazione per la formazione di un eventuale contingente internazionale sotto l’egida dall’Onu. Secondo Hollande, Macron «ha ragione di dire che c’è una minaccia russa», una «minaccia esistenziale» alla quale si accompagna, per l’ex-presidente, «un partner insufficiente come Donald Trump».
Già a inizio marzo, l’attuale segretario del Ps, Olivier Faure, si era detto «d’accordo con l’azione del presidente della Repubblica», e convinto della necessità di «fare blocco con gli ucraini e, nel medio termine, impegnarsi in una difesa europea» nella quale i francesi prendano tutta la loro responsabilità, mettendo sul tavolo la questione dell’ombrello nucleare» da condividere con gli altri paesi dell’Unione, un’altra proposta avanzata da Macron nelle ultime settimane. Qualche giorno dopo, il Ps ha scritto in un comunicato che il partito rimarrà «a fianco degli ucraini fino alla sconfitta di Putin».
Gli Ecologisti hanno invece espresso dubbi quanto alla retorica utilizzata dai socialisti, pur dicendosi convinti della necessità del sostegno militare all’Ucraina, a patto che questo non venga fatto a colpi di nuova austerità. «Non siamo contro a priori» all’aumento «del budget della difesa per difendere l’Ucraina», ha detto la segretaria del partito Marine Tondelier, a patto che avvenga «aumentando le imposte dei più ricchi».
Per La France Insoumise, il partito di maggioranza relativa nel Nfp, la priorità resta invece quella di siglare un cessate il fuoco al più presto, preludio a un accordo di pace fondato su «rispettive garanzie di sicurezza tra gli ucraini e i russi, che includano il fatto che l’Ucraina non integri la Nato», ha scritto sul suo blog il fondatore di Lfi Jean-Luc Mélenchon, possibilista su di un eventuale invio di truppe «per interporsi e garantire la pace», a patto che siano «messe sotto l’autorità dell’Onu e il suo comando militare».
Prima del summit di ieri, Macron aveva invitato i francesi a nuovi «sacrifici» in vista di una politica di riarmo, in concomitanza con la presentazione del piano europeo di ReArm Europe. Una logica alla quale Lfi è radicalmente opposta e alla quale Mélenchon intende «fare ostacolo, in modo determinato», come ha scritto sul suo blog. Per il deputato europeo Lfi Anthony Smith, «ReArm Europe, sono 800 miliardi per il complesso militare-industriale», una «Europa della guerra» alla quale bisogna dire «stop», ha scritto sui social.
Sullo sfondo della crisi ucraina, per gli insoumis si tratta soprattutto di difendere una politica di «non-allineamento», come non cessano di ripetere i responsabili del partito.
*(Fonte: Il Manifesto-Filippo Ortona è giornalista per la carta stampata e la tv in Francia e in Italia)

10 – Mauro Casadio*: IL CROLLO DELL’ILLUSIONE EURO ATLANTICA – UNIONE EUROPEA NUOVA BANDIERA BRUCIATA.JPG LO SCONTRO FRA TRUMP E ZELENSKY, E PER INTERPOSTA PERSONA CON L’UNIONE EUROPEA, HA ASSUNTO FORME INASPETTATAMENTE VIRULENTE PER TUTTI ED HA FATTO EMERGERE LA VERA QUESTIONE CHE NEL TEMPO È STATA RIMOSSA NELLA DISCUSSIONE A SINISTRA. MA ALLA FINE HA ANCHE MOSTRATO LA NATURA PROFONDA DELLA CONTRADDIZIONE: QUELLA TRA INTERESSI IMPERIALISTICI DIVARICANTI IN OCCIDENTE.

Dunque grande è la confusione sotto il cielo e la situazione è eccellente! Ma come interpretare questa improvvisa precipitazione nelle relazioni transatlantiche? Come collocare questa netta discontinuità dentro l’apparente egemonia e dominio mondiale euroatlantico a trazione statunitense, apparentemente irreversibile fino al Novembre scorso?
Le interpretazioni che stanno fiorendo sono molteplici: dalla follia mercantilista di Trump alla influenza della “tech oligarchy” composta dagli uomini più ricchi della terra, dalla subordinazione dei gruppi dominanti dell’UE agli USA al “riscatto militare” che deve sancire l’emancipazione europea da uno Stato non più amico, ma divenuto repentinamente antidemocratico nell’arco di una campagna elettorale.

Insomma la “Fine della Storia” sta ottenebrando le migliori menti occidentali, le quali non riescono e non vogliono risalire alle cause strutturali di questa contraddizione, pure manifestatasi già da molto tempo. Anzi rifiutano proprio di affrontarle, limitandosi a “sezionare” in infiniti e noiosissimi dibattiti televisivi o interviste giornalistiche gli aspetti formali, reversibili spesso nell’arco di 24 ore, di carattere politico-etico, di minaccia da parte delle “pericolosissime autocrazie”, oppure di carattere economico contingente.

Anche “a sinistra” non emergono analisi particolarmente brillanti, ondeggiando tra un pacifismo militarista-europeista, alla PD, ed un pacifismo ipocrita come quello dei 5Stelle che al governo avevano votato il finanziamento per le armi all’Ucraina e l’acquisto degli F35, e oggi lucrano elettoralmente sulle contraddizioni del campo largo. Come diceva Totò, adesso si “buttano a sinistra”.

Va detto inoltre che scarseggiano le analisi prodotte dall’uso delle categorie marxiste, oppure si limitano a espressioni di singoli intellettuali e militanti, mentre le organizzazioni politiche si contorcono in elaborazioni sovrastrutturali, non andando mai a fondo della natura della contraddizione in atto.

Nella realtà siamo dentro a un nuovo salto di qualità dell’assetto mondiale instauratosi dagli anni ’90, e la frammentazione del mercato globale fa riemergere i caratteri regressivi di un modo di produzione che ci sta trascinando di nuovo nella guerra.

Le forme sono quelle demenziali consegnate tutti i giorni dalla cronaca politica, economica e militare, ma il processo che le ha generate era interpretabile già dagli anni ’90 per come si andava caratterizzando, e ben visibile dopo la crisi finanziaria del 2008.

Bastava utilizzare le giuste categorie e in questo caso rimane fondamentale la chiave di lettura che ci fornisce il saggio popolare su “l’imperialismo” scritto da Lenin agli inizi del secolo scorso.

L’apertura di spazi sconfinati di crescita con la fine del campo socialista in Europa, e con l’apertura della Cina all’economia occidentale, ha dato ossigeno a una dimensione mondiale del capitalismo che era già in crisi finanziaria dagli anni ’80, basta ricordare il crollo della borsa di Tokio nell’87, ma ha ricevuto una spinta eccezionale e inaspettata dalla rottura dell’equilibrio internazionale creatosi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Di quel processo oggi è possibile farne la storia.

Ma quella crescita nata sotto le leggi del capitale non poteva far altro che riprodurre e amplificare le contraddizioni di un Modo di Produzione spinto da una necessità di crescita infinita e che alla fine ha dovuto sempre fare i conti, nella sua storia, con i limiti di volta in volta incontrati e riprodotti.

Nel “Big Bang” liberista degli anni ’90 c’è stato spazio per tutti e ognuno poteva aspirare a prendersi una fetta della torta, ma quella stessa possibilità accelerava tutte le contraddizioni dell’assetto capitalista: dalla finanziarizzazione alla centralizzazione e concentrazione dei capitali, dalla competizione prodotta dall’aumentata composizione organica del capitale mondiale al ritrovato ruolo degli Stati come comitati di affari della borghesia.

Un ruolo questo manifestatosi con gli interventi militari, da quello nella Jugoslavia ai molteplici interventi in Africa e Medio Oriente fino all’Afghanistan, con relativa spartizione dei bottini tra i briganti euroatlantici. Un ruolo inoltre riconfermato dal consistente aiuto finanziario pubblico dato alle banche nella crisi del 2008.

Sempre a partire da quel periodo si sono andati a costituire diversi poli economico-finanziari. Oltre agli USA è emersa la nascente Unione Europea. Anche in Asia s’è manifestata la tendenza a costruire un’area regionale, prima con il Giappone, poi definitivamente messo in ginocchio con la crisi finanziaria della fine degli anni ’90, causata dagli USA, e poi la Cina che ha saputo crescere economicamente e ora si è consolidata politicamente avendo al governo il Partito Comunista.

La nascita dei diversi centri di gravità geopolitici non significava necessariamente solo competizione ma anche collaborazione, almeno fin quando i margini di crescita c’erano per tutti, in una contrattazione politica durata di fatto fino alla crisi del 2008.

Sotto la coperta dell’Euroatlantismo i gruppi dominanti USA e UE hanno cercato di mantenere una facciata unitaria politico-militare, hanno scatenato le guerre di civiltà, fino ad arrivare alla definizione di Borrell del mondo come “il giardino e la giungla”. Questo assetto ha tenuto politicamente nei diversi passaggi di fase ma è stato incapace di invertire la marcia delle contraddizioni emerse con il crollo dell’URSS e l’affermazione “globale” del Modo di Produzione Capitalista.

Mentre si celebrava la “fine della storia” in nome dell’egemonia del capitale, gli “spiriti animali” procedevano speditamente ridisegnando i blocchi geo-economici mondiali, con processi che hanno marciato insistentemente dagli anni ’90 in poi, fino a quando il giocattolo non si è rotto e la frammentazione dei mercati ha bloccato la crescita economica, incrementando fortemente la competizione tra i soggetti operanti all’interno del capitalismo mondializzato.

La mistificazione dell’Euroatlantismo, versione moderna dell’Eurocentrismo coloniale, non ha tenuto alla contraddizione fondamentale che andava maturando: quella tra gli USA e la costituenda Unione Europea. Partendo dagli accordi di Maastricht, passando per la nascita dell’Euro e tentando di allargare al massimo la dimensione della UE e la sua capacità competitiva, era inevitabile l’emergere della divaricazione di interessi dei due soggetti principali del capitalismo occidentale.

Per paradosso, questa contraddizione si è resa manifesta non per la capacità dei gruppi dominanti nella UE di ricercare una propria autonomia strategica, ma per una difficoltà strutturale degli USA. Questi, infatti, avendo lucrato sulla propria rendita di posizione mondiale, hanno sviluppato al massimo il debito pubblico e privato e ora il livello raggiunto è divenuto insostenibile spingendo quel paese a forzare economicamente e finanziariamente anche all’interno dell’imperialismo occidentale per sostenere la propria situazione.

Questo non è certamente il prodotto della presidenza Trump ma del ruolo avuto dagli USA dagli anni ’90, il quale ha portato alla crisi finanziaria del primo decennio del secolo, alla fuga dall’Afghanistan per insostenibilità economica della guerra, e infine all’emergere del “fenomeno Trump” a causa della crisi sociale interna, che ha prodotto miseria e instabilità anche nel cosiddetto ceto medio, ovvero quella che storicamente era la base politica ed elettorale delle classi dirigenti USA.

Per quanto riguarda la UE, collaborativa e competitiva allo stesso tempo con gli altri imperialismi, oggi si trova di fronte ad una reazione simile a quella del 1971, quando gli USA abolirono il cambio del dollaro con l’oro a Bretton Woods senza nemmeno informarne gli alleati.

All’epoca la guerra del Vietnam aveva convertito gran parte dell’economia nazionale alla produzione militare e la produzione civile veniva svolta dall’Europa, che ebbe un aumento fortissimo delle esportazioni e in particolare della Germania, e dal Giappone ridando fiato e competitività ai paesi sconfitti nella seconda guerra mondiale.

Di fronte a questo esito inatteso gli USA decisero di abolire la convertibilità del dollaro con l’oro e diedero il via ai processi di finanziarizzazione recuperando egemonia a occidente, questi oggi però sono arrivati ai limiti delle loro possibilità di sviluppo.

Le classi dominanti europee ora si trovano a fare i conti, loro malgrado, con una difficile scelta. Lo scontro tra USA e UE non nasce da scelte politiche erronee, ma dal PROCESSO generato dal capitalismo. Questo prescinde dalle specifiche volontà dei soggetti in campo e li costringe a fare i conti con la variabile indipendente della dinamica del Modo di Produzione Capitalista.

Insomma non possono fare ciò che “vogliono” fare, ma quello a cui sono costretti. Questo è il metro di misura da utilizzare se vogliamo interpretare le possibilità per l’organizzazione di classe che si aprono in questo nuovo scenario storico.

Dunque la favoletta che i russi vogliono invadere l’Europa è la copertura politica e ideologica per preparare una svolta reazionaria, non certo gestita dalle temutissime forze populiste/fasciste, ma direttamente dalla maggioranza “Ursula”; e dunque forzare sul processo di unificazione europeo, obiettivamente oggi in stallo, a causa del cambiamento delle condizioni generali ma anche per incapacità strategica, politica e intellettuale dei ceti economici e politici dominanti.
D’altra parte quello che si sta verificando è la ripetizione del processo di unificazione della Germania del XIX secolo, guarda caso, che si è data uno Stato federale unificato promuovendo due guerre e usando i nemici esterni, l’Austria nel 1866 e la Francia nel 1870, ai fini del nascente nazionalismo tedesco.
Infine un contributo notevole alla precipitazione della situazione lo ha dato la nascita dei BRICS+, i quali stanno dimostrando come la potenziale crescita economica e sociale è ormai emigrata dai vecchi centri imperialisti verso il sud del mondo, dove gli stessi rapporti di forza militari si vanno equilibrando tatticamente e strategicamente con l’esistenza delle armi nucleari, come ci ha dimostrato la vicenda Ucraina.
Come comunisti siamo perciò obbligati a rifare i conti con la cassetta degli attrezzi del marxismo e del leninismo, i quali dimostrano ancora oggi una vitalità incredibile, ma soprattutto con la condizione di classe che si verrà a determinare nei prossimi anni nella UE.
Già oggi appare evidente chi pagherà questo conto salato, saranno i lavoratori e le classi subalterne in Italia e in Europa con l’incremento della spesa militare, proposta di 800 miliardi di euro di debito pubblico dalla Von der Leyen, a detrimento di quella sociale.
Un cambiamento di questa dimensione non si limiterà solamente al “taglio” sulla spesa sociale ma avrà effetti strutturali nelle società europee, dalla ristrutturazione industriale con centinaia di migliaia di licenziamenti nel continente fino a una restrizione delle agibilità democratiche, tendenza che si sta vedendo per ora nella periferia europea, vedi Moldavia e Romania, ma, con l’incremento delle difficoltà, convergeranno al centro politico della Ue, come dimostra in Francia Macron che tiene in piedi un governo senza maggioranza e avendo perso le elezioni.
Come comunisti non abbiamo solo il dovere della lotta politica, ma anche quello di operare e produrre organizzazione in tutti gli ambiti sociali dove questa crisi si manifesterà in futuro, sedimentando una vera opposizione fuori e contro le mistificazioni di una sinistra contraddittoria e impotente.
*(Fonte: Sinistrainrete. Contropiano, Mauro Casadio, giornalista)

Views: 45

REFERENDUM su LAVORO e CITTADINANZA 2025 | INFORMAZIONI PER VOTARE ALL’ESTERO

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.