n°10 – 15/3/2025 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

01 – Eliana Riva*: USA E ISRAELE TRATTANO CON PAESI AFRICANI LA DEPORTAZIONE DEI PALESTINESI
02 – Luca Serafini*: Il mercante Trump: «O i dazi o la vita!» «Gli economisti non condividono l’entusiasmo di Trump per i dazi. Sono una tassa sulle importazioni che di solito viene scaricata sui consumatori» scrive Associated Press.
03 – Roberto Ciccarelli*: Quando le guerre commerciali sono anche conflitti di classe – Il nemico americano Dazi trumpiani del 200% sul vino e alcolici europei in risposta a quelli sul whisky che colpiscono i “CLIENTES” repubblicani Usa. Per l’Unione Europea una ritorsione da 4,9 miliardi di euro, in Italia il settore occupa 57 mila persone, l’export verso gli Usa è da 1,9 miliardi
04 – Marta Facchini, Luci Cavallero*: letture femministe del debito – Una intervista alla ricercatrice e attivista argentina di «Ni Una Menos». «Oggi siamo in una fase in cui lo sciopero è più importante che mai. Manifestiamo contro la fame e la crudeltà del governo Milei
05 – Barbara Weisz*: 1. Sconto IMU e TARI per pensionati all’estero con reversibilità. 2. Pensionati esteri: tutte le regole IMU e TARI.
06 – Sara Segantin, Lorenzo Tecleme*: «La casa per noi è come una tomba». L’Afghanistan tre anni e mezzo dopo – Il racconto da Kabul «Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un parente maschio. Non possiamo lavorare. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce»
07 – Claudia Fanti*: Pensionati e ultras contro la motosega di Milei, duri scontri a Buenos Aires
Argentina A difesa delle pensioni scendono in campo anche le tifoserie organizzate di tutte le squadre. Maradona avrebbe applaudito. Ma la risposta spropositata della ministra della Sicurezza Bullrich provoca decine di feriti. Grave il fotografo Pablo Grillo
08 – L’arresto dello studente e attivista palestinese voluto da Trump è da manuale fascista – arrestato perché “amico di Hamas”. Senza avere uno straccio di prova. (*)

(a cura di G.Z.)

 

01 – Eliana Riva*: USA E ISRAELE TRATTANO CON PAESI AFRICANI LA DEPORTAZIONE DEI PALESTINESI – USA E ISRAELE TRATTANO CON PAESI AFRICANI LA DEPORTAZIONE DEI PALESTINESI

Un’inchiesta esclusiva dell’Associare Press ha rivelato che gli Stati Uniti e Israele hanno preso contatto con alcuni Paesi africani per trattare sull’ipotesi di deportazione dei palestinesi di Gaza. Il presidente Usa Donald Trump continua a proporre il suo “piano” di pulizia etnica della Striscia come l’ipotesi migliore èpiù giusta” per la sistemazione post-guerra e la ricostruzione dell’enclave che diverrebbe, secondo i piani del tycoon, una lussuosa riviera turistica priva dei propri abitanti.
L’ostinazione di Trump nel proseguire il tentativo di applicazione del suo piano, anche dopo il diniego dei Paesi arabi che per primi ha tentato di convincere ad accogliere i palestinesi esiliati, si riflette nei contatti stabiliti con Somalia, Somaliland e Sudan. Luoghi poveri e in alcuni casi devastati dalla violenza della guerra, con condizioni economiche complicate o processi di indipendenza non pacifici.
Funzionari del Sudan hanno confermato all’AP di aver ricevuto offerte da parte degli Stati Uniti e di averle rifiutate. Quelli della Somalia e del Somaliland hanno dichiarato ai giornalisti di non essere a conoscenza di proposte del genere. Ma le conferme sono giunte da rappresentanti Usa e israeliani. Il ministro delle finanze, Bezalel Smotrich, ha dichiarato questa settimana che Tel Aviv sta lavorando per identificare i Paesi in cui i palestinesi verranno “assorbiti” e che il governo sta per aprire un “dipartimento per l’emigrazione”.
SUDAN.
Il paese nordafricano era tra le quattro nazioni dell’Accordo di Abramo che hanno accettato di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele nel 2020. Sono 18milioni i bambini che da due anni non hanno la possibilità di andare a scuola a causa della guerra, secondo l’Unicef. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia prevede anche, per questo 2025, che i due terzi della popolazione totale, 30 milioni di persone, avranno bisogno di assistenza umanitaria. Dopo quasi due anni di guerra infrastrutture, sistema sanitario e scolastico, economia e servizi sociali sono al collasso.
Alcuni funzionari sudanesi hanno confermato all’Associare Press di essere stati contattati da personale dell’amministrazione Trump ancor prima che si tenesse la cerimonia di insediamento del nuovo presidente Usa. Washington avrebbe offerto assistenza militare contro le Forze di Supporto Rapido (RSF) in cambio della disponibilità del governo ad accettare i palestinesi. I funzionari hanno dichiarato di aver rifiutato categoricamente l’offerta.
SOMALILAND.
Un funzionario americano ha confermato che gli Stati Uniti stanno tenendo colloqui con i leader del Somaliland per capire cosa possono ottenere in cambio di un riconoscimento dell’indipendenza dell’area che la Somalia considera parte del proprio territorio. Il Somaliland si è dimostrato più volte disponibile a trattare con diversi stati e governi per ottenere un riconoscimento ampio.
SOMALIA.
La Somalia, come il Sudan, si è opposta a qualunque piano di pulizia etnica dei palestinesi durante il recente vertice della Lega araba al Cairo ma l’AP non esclude la possibilità che si stiano svolgendo negoziati segreti tra Washington e Mogadiscio. I funzionari del Paese hanno negato di aver ricevuto alcuna richiesta, mentre fonti statunitensi hanno confermato l’avvicinamento. Pagine Esteri
*(Fonte: Pagine estere – Eliana Riva, Storica, editrice e giornalista. Laureata in storia dei paesi islamici, è esperta del conflitto israelo-palestinese. Ha realizzato servizi giornalistici, il documentario “Il cielo di Sabra e Chatila”, sui campi profughi palestinesi in Libano e “La rivoluzione di Ayten”, sulla tortura, le carceri e la situazione degli oppositori politici in Turchia.)

 

02 – Luca Serafini*: IL MERCANTE TRUMP: «O I DAZI O LA VITA!» «GLI ECONOMISTI NON CONDIVIDONO L’ENTUSIASMO DI TRUMP PER I DAZI. SONO UNA TASSA SULLE IMPORTAZIONI CHE DI SOLITO VIENE SCARICATA SUI CONSUMATORI» SCRIVE ASSOCIATED PRESS.

«Trump sta facendo un’azione incostituzionale usando la dichiarazione di emergenza nazionale per concedersi un’autorità che non ha. Il Congresso, di cui Trump ha usurpato i poteri costituzionali di regolamentazione del commercio, dovrebbe agire rapidamente per mantenere la sua autorità e riportare la stabilità nella politica commerciale degli Stati Uniti» aggiunge il Council on Foreign Relations.
Questi commenti ne riassumono decine di altri simili, di economisti e osservatori politici di tutto il mondo, che pongono dubbi e contestano la politica sui dazi che sta intraprendendo il neopresidente USA, Donald Trump.
Però, sarebbe troppo semplice imputare questa deriva apparentemente antieconomica alla follia o bizzarria di un singolo personaggio, anche se indubbiamente connotato da comportamenti da operetta. Sappiamo, invece, che dietro un presidente USA si muovono circoli di potere e think tank di cui si può dire tutto, ma non che siano pazzi o sprovveduti.
Il ricatto di Trump
Apre uno spiraglio di comprensione su questa politica economica dai contorni molto ambigui un articolo di Federico Fubini, pubblicato sul Corriere della Sera del 17 febbraio scorso.
Secondo Fubini, il tallone d’Achille dell’America di Trump è l’enorme deficit pubblico federale ed è questa la ragione di fondo che spinge il presidente a cercare di intimidire gli altri Paesi con la minaccia dei dazi.
Il deficit crescente obbliga gli Stati Uniti a trovare ogni anno compratori di titoli di Stato per almeno 2mila miliardi di dollari in più dell’anno precedente, cercando al contempo di non dover aumentare gli interessi offerti per attrarre investimenti. Ma nessuna delle grandi banche centrali è spontaneamente disposta a incrementare la propria esposizione verso il debito degli Stati Uniti. Di qui la strategia di Trump e dei suoi consiglieri economici per imporlo con un ricatto.

Trump sta cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare più debito americano, a scadenza un secolo e con rendimenti contenuti, oppure perdere l’ombrello di sicurezza del Pentagono.
Una volta introdotti i dazi, l’America avrà infatti un’arma di pressione per ottenere qualcosa in cambio, contando sul fatto che, pur nel reciproco danno economico, avversari e alleati sono più deboli e dovranno concedere qualcosa all’America per farle revocare i dazi.
Un ricatto scritto nero su bianco
La prova che questo piano non sia una fantasia complottista è scritta nero su bianco in un saggio di economia, pubblicato nel novembre 2024 da Hudson Bay Capital Management, una società americana di gestione degli investimenti multistrategia con sede a Greenwich, nel Connecticut. Come quasi sempre avviene, le strategie economico-politiche anglosassoni poggiano, infatti, le loro radici su solide basi accademiche.
Il saggio in questione si intitola A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Manuale d’uso per la ristrutturazione del sistema commerciale globale), scritto da Stephen Miran, nuovo presidente del Council of Economic Advisors della Casa Bianca, uno degli uomini più vicini al presidente e più influenti nella strategia dei dazi: dottorato a Harvard, una carriera da grande investitore a Hudson Bay Capital, vicino al segretario al Tesoro USA, Scott Bessent.
Ne riportiamo solo un passaggio significativo, dove Miram fa sue le parole di Zoltan Pozsar, economista ungherese-americano noto per la sua analisi del sistema bancario ombra, fondatore e CEO della Ex Uno Plures (società di consulenza macroeconomica), già membro dell’Investment Committee del Credit Suisse, con sede a New York, consulente senior presso il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e visiting scholar presso il Fondo Monetario Internazionale.

Nel suo saggio, Miram cita Poszar:
«L’interpretazione che dà Poszar sulle intenzioni dei probabili leader della politica economica di una seconda amministrazione Trump (Miram scriveva a fine 2024, NdR) collega esplicitamente la fornitura di un ombrello di sicurezza da parte degli Stati Uniti con il sistema finanziario internazionale e deduce che gli sforzi per ridurre i tassi di interesse possono contribuire a finanziare la zona di sicurezza.
Egli sintetizza così il Mar-a-Lago Accord, il progetto per ristrutturare il sistema finanziario internazionale, redatto da economisti di area trumpiana e consulenti esterni come Zoltan Pozsar:
1) le zone di sicurezza sono un bene pubblico e i Paesi all’interno di essa devono finanziarle acquistando titoli di Stato USA;
2) le zone di sicurezza sono un bene capitale, quindi vanno finanziate con obbligazioni della durata di un secolo (century bonds), non con denaro a breve termine;
3) le zone di sicurezza hanno fili spinati: se non scambiate le vostre banconote con obbligazioni, i dazi vi terranno fuori dalla protezione del recinto».
Pagare (due volte) l’ombrello militare americano
Le minacce dei dazi è solo una delle due morse della tenaglia che Trump sta stringendo sull’Europa. L’altro è il diktat che sia l’Europa a occuparsi della sicurezza dell’Ucraina.
Quindi, da un lato dovremo finanziare il debito americano a tassi irrisori e con durata secolare, per continuare a usufruire dell’ombrello del Pentagono; dall’altra dovremmo sborsare 800 miliardi (per ora…) del piano di ReArme Europe della Von der Leyen: a chi, se non all’industria bellica americana? Come scrive New Lines Magazine:
«Il mercato e l’influente lobby del complesso militare-industriale statunitense possono avere la meglio, per così dire, su qualsiasi tendenza ideologica della Casa Bianca. Vendere armi all’Europa, anche se l’Europa ha intenzione di donarle o venderle all’Ucraina, è una prospettiva allettante per qualsiasi amministrazione statunitense, tanto più per un’amministrazione che si vanta di gestire l’America come un’azienda affamata di entrate».
Il Club of Gold-Abstainers
Mettere sullo stesso tavolo la gestione della liquidità mondiale e la difesa militare non è un’idea originale di Trump.
È già successo con Lyndon Johnson (36º Presidente USA, 1963-1969) e ha funzionato. Attorno alla metà degli anni Sessanta, una soluzione per contenere il crescente deficit USA e far fronte ai costi del mantenimento delle truppe americane (e inglesi) della NATO in Germania arrivò con il cosiddetto club of gold-abstainers (il club dei Paesi che si astengono dal chiedere la conversione dei dollari in oro, un’anticipazione del dollar standard che sarebbe arrivato solo nel 1971 con Nixon).
Così descrive l’iniziativa Timothy Andrews Sayle, nel suo saggio Enduring Alliance, A History of NATO post War global order, Cornell University Press, 2019:
«I tedeschi accettarono che la Bundesbank acquistasse abbastanza titoli di Stato USA per coprire almeno la metà delle eccedenze estere sostenute dagli americani per mantenere le proprie truppe in Germania. Significativamente, essi promettevano di non chiedere la conversione in oro dei dollari. Questo poneva i tedeschi in un “dollar standard”. A Washington le ricadute non solo per la difesa, ma anche per le spese governative furono enormi. Bator1 disse al presidente Johnson che ora “Non dobbiamo più preoccuparci troppo del nostro deficit”».
Note
1 Bator, Francis M., Senior Economic Adviser alla Agency for International Development fino all’aprile 1964; Senior Member del National Security Council Staff, da april 1964 a settembre 1967; Deputy Special Assistant del Presidente per i National Security Affairs da ottobre 1965 fino a settembre 1967. [↩]
(Fonte: Sinistrainrete. Luca Serafini è un giornalista e scrittore italiano.)

 

03 – Roberto Ciccarelli*: QUANDO LE GUERRE COMMERCIALI SONO ANCHE CONFLITTI DI CLASSE – IL NEMICO AMERICANO DAZI TRUMPIANI DEL 200% SUL VINO E ALCOLICI EUROPEI IN RISPOSTA A QUELLI SUL WHISKY CHE COLPISCONO I “CLIENTES” REPUBBLICANI USA. PER L’UNIONE EUROPEA UNA RITORSIONE DA 4,9 MILIARDI DI EURO, IN ITALIA IL SETTORE OCCUPA 57 MILA PERSONE, L’EXPORT VERSO GLI USA È DA 1,9 MILIARDI.

I più colpiti saranno, anche in questo caso, chi lavora, ha i bassi salari e stenta ad arrivare a fine mese. Nella spirale tra sanzioni e militarismo von der Leyen annuncia un tentativo di negoziato con il padrino Usa
«Per i nostri clienti cambia poco pagare un vestito 6mila euro o 6500 euro». Lo ha detto l’imprenditore umbro Brunello Cucinelli ieri dopo l’ultima ritorsione del padrino della Casa Bianca Donald Trump sui dazi, stavolta su vino e alcolici. Lo stesso vale per un altro mercato del lusso, quello del «Super Tuscan», i vini rossi toscani come il Sassicaia che hanno un target alto e altissimo. Il problema sarà «per la stragrande maggioranza delle etichette toscane che ne risentirebbero certamente» ha detto Letizia Cesani, presidente Coldiretti Toscana e di Vigneto Toscana.
Dal punto di vista dell’abbigliamento, e del vino, ecco riassunto il senso della guerra mondiale dei dazi lanciata dagli Stati Uniti: le guerre commerciali sono guerre di classe e colpiscono, in primo luogo, chi lavora, chi deve vestirsi e bere ma non può spendere migliaia di euro. Pagare una bottiglia con un prezzo da supermercato, in linea teorica, il 200% in più è poco probabile. Lo stesso vale per tutte le altre merci che saranno colpite, da un lato e dall’altro lato dell’Atlantico, nella seconda stagione della guerra commerciale trumpiana. Tra l’altro ciò rischia di aumentare l’inflazione, e fermare lo stentato aumento dei salari, che si è registrato nell’ultimo biennio che ha ingrossato i profitti dall’energia alla farmaceutica fino alle banche.
L’Europa è già presa dal panico, al punto da avere avviato una trasformazione militarista delle proprie società con il piano «ReArm». Ieri è stato il presidente della Bundesbank Joachim Nagel a incupirsi quando ha detto che la Germania, il perno della svolta verso il Warfare, rischia di tornare in recessione anche quest’anno. Nagel ha affermato che «Ci sono solo dei perdenti» nelle guerre commerciali, ma l’Europa deve reagire «perché non puoi accettare che qualcosa ti remi contro». E il prezzo da pagare sarà «più alto per gli americani». Non tutti, gli americani. Solo quelli che già oggi sono in crisi. Domani lo saranno di più. E lo stesso vale per gli europei.

La redazione consiglia:
L’Unione accetta la battaglia «Contro-dazi per 26 miliardi»
La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen che ha mantenuto il punto e ha detto che il commissario al Commercio (Maros Sefcovic) è in contatto con il suo omologo negli Stati Uniti (Howard Lutnik) per «negoziare». In ballo ci sono i dazi europei da 26 miliardi di euro tra i quali ci sono quelli che colpiranno il whisky dei clientes trumpiani negli stati «repubblicani». Una decisione che ha fatto infuriare il boss di Washington. Di questo passo se ne aggiungeranno altri. Sul vino gli europei possono perdere fino a 4,9 miliardi di euro complessivi.

«Non cederemo alle minacce» ha detto il ministro del commercio francese Laurent Saint-Martin. Quest’ultimo è stato contestato dai produttori di vino del suo paese che hanno mostrato insofferenza anche rispetto a Bruxelles: «Ne abbiamo abbastanza di venire sistematicamente sacrificati per temi senza rapporto con i nostri» ha detto Nicolas Ozanam di Fevs. «Nessuno vince con le guerre commerciali, a rimetterci sono le imprese e i cittadini» ha osservato il ministro spagnolo dell’agricoltura Luis Planas.

NON SOLO DAZI, È LUNGA LA LISTA DELLE PAURE UE
Il suo omologo italiano Francesco Lollobrigida, deputato a proteggere la «sovranità alimentare», al momento in cui scriviamo, è rimasto ammutolito dall’«amico americano». Solo due giorni fa auspicava che i dazi non fossero «così stringenti come vengono annunciati». In effetti, fino al prossimo 2 aprile quando scatteranno i dazi Usa, sarà così. Un ricatto del 200% dovrebbe preoccupare chi fa il sovranista e inneggia alle virtù del «made in Italy». Non basta più il nome per fare inginocchiare l’Al Capone amico-della-premier.
Le associazioni di categoria sono turbate. Per Cristiano Fini della Cia «gli Usa sono il nostro primo mercato per il vino, con quasi 1,9 miliardi euro». Per Christian Marchesini di Confagricoltura Veneto le ritorsioni colpiranno 600 milioni di euro. Gli americani pagheranno di più il prosecco, il Valpolicella e l’Amarone. L’intero settore vitivinicolo occupa 57 mila persone.

I DAZI DI TRUMP SONO UN REGALO AVVELENATO AL GOVERNO MELONI
Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha evidenziato i retropensieri dei meloniani (e non solo): «Se i dazi sono articolati per paese e poi ognuno pensa di arrivare a una sua trattativa particolare – ha detto – il ruolo dell’Europa sarà messo in discussione». La guerra commerciale potrebbe selezionare gli amici come Meloni & co. dagli altri. E permettergli di salvare i vini del Veneto o del Friuli leghista. E quelli della Toscana amministrata dal Pd? Scenari da guerra commerciale intestina non da escludere nel trumpismo.
*(Roberto Ciccarelli (Bari, 1973). Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto»)

 

04 – Marta Facchini, Luci Cavallero*: LETTURE FEMMINISTE DEL DEBITO – UNA INTERVISTA ALLA RICERCATRICE E ATTIVISTA ARGENTINA DI «NI UNA MENOS». «OGGI SIAMO IN UNA FASE IN CUI LO SCIOPERO È PIÙ IMPORTANTE CHE MAI. MANIFESTIAMO CONTRO LA FAME E LA CRUDELTÀ DEL GOVERNO MILEI»

«Oggi l’Argentina è un laboratorio dell’estrema destra. Stiamo assistendo al chiaro progetto di controllare i movimenti femministi e la loro capacità di creare alleanze e nuove politiche di resistenza al neoliberalismo», afferma Luci Cavallero, attivista di Ni Una Menos, sociologa, ricercatrice e autrice, tra gli altri, di Una lectura feminista de la deuda (Tinta Limón Edicion, 2019, pubblicato in Italia nel 2020 da ombre corte con il titolo Vive, libere e senza debiti! Una lettura femminista del debito; traduzione dallo spagnolo di Nicolas Martino; postfazione di Federica Giardini) scritto insieme a Veronica Gago. Nei suoi testi Cavallero ha analizzato il concetto di debito secondo una prospettiva femminista, interpretandolo come una forma di violenza economica che colpisce in particolare le donne.

Secondo la ricercatrice, il debito è una costruzione politica che ha radici nelle disuguaglianze e riproduce strutture di potere patriarcali. Si nutre delle politiche neoliberali che costringono a indebitarsi per soddisfare i propri bisogni fondamentali, diventando così una costante nella vita delle persone vulnerabili che tende a controllare e a collocare in una posizione subordinata. Contro «le politiche di austerità», contro «la fame» e contro «la crudeltà» del governo del presidente Javier Milei, Ni Una Menos, e i movimenti femministi e delle donne, scendono in strada l’8 marzo. «Scioperiamo contro i discorsi di odio, contro uno Stato che solletica passioni fasciste, contro l’estrema destra», prosegue Cavallero. «Scioperiamo contro lo smantellamento delle politiche di genere». Nel primo anno alla Casa Rosada, Milei ha distrutto decenni di politiche femministe. Ha chiuso il ministero delle Donne, genere e diversità insieme al Sottosegretariato contro la violenza di genere.
I programmi in sostegno alle donne che subiscono violenza, come la linea telefonica 144, sono stati sospesi e fortemente depotenziati. Milei ha vietato l’uso del linguaggio inclusivo nell’amministrazione nazionale, ha attaccato il diritto all’aborto e l’insegnamento dell’educazione sessuale completa nelle scuole. Lo scorso novembre l’Argentina è stato l’unico Paese a votare contro una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite volta a prevenire ed eliminare ogni forma di violenza contro le donne e le ragazze.
Domani, nella Giornata Internazionale dei diritti delle donne, Ni Una Menos sarà in piazza. Lo sciopero è un dispositivo politico nato grazie ai movimenti femministi argentini.
In Argentina lo sciopero femminista è stato un’invenzione politica molto importante: è nato nel 2016, ispirato allo sciopero delle donne che in Polonia stavano protestando per ottenere il diritto all’aborto. Noi abbiamo deciso di indire uno sciopero dopo alcuni brutali femminicidi. Ci siamo riunite in assemblee convocate per la prima volta negli spazi del sindacato delle lavoratrici dell’economia popolare.
Questo ha generato una interessante discussione su come rendere visibili i lavori che fino a quel momento non erano considerati come tali. Lo sciopero ha attivato una riflessione su chi produce la ricchezza nel nostro Paese, su quali sono le forme di lavoro messe ai margini; i lavori delle persone migranti, i lavori domestici e comunitari. Abbiamo messo al centro dell’analisi le violenze economiche e la loro relazione con la violenza di genere. Oggi siamo in una fase in cui lo sciopero è più importante che mai. Manifestiamo contro la fame e la crudeltà del governo di Milei. In Argentina c’è una grave crisi economica. La povertà ha superato il 50% della popolazione. I salari sono sempre più bassi rispetto al costo delle bollette e del cibo. I licenziamenti nel settore pubblico non si fermano.
In un anno, Milei ha smantellato decenni di politiche femministe. Solo pochi mesi fa, ha dichiarato di volere eliminare il femminicidio dal codice penale. È una guerra culturale?
In Argentina l’estrema destra sta chiaramente mettendo in pratica il suo progetto politico di controllare la popolazione, colpendo il movimento femminista che è un movimento che mette in discussione le strutture della disuguaglianza, l’obbedienza, il sacrificio dei corpi e il lavoro non retribuito. Il movimento femminista pone in primo piano la difesa dei territori e dei corpi e l’opposizione alla concentrazione della ricchezza, attraverso forme che vanno oltre l’individualismo autoritario e possessivo: per questo le destre considerano strategico attaccarlo.
Il femminicidio è il riconoscimento giuridico che esistono crimini motivati dall’odio di genere; è la constatazione che ci sono strutture patriarcali profonde e una relazione diseguale tra i generi. Da un lato il governo cerca di attaccare il movimento in quanto tale, dall’altro prova a ricollocare le donne nel silenzio e in una condizione di subordinazione. Così «naturalizza» la violenza contro le donne perché è promossa e sdoganata dallo stesso Stato.
Vuol dire che nei luoghi di lavoro o in casa sarà più difficile denunciare un abuso. Siamo oltre la guerra culturale. Ci troviamo di fronte a una guerra che ha a che fare con la materialità più profonda della nostra società. È un attacco contro le nostre condizioni di vita.
Nei suoi testi sostiene che violenza economica e finanziaria sono legate. In che modo?
Da tempo stiamo analizzando come l’estrema destra, in nome della libertà, produce violenza economica e repressione. È fondamentale comprendere che cosa significa il fatto che è arrivata al governo in modo democratico e appellandosi al concetto di libertà e libertà finanziaria. Un concetto per cui le disuguaglianze e le problematiche sociali si risolvono con strumenti finanziari, quindi secondo una logica individualista. Ciò che emerge è che l’estrema destra sta interpretando un cambiamento nelle classi popolari che, per potere sopravvivere, si ritrovano a fare affidamento su una proliferazione di strumenti finanziari.
All’interno del movimento femminista stiamo discutendo su come l’indebitamento per vivere è una forma di violenza economica. È importante capire che vivere indebitati, e a tassi di interesse altissimi per sopravvivere come accade in Argentina dal 2018, è violenza economica.
È fondamentale riprendere il filo di questo processo, che ha avuto inizio con l’ingresso del Fondo Monetario Internazionale nel Paese e con l’imposizione di politiche di austerità. Molte persone hanno dovuto integrare il loro reddito indebitandosi, modificando drasticamente il rapporto tra reddito e debito che è ormai legato a cibo, farmaci e servizi sanitari, bollette e anche a forme di micro-speculazione tramite strumenti della finanza digitale. La presenza del FMI e delle politiche di austerità ha trasformato il debito in una costante nella vita quotidiana.
Quando il Fondo Monetario internazionale entra in casa? Come colpisce le donne e le dissidenze?
In modo particolare il debito colpisce le donne perché hanno alti indici di informalità lavorativa e sono occupate in lavori non retribuiti molto più degli uomini. Sono centrali nel sostenere l’economia domestica; in un contesto di crisi e austerità, si indebitano di più e in condizioni di maggiore informalità. Quando lo Stato dedica le sue risorse principali al pagamento del debito estero, come sta succedendo in Argentina dal 2018, si ritira da aree fondamentali come la salute e l’educazione.
Da quando lo Stato è nuovamente indebitato con il FMI, sono state sistematicamente ridotte le risorse destinate a permettere alle donne di andare in pensione quando non hanno i contributi necessari a causa degli alti indici di informalità lavorativa. Il debito ostacola la possibilità che le donne e le dissidenze sessuali possano ottenere più diritti: è il nemico principale per il riconoscimento del lavoro non retribuito perché il debito vive di esso e della riproduzione di aree lavorative dove le retribuzioni continuano a peggiorare con livelli di sfruttamento, anche del territorio, sempre più alti.
*(Marta Facchini è una giornalista professionista freelance. Si occupa di diritti, migrazioni e femminismi. Ha scritto per Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, … Luci Cavallero, studiosa femminista, insegna alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Buenos Aires. Nei suoi lavori si concentra soprattutto sul rapporto tra debito, capitale e violenza)

 

05 – Barbara Weisz*: 1. Sconto IMU e TARI per pensionati all’estero con reversibilità. 2. Pensionati esteri: tutte le regole IMU e TARI
01 – LA REVERSIBILITÀ INPS È EQUIPARATA A UNA NORMALE PENSIONE E PERMETTE QUINDI (UNITA ALLA PENSIONE ESTERA), DI AVER DIRITTO ALLA RIDUZIONE IMU DEL 50% PER UN CITTADINO ITALIANO CHE RISIEDE ALL’ESTERO?
Il trattamento di reversibilità è una pensione a tutti gli effetti, di conseguenza dà diritto alla riduzione IMU del 50% nei casi previsti. La normativa non prevede eccezioni in questo senso e l’agevolazione si riferisce a tutti i pensionati residenti all’estero titolari di un trattamento previdenziale maturato in regime di convenzione internazionale con l’Italia. Il requisito fondamentale è quindi che il paese estero abbia una convenzione che consente di totalizzare i contributi con quelli versati in Italia.
L’agevolazione IMU si può applicare a un solo immobile a uso abitativo, che non deve essere dato in locazione oppure in comodato d’uso. Il riferimento normativo è il comma 48 della Legge 178/2020.
PENSIONATI ESTERI: TUTTE LE REGOLE IMU E TARI
Dal 2021 prevede la riduzione del 50% dell’IMU (la tassa sugli immobili) per una sola unità immobiliare con le caratteristiche sopra descritte, posseduta in Italia a titolo di proprietà o usufrutto da soggetti titolari di pensione maturata in regime di convenzione internazionale con l’Italia, e residenti in uno Stato di assicurazione diverso dall’Italia.

2 – PENSIONATI ESTERI: TUTTE LE REGOLE IMU E TARI
L’unico caso di agevolazione IMU per i residenti all’estero proprietari di un immobile in Italia è la titolarità di una pensione in regime di totalizzazione internazionale: come funziona.
I proprietari di immobili in Italia che risiedono all’estero possono avere uno sconto su IMU e TARI nel caso in cui siano anche titolari di una pensione in regime di convenzione internazionale con l’Italia. La riduzione IMU è del 50% mentre la TARI si paga in misura ridotta di due terzi. L’agevolazione, introdotta con la Legge di Bilancio 2021 (comma 48 legge 178/2020), è applicabile a un solo immobile, che deve essere a uso abitativo e non locato.
Vediamo esattamente come funziona e chi la può utilizzare, anche sulla base delle istruzioni applicative contenute nella Risoluzione 5/2021 del Dipartimento delle Finanze.
Partiamo dal testo della legge, in base al quale «a partire dall’anno 2021 per una sola unità immobiliare a uso abitativo, non locata o data in comodato d’uso, posseduta in Italia a titolo di proprietà o usufrutto da soggetti non residenti nel territorio dello Stato che siano titolari di pensione maturata in regime di convenzione internazionale con l’Italia, residenti in uno Stato di assicurazione diverso dall’Italia» l’IMU «è applicata nella misura della metà e la tassa sui rifiuti avente natura di tributo o la tariffa sui rifiuti avente natura di corrispettivo è dovuta in misura ridotta di due terzi».
LA RESIDENZA ALL’ESTERO
La norma parla di «soggetti non residenti nel territorio dello stato», quindi non si applica solo ai cittadini italiani ma indipendentemente dalla nazionalità del proprietario dell’immobile. Lo stato di residenza, sottolinea la risoluzione delle Finanze, deve essere quello che eroga la pensione. Quindi, se un cittadino italiano, o una persona di altra nazionalità, vive (per ipotesi) in Francia, ma è titolare di una pensione che viene versata dalla Germania, non rientra nel perimetro agevolativo. Per gli italiani residenti all’estero, non rileva il fatto che siano o meno iscritti all’Aire.

IL REQUISITO: PENSIONE IN TOTALIZZAZIONE INTERNAZIONALE
IMU COME SECONDA CASA PER RESIDENTI ALL’ESTERO

Il requisito fondamentale è la titolarità di una pensione maturata in regime di convenzione internazionale con l’Italia. Questa definizione si riferisce a una pensione maturata in regime di totalizzazione internazionale, cioè sommando sia contributi versati in Italia sia contributi versati nel paese di residenza. La formulazione esclude sostanzialmente tutte le ipotesi diverse dalla pensione in totalizzazione internazionale. Un italiano che vive all’estero ma ha una pensione totalmente maturata in Italia, non ha diritto all’agevolazione.
Per applicare la totalizzazione internazionale, bisogna che il paese estero rientri fra quelli che hanno una specifica convenzione bilaterale con l’Italia, quindi:

Tutti i paesi Ue, o dello spazio economico europeo SEE (Norvegia, Islanda e Liechtenstein), la Svizzera e il Regno Unito;
Paesi extraeuropei che hanno stipulato con l’Italia convenzioni bilaterali di sicurezza sociale (pensione in regime di convenzione bilaterale):

ARGENTINA, AUSTRALIA, BRASILE, CANADA E QUEBEC, ISRAELE, ISOLE DEL CANALE E ISOLA DI MAN, PRINCIPATO DI MONACO, CAPO VERDE, REPUBBLICA DI SAN MARINO, SANTA SEDE, TUNISIA, TURCHIA, URUGUAY, USA, VENEZUELA, BOSNIA ED ERZEGOVINA, KOSOVO, MACEDONIA, MONTENEGRO, SERBIA E VOJVODINA (REGIONE AUTONOMA).
Infine, l’agevolazione si applica a una sola unità immobiliare, che non deve essere locata e nemmeno data in comodato d’uso.
Ricordiamo che la legge di Bilancio 2022 ha previsto, limitatamente all’anno scorso, uno sconto IMU del 62,5% (quindi più favorevole, si paga il 37,5%), ma dal 2023 è tornata la sopracitata regola che vede l’IMU al 50%. Quella appena descritta è, al momento, l’unica agevolazione IMU prevista per i residenti all’estero.
Quindi, qualsiasi altra ipotesi prevede il pagamento dell’imposta sugli immobili con le modalità ordinarie (tendenzialmente, con l’aliquota delle seconde case).
*(Fonte: PMI.it – Barbara Weisz, Giornalista professionista, scrive di economia, politica e finanza per la stampa specializzata, tra testate online quotidiani e riviste a diffusione nazionale)

 

06 – Sara Segantin, Lorenzo Tecleme*: «LA CASA PER NOI È COME UNA TOMBA». L’AFGHANISTAN TRE ANNI E MEZZO DOPO – IL RACCONTO DA KABUL «OGNI GIORNO CI IMPONGONO NUOVE LEGGI. NON POSSIAMO USCIRE SENZA UN PARENTE MASCHIO. NON POSSIAMO LAVORARE. SE QUALCUNA PROTESTA, VIENE ARRESTATA O SPARISCE»
Sono passati tre anni e mezzo da quando l’esercito talebano è entrato a Kabul, ponendo fine al debole governo filo-occidentale di Ashraf Ghani e instaurando un regime di repressione e violenza che ha privato le donne dei diritti fondamentali alla libertà, all’istruzione e, spesso, anche alla vita e alla dignità.
«PRIMA DELL’ARRIVO dei Talebani non eravamo al sicuro, era pericoloso c’erano attentati, ma almeno potevamo rivendicare i nostri diritti. Io studiavo perché volevo diventare medica. Poi non c’è stato più niente». Asmira – nome di fantasia per motivi di sicurezza – parla da Kabul. «I Talebani dicono che ‘la casa è il posto per una donna’, ma la casa è una tomba. Sono viva, ma non vivo. Ogni giorno ci impongono nuove leggi. Non possiamo uscire senza un mahram – un parente maschio. Non possiamo lavorare. Anche andare al parco è vietato. Se qualcuna protesta, viene arrestata o sparisce. Una mia amica è stata frustata perché il suo velo si era leggermente spostato mentre camminava. Io sono fortunata, la mia famiglia è ancora qui. Le donne i cui uomini sono morti o sono dovuti fuggire, come fanno? Non possono neanche fare la spesa».
I talebani controllavano ampie zone dell’Afghanistan da ben prima della presa di Kabul. Ma con la ritirata definitiva delle truppe occidentali – decisa da Donald Trump e attuata da Joe Biden – nel 2021 le grandi città sono cadute e l’esercito regolare afghano si è arreso, a una velocità che nessun analista aveva previsto. L’ex presidente Ghani è fuggito e l’Emirato Islamico dell’Afghanistan è tornato in vita.
FRA I TANTI GIOVANI che si sono battuti per la libertà dell’Afghanistan c’è Shaheen Hussian Zada, poco più di vent’anni, uno dei pochi riusciti a fuggire. «Ho sempre odiato la guerra eppure sono stato costretto a crescere in guerra. Sono l’opposto di coloro che hanno portato via la gioia e i sogni di milioni di famiglie», ci racconta. «La mia scelta l’ho fatta quando ho sacrificato tutto per difendere la mia città: o libero o morto. Per la libertà di tutti e di tutte mi batterò sempre. Ero molto giovane quando ho scelto di combattere per resistere, avevo paura, ma non volevo che i Talebani portassero via tutto. Uccidono, torturano, stuprano. Io c’ero quando nel 2021 hanno preso Herat e poi una dopo l’altra le province sono cadute. Il 15 agosto sono entrati a Kabul. Io e la mia famiglia vivevamo lì. Mi ricordo il terrore. Ho lasciato la capitale alle 13.00, circa due ore prima che arrivassero. Sono andato nel Panshir, dove ancora si resisteva. Abbiamo tenuto duro un paio di settimane, ma il mondo se n’era andato e i Talebani disponevano di armi leggere e pesanti, mentre noi avevamo poche attrezzature e poca esperienza: non eravamo soldati, eravamo solo ragazzi che volevano difendere la libertà».
SHAHEEN rappresenta un pezzo di società afghana – urbana, istruita – che da sempre guarda con ostilità all’iper-conservatorismo islamico, ma che non è riuscita ad essere un contraltare sufficiente ai Talebani. «È chiaro che se uccidi tutti quelli che la pensano diversamente e chiudi in casa metà della società magari hai meno “instabilità” e le persone forse si sentono più sicure. Ma qual è il prezzo?». «Oltre a essere ingiusto non ha senso! – gli fa eco Asmira – come fa una società a stare in piedi senza metà del suo popolo? Se queste restrizioni continueranno, il Paese dovrà affrontare problemi economici, sociali e politici sempre più gravi».
LE CANCELLERIE europee non paiono particolarmente turbate. Tra il 2018 e il 2020 circa la metà delle richieste di asilo presentate da afghani sono state respinte, il governo di Ghani prima di cadere era stato finanziato dall’Ue perché trattenesse i migranti e a poco tempo dal ritorno dei Talebani diversi Paesi – Germania, Belgio – hanno dichiarato l’Afghanistan «posto sicuro» per il rimpatrio dei migranti. «Chi è rimasto, chi è riuscito a fuggire, non è un numero in un telegiornale. Siamo persone con speranze, sofferenze, sogni. Abbiamo un’identità e una storia: vogliamo imparare, ma anche raccontare e dirvi di non dimenticare», dice Shaheen. «L’Afghanistan quello lontano e quello poco oltre le vostre porte di casa, non vuole pietà né compassione, chiede rispetto e giustizia nella sua lotta per la libertà. Sono solo un ragazzo e non ho risposte, ma ho visto cose che non volevo vedere e non voglio più che esistano. Ho visto anche la forza e il coraggio. Nelle donne afgane, che resistono a una condizione che nessuno di noi qui può immaginare. In chi in Europa non si arrende all’odio. Possiamo essere forti e liberi solo insieme, donne e uomini da ogni paese, oltre gli stereotipi e i pregiudizi per costruire un mondo in cui l’umanità sia più forte delle frontiere».
«PERCHÉ questo silenzio?», si chiede Asmira. «Le ragazze afgane non interessano a nessuno? Noi stiamo resistendo. Ma siamo sole. Più c’è libertà più c’è responsabilità. Chiedo a voi, popoli d’Europa, di unirvi alla voce del popolo afgano e di lottare contro le ingiustizie».
*(Sara Segantin,` scrittrice, comunicatrice scientifica e alpinista. Collabora con Geo – Rai3 per servizi e approfondimenti inerenti la sostenibilità e la giustizia climatica – Lorenzo Tecleme, Scrive di politica, di clima e delle due cose assieme. Suoi articoli sono stati pubblicati su Domani, il Manifesto, Valori.it, Jacobin Italia.)

 

07 – Claudia Fanti*: PENSIONATI E ULTRAS CONTRO LA MOTOSEGA DI MILEI, DURI SCONTRI A BUENOS AIRES – ARGENTINA A DIFESA DELLE PENSIONI SCENDONO IN CAMPO ANCHE LE TIFOSERIE ORGANIZZATE DI TUTTE LE SQUADRE. MARADONA AVREBBE APPLAUDITO. MA LA RISPOSTA SPROPOSITATA DELLA MINISTRA DELLA SICUREZZA BULLRICH PROVOCA DECINE DI FERITI. GRAVE IL FOTOGRAFO PABLO GRILLO

Sono scesi in piazza, come ogni mercoledì, per chiedere l’adeguamento delle pensioni e protestare contro i colpi della motosega di Milei. Ma stavolta i pensionati non erano soli: ad accompagnarli c’erano anche gruppi ultras di club come River Plate, Boca Junior, Independiente, Racing, Argentinos Juniors, Estudiantes e diversi altri, tutti uniti, oltre le barriere del tifo, a sostegno della loro lotta. Oltre a sindacati, movimenti sociali, partiti di opposizione.
La ministra della Sicurezza Patricia Bullrich non poteva certo lasciarsi sfuggire un’occasione del genere: dare una lezione, in un colpo solo, a due delle categorie più combattive del paese, dispiegando migliaia di agenti delle forze di sicurezza al completo, polizia federale e locale, gendarmeria, prefettura e servizio penitenziario.
E così, già un’ora e mezzo prima dell’inizio ufficiale della protesta, aveva ordinato alla polizia di bloccare l’avanzata dei manifestanti che si stavano riunendo di fronte al Congresso. Di lì a poco sarebbero partite le cariche della polizia, con tutto l’armamentario repressivo delle grandi occasioni: lacrimogeni, proiettili di gomma, idranti ad alta pressione e manganellate indiscriminate, di cui ha fatto le spese anche una pensionata di 87 anni, Beatriz Blanco, caduta a terra e ricoverata con trauma cranico.
È iniziata così una battaglia campale che ha lasciato – insieme a cassonetti in fiamme, una volante distrutta, resti di barricate e migliaia di pietre sull’asfalto – anche decine di feriti, tra cui uno ricoverato in condizioni gravissime: il fotografo Pablo Grillo, colpito alla testa da un fumogeno sparato dalla polizia ad altezza d’uomo mentre era impegnato a riprendere l’azione delle forze di sicurezza. Operato per una frattura cranica, sta lottando tra la vita e la morte. «Un incidente non previsto», ha commentato il governo.
«C’è stata repressione fin dal primo momento», ha denunciato Francisco “Paco” Olveira, del Gruppo dei preti dell’opzione per i poveri, accusando il governo di operare come una dittatura: colpito anche lui dalla polizia, è sfuggito all’arresto solo perché un agente ha detto: «Questo no, che è un sacerdote».
Incurante delle critiche per la selvaggia repressione, Bullrich ha accusato i manifestanti di voler «invadere il Congresso» e di essere «pronti a uccidere». E ancora più in là si è spinto il capo di gabinetto Guillermo Francos, il quale ha denunciato l’intenzione del peronismo di promuovere niente di meno che «una specie di colpo di stato», mettendo gruppi di ultras «a difendere i diritti dei pensionati».
Se fosse ancora vivo, Maradona – sulla cui morte è iniziato in Argentina il processo contro sette medici accusati di negligenza – di certo approverebbe. «Dobbiamo essere proprio dei cacasotto (“muy cagones”) per non difendere i pensionati», aveva detto nell’ottobre del 1992, quando, durante un altro mercoledì, organizzazioni dei pensionati protestavano per i loro diritti contro il governo di Carlos Menem, tanto apprezzato da Milei.
33 anni più tardi, a gennaio, un 75enne di nome Carlos con la maglia del Chacarita Juniors, una società calcistica di Buenos Aires, mentre marciava contro i tagli di Milei, avrebbe spiegato a un giornalista di Radio Gráfica: «Se non lotto non mi sento bene. Ho uno stent, ho avuto un infarto, i miei figli mi sgridano, ma se non lo faccio mi deprimo. Non vengo a fare casino, ma a difendere i diritti dei pensionati». Mercoledì 5 marzo, dieci tifosi del Chacarita avevano seguito il suo esempio, marciando insieme a lui. In quello successivo, due giorni fa, gli ultras sono venuti in massa. Guai a essere «cagones».
*(Claudia Fanti: Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate)

 

08 – L’ARRESTO DELLO STUDENTE E ATTIVISTA PALESTINESE VOLUTO DA TRUMP È DA MANUALE FASCISTA – ARRESTATO PERCHÉ “AMICO DI HAMAS”. SENZA AVERE UNO STRACCIO DI PROVA. MAHMOUD KHALIL, STUDENTE PALESTINESE LAUREATO ALLA COLUMBIA UNIVERSITY TRA I PIÙ ATTIVI NELLE PROTESTE PRO-PALESTINA INIZIATE LO SCORSO APRILE NELL’UNIVERSITÀ STATUNITENSE, È STATO ARRESTATO SABATO MATTINA DALL’IMMIGRATION AND CUSTOMS ENFORCEMENT (ICE) IN ATTUAZIONE DEGLI “ORDINI ESECUTIVI DEL PRESIDENTE TRUMP CHE PROIBISCONO L’ANTISEMITISMO”, PER CUI CHI HA PARTECIPATO ALLE PROTESTE HA PERSO IL DIRITTO DI RIMANERE NEGLI STATI UNITI, COME AFFERMATO DALLA PORTAVOCE DEL DIPARTIMENTO PER LA SICUREZZA INTERNA, TRICIA MCLAUGHLIN, DOPO DUE GIORNI DI SILENZIO SULLE SORTI DI KHALIL. (*)

Solo lunedì 10 marzo si è saputo infatti dove era detenuto, nel centro di Jena/LaSalle in Louisiana. McLaughlin ha spiegato che Khalil, cittadino algerino di origine palestinese, ha “condotto attività allineate ad Hamas, un’organizzazione terroristica designata”. Tuttavia, non ha fornito alcuna prova a sostegno delle sue affermazioni.
In un post su X la Columbia ha dichiarato che le forze dell’ordine devono presentare un mandato prima di entrare nella proprietà dell’università. Tuttavia, contattati da diversi media, i portavoce dell’università hanno rifiutato di dire se l’università avesse ricevuto un mandato per l’arresto di Khalil.
Stando a quanto dichiarato ad AP dalla sua avvocata, Amy Greer, quando sono arrivati nel campus gli agenti hanno minacciato anche di arrestare la moglie di Khalil, cittadina statunitense, incinta di otto mesi. Uno degli agenti ha detto a Greer che il visto studentesco di Khalil era stato revocato e, quando l’avvocata ha fatto notare che lo studente palestinese si trovava negli Stati Uniti non con un visto ma da residente permanente con un green card, le è stato risposto che stavano revocando anche quella.
“Si tratta di una chiara escalation – ha detto Greer ad AP – L’amministrazione ha iniziato a dare seguito alle minacce”. L’arresto di Khalil è avvenuto il giorno dopo l’annuncio dell’amministrazione Trump di avere tagliato circa 400 milioni di dollari in contratti e sovvenzioni governative alla Columbia University “per non aver protetto i suoi studenti ebrei”. E come affermato in un post su X dal Segretario di Stato Marco Rubio, d’ora in avanti l’amministrazione “revocherà i visti e/o le green card dei sostenitori di Hamas in America in modo che possano essere espulsi”. Rubio – scrive Axios – intende revocare i visti ai cittadini stranieri ritenuti sostenitori di Hamas o di altri gruppi terroristici, utilizzando l’intelligenza artificiale (IA) per individuare le persone.
Ma su quali basi? Come osserva Marina Catucci su Il Manifesto, “la legge USA ha sempre previsto che il Department of Homeland Security, per una gamma di presunte attività criminali – incluso il sostegno a gruppi terroristici – possa espellere anche i titolari di green card, ma la detenzione di un residente permanente legale, che non è stato accusato di alcun crimine, è una mossa straordinaria con un fondamento legale traballante”.
John Sandweg, ex direttore ad interim dell’ICE, ha dichiarato in una e-mail alla CNN che il ricorso a una disposizione per espellere un titolare di carta verde è raro e spesso utilizzato con altre accuse di immigrazione, “incluso il fatto che la persona abbia mentito nella domanda di carta verde e non abbia rivelato legami con l’organizzazione terroristica”. Tuttavia, come detto, non ci sono prove fondate delle connessioni tra Khalil e Hamas.
“L’amministrazione potrebbe anche fare affidamento su un’altra disposizione che presumibilmente consente all’ICE di espellere qualcuno quando il ‘Segretario di Stato ha ragionevoli motivi per ritenere’ che la presenza o le attività della persona negli Stati Uniti presentino ‘gravi conseguenze negative per la politica estera degli Stati Uniti’”, ha aggiunto Sandweg, sottolineando che il ricorso anche a questa disposizione è raro.
Intanto, un giudice federale di New York ha bloccato l’espulsione di Khalil in attesa di decidere se il caso debba rimanere a Manhattan, essere trasferito nel New Jersey, dove Khalil era stato inizialmente detenuto, o in Louisiana, dove lo studente è attualmente detenuto. Il governo ha presentato documenti in cui chiede al giudice Jesse Furman di respingere in toto l’istanza di habeas corpus di Khalil o di trasferirla nel distretto occidentale della Louisiana, dove i casi a favore dei repubblicani sono quasi sempre affidati ai giudici nominati da Trump. Per gli avvocati di Khalil è un tentativo per mettere a tacere il dissenso politico.
Se il giudice deciderà che le accuse sono fondate, Khalil potrà comunque richiedere un provvedimento di sgravio delle accuse e l’intero processo potrebbe trascinarsi per mesi, secondo Camille Mackler, fondatrice e direttrice esecutiva di Immigrant ARC, una coalizione che fornisce servizi legali a New York. “C’è da chiedersi se il giusto processo sarà garantito a noi o a chiunque altro”, ha dichiarato Mackler. ‘Stiamo vedendo l’amministrazione Trump usare il potere del governo per perseguire persone o istituzioni che non le piacciono o con cui non è d’accordo. In una società libera questo non dovrebbe accadere’.
L’arresto di Khalil è arrivato dopo una stretta da parte di una nuova commissione disciplinare universitaria – l’Office of Institutional Equity – contro studenti della Columbia che hanno espresso critiche nei confronti di Israele, secondo i documenti condivisi con AP. Nelle ultime settimane, l’ufficio ha inviato avvisi a decine di studenti per attività che vanno dalla condivisione di post sui social media a sostegno del popolo palestinese all’adesione a proteste “non autorizzate”. Uno studente attivista è indagato per aver affisso fuori dal campus adesivi che imitavano i manifesti “Wanted”, con le sembianze di amministratori dell’università. Un altro, presidente di un club letterario del campus, rischia una sanzione per aver ospitato una mostra d’arte fuori dal campus incentrata sull’occupazione di un edificio del campus la scorsa primavera.
MARYAM ALWAN, studentessa giordana di origine palestinese, laureata in Studi comparati palestinese-americani, è stata fermata con l’accusa di molestie per un articolo non firmato sul Columbia Spectator che esortava l’università a ridurre i legami accademici con Israele che “potrebbe aver sottoposto altri studenti a comportamenti indesiderati basati sulla loro religione, origine nazionale o servizio militare”.
Durante le proteste Khalil aveva svolto un ruolo di negoziatore tra studenti e funzionari universitari. Per la sua attività era stato sanzionato dall’università, in particolare per “aver aiutato a organizzare un corteo non autorizzato” in cui era stato “glorificato l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023” e per aver svolto un “ruolo sostanziale” nella circolazione di post sui social media in cui si criticava il sionismo. In un’intervista ad AP della scorsa settimana, Khalil aveva negato ogni coinvolgimento rispetto ai post circolati sui social.
“In base a come si sono svolti questi casi, sembra che l’università stia rispondendo alle pressioni governative per sopprimere e soffocare la libertà di parola”, spiega ancora l’avvocata Greer. “Sta operando come un’azienda, proteggendo i suoi beni prima dei suoi studenti, docenti e personale”.
Tempo fa i repubblicani della Camera avevano dato agli amministratori della Columbia tempo fino al 27 febbraio per consegnare i registri disciplinari degli studenti relativi a quasi una dozzina di manifestazioni nel campus, tra cui le proteste che, secondo i repubblicani, “promuovevano il terrorismo e vilipendevano le forze armate statunitensi”, nonché la mostra d’arte fuori dal campus. Un portavoce della Columbia ha rifiutato di specificare quali documenti siano stati consegnati al Congresso e se includano i nomi degli studenti, aggiungendo di non poter commentare le indagini in corso.
Secondo le politiche della nuova commissione della Columbia, gli studenti sono tenuti a firmare un accordo di non divulgazione prima di accedere al materiale del caso o di parlare con gli investigatori. Coloro che hanno parlato con gli investigatori dicono che è stato chiesto loro di fare i nomi di altre persone coinvolte in gruppi e proteste pro-palestinesi nel campus. Hanno detto che gli investigatori non hanno fornito indicazioni chiare sul fatto che alcuni termini – come “sionista” o “genocidio” – possano essere considerati molesti. Diversi studenti e docenti che hanno parlato con AP hanno detto che la Commissione li ha accusati di aver partecipato a manifestazioni a cui non hanno preso parte o di aver contribuito a far circolare messaggi sui social media che non hanno pubblicato. Come nel caso di Khalil che, dopo aver rifiutato di firmare l’accordo di non divulgazione, aveva subito la minaccia dall’università di bloccare il suo libretto e di impedirgli di laurearsi.
“Prendere di mira uno studente attivista è un affronto ai diritti di Mahmoud Khalil e della sua famiglia. Questo atto palesemente incostituzionale invia un messaggio deplorevole, ovvero che la libertà di parola non è più protetta in America. Inoltre, Khalil e tutte le persone che vivono negli Stati Uniti hanno diritto a un giusto processo. Una carta verde può essere revocata solo da un giudice dell’immigrazione, il che dimostra ancora una volta che l’amministrazione Trump è disposta a ignorare la legge per instillare paura e promuovere il suo programma razzista”, ha dichiarato Murad Awawdeh, presidente e amministratore delegato della New York Immigration Coalition. “Khalil va immediatamente rilasciato”. “La vergognosa detenzione di Mahmoud da parte dell’amministrazione Trump è progettata per instillare il terrore negli studenti che si esprimono a favore della libertà palestinese e delle comunità di immigrati”, ha affermato Jewish Voice for Peace in una dichiarazione sull’arresto. “Questo è il manuale fascista. Dobbiamo tutti respingerlo con fermezza e le università devono iniziare a proteggere i propri studenti”.
Nel frattempo sono stati fermati altri due studenti della Columbia University, entrambi avevano partecipato a proteste filo-palestinesi. Il primo ha lasciato il paese dopo che gli è stato annullato il visto per studenti; il secondo è stato arrestato per aver prolungato il soggiorno oltre la scadenza del visto, secondo quanto comunicato dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale.
*(Fonte: Valigia Blu – valigiablu.itinfo@valigiablu.it )

 

 

 

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