
01 – Crolla la produzione industriale: -7,1% a dicembre. Le opposizioni: «Una Caporetto del governo» Dati Istat L’anno scorso tutti i mesi in negativo. M5S: «Il ministro Urso si dimetta». La Cgil: «Il nostro sistema industriale sta morendo nella totale inerzia dell’esecutivo» (red.eco.)*
02 – Luigi Pandolfi*: Tremila miliardi in dieci anni, il conto per la Ue – Difesa europea Ormai è chiaro: Trump vuole tirarsi fuori dall’affaire ucraino (non dagli «affari», giacché ha chiesto a Kiev 500 miliardi di dollari in terre rare, a titolo di rimborso delle spese […]
03 – Alfio Mastropaolo*: Sdemocratizzazione, l’ultima spiaggia del capitalismo – Crisi democratica Le società democratiche paiono giunte al culmine di un percorso inesorabile. E come sempre i capitalisti e i loro portavoce politici sono in maggioranza dalla parte delle autocrazie
04 – Sergio Fontegher*: Pubblicato il 15 febbraio 2023 Il giorno del ricordo nell’era Meloni – Politica, Temi, Interventi
05 – Mario Ricciardi*: «Tutte le dittature moderne sono sorte da situazioni democratiche». L’ammonimento del giurista tedesco Franz Neumann, che era stato testimone dell’ascesa al potere del nazismo, non ha perso la sua attualità, nonostante il tempo trascorso dalla stesura delle Note sulla teoria della dittatura (pubblicate nel 1957, dopo la morte dell’autore). Nel pieno della guerra fredda, Neumann metteva in guardia i suoi lettori.
6 – Geraldina Colotti*: intervista in esclusiva Irene León – Rilanciare l’Ecuador: il programma strategico della Rivoluzione Cittadina. Sedici candidati, due donne e quattordici uomini, si candidano alle elezioni presidenziali in Ecuador di domenica 9 febbraio
01 – CROLLA LA PRODUZIONE INDUSTRIALE: -7,1% A DICEMBRE. LE OPPOSIZIONI: «UNA CAPORETTO DEL GOVERNO» DATI ISTAT L’ANNO SCORSO TUTTI I MESI IN NEGATIVO. M5S: «IL MINISTRO URSO SI DIMETTA». LA CGIL: «IL NOSTRO SISTEMA INDUSTRIALE STA MORENDO NELLA TOTALE INERZIA DELL’ESECUTIVO» (red.eco.)*
Non si ferma il crollo della produzione industriale: il 2024, secondo i dati Istat, si è chiuso con una diminuzione del 3,5% rispetto al 2023, che si somma al calo del 2% registrato l’anno precedente. La dinamica tendenziale «è stata negativa per tutti i mesi dell’anno, con cali congiunturali in tutti i trimestri».
A dicembre 2024 calo record rispetto allo stesso mese del 2023: -7,1%; ma c’è un calo del 3,1% anche rispetto a novembre 2024. Flessioni particolarmente marcate si rilevano nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-23,6%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3%) e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-14,6%). Solamente per l’energia si registra un incremento nel complesso del 2024. Nell’ambito della manifattura, sono in crescita solo le industrie alimentari, bevande e tabacco.
L’opposizione attacca: «Di fronte a questa Caporetto, qualunque governo degno di questo nome correrebbe ai ripari. Il nostro, non ci pensa neanche lontanamente. Meloni e i suoi ministri usano il Green Deal europeo come capro espiatorio ma di fatto stanno abbandonando l’industria italiana al proprio destino», dice Antonio Misiani del Pd.
Il M5S parla di «tracollo» e chiede le dimissioni del ministro delle Imprese Adolfo Urso. «Ormai è crisi profonda», dice il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo. «Il nostro sistema industriale sta morendo nella totale inerzia dell’esecutivo e dei suoi ministri». Preoccupata anche la neosegretaria della Cisl, Daniela Fumarola: «Non abbasseremo la guardia». «La crisi o la contrazione della produzione industriale non è italiana, è europea», la giustificazione di Urso.
*(fonte: Il Manifesto . red.eco.)
02 – Luigi Pandolfi*: TREMILA MILIARDI IN DIECI ANNI, IL CONTO PER LA UE – DIFESA EUROPEA ORMAI È CHIARO: TRUMP VUOLE TIRARSI FUORI DALL’AFFAIRE UCRAINO (NON DAGLI «AFFARI», GIACCHÉ HA CHIESTO A KIEV 500 MILIARDI DI DOLLARI IN TERRE RARE, A TITOLO DI RIMBORSO DELLE SPESE […]
Ormai è chiaro: Trump vuole tirarsi fuori dall’affaire ucraino (non dagli «affari», giacché ha chiesto a Kiev 500 miliardi di dollari in terre rare, a titolo di rimborso delle spese sostenute laggiù), lasciando la patata bollente in mano all’Europa e ai suoi governi. Volete garantire la sicurezza dell’Ucraina? Accomodatevi, ma con i vostri soldi. Volete la Nato? Portate la spesa per le armi al 5% del Pil. Insomma, con la rielezione di The Donald alla Casa Bianca tutto il castello costruito dalla precedente leadership democratica con le cancellerie europee si sta pian piano sgretolando.
E chi rischia di rimanere sotto le sue macerie è l’Europa, che, dopo aver dovuto rinunciare al gas russo per comprare Gnl americano ad un prezzo quattro volte superiore e subire i contraccolpi delle sanzioni, piegando finanche il Next Generation Eu alle esigenze della guerra per procura contro Mosca, ora è pure costretta a fare i conti con la minaccia di dazi sulle sue merci (per l’Italia un conto da 9 -12 miliardi di euro), nonché con l’incombenza di dover assistere Kiev, in funzione anti-russa, per un numero imprecisato di anni a venire. Pioggia sul bagnato, per un’economia che rallenta – la Germania è da due anni in recessione – e con la produzione industriale a picco (a dicembre, in Italia, si è registrato un clamoroso -7,1%, una perdita di 90 miliardi su base annua).
Per i dazi, invero, oltre al danno c’è anche la beffa: dopo che le sanzioni, fortemente volute dagli Usa, hanno quasi azzerato l’export europeo verso la Russia e indebolito quello verso la Cina, ora c’è il rischio che per i beni made in Eu si chiudano proprio le porte del mercato americano. Riguardo all’Ucraina, invece, Bloomberg Economics ha calcolato che per garantirne la protezione i paesi europei dovrebbero spendere almeno 3,1 trilioni di dollari nei prossimi 10 anni. In dettaglio, si stima che i 15 maggiori paesi dell’Unione dovrebbero aumentare gli investimenti nella difesa di 340 miliardi di dollari all’anno, fino alla cifra monstre, molto vicina al budget degli Stati Uniti, di 750 miliardi (attualmente tutta l’Ue non supera i 280 miliardi). Per la sola ricostruzione dell’esercito ucraino servirebbero 175 miliardi di dollari in 10 anni, mentre per una forza di peacekeeping ce ne vorrebbero più di 30.
Il grosso della spesa aggiuntiva, però, dovrebbe andare a finanziare il rafforzamento degli eserciti europei, portando il bilancio aggregato della difesa Ue fino al 3,5% del Pil. Artiglieria pesante, difese aeree e sistemi missilistici: a guadagnarci di più sarebbero sempre gli Usa, con la propria industria bellica e con la partecipazione dei propri fondi di investimento al capitale delle principali industrie europee del settore (in Italia, oltre il 50% delle azioni di Leonardo S.p.a. è in mano a investitori istituzionali, tra i quali spiccano colossi come BlackRock, Vanguard, Goldman Sachs, Dimensional Fund Advisors).
*(Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine,)
03 – Alfio Mastropaolo*: SDEMOCRATIZZAZIONE, L’ULTIMA SPIAGGIA DEL CAPITALISMO – CRISI DEMOCRATICA LE SOCIETÀ DEMOCRATICHE PAIONO GIUNTE AL CULMINE DI UN PERCORSO INESORABILE. E COME SEMPRE I CAPITALISTI E I LORO PORTAVOCE POLITICI SONO IN MAGGIORANZA DALLA PARTE DELLE AUTOCRAZIE.
Sgombrando la paccottiglia populista venduta nei mercatini mediatici e accademici per trent’anni, la rielezione di Trump e il governo Meloni hanno rimesso in primo piano il suprematismo bianco in America e in Europa il nazionalismo etno-identitario.
Che minaccioso dilaga anche fuori dall’occidente. La derivazione della destra ultrà italiana palesemente deriva dal nazionalismo del primo Novecento. Tramite il fascismo, che ne fu forma estrema. Benché paia aver appreso i riti ufficiali della democrazia, non a caso cela a fatica la sua insofferenza. Donde la ferocia con cui cambia le norme, e rimuove ogni contropotere, che contrastino le sue intenzioni. A confermare la sua ascendenza, l’ha celebrata in pompa magna con una discussa mostra sul futurismo. Di qui breve è il passo alla grande tradizione reazionaria, sorta al tempo della Rivoluzione francese. Anti universalista, anti pluralista, anti politica, anti diritti dell’uomo, razzista, fatta d’idee, movimenti, partiti, tale tradizione è variegata e incoerente. Ma è l’altro polo della modernità politica, opponendo l’autocrazia a quell’insieme di tecniche di governo collegiale e condiviso che chiamiamo rappresentativo-democratiche. Da due secoli è la vera alternanza che agita l’Europa.
Viene rilegittimata la tradizione reazionaria dal «fascismo edulcorato», come l’ha definito Marc Lazar, di Berlusconi: il dolcificante con Meloni è finito. Purtroppo, non è il solo nemico del governo rappresentativo-democratico e dei valori sedimentati intorno ad esso. Non meno temibile è il capitalismo. L’inimicizia stavolta è più complessa. I ceti capitalistici nascenti furono decisivi per inventare il governo rappresentativo. Che non ha ancora imparato a fare a meno del capitalismo. Mentre non è vero il contrario. Ciò non toglie – la socialdemocrazia ne era consapevole – che il contrasto sia irriducibile. Il capitalismo si fonda sul primato dell’interesse privato. Il governo rappresentativo, pur se la pratica corrisponde di rado, si legittima invocando il bene pubblico. Benché possano convivere, la democrazia deve stare bene in guardia.
Ogni qualvolta l’autocrazia è prevalsa, i capitalisti – e i loro portavoce politici – erano in maggioranza dalla sua parte. Forse sta di nuovo accadendo. Le società democratiche paiono giunte al culmine di un percorso inesorabile di sdemocratizzazione intrapreso negli anni ‘70, in coincidenza con la crisi della manifattura e il declino dei profitti manifestatosi in quel momento. Da allora, la sdemocratizzazione è occorsa a più livelli. Il postfordismo ha devastato, senza opposizioni, il mondo del lavoro, la cui presenza organizzata era un contropotere fondamentale; welfare e diritti sociali sono stati smantellati; il solidarismo faticosamente penetrato nel senso comune ha ceduto il passo all’utilitarismo egoistico, alla riuscita personale, al merito, alla proprietà privata promossi a valori prioritari. Infine, sottomesse le amministrazioni pubbliche a una pelosa privatizzazione che le ha rese impotenti, sono state riscritte le regole della contesa politica. Chi vince la lotteria elettorale, si dice, è stato intronizzato dal popolo sovrano e governa perciò senza vincoli.
L’ultima mossa dell’odierna rapace variante di capitalismo è il suo pronunciamento a favore della destra ultrà. Già ha messo a sua disposizione mezzi finanziari e un’enorme potenza di fuoco mediatica, anzitutto esasperando la questione migratoria. Come negli anni 20 e 30 del Novecento, moderati e liberali spesso si accodano. Mentre le sinistre pagano i loro cedimenti. Quattro sopra tutti: hanno abbandonato la rappresentanza del mondo del lavoro e dei più deboli, hanno condiviso l’ubriacatura maggioritaria e hanno delegato ai tecnici, hanno soprattutto celebrato il capitalismo come dispositivo neutro e virtuoso: che faccia senza intralci il suo mestiere.
In realtà, il matrimonio con la destra ultrà può essere segno che il capitalismo occidentale sta incontrando difficoltà molto serie. Il neoliberismo ha perso smalto, l’assedio delle potenze emergenti è sempre più stringente, la crisi climatica è in atto. L’occidente a guida americana detiene paurosi mezzi militari, ma sul terreno della competitività perde colpi e i cittadini sono inquieti. Benedetta dagli elettori, l’inclinazione alla brutalità dell’ultradestra potrebbe sottomettere chi provi a resistere. Non fosse che le sfide che favoriscono il matrimonio fanno tremare i polsi, mentre le società occidentali sono troppo complesse per arrendersi come un secolo fa. La brutalità si può usare sui migranti che sono indifesi, con i nativi serve più cautela.
Orbene, se da qualche parte c’è una sinistra d’opposizione, disposta a far ammenda dei suoi errori, sarebbe suo compito accelerare il processo. Oltre denunciare gli oltraggi alla democrazia, facendosi apertamente portavoce delle vittime del capitalismo rapace, pianeta incluso; riscoprendo la democrazia come governo condiviso della cosa pubblica; rammentandosi che il capitalismo non è un dispositivo impersonale, ma un sistema di potere. Non avendo ancora appreso come liberarcene, nei suoi confronti si può riassumere una postura critica: per disciplinarlo, restringerlo e contrastarlo. Si può tornare a programmare e, in alcune sfere, va sostituito. Non è impossibile.
*(Alfio Mastropaolo insegna Scienza politica all’Università di Torino. Si è occupato di élites politiche, democrazia, politica italiana.)
04 – Sergio Fontegher*: PUBBLICATO IL 15 FEBBRAIO 2023 IL GIORNO DEL RICORDO NELL’ERA MELONI – POLITICA, TEMI, INTERVENTI
In che cosa si è distinto il Governo Meloni rispetto a quelli precedenti nella gestione della memoria delle foibe e dell’esodo degli istriani e dalmati? Nel fatto di aver istituzionalizzato in maniera più forte le celebrazioni con la creazione di un comitato di coordinamento presso la Presidenza del Consiglio. Un organismo, presumibilmente dotato di fondi, che dovrebbe rendere “permanente” la politica del ricordo e non ridurla soltanto alla giornata del 10 febbraio. In che modo? Per esempio, come suggerisce il relatore della legge sull’istituzione del giorno del ricordo, sen. Roberto Menia, organizzando gite scolastiche, si presume sui luoghi del Carso o nella parte bassa dell’Istria, oggi territorio croato. Oppure organizzando per tutto l’anno scolastico iniziative nelle scuole, magari attingendo anche alle risorse del PNRR sul cui uso molte scuole sono indecise o impreparate. Inculcando cioè nell’immaginario delle nuove generazioni la figura di antenati italiani vittime di barbarie, così come gli ebrei furono vittime dello sterminio nazista (è del maggio 2021 un’iniziativa legislativa di Fratelli d’Italia per una riforma del Codice penale atta a modificare il testo di certe leggi in modo da includere, accanto alla menzione della Shoah, la menzione delle foibe, due fenomeni posti sullo stesso piano).
Ma nell’iniziativa di Giorgia Meloni va individuato anche un altro scopo, che non dobbiamo trascurare se vogliamo capire la sua diversa gestione della “narrazione” fascista. Il Comitato di coordinamento ha avuto anche il ruolo di “controllare” gli eventuali “svarioni” che una destra esaltata dalla sua attuale egemonia avrebbe potuto commettere, creando imbarazzi al Governo. In particolare quelli riguardanti rivendicazioni territoriali.
Molti ricordano infatti che l’attuale ministro degli Esteri, Tajani, commemorando quegli avvenimenti alla foiba di Basovizza nel 2019, concluse il suo discorso gridando “Viva l’Istria italiana!”, e suscitò le vive proteste del Presidente della Croazia. In questo momento delicato il Governo vuole evitare incidenti diplomatici, che renderebbero più difficile di quanto già lo sia il suo posizionamento all’interno dell’Unione europea. E di questo va preso atto. Ma può essere anche che ciò nasconda un progetto più ambizioso, che va ben al di là dell’episodio delle foibe e dell’esodo degli istriani e dalmati. La vera posta in gioco delle politiche della memoria oggi, il vero “colpo grosso” di una destra d’ispirazione fascista al governo può essere: cambiare le carte in tavola sull’evento più tragico e determinante del Novecento, la seconda guerra mondiale. Infatti, sottoponendo le nuove generazioni al martellamento del concetto “italiani vittime di barbarie alla fine della seconda guerra mondiale” ci si adopera per inculcare l’idea che Mussolini ha combattuto una guerra giusta. Invece la storia scolpita nella pietra sa che la più terribile distruzione che l’Italia abbia subito, che la morte di centinaia di migliaia di soldati e civili italiani, furono dovuti al fatto che Mussolini ha spinto il Paese in una guerra dalla parte sbagliata, a fianco di uno dei peggiori criminali della storia, Hitler.
Se la posta in gioco della politica della memoria oggi è il senso della Seconda guerra mondiale, cioè dell’evento rispetto al quale sia la Shoah che le foibe sono dei derivati, dovremmo anche noi proporre qualche espediente mediatico per frenare questa deriva, dovremmo proporre l’istituzione di una giornata della memoria o del ricordo o della meditazione sull’evento chiamato WWII, Seconda guerra mondiale. Da che parte stava l’Italia? Perché sono stati mandati al macello i soldati dell’esercito italiano, i marinai e gli ufficiali della Marina, dell’Aviazione? A fianco di chi hanno combattuto in Francia, in Africa, nei Balcani, in Russia?
SARÀ DIFFICILE A IGNAZIO LA RUSSA RICORDARE LA SHOAH, STRIZZANDO L’OCCHIO A ISRAELE, E CONTEMPORANEAMENTE NEGARE CHE L’ITALIA HA COMBATTUTO DALLA PARTE SBAGLIATA.
L’ATTENZIONE ALL’“USO PUBBLICO DELLA STORIA”
“Ma” – dirà qualcuno – “non basta la storia della Resistenza e la cultura antifascista per mettere in chiaro che l’Italia stava dalla parte sbagliata?”.
Fino a un certo punto, perché la storia della Resistenza, che ha iniziato a diventare progetto culturale e politico nel 1949 quando Parri ha costituito l’Istituto Nazionale (e quattro anni dopo, nel 1953, ex dirigenti del CLN triestino, senza i comunisti, costituiranno l’Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Friuli e Venezia Giulia), è stata usata anche per “pulire” l’Italia dalle responsabilità del fascismo, come un atto di riparazione/purificazione e, in definitiva, di legittimazione dell’Italia democratica del 1945/46, nazione sconfitta ma anche alleata dei vincitori, che ha diritto a pieno titolo a essere riconosciuta come paese occidentale a democrazia parlamentare.
Fortunatamente pochi anni dopo gli Istituti della Resistenza diventavano Istituti di Storia del Novecento e svolgevano un ruolo importante nel caratterizzare la Storia Contemporanea in Italia come una disciplina che non poteva evitare di fare i conti con un approccio “militante”, dove il mestiere dello storico richiede un impegno politico nel presente.
A Trieste, per quanto posso ricordare – ho iniziato a prendere i contatti con Ercole Miani, Galliano Fogar, Teodoro Sala nella sede dell’Istituto situata nell’edificio del Teatro Verdi mentre preparavo la tesi di laurea – lo sguardo si è aperto alla storia del Novecento, affrancandosi da una visuale locale, per merito in particolare di Enzo Collotti. La storia dell’Adriatisches Küstenland diventava una storia organica a quella del Terzo Reich più che a quella della Repubblica Sociale Italiana, era una storia figlia dell’Anschluss con cui il nazismo s’era appropriato dell’Austria più che del 25 luglio romano. Con Enzo Collotti non significava soltanto avere come guida il maggior conoscitore della storia della Germania nazista ma anche uno storico che aveva un piede fuori dall’accademia, per la sua presenza nel gruppo di storici dell’allora Istituto G.G. Feltrinelli (oggi Fondazione) e per la sua vicinanza a Lelio Basso, collezionista di documenti importanti della storia del movimento operaio, che poi costituiranno parte del fondo dell’ISSOCO. Notazione questa che mi sembra necessaria, perché forse non è stato mai messo sufficientemente in rilievo che la contemporaneistica italiana ha tratto dalla presenza di istituzioni di ricerca non accademiche – come appunto gli Istituti della Resistenza, l’Istituto Feltrinelli, l’ISSOCO – non pochi spunti metodologici ma soprattutto una sensibilità particolare verso l’“uso pubblico della storia”.
Da qui nasce all’interno dell’Istituto triestino e giuliano, soprattutto nella fase in cui Giovanni Miccoli esercita su di esso la sua influenza scientifica, il coraggio di affrontare la tematica delle foibe e dell’esodo istriano-dalmata. Nasce nella primavera del 1977 il progetto che darà luogo alla pubblicazione Storia di un esodo. Istria 1945-1956, opera di studentesse e studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste. La prefazione di Miccoli oggi è tutta da leggere, perché definisce il progetto come uno strumento per combattere il “desiderio di dimenticare e di far dimenticare, un’ansia di voltare pagina”. E citava le parole, scritte nel 1973, di un ex partigiano del movimento di liberazione yugoslavo: “Molti compagni preferiscono dimenticare e far dimenticare una pagina nera della nostra storia recente. Non basta. Occorre riesaminare criticamente quei fatti”. Proprio l’esatto contrario di quello che affermano i nostri nuovi governanti (“La memoria delle foibe vittima per troppi anni di una congiura del silenzio”, ha detto la nostra Primo ministro, lei che nella primavera del 1977 era appena nata. E subito le ha fatto eco il Presidente Mattarella, “un carico di sofferenze, per anni rimosso”). Tra l’altro, a proposito di dimenticanze, il volume, uscito nel maggio 1980 per i tipi del Villaggio del Fanciullo di Opicina, si chiude con un ampio saggio di Annamaria Brondani sui provvedimenti in favore degli esuli giuliano-dalmati presi dai governi italiani del dopoguerra. Dimenticati o trascurati questi esuli proprio non sono mai stati, semmai strumentalizzati dal MSI e da parte della DC. A Trieste negli anni 50 e 60, quando in città sindaco e vescovo erano due istriani, ambedue nati a Rovigno, molti nutrivano un sordo rancore verso gli esuli, avvantaggiati nei concorsi pubblici, nell’assegnazione di case popolari ecc. Parecchi di loro vivevano ancora ammassati nei vecchi magazzini del porto (da leggere le belle pagine di Verde acqua di Marisa Madieri).
Da allora, mentre l’Italia era scossa dalle azioni delle Brigate Rosse e dalle bombe degli strateghi della tensione, inizia un sistematico lavoro di scavo che continuerà nei venti anni successivi e che vedrà, tra l’altro, la costituzione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena (1993) che nel 2001 consegnerà un Rapporto condiviso ma considerato ancora insufficiente dalle storiche e dagli storici triestini, che continueranno a lavorare su quei temi in stretto rapporto con colleghe e colleghi sloveni, serbi, croati, bosniaci, residenti nei loro rispettivi paesi o in Italia. Grazie al loro lavoro molti infoibati ebbero finalmente un nome e cognome, gli esuli rimasti in Italia o emigrati in Australia poterono raccontare le loro storie. Il contesto estremamente complesso in cui si collocano queste vicende fu analizzato, sviscerato, anche con un grande lavoro di storia orale, che permise di entrare in dinamiche e casi specifici che si sottraggono a qualunque classificazione. La letteratura sulla storia di quel pezzo di territorio europeo in quegli anni si arricchì a vista d’occhio, la rivista dell’Istituto di Trieste “Qualestoria” è una fonte essenziale per aggiornare la bibliografia.
CONTESTUALIZZARE O ALZARE IL TIRO?
Dunque alla fine del secolo quello che c’era da dire d’importante su queste vicende “scottanti”, come le definisce Miccoli, era stato detto. Prima dell’istituzione del giorno del ricordo. Che nasce proprio come negazione di questo lavoro di scavo e consente oggi alla narrazione ufficiale di gridare alla “congiura del silenzio”.
Dinanzi a questo vero e proprio sopruso ci possono essere due tipi di risposta, non necessariamente alternativi. Uno è quello di “rintuzzare” la narrazione della giornata del ricordo. Vuoi, come hanno fatto Raul Pupo e altre/i, redigendo un vademecum con una serie di precisazioni e puntualizzazioni, di modi d’osservare il passato, che possano funzionare da antidoto alle semplificazioni, alle mistificazioni, alle menzogne che eruttano dai giornali e da certa stampa il 10 febbraio. Vuoi con il lavoro di controinformazione di alcuni collettivi di studiosi e di militanti che allargano lo sguardo alla complessità dei fattori in gioco e smentiscono precise affermazioni e interpretazioni (https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe, https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/02/foibe-o-esodo-frequently-asked-questions-per-il-giornodelricordo/).
Una buona parte di queste due linee di risposta non ha alcuna enfasi polemica, sono semplici messe a punto, come si dice, contestualizzazioni. Ma anch’esse vengono liquidate come “giustificazionismo”.
Allora un altro tipo di risposta potrebbe essere quello di approfittare in positivo di questa occasione per spostare il terreno di scontro. Non è sempre detto che si debba andare incontro all’avversario sulla direttrice sulla quale sta avanzando, può essere meglio certe volte aprire le ostilità su un altro fronte, per attirare l’avversario su un terreno che riteniamo più favorevole. Il terreno su cui spostare lo scontro a mio avviso è quello della “politica della memoria e dell’oblio”, cioè su uno dei temi che riguardano la storiografia in quanto tale, il mestiere dello storico in quanto tale. E qui non abbiamo da contestare solo il modo in cui vengono ricordati l’esodo e le uccisioni del 1945, ma anche il modo in cui viene ricordata la Shoah, ormai, per certi versi, diventata un brand, di cui possono servirsi anche i neofascisti. Dobbiamo discutere il cambio di paradigma che è avvenuto da una fase in cui la Seconda guerra mondiale è stata letta all’insegna della contrapposizione tra fascismo e antifascismo alla fase in cui questo paradigma è stato sostituito da quello dell’antitotalitarismo (tema su cui è sempre valido il volume, di ormai dieci anni fa, a cura di Filippo Focardi e Bruno Groppo, L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella 2013), cioè da qualcosa di molto più insidioso del negazionismo. Quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, un illustre storico tedesco ebbe il coraggio di affermare che i tedeschi non dovranno mai dimenticare Auschwitz e la DDR, due facce dello stesso orrore, si toccano i limiti dell’aberrazione.
Dobbiamo dunque tornare alle radici dei problemi, all’essenza delle cose, partendo da situazioni che, in un contesto europeo del Novecento, appaiono come marginali. Dobbiamo tornare a interrogarci sui modi di fare storia, sulla deontologia dello storico. Mi chiedo per esempio: l’Associazione Italiana di Public History (vedo la sua ultima Newsletter, n. 5. gennaio 2023) si sente “interrogata” dal modo in cui viene gestita, è stata gestita, la vicenda delle foibe? La tematica dell’“uso pubblico della storia”, così cara ai movimenti degli Anni ‘70, è oggi di estrema attualità, vedi la guerra in corso in Ucraina. Ma lo era anche nel 1991 quando Milosevic istigava le folle il vidovdan, il giorno di San Vito, che nella mitologia serba ricorda la battaglia contro l’esercito ottomano alla Piana dei Merli (Kosovo Polje).
Chi si è occupato delle vicende dell’Alto Adriatico orientale ha dato un contributo importante alla conoscenza dell’età contemporanea, numerose le donne, le storiche, che vi hanno svolto un ruolo determinante (Anna Millo, Diana De Rosa, Tullia Catalan, Marta Verginella, Gloria Nemec, Marina Cattaruzza, Ariella Verrocchio, Moscarda Oblak, Mila Orlic).
UNA PARTICOLARE FEROCIA
A conclusione voglio solo aggiungere qualcosa che completa il panorama del territorio che i partigiani di Tito hanno incontrato nella loro avanzata. Quando i nazisti costituiscono l’Adriatisches Küstenland piovono a Trieste, come trascinati dalla risacca della storia, una decina di supercriminali, una specie di élite dell’orrore, appartenenti alle SS e alla Polizia tedesca, che si erano distinti in due operazioni. Quella conosciuta come T4 aveva portato all’eliminazione come “vite non degne di essere vissute” (lebensunwerte Leben) circa 70 mila disabili e malati mentali tedeschi, e quella conosciuta come Aktion Reinhard (pare dal nome del capo del servizio d’informazioni delle SS e governatore della Boemia Heydrich, ucciso in un attentato a Praga nel 1942) aveva portato all’eliminazione di 1 milione e mezzo di ebrei polacchi. Tra questi personaggi, oltre al triestino Odilo Globocnik, c’era un certo Christian Wirth, ispettore dei Lager di Belzec, Treblinka e Sobibor, che cadrà nell’imboscata tesagli dai partigiani della Istrski odred il 26 maggio 1944 a Hrpelje-Kozina, il paesino del Carso dove i miei genitori mi portavano ogni tanto in vacanza, perché ci si arrivava con il treno. La foto che ritrae le solenni onoranze tributategli è stata scattata a Opicina dove era insediato un fortissimo contingente di truppe naziste, che opposero una strenua resistenza all’avanzata dei partigiani di Tito, conclusasi addirittura il giorno dopo che in città i tedeschi si erano già arresi ai neozelandesi. Nella battaglia di Opicina – che da Trieste si raggiunge in 15 minuti di autobus – caddero circa 700 tedeschi e circa 300 componenti le formazioni di Tito. Ricordo ancora, immagini che non si cancellano mai dalla memoria, impresse dai traumi della guerra, i boschi cosparsi di elmi, di pallottole di ogni tipo e altri residui militari. La battaglia doveva essere stata furibonda, si è parlato di migliaia di prigionieri tedeschi. Alcune centinaia finirono in una foiba e i loro resti furono esumati da una missione della Repubblica Federale, che li depose nel cimitero militare tedesco di Costermano sul lago di Garda. In quella occasione vennero spostate anche le salme di Wirth e di altri del suo rango, di stanza a Opicina, come Reichleitner, austriaco, comandante del Lager di Sobibor, e portate a Costermano. Nella seconda metà degli anni 80 fu nominato console generale della RFT per l’Alta Italia Manfred Steinkühler, diplomatico e storico che aveva collaborato alle ricerche della nostra Fondazione (l’elenco delle pubblicazioni e le 37 annate della rivista della Fondazione sono consultabili su https://www.stiftung-sozialgeschichte.de/index.php/en/), una parte delle quali si era concentrata sui programmi di eutanasia del regime di Hitler. Steinkühler chiese la rimozione delle salme dei criminali nazisti sepolti a Costermano. Si scatenò contro di lui una campagna di stampa nella RFT che lo avrebbe costretto al ritiro anticipato dal servizio (nel frattempo era caduto il Muro di Berlino). Ma il problema fu sollevato di nuovo negli anni Duemila da gruppi di reduci della Resistenza italiana e ancor oggi accade d‘incontrare, navigando sul web, persone che riaprono la questione o patiti di storia dei crimini nazisti che s’interrogano sui minimi particolari dell’attentato in cui è caduto Wirth, i cui resti sono ancora a Costermano.
Il tutto per dire che l’apparato nazista che si era impadronito del territorio di Trieste e dintorni era di una particolare efferatezza, spalleggiato da formazioni di ustascia croati e di domobranci sloveni la cui crudeltà sconvolse persino componenti della Decima Mas che combattevano al loro fianco (v. il bel documentario di Giorgio Carella, X Mas, Storia degli uomini che volevano bruciare New York, DVD). Nei confronti di questi collaborazionisti slavi – serbi, croati, sloveni – la vendetta degli uomini di Tito fu spietata, dove il termine “massacro” può essere appropriato. Ciononostante, se dovessimo applicare la regola dell’“occhio per occhio, dente per dente” il conto fu ben lungi dall’essere saldato. Riuscì a farla franca persino qualcuno degli aguzzini della Risiera di San Sabba. Oggi sappiamo molto di più sull’interesse di Tito per Trieste e su come abbia personalmente guidato l’azione diplomatica tendente a cercare uno sbocco al mare durante tutto il periodo che precede il trattato di Osimo. Lo sappiamo dalle ricerche di Tenca Montini (La Jugoslavia e la questione di Trieste, 2020), che ci fanno capire meglio perché Tito nel ‘45 avesse voluto entrare a Trieste prima ancora di aver liberato Fiume e Lubiana, sacrificando migliaia di suoi uomini. E sappiamo meglio cosa accadde in Jugoslavia dopo l’espulsione dal Cominform, l’ossessione dell’opposizione interna fomentata dall’Unione Sovietica, l’instaurazione di un “maccartismo titino”, il gulag di Goli Otok e la lenta involuzione della via jugoslava al socialismo. Per contro l’intuizione che il movimento dei paesi non allineati avrebbe rappresentato il futuro riporta la figura di Tito tra i grandi protagonisti del Novecento, i nanerottoli della politica di oggi possono qualificarlo come un bandito criminale fin che vogliono, il giudizio della storia non può cambiare.
POSCRITTO
Là dove i nostri parametri culturali, i nostri schemi di pensiero hanno difficoltà a orientarsi, è la guerra in Jugoslavia dei primi anni ‘90. Ci vengono ancora utili quei parametri di fronte alla caduta del Muro di Berlino, di fronte alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma non di fronte all’implosione della Federazione jugoslava. Perché lì un’altra dimensione della guerra ha fatto la sua comparsa, Paolo Rumiz è l’unico forse ad averlo intuito con chiarezza in Maschere per un massacro. È una guerra che corrisponde all’economia neoliberale, una guerra che nasce come un investimento privato, un business di milizie, dove la componente etnica è solo apparentemente determinante. Fino a che punto questa sia la fine del Novecento e l’inizio della forma guerra del Duemila credo si possa vedere anche dall’attuale tragedia ucraina. Fino a che punto la politica della memoria abbia accompagnato questa svolta non è un interrogativo che ci poniamo solo oggi, se lo era posto Karl Heinz Roth, quando in Conchetta venne a dare il suo contributo al ciclo sul revisionismo storico, organizzato da Pierpaolo Poggio per la LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland). Era il 1997 e lui ci parlò del Volksgruppenrecht come di un’operazione culturale importante che la Germania unificata stava sviluppando, in vista di una ripresa di politica di potenza. Era qualcosa che, a suo giudizio, conteneva una forte carica destabilizzante sul piano europeo e che, sempre a suo giudizio, aveva guidato la “manina” tedesca nell’appoggio alle ambizioni della Croazia indipendente o della Slovenia. Non fummo in grado di percepire allora che quello spunto ci poteva aiutare a capire meglio la “novità” della forma guerra che si stava combattendo in Jugoslavia. Ci ho ripensato adesso e mi sono chiesto se l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin può essere spiegata con i vecchi parametri – richiamo al passato zarista/orgoglio di potenza – con cui continuiamo a ragionare oppure non sia da classificare come operazione di business, dove la componente “privatistica” svolge un ruolo determinante. Se così fosse, le vicende della Venezia Giulia negli anni 1943-54 appaiono proprio come appartenenti a un’altra era geologica. Perché allora tirare in ballo la guerra in Jugoslavia degli anni ‘90? Perché a ben vedere il giorno del ricordo è uno dei frutti avvelenati, seppur tardivi, della dissoluzione della Repubblica Federale e della ricostituzione dei peggiori nazionalismi nei Balcani. Anche se qualcuno, all’origine, ingenuamente l’aveva vista come un atto di “conciliazione”. Negli anni ‘90 Tudjman rilegittima gli ustascia in Croazia, dopo la morte verrà accusato di essere un criminale di guerra alla pari di un Milosevic, di un Mladic, ma il seme da lui gettato dà ancora oggi i suoi frutti infami (si pensi alla devastazione del cimitero partigiano di Mostar dove ben 600 stele sono state frantumate; nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2022, l’altro ieri). È bene ripeterlo: non si può scherzare con la memoria del nazifascismo da quelle parti. E l’aria che tirava a Trieste nel 1943-45 assomigliava più a quella che si respirava nella Lika o in Dalmazia che nel Veneto o in Lombardia
*(Fonte: CRS. Pubblicato il 15 febbraio 2023 – di Sergio Fontegher Bologna – ha insegnato in diverse università in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio)
05 – Mario Ricciardi*: «TUTTE LE DITTATURE MODERNE SONO SORTE DA SITUAZIONI DEMOCRATICHE». L’AMMONIMENTO DEL GIURISTA TEDESCO FRANZ NEUMANN, CHE ERA STATO TESTIMONE DELL’ASCESA AL POTERE DEL NAZISMO, NON HA PERSO LA SUA ATTUALITÀ, NONOSTANTE IL TEMPO TRASCORSO DALLA STESURA DELLE NOTE SULLA TEORIA DELLA DITTATURA (PUBBLICATE NEL 1957, DOPO LA MORTE DELL’AUTORE). NEL PIENO DELLA GUERRA FREDDA, NEUMANN METTEVA IN GUARDIA I SUOI LETTORI.
Contro i pericoli insiti nell’idea che la contrapposizione tra democrazia liberale e dittatura sia tale da mettere definitivamente al riparo dalla possibilità che la prima ceda il passo alla seconda attraverso uno svuotamento dall’interno dei presupposti e delle garanzie legali di un regime costituzionale. Le tendenze che possono condurre all’erosione della democrazia liberale sono pervasive, e potenzialmente in grado di acquisire una forza irresistibile, ben prima del momento di rottura dell’assetto costituzionale (l’assunzione da parte di una persona dei pieni poteri).
Riflettendo sugli eventi di queste settimane negli Stati uniti si trovano diverse conferme dell’intuizione di Neumann.
La cerimonia di insediamento del nuovo presidente è la prima. La rivendicazione da parte di Trump di un mandato popolare di carattere assoluto, che ignora le proporzioni del consenso ricevuto, e si rafforza attraverso l’allusione a un intervento divino che lo avrebbe protetto dal proiettile sparato da Thomas Matthew Crooks nel luglio scorso. Intorno a Trump, mentre teneva il suo discorso, non c’erano soltanto gli esponenti del suo partito, e i componenti della futura amministrazione. In primo piano c’erano anche alcuni degli uomini più ricchi del mondo, ciascuno dei quali aveva espresso il proprio sostegno, e versato il proprio contributo, al candidato.
Un piccolo cambiamento, ma di grande significato, del rito dell’investitura. La democrazia rappresentativa si presenta con alcuni tratti di un’autocrazia, e l’autocrate si circonda dei propri cortigiani. La seconda conferma l’abbiamo avuta nelle ultime ore. Le attività frenetiche di Elon Musk (titolare di un organismo senza chiara base legale, accompagnato da un gruppo ristretto di persone di sua fiducia) nel sottoporre a revisione il funzionamento di agenzie e di dipartimenti dell’amministrazione federale, per purgarle degli elementi ideologicamente sospetti, sono ancora in corso, e potrebbero avere conseguenze durature.
Le reazioni a questi fattori di discontinuità nel funzionamento della democrazia statunitense sono state flebili, e prive di una chiara guida politica. Gli interventi dei giudici federali che hanno sollevato problemi di legittimità costituzionale di alcuni dei provvedimenti presidenziali sono destinati prima o poi a fare i conti con una Corte Suprema che da tempo è dominata da una maggioranza sensibile agli orientamenti più radicali che hanno preso il sopravvento nel partito repubblicano.
Le audizioni dei membri della futura amministrazione hanno messo alla luce l’inadeguatezza (per usare un eufemismo) di buona parte dei candidati, ma questo non ne ha impedito la conferma. Le voci più critiche dell’opposizione, come quelle di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren non esprimono la linea del partito, che sembra non essere in grado di fare fino in fondo i conti con le dimensioni e la pervasività dell’attacco che Trump e i suoi sostenitori stanno portando a principi fondamentali della costituzione degli Stati uniti, come quelli sanciti dal XIV emendamento sulla cittadinanza.
La sensazione è che stiamo assistendo alle prime fasi di un cambio di regime. La trasformazione di una democrazia liberale rappresentativa in un’autocrazia in cui il consenso popolare è presunto piuttosto che misurato, e gli interessi in gioco non sono valutati in modo imparziale, ma attribuendo peso maggiore a quelli dei plutocrati che fanno parte della corte del principe. Chi non si adegua, e per ora sono pochi a opporsi, verrà piegato fino a sottomettersi attraverso l’uso congiunto della forza e del potere, civile e economico. Se questa ipotesi fosse confermata, vorrebbe dire che abbiamo già superato il punto di non ritorno della traiettoria che ci conduce oltre l’esperienza della democrazia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni.
Negli anni ’50 del secolo scorso, Neumann avvertiva che «la tecnologia su vasta scala può comportare la dipendenza totale della popolazione industriale da un meccanismo complesso e integrato, il quale può funzionare solo in un sistema gerarchico, stratificato e altamente organizzato. Un tale sistema deve inculcare le virtù della disciplina, dell’obbedienza e della subordinazione, a prescindere da chi sia proprietario dei mezzi di produzione. Così l’industrialismo moderno predica le identiche virtù che ogni sistema politico autoritario cerca di coltivare, virtù che sono repressive perché contrarie all’autodeterminazione dell’uomo». La presenza di figure che vengono dai settori più avanzati del tecno-capitalismo a fianco di Trump ci fornisce una chiave di lettura importante del cambiamento in corso. Che tutto questo avvenga in nome della libertà è l’inganno più subdolo che il neoliberalismo ha orchestrato ai danni della democrazia.
*(Mario Ricciardi. Direttore il Mulino dal 2018 … Ha scritto e scrive per diverse testate, tra cui «l’Espresso», «Il Sole – 24 Ore», «il manifesto»)
6 – Geraldina Colotti*: INTERVISTA IN ESCLUSIVA IRENE LEÓN – RILANCIARE L’ECUADOR: IL PROGRAMMA STRATEGICO DELLA RIVOLUZIONE CITTADINA. SEDICI CANDIDATI, DUE DONNE E QUATTORDICI UOMINI, SI CANDIDANO ALLE ELEZIONI PRESIDENZIALI IN ECUADOR DI DOMENICA 9 FEBBRAIO.
Il 7 si è chiusa una campagna elettorale segnata, oltre che dagli altissimi livelli di violenza, dai piani di Trump per l’America Latina. L’attuale presidente, l’imprenditore neoliberista ultra-securitario, Daniel Noboa, scalpita per mettersi nell’orbita di Trump. Ha accolto con entusiasmo la proposta di deportare i suoi connazionali migranti, e si è addirittura offerto per ospitare nelle carceri ecuadoriane i “delinquenti” statunitensi. Se venisse rieletto, stenderebbe il tappeto rosso ai piedi del suo idolo nordamericano.
Non a caso, ha ritenuto “storico” l’invito a presenziare all’insediamento del magnate per il suo secondo mandato, insieme a personalità dell’estrema destra latinoamericana, come l’argentino Javier Milei, il salvadoregno Najib Bukele e, seppur dietro le quinte, Edmundo González Urrutia, che aspira a essere il nuovo presidente “autoproclamato” del Venezuela, nonostante le elezioni siano state vinte da Nicolás Maduro.
Noboa ha accolto a braccia aperte il nuovo Segretario di Stato americano, Marco Rubio, portavoce dei settori più reazionari di Miami, nel primo viaggio in quello che Trump vorrebbe tornasse a essere il suo “cortile di casa”. Non per niente, uno dei primi decreti da lui emanati è stato quello di reinserire Cuba nella lista dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo”, chiudendo il breve periodo in cui l’amministrazione uscente Biden l’aveva rimossa dall’assurda lista.
Tra i paesi visitati da Rubio c’era Panama, che Trump ha minacciato di invadere per prendere il controllo del canale, un importante snodo commerciale in cui la Cina ha rafforzato la sua presenza. Il governo panamense, non proprio un campione di indipendenza e sovranità, ha accettato di raggiungere un accordo con Trump sulla questione delle migrazioni, vera e propria ossessione del magnate insieme ai dazi doganali.
E qui Noboa ha seguito rapidamente l’esempio di Trump, imponendo dazi ai prodotti messicani e aggravando una crisi bilaterale scoppiata quando ordinò l’irruzione nell’ambasciata messicana a Quito e sequestrò con violenza l’ex vicepresidente ecuadoriano Jorge Glass, a cui era stato concesso asilo politico dal Messico. In una difesa frontale degli interessi statunitensi, il 14 dicembre 2024, Noboa ha autorizzato il governo degli Stati Uniti a installare una base militare nelle Isole Galapagos, in conformità con i trattati di cooperazione firmati nell’ottobre 2023 tra i due Paesi.
Ciò consente agli Usa l’immunità diplomatica in caso di sbarco di truppe, e la presenza di navi, sottomarini e personale militare statunitense per “combattere l’insicurezza” in Ecuador: e, di fatto, la perdita di sovranità sulle isole. Il governo di Rafael Correa aveva deciso di non rinnovare le concessioni per le basi militari statunitensi, mentre ora la decisione di Noboa di consentire una maggiore presenza statunitense nell’Oceano Pacifico di fronte alla Cina viola la Costituzione ecuadoriana.
In questo scenario, le elezioni ecuadoriane mostrano un alto livello di frammentazione politica, ma in cui, stando alle inchieste, ci sarà una corsa serrata tra la candidata della Rivoluzione Cittadina, Luisa González, e l’attuale presidente, Daniel Noboa.
Se nessun candidato riceve il 50% dei voti o almeno il 40% con un margine di 10 punti sul secondo classificato, il 13 aprile si terrà un ballottaggio, a cui parteciperanno i due aspiranti che avranno ottenuto il maggior numero di voti. Oltre al candidato presidenziale per il periodo 2025-2029, gli elettori eleggeranno anche i 151 rappresentanti del Parlamento e i cinque rappresentanti del Parlamento andino.
Nel frattempo, il 6, è iniziato il voto “anticipato”. I primi a votare sono stati i detenuti in attesa di giudizio: circa 527 donne e 5.691 uomini, che si sono recati nei 62 seggi elettorali allestiti in 42 istituti penitenziari, sotto il controllo dell’esercito e della polizia. Ha fatto seguito il voto a domicilio, richiesto in precedenza da 662 anziani e persone con una disabilità superiore al 75%.
Riuscirà il popolo ecuadoriano a voltare pagina o continuerà a precipitare nella spirale del neoliberismo e della società securitaria? Ne abbiamo parlato con Irene León, sociologa e analista politica ecuadoriana, specializzata in alternative alla globalizzazione e diritto alla comunicazione.
QUAL È LA SITUAZIONE IN ECUADOR, COM’È IL CLIMA ALLA VIGILIA DELLE ELEZIONI?
Le elezioni sono viste come un evento decisivo in un contesto in cui è latente una disputa sul modello di società. C’è un attacco molto potente al diritto di riprendere il controllo dello Stato, che la destra considera un canale per completare la privatizzazione totale dei territori e delle risorse.
Questa virulenza della destra ha a che vedere con la sua necessità di consolidare il modello capitalista, di fronte al persistere del progetto di Rivoluzione Cittadina. Una proposta di cambiamento strutturale e di bene comune, rappresentata da Rafael Correa, che ha governato dal 2007 al 2017, dimostrando la sua superiorità storica. Dal 2017, però, dopo una sorta di colpo di stato soft per sradicare questa proposta alternativa, si è instaurato un ferreo controllo delle forze del capitalismo che oggi lottano per restare al potere.
Per ottenere lo smantellamento del progetto alternativo, tra l’altro, è stata imposta un’intensa attività di lawfare, con alti livelli di persecuzione politica e mediatica, rivolti principalmente contro il Movimento di Rivoluzione Cittadina e la sua proposta di cambiamento strutturale. Nulla di ciò che accade nella politica ecuadoriana può essere letto senza considerare il peso del lawfare, l’uso della magistratura per fini politici. Inoltre, si assiste a un’escalation dell’autoritarismo, che è un ingrediente centrale nel raggiungimento della de- istituzionalizzazione e dell’estorsione di beni e risorse pubbliche. Tanto che, da quando il governo di Daniel Noboa ha dichiarato il Paese in “conflitto armato interno”, con la scusa di affrontare il commercio illecito e il “terrorismo”, è comune considerare che il Paese sia già in dittatura.
Tuttavia, come dimostra l’attuale contesa elettorale, in Ecuador continua a sussistere una disputa sui significati e sui progetti. Altrimenti, non sarebbe possibile spiegare perché il movimento politico più perseguitato, Rivoluzione Cittadina, sia la principale forza politica del Paese, o perché il suo fondatore, Rafael Correa, in esilio a causa di questa persecuzione, continui a essere la figura politica più riconosciuta. E non sarebbe possibile capire perché Luisa González, la candidata di questo movimento, sia quella che compete per il primo posto in uno scenario di lotta per il potere.
La natura della contesa elettorale ha quindi a che vedere con un drastico quesito: o una dittatura del capitale o la ricostruzione della patria, per rilanciare ancora una volta un progetto di sovranità.
CI SONO 16 CANDIDATI ALLA PRESIDENZA. QUALI INTERESSI RAPPRESENTANO?
La maggioranza dei candidati è allineata al neoliberismo più rigoroso ed esprime obbedienza al progetto geopolitico statunitense. Per di più, tutti condividono una prospettiva securitaria, di estrema destra e persino neofascista e propongono la mano pesante come ricetta per risolvere le molteplici crisi che affliggono il Paese. Quasi tutti demonizzano il bene comune e aspirano alla privatizzazione totale. La maggior parte dei candidati rappresenta solo i propri interessi o quelli di gruppi di potere che hanno soppiantato i partiti politici e cercano di impossessarsi dello Stato per fare affari. Lo abbiamo già visto con le privatizzazioni neoliberiste, che hanno ceduto beni pubblici ad attori privati, i quali non hanno alcun piano di redistribuzione e hanno solo accentuato le disuguaglianze
Cinque di questi candidati alludono o si identificano con il progressismo o la sinistra, ma sono espressioni politiche con scarso sostegno popolare. Solo Luisa González, rappresentante della Rivoluzione Cittadina, è prima o seconda nei sondaggi e ha il potenziale per arrivare al potere. Il contendente è Daniel Noboa, l’attuale presidente, che proviene da un potente gruppo di interesse, è l’erede della più grande holding aziendale del Paese. Le sue azioni e le sue proposte rispondono a quegli interessi e, come si può vedere dai fatti verificatasi durante il periodo in cui ha governato, il fulcro della sua prospettiva libertariana è quello di mettere tutte le risorse del Paese a disposizione del mercato, in modo che il capitale internazionale possa fare affari a suo piacimento.
COSA RESTA DELLA RIVOLUZIONE CITTADINA?
La Rivoluzione Cittadina (2007-2017) è stata una sintesi di molteplici fattori, tra cui la resistenza al libero scambio, il neoliberismo e la globalizzazione di inizio secolo, ma è stata anche un punto di partenza per definire l’orizzonte del nostro progetto. Un progetto di sovranità, con una visione di economia endogena nazionale e regionale, con una prospettiva geopolitica che ha il suo epicentro nel Sud. Parte della sua eredità è una proposta per il futuro: il Buen Vivir, sancito dalla Costituzione ancora vigente. Sono stati dieci anni di cambiamenti molto significativi, con un orizzonte diverso dal piano emisferico che gli Stati Uniti avevano e hanno per l’Ecuador e per la regione latinoamericana e caraibica.
Nel 2017, questo processo di cambiamento è stato invertito da una sorta di colpo di stato soft. Il Paese non solo è tornato al neoliberismo, ma è diventato un laboratorio per l’attuazione di un modello economico libertariano, con la corrispondente distruzione dello Stato e la promozione di progetti aziendali transnazionali.
Oggi, Luisa González guida il movimento della Rivoluzione Cittadina, che si basa sull’eredità di un processo di costruzione del cambiamento. È una forza reale, un movimento esistente che nasce da quell’esperienza e che ha la volontà di riprendere un percorso di ricostruzione dello Stato per il bene comune. Nonostante la persecuzione politica che colpisce il movimento, la candidatura di Luisa González è l’unica che gode di un autentico riconoscimento popolare, l’unica che nasce da una proposta politica organica che conta sul sostegno iniziale del 30% dell’elettorato, noto alla gente come “il voto duro di Correa”, in riferimento all’ex presidente, Rafael Correa.
QUAL È IL PROGRAMMA DI LUISA GONZÁLEZ?
Luisa González propone un piano strategico per rimettere in piedi il Paese. “Rilanciare l’Ecuador” è lo slogan della sua campagna. E, in questo caso, è un passaggio necessario, sia per l’urgenza di rigenerare uno spazio democratico, sia per la necessità di superare una crisi multipla di alta intensità. In questa linea, partendo da un movimento politico che propone cambiamenti strutturali, l’agenda di González si concentra sul ruolo nodale dello Stato nella gestione degli affari pubblici, basato sul bene comune, con politiche redistributive e diritti per tutti.
Per lasciarsi alle spalle il caos neoliberista, la sua proposta dà priorità alla sicurezza dei cittadini, vista da una prospettiva globale e strategica, che include sia la re-istituzionalizzazione delle agenzie di sicurezza e giustizia, sia un patto etico e il ripristino dei valori di solidarietà e cura, come aspetti fondamentali per la ricostruzione del tessuto sociale. Questo approccio ha funzionato durante la Rivoluzione Cittadina, quando l’Ecuador era il secondo paese più sicuro dell’America Latina.
Il secondo aspetto è la rivitalizzazione dell’economia, un’economia post-petrolifera, con diversità economica e produttiva, come afferma la Costituzione; ma anche con misure correttive urgenti, ad esempio in relazione al debito estero, per il quale si propone una revisione.
Il terzo aspetto riguarda una politica energetica globale e sovrana. L’Ecuador era tra i primi dieci paesi al mondo in termini di solvibilità energetica, mentre oggi, a causa della negligenza della gestione statale, sta accadendo il contrario. L’anno scorso ci sono state interruzioni di corrente fino a 14 ore e il paese è tornato a importare energia.
Il quarto punto riguarda i servizi pubblici statali, in particolare il ripristino del sistema sanitario e dell’istruzione pubblica gratuiti. E il quinto punto si riferisce all’inclusione e ai diritti, per realizzare l’uguaglianza, in particolare all’uguaglianza di genere, e sviluppare una società inclusiva e diversificata.
I diritti sono ormai violati in tutti i campi, dalle misure neoliberiste di ridimensionamento e abbandono dello Stato, alla “guerra interna” che non perseguita gli attori delle attività illecite ma le persone impoverite, i discendenti degli africani, i giovani delle periferie urbane. Sotto il regime di Noboa si sono moltiplicate le violazioni dei diritti umani e perfino le esecuzioni extragiudiziali.
SECONDO I SONDAGGI, CI SARÀ UNA SFIDA SERRATA TRA DANIEL NOBOA E LUISA GONZÁLEZ E IN MOLTI DENUNCIANO POSSIBILI BROGLI DA PARTE DELL’ATTUALE PRESIDENTE. COSA ASPETTARSI?
Una delle sfide più importanti è garantire che le elezioni si svolgano in modo regolare. Fino a questo momento, come conseguenza della deistituzionalizzazione del Paese, è in atto una sorta di dittatura in cui Daniel Noboa controlla le istituzioni, al punto che persino il Consiglio Elettorale Nazionale ha giustificato diverse violazioni del Codice della Democrazia e persino della Costituzione. Tra i tanti casi, cito l’esempio del mancato rispetto della legge elettorale e della mancata richiesta di autorizzazione all’Assemblea nazionale per assentarsi dalla campagna elettorale e farsi sostituire dalla vicepresidenta, una figura che in Ecuador è eletta. Ricordo anche che Noboa ha compiuto atti di proselitismo pubblico utilizzando spazi e beni dello Stato, come è successo qualche giorno fa, quando ha organizzato un incontro con un certo signor Edmundo González, di origine venezuelana, candidato alla presidenza in quel Paese l’anno scorso, giunto secondo ma ricevuto da Noboa come leader. Noboa è arrivato addirittura a stipulare accordi bilaterali con un uomo che non ricopre alcun incarico pubblico nel suo Paese, tantomeno quello di presidente. Ma il CNE non ha registrato irregolarità e ha ingannato il Paese.
Negli ultimi giorni, la campagna sporca si è intensificata, e le minacce contro Luisa González sono diventate evidenti, ma non per il CNE, che le ha ignorate. Inoltre, si parla dell’esistenza di un piano per frodare gli elettori. I militari starebbero creando un centro di calcolo parallelo a quello del CNE; tanto che la propaganda elettorale del presidente in carica sta già veicolando attraverso i media una sua presunta vittoria al primo turno, da rendere irreversibile il giorno delle elezioni.
D’altra parte, in queste elezioni gli ecuadoriani non sono soli, gli Stati Uniti sono presenti in tutti gli scenari: il loro candidato è Noboa. E sarà un fedele sostenitore dei numerosi accordi firmati con quel Paese, tra cui la cooperazione militare relativa al piano geostrategico per il controllo statunitense della regione e del Pacifico.
Sono quindi in discussione due proposte politiche diametralmente opposte, ma che potrebbero essere risolte tramite voto popolare, se solo la destra e il suo padrino del Nord abbandonassero la dottrina della polarizzazione, lasciassero da parte la persecuzione politica e giudiziaria e consentissero al Paese di recuperare la gestione democratica del suo destino.
* (Fonte: Sinistrainete. L’Antidiplomatico – Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.)
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