N°02 –11/01/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Andrea Carugati*: Referendum, Meloni si chiama fuori. E sale lo scontro sul Veneto
02 – Roberto Ciccarelli*: Economia- Iacobucci: «Non si fa una politica industriale con il turismo, i servizi e le paghe da fame»
03 – Andrea Capocci*: LANCET: 70MILA, le vittime a Gaza sono il 40% in più – il rapporto dopo mesi di lavoro, la rivista scientifica rivede i numeri. Il 60% sono donne e bambini.
04 – Marina Catucci*: l primo presidente pregiudicato. Trump riceve la sentenza – Stati uniti: A New York il giudice Juan Merchan ufficializza la sua condanna. Ma non dovrà scontare alcuna pena detentiva o pagare multe.
05 – Mario Ricciardi*: La sfida populista e il futuro della sinistra – Dopo l’89 I leader socialdemocratici credevano di «domare la bestia» senza rinunce al loro modello. Invece si è via via affermata una visione della società come mercato, dove tutto ha un prezzo. Figure come CORBYN, SANDERS o MÉLENCHON, sono state schiacciate, bloccando ogni rinnovamento. La destra, invece, ha cavalcato con nuovo stile il conflitto sociale tra élites e popolo

 

 

01 – Andrea Carugati*: REFERENDUM, MELONI SI CHIAMA FUORI. E SALE LO SCONTRO SUL VENETO – DESTRA A PEZZI IL GOVERNO NON PARTECIPERÀ ALLE UDIENZE SUI SEI QUESITI AL VAGLIO DELLA CONSULTA, COMPRESA L’AUTONOMIA. SU ZAIA GUERRA LEGA-FDI. I LEGHISTI: «PRONTI A CORRERE DA SOLI». SALVINI CERCA SPONDE A SINISTRA SUL TERZO MANDATO, MA NON NE TROVA

Sul referendum per l’autonomia, il governo di Giorgia Meloni si chiama fuori: non parteciperà all’udienza del 20 gennaio davanti alla Corte costituzionale per perorare la causa della non ammissibilità del quesito che intende abolire la legge Calderoli. Eppure il ministro leghista, padre della norma, ha sostenuto in ogni sede che il quesito non sia ammissibile, anche perché lui lo ha strumentalmente collegato alla legge di bilancio, e su queste materie la Costituzione nega la via referendaria. Non è solo «un passo indietro» per lasciare esprimere i cittadini nelle urne, quello di Meloni. Ma una sconfessione dell’alleato.
I GOVERNI POLITICI, IN PASSATO, hanno molto spesso perorato la causa delle non ammissibilità dei referendum su leggi approvate dalle loro maggioranze. Stavolta no. E non è un caso che il Veneto leghista abbia invece deciso di partecipare all’udienza del 20 per difendere l’autonomia. La novità emersa ieri da fonti di palazzo Chigi è che la neutralità del governo riguarderà anche gli altri cinque quesiti al vaglio della Corte (l’udienza è stata rinviata al 20 nella speranza che siano già stati eletti i 4 giudici mancanti): e cioè quelli della Cgil sul Jobs Act e quello che punta a rendere più facile la cittadinanza per gli immigrati, promosso da +Europa.

E se sul Jobs Act la mossa è comprensibile (le norme erano state approvate da Renzi) e la cittadinanza è una legge del 1992, lavarsi le mani sull’autonomia ha un peso politico assai diverso. Che non si spiega solo con la volontà di Meloni di non legare la vita del suo governo ai responsi referendari, dall’autonomia fino al premierato a lei caro, per non seguire l’infelice esempio di Renzi che nel 2016 cadde proprio sul referendum costituzionale.
LA LEGA INFATTI NON HA apprezzato. Se il referendum sarà ammesso, i tempi per modificare la legge e farlo saltare saranno piuttosto stretti: la norma prevede infatti che si voti tra il 15 aprile e il 15 giugno. Modificare l’autonomia alla Camera e al Senato in pochi mesi, tra le proteste delle opposizioni, sarebbe molto difficile. Dunque, se la Consulta darà il via libera (presumibilmente a febbraio), sarà una primavera referendaria: e l’amplissimo fronte anti-autonomia farà di tutto per raggiungere il quorum del 50%. Mentre Zaia e il collega lombardo Attilio Fontana sono già virtualmente a capo del fronte dell’astensione, sulla falsariga dell’«andate al mare» di Bettino Craxi nel 1991. Con Meloni democristianamente a guardare.
IL GELO DELLA PREMIER sull’autonomia fa il paio con l’insistenza con cui invece ha deciso di impugnare davanti alla Consulta la legge della Campania per il terzo mandato a Vincenzo De Luca. Giovedì in consiglio dei ministri il leghista Calderoli ha messo a verbale il suo dissenso, che riguarda il principio generale e la sorte di Luca Zaia in Veneto e poi di Massimiliano Fedriga in Friuli. E la volontà del Carroccio di arrivare a una legge nazionale che consenta a tutti i governatori di fare più mandati. Una ipotesi su cui, ammette la Lega, «non c’è intesa» nel centrodestra.
Tanto che i leghisti stanno già studiando vari piani per non cedere il Veneto a Fdi. Zaia, con prudenza, vuole aspettare il verdetto della Consulta su De Luca che arriverà entro fine maggio. I suoi in Veneto minacciano di correre da soli, con una “lista Zaia” in grado secondo le speranze di battere sia Meloni che il centrosinistra. «Una lista così vale il 40-45%, e il Doge li manda tutti a casa…», ragionano. Salvini viene tirato per la giacca e accusato di non difendere abbastanza i governatori.
Il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio ieri ha detto all’Adnkronos che «si deve aprire un ragionamento che vada anche oltre i confini della maggioranza». «È una questione di democrazia: parlamentari, ministri, presidenti del Consiglio e della Repubblica non hanno limiti di mandato, invece presidenti di Regione e sindaci sì, mi sembra assurdo», attacca.
Ma sponde nelle opposizioni non ce sono: Schlein vuole liberarsi di De Luca e non muoverà un dito per Zaia dopo aver risolto le questioni Bonaccini e Emiliano. «Abbiamo sempre trovato una soluzione unitaria su tutte le candidature, anche le più difficili», insiste Centinaio. E invita gli alleati che hanno votato l’autonomia a «comportarsi di conseguenza» e andare avanti con la riforma.
DA FDI ARRIVA UNA NUOVA doccia fredda. «La decisione del governo sulla Campania dimostra che non c’è alcuna volontà di andare nella direzione dei tre mandati», mette in chiaro il numero due dei senatori Raffaele Speranzon. «Il limite dei due mandati riteniamo garantisca alternanza e ricambio generazionale». Sul dopo Zaia, Speranzon derubrica i malumori leghisti: «Le loro sono dichiarazioni che servono agli iscritti del partito, ma gli elettori veneti di centrodestra vogliono la coalizione unita. E le proposte di Fdi dovranno essere tenute in considerazione per rispetto del 37,5% di veneti che ha votato per noi alle europee».
Lo scontro è destinato a durare a lungo. Il voto, ha fatto capire Meloni, sarà in autunno, nessun rinvio alla primavera 2026. «Legittimo che il premier dica quel che vuole, ma noi rivendichiamo la presidenza», insiste l’assessore regionale Roberto Marcato. «Per noi il Veneto è la linea del Piave», rincara il capogruppo leghista in regione Alberto Villanova. «Siamo pronti a correre da soli».

02 – Roberto Ciccarelli*: ECONOMIA- IACOBUCCI: «NON SI FA UNA POLITICA INDUSTRIALE CON IL TURISMO, I SERVIZI E LE PAGHE DA FAME»

Intervista Parla l’economista Donato Iacobucci, economista e curatore del volume “L’Italia industriale contemporanea” (Carocci): “Si riparte investendo sulla ricerca e sui settori innovativi, anche nell’Ue non è facile recuperare il tempo perduto. Ma da noi non si può tagliare ancora l’università”

Donato Iacobucci, docente di economia applicata all’università politecnica delle Marche e curatore del libro «L’industria italiana contemporanea (Carocci), anche Confindustria ieri ha confermato che l’economia manifatturiera è in una crisi drammatica. Perché?
È il risultato di debolezze strutturali accumulate da decenni: la difficoltà di produrre innovazione, organizzare le filiere e adeguarsi alla pervasività delle tecnologie digitali. Nel libro raccontiamo come il declino ha radici lontane: è iniziato tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Fino alla crisi del 2008 il sistema è stato trainato dai distretti industriali. Ma ormai quel modello è inadeguato. Anche la sinistra ha qualche responsabilità in questa vicenda.
Quali?
Quella di aver eccessivamente esaltato l’esperienza dei distretti anche perché sembrava un modello più accettabile di capitalismo rispetto a quello delle grandi imprese. Ma ora il contesto tecnologico e internazionale è cambiato. Si trattava di capirlo prima.
Lei vive nelle Marche, uno dei territori di questa crisi…
Se guardiamo alla storia di questa regione la filiera dell’elettrodomestico è stata importante. Ha garantito sviluppo economico e coesione sociale. Fino a poco più di 20 anni fa l’Italia era leader europeo del settore. Nell’ultimo ventennio l’occupazione si è dimezzata e le principali imprese sono state acquisite da gruppi esteri. La crisi della Beko prosegue in questa tendenza. Un disastro per l’intera filiera.

LA PRODUZIONE INDUSTRIALE CALA DA 21 MESI. SE CONTINUA COSÌ NON SI RISCHIA DI SMANTELLARE L’INTERO SISTEMA?
Spero si tratti di un dato congiunturale, dovuto alla crisi tedesca. È evidente, però, che la crisi dipende anche da fattori strutturali endogeni, primo fra tutti la limitata capacità di innovazione delle imprese. D’altra parte, non è possibile reagire a questa situazione pensando di abbandonare il sistema industriale e sostituirlo con quello dei servizi e del turismo.
In effetti, si parla solo di Airbnb, record dei turisti e tutti chef in Tv…
Turismo o agricoltura sono settori caratterizzati da bassa produttività e bassi salari. La finalità della politica industriale dovrebbe essere quella di creare lavoro di qualità e aumentare i salari. L’industria manifatturiera resta fondamentale in questa prospettiva
Quanto ha influito sulle difficoltà dell’industria la grande moderazione salariale che affligge l’Italia dagli anni Novanta?
Ha ritardato la pressione sulle imprese ad innovare. E infatti molte oggi competono sul costo del lavoro e non sull’innovazione.
Da dove si ricomincia?
Dalla ricerca e dall’innovazione. Ma non è semplice. Abbiamo accumulato decenni di ritardo e non sarà facile recuperare il tempo perduto. Il problema riguarda non solo l’Italia ma l’Europa. Questo è uno dei punti chiave del rapporto Draghi: su alcune filiere chiave per la transizione digitale ed ecologica l’Ue ha perso in capacità di ricerca e innovazione oltre che nella produzione a favore di Usa e Cina.
Il governo Meloni è orientato a tagliare 702 milioni alle università nei prossimi tre anni…
È un provvedimento che va nella direzione opposta a quella che si dovrebbe prendere. Si può comprendere che esistano vincoli nel bilancio pubblico e inefficienze nella spesa, ma in questo contesto la spesa per la ricerca e l’istruzione è assolutamente strategica. Tra l’altro questi tagli verrebbero imposti a un sistema già sotto finanziato rispetto a quello dei paesi industriali avanzati. Oltre allo scarso impegno nella ricerca, giova ricordare che l’Italia è penultima nella percentuale di laureati sulla popolazione. Dovremmo fare uno sforzo per cercare di ribaltare questa situazione.
Nella conferenza stampa di inizio anno Meloni ha detto di puntare sugli incentivi alle imprese. Anche questo non sembra un modello innovativo…
Sono incentivi di tipo orizzontale, cioè a pioggia. Non sono una novità. Da tempo si privilegiano politiche “orizzontali” tendenti a finanziare il maggior numero di imprese. Queste risorse sostengono il sistema così com’è, ma hanno scarsa capacità di produrre trasformazioni strutturali. Va detto che passare a politiche “verticali” non è semplice perché richiedono maggiore selettività. Politicamente più difficile da sostenere. In questo modo si rinuncia alle scelte per massimizzare il numero di beneficiari. Lo hanno fatto tutti i governi, nazionali e regionali.
Cosa ha fatto il governo Meloni per contrastare il crollo dell’industria?
Il Ministero delle Imprese ha pubblicato un «Libro Verde sulla politica industriale: Made in Italy 2030» con l’obiettivo di elaborare una nuova strategia di politica industriale. L’iniziativa è lodevole. Si tratterà di capire se promuoverà la trasformazione del sistema oppure se prevarrà il sostegno ai settori tipici del «Made in Italy». È comprensibile che si metta l’accento al sostegno dell’esistente viste le difficoltà di moda, elettrodomestico o auto motive. Il rischio è di non dedicare sufficienti risorse al cambiamento strutturale e all’innovazione. Sono le leve per contrastare la tendenza al declino.
*(Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto)

 

03 – Andrea Capocci*: LANCET: 70MILA, LE VITTIME A GAZA SONO IL 40% IN PIÙ – IL RAPPORTO DOPO MESI DI LAVORO, LA RIVISTA SCIENTIFICA RIVEDE I NUMERI. IL 60% SONO DONNE E BAMBINI.

IL NUMERO DI OLTRE 45MILA VITTIME RIPORTATO DAL MINISTERO DELLA SANITÀ DI GAZA È UNA NOTEVOLE SOTTOSTIMA DELLE PERDITE PALESTINESI CAUSATE DELLA GUERRA DI ISRAELE. SECONDO UNO STUDIO PUBBLICATO SULLA RIVISTA SCIENTIFICA THE LANCET, A CAUSA DELLE DIFFICILI CONDIZIONI IN CUI VERSANO LE STRUTTURE DI SOCCORSO DELLA STRISCIA IL 40% DEI MORTI POTREBBE MANCARE DAI REGISTRI.
L’analisi, coordinata dalla ricercatrice Zenia Jamaluddine della prestigiosa London School of Hygiene & Tropical Medicine, calcola che già a giugno del 2024 una ragionevole stima dei morti causati da bombardamenti e raid israeliani è di 64mila vittime, e con buona certezza compresa tra le 55 mila e le 78 mila. Alla data del 30 giugno, il ministero di Hamas parlava di 38mila vittime, di cui diecimila non identificate. Cioè, poco più della metà della cifra reale. Oggi, trascorsi altri sei mesi, i ricercatori ritengono che siano morti sotto le bombe già più di settantamila palestinesi.
I MESI PEGGIORI sono stati i primi: circa la metà delle vittime sono state registrate tra ottobre e dicembre 2023, facendo aumentare di ben quattordici volte il tasso di mortalità nella Striscia rispetto al 2022. «I dati – spiegano gli autori dello studio – evidenziano la necessità urgente di allargare l’accesso umanitario a tutta la Striscia di Gaza e di proteggere il personale, le ambulanze e le strutture sanitarie in modo che le persone colpite possano ricevere cure tempestive e adeguate, riducendo così la mortalità». E sottolineano la necessità di iniziative diplomatiche immediate per raggiungere una tregua rapida e duratura e un accordo a lungo termine che comprenda il rilascio degli ostaggi e delle migliaia di civili palestinesi imprigionate da Israele».

PER ARRIVARE alla loro stima, Jamaluddine e i suoi colleghi hanno utilizzato tre fonti diverse. La prima è la lista delle vittime identificate con nome e cognome dagli ospedali di Gaza, che ormai funzionano a singhiozzo. La seconda contiene i dati raccolti dal ministero della sanità attraverso un questionario online a cui le autorità di Gaza hanno invitato tutta la popolazione a partecipare. La terza è rappresentata dai necrologi e da altri messaggi relativi alle vittime diffusi su social media e siti specializzati. Si tratta evidentemente di liste parziali e che contengono moltissime sovrapposizioni. Rimuovere i doppioni ha richiesto mesi di lavoro e ha condotto a un elenco di circa 30mila vittime identificate.

MA OGNUNA delle tre fonti è incompleta e una vittima può rimanere fuori da tutti e tre i conteggi. Tenendo conto anche di questa possibilità – e applicando metodi diversi per una maggiore affidabilità – il team dell’istituto londinese è giunto al risultato di 64mila morti. È il metodo capture–recapture «già impiegato per calcolare la mortalità in zone di conflitto armato come Kosovo, Colombia e Sudan».
Lo studio di The Lancet suddivide le vittime anche per genere e fascia di età. Donne, bambini e anziani rappresentano quasi il 60% dei morti, e circa il 38% di loro sono donne, colpite indiscriminatamente dalle armi israeliane. Infatti, mentre la fascia d’età più colpita tra i maschi è compresa tra i 15 e i 45 anni (quella dominante tra i militanti più direttamente impegnati nel conflitto), bambine, donne e anziane hanno pagato lo stesso tributo di sangue: sintomo che le operazioni israeliane colpiscono nel mucchio pur usando le tecnologie militari più sofisticate. «Sia la scala che la distribuzione di genere e per età delle vittime – scrivono gli autori della ricerca – sollevano gravi preoccupazioni sulla condotta delle operazioni militari a Gaza, nonostante Israele affermi di minimizzare le perdite civili».

LO STUDIO mostrerebbe che nei primi nove mesi la guerra ha ucciso il 3% degli abitanti di Gaza. Se si somma la percentuale degli abitanti che hanno lasciato la Striscia o sono detenuti, nel complesso l’enclave ha perso il 6% della sua popolazione pre-bellica.

ANCHE l’accuratezza di questo studio non taciterà la battaglia intorno ai numeri. Tuttavia, gli inviti a non prendere per buone le cifre fornite dai sanitari di Gaza sono arrivate finora soprattutto dagli alleati di Israele, mentre i militari di Tel Aviv che conoscono meglio la realtà sul campo non hanno mai contestato l’affidabilità di questi numeri. Nel futuro, il conto esatto dei morti diventerà però sempre più difficile per il progressivo disfacimento del sistema sanitario della Striscia.

IERI LA ONG Medici Senza Frontiere ha lanciato l’allarme: altri tre degli ospedali ancora attivi (Nasser, Al Aqsa e European Hospital) sono prossimi alla chiusura per mancanza di carburante necessario per i generatori. «Nel dicembre 2024 – spiegano i portavoce della ong – sono entrati in media al giorno a Gaza solo 59 camion con rifornimenti vitali», invece dei 500 dell’era pre-7 ottobre 2023.
*(Andrea Capocci. Collabora con il quotidiano “Il Manifesto” e con la rivista “Le Scienze”)

 

04 – Marina Catucci*: IL PRIMO PRESIDENTE PREGIUDICATO. TRUMP RICEVE LA SENTENZA – STATI UNITI A NEW YORK IL GIUDICE JUAN MERCHAN UFFICIALIZZA LA SUA CONDANNA. MA NON DOVRÀ SCONTARE ALCUNA PENA DETENTIVA O PAGARE MULTE.

Donald Trump sarà il primo presidente nella storia Usa a entrare alla Casa Bianca come «criminale condannato», un pregiudicato. A pochi giorni dal suo insediamento ha ricevuto la sentenza nel caso dei pagamenti a Stormy Daniels. Il caso ruotava attorno alla falsificazione dei documenti contabili della campagna elettorale del 2016 per pagare in nero 130.000 dollari alla pornostar, per comprarne il silenzio riguardo una loro relazione sessuale risalente al 2006. Pagamento che era stato registrato come spese legali, al fine di proteggere l’immagine pubblica del candidato Trump.
LA MOSSA evidentemente non è riuscita ed il presidente eletto Trump tornerà a Washington con la fedina penale sporca, anche se per lui non ci sarà il carcere, né pene pecuniarie.
Tra i poteri della presidenza non c’è quello «di cancellare il verdetto di una giuria», ha decretato il giudice Juan Merchan. Il giudice del caso di New York ha emesso una sentenza di unconditional discharge, vale a dire senza alcuna imposizione di pena, per tutti i 34 capi di imputazione di cui Trump è stato riconosciuto colpevole, citando il ritorno del tycoon alla Casa bianca come giustificazione.
«Le protezioni garantite all’ufficio della presidenza non sono un fattore attenuante. Non riducono la gravità del crimine né lo giustificano in alcun modo. Sono, tuttavia, un mandato legale che, ai sensi dello stato di diritto, che questa corte deve rispettare e seguire. Ma nonostante la straordinaria ampiezza di tali protezioni, un potere che non forniscono è il potere di cancellare un verdetto della giuria».
La sua sentenza, quindi, ha dovuto tenere conto della vittoria di Trump alle elezioni. «Sono stati i cittadini di questa nazione – ha detto il giudice rivolgendosi a Trump – a decidere di recente che, ancora una volta, lei potrà godere dei benefici di quelle protezioni che includono, tra le altre cose, la clausola di supremazia e l’immunità presidenziale. È attraverso questa lente e questa realtà che questa corte deve stabilire una sentenza legittima. È questa corte ha stabilito che l’unica sentenza legittima che consenta l’emissione di una sentenza di condanna, senza violare la più alta carica del Paese, è l’unconditional discharge. Pertanto, in questo momento, impongo tale sentenza per tutti i 34 capi d’imputazione. Signore, le auguro buona fortuna per il suo secondo mandato».
IL PROCESSO di New York è stato l’unico dei quattro che prendevano sulla testa di Trump a vedere la luce. Per settimane ha cambiato l’assetto di New York e attirato cittadini provenienti da tutti gli stati dell’Unione, e giornalisti di tutto il mondo, in fila per ore a partire da notte fonda per poter entrare in un’aula del tribunale di Manhattan e assistere a un evento che si poteva fruire solo in presenza, perché vietato alle telecamere. Anche solo trovare 12 giurati non era stato semplice: mettere insieme, a New York, 12 persone che non avessero già un’idea su Trump non è semplice. Il temperamento del presidente eletto e il suo atteggiamento bellicoso hanno fatto il resto, provocando continui richiami da parte del giudice.
Mentre tutti si aspettavano una serie di riunioni e divisioni interne da parte della giuria, il verdetto unanime è stato raggiunto in poche ore: colpevole di tutti i 34 capi d’accusa.
LA CONDANNA sarebbe dovuta arrivare da lì a poco ma il giudice – dopo la sentenza della Corte suprema sull’immunità presidenziale, e il risultato delle elezioni – ha ritenuto opportuno spostarla più volte, fino a più di due mesi dopo il risultato elettorale. Dal canto suo Trump ha fatto di tutto per evitare la condanna, chiedendo anche un intervento della Corte suprema: a sorpresa, due giudici conservatori – John Roberts e Amy Coney Barrett -, hanno votato con le tre togate liberal contro la sospensione del verdetto.
Poco prima di ricevere la condanna, rivolgendosi alla corte da Mar-a-Lago in collegamento video, Trump ha definito il caso «un’esperienza davvero terribile», un’«ingiustizia», una «caccia alle streghe politica» e una «vergogna per il sistema».
L’INTENTO, ha dichiarato per l’ennesima volta, era «danneggiare la mia reputazione, in modo che perdessi le elezioni, ma ovviamente non ha funzionato». Dopo la lettura della sentenza, invece, è arrivata la promessa del tycoon: «Oggi si è svolta una farsa spregevole e, ora che è finita, faremo appello».
*(Marina Catucci – Corrispondente dagli Stati Uniti per Il Manifesto)

 

05 – Mario Ricciardi*: LA SFIDA POPULISTA E IL FUTURO DELLA SINISTRA – DOPO L’89 I LEADER SOCIALDEMOCRATICI CREDEVANO DI «DOMARE LA BESTIA» SENZA RINUNCE AL LORO MODELLO. INVECE SI È VIA VIA AFFERMATA UNA VISIONE DELLA SOCIETÀ COME MERCATO, DOVE TUTTO HA UN PREZZO. Figure come CORBYN, SANDERS o MÉLENCHON, sono state schiacciate, bloccando ogni rinnovamento.
La destra, invece, ha cavalcato con nuovo stile il conflitto sociale tra élites e popolo

Donald Trump non è ancora entrato in carica come presidente degli Stati Uniti, ma gli effetti della sua vittoria alle elezioni si avvertono già, in modo significativo, sullo scenario internazionale. Fare dell’ironia sulle sue dichiarazioni è facile.
A proposito della Groenlandia, del Canada o del golfo del Messico, ma non saranno le battute a mettere in crisi un esperimento politico che ha tutte le caratteristiche di un riallineamento che potrebbe avere conseguenze durature.
La dura realtà con cui dobbiamo fare i conti è che i liberali e la sinistra hanno subito una sconfitta da cui non si riprenderanno facilmente, e che bisogna prepararsi a una lunga traversata nel deserto, nella consapevolezza che non abbiamo un’idea chiara del modo in cui ne verremo fuori.

LA SITUAZIONE in Europa è altrettanto drammatica. Con la sola eccezione della Spagna, dove la maggioranza di sinistra al governo per il momento regge, la destra appare sempre più forte, e proiettata verso un futuro di consenso che potrebbe rivelarsi duraturo. Trump e i leader della destra europea hanno saputo trarre vantaggio da una perdurante situazione di incertezza sul futuro che ha eroso progressivamente le certezze su cui si basava il consenso post Ottantanove. La promessa di un’onda di prosperità senza fine che avrebbe sollevato tutte le barche, riconoscendo a ciascuno dei piloti una remunerazione adeguata agli sforzi e ai meriti è stata tradita da un capitalismo che, nel giro di qualche decennio, ha disarticolato tutte le istituzioni intermedie e le reti di solidarietà che coltivavano il consenso socialdemocratico che aveva sostenuto il benessere e la crescita nel secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta.

La sfida che il neoliberalismo aveva lanciato alla socialdemocrazia è risultata vincente perché i liberali e le sinistre hanno creduto che fosse possibile smussare gli aspetti più radicali della nuova visione della società senza rinunciare del tutto ai benefici derivanti da sistemi di welfare generosi e da economie capaci di competere con successo sui mercati globali. Leader socialdemocratici come Craxi, Mitterand o Blair erano convinti, in qualche misura in buona fede, che fosse possibile domare la bestia senza rinunciare al nucleo normativo del modello socialdemocratico, su cui c’era in qualche misura una convergenza anche da parte dei conservatori.

Ciò che è accaduto, invece, è che, passo dopo passo, lo spirito pubblico è stato affievolito fino a sparire del tutto, e si è affermata una visione della società come mercato, dove tutto ha un prezzo.

QUESTO PROCESSO, a partire dagli anni Novanta, è stato facilitato da una privatizzazione strisciante della politica, che ha reso i partiti della sinistra storica permeabili alle influenze di lobby e interessi che non trovavano più nei partiti leggeri le capacità autonome di decodifica di messaggi che venivano presentati immancabilmente come ispirati dall’interesse generale, ma che erano invece disegnati su misura per privilegiare le richieste dei più abbienti. La cattura è avvenuta poco alla volta, attraverso la cooptazione dei gruppi dirigenti dentro le reti di interesse del potere economico, rendendo i partiti di sinistra indistinguibili da società di servizi per la committenza privata.

L’ascesa di leader e di forze politiche “populiste” è stata un segnale d’allarme per la tenuta delle nostre democrazie che le sinistre, ormai pienamente dominate dalla visione neoliberale della società, hanno scelto colpevolmente di ignorare, convinte che la rendita di posizione costituita dalla “competenza” maturata attraverso l’esperienza di governo fosse sufficiente a mantenere il consenso sufficiente a non perdere il controllo.
Negli ultimi anni i populisti di sinistra, come Corbyn, Sanders o Melenchon, sono stati trattati come nemici da schiacciare, in una lotta senza esclusione di colpi, che ha bloccato qualunque possibilità di rinnovamento. La destra, invece, ha abbracciato il nuovo stile politico, cavalcando la contrapposizione tra élites e popolo in modo spregiudicato, riuscendo a convincere i perdenti della globalizzazione che una nuova destra nazionalista e assertiva potesse offrire la protezione sociale che la sinistra non era più in grado di offrire.

SE OGGI STIAMO assistendo, come temo, a un riallineamento dello spettro politico su entrambe le sponde dell’Atlantico, ciò dipende in larga misura dalle responsabilità di quella parte della sinistra che credendo di assimilare la spinta liberale del post Ottantanove non ha messo in discussione l’egemonia neoliberale.

Oggi che la saldatura tra gli interessi del capitale e la forza d’urto del populismo nazionalista appare inarrestabile dobbiamo ritornare ai valori fondamentali che avevano guidato la lunga marcia del movimento operaio e socialista per comprendere come essi possano trovare espressione in una realtà profondamente mutata. Non sarà né facile, né indolore. Ci sarà da rivedere le idee e le strategie, cercando il consenso dove è possibile trovarlo, anche se questo potrebbe richiedere una certa dose di populismo nello stile della comunicazione.

*(Mario Ricciardi, è professore associato di Filosofia del diritto presso l’Università di Milano e insegna anche presso la Facoltà di Filosofia)

 

 

 

Views: 65

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.