N°43 –26/10/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Teresa Barone*: Pensioni INPS in Italia, un terzo sotto i mille euro.
02 – La sconfitta dell’occidente – l’irrinunciabile analisi di Emmanuel Todd – di Roberto Iannuzzi*:
03 – Gustavo Gutierrez, il padre ribelle della Teologia della Liberazione. America Latina È scomparso in Perù, aveva 96 anni. Nella sua «opzione preferenziale per i poveri» fu avversato da Wojtyla e inquisito da Ratzinger.
04 – Roberto Ciccarelli*: Banche, il trucco dei «contributi»: lo Stato li restituirà tra due anni.
La cambiale Meloni voleva “stupire” e ci è riuscita. Ecco come…
05- Gaetano Azzariti*: La pretesa del governo di non farsi ostacolare dai giudici nelle politiche migratorie (ma analogo discorso potrebbe farsi anche in materia di sicurezza e ordine pubblico) è la dimostrazione dell’analfabetismo costituzionale dell’attuale maggioranza.
06 – Alessandro Stefanelli*: I veleni dell’occupazione a Tulkarem, la piccola Gaza..
Reportage Un polo industriale dal nome beffardo, «Germogli di pace», sorto sui campi confiscati agli agricoltori palestinesi. Fabbriche altamente inquinanti spostate da Israele in Cisgiordania, dove si respira un’aria di pesticidi e rassegnazione. E l’unico diritto riconosciuto ai lavoratori è quello di firmare il proprio licenziamento

 

 

01 – Teresa Barone*: PENSIONI INPS IN ITALIA, UN TERZO SOTTO I MILLE EURO.
L’INPS fornisce i dati sul sistema pensionistico italiano: aumentano pensioni e beneficiari, gli assegni più elevati sono nelle regioni del Nord.

Balzo in avanti per le prestazioni del sistema pensionistico italiano, che ha raggiunto quota 23 milioni di trattamenti a beneficio di 16,2 milioni di persone per un ammontare complessivo annuo di 347 miliardi di euro.
A fornire dati recenti è l’Osservatorio INPS sulle Prestazioni pensionistiche e beneficiari del sistema pensionistico italiano, basato su dati di fine 2023.

PENSIONI IN ITALIA: A CHE PUNTO SIAMO
Pensioni minime 2025

PENSIONI MINIME, IL MINI AUMENTO DI 3 EURO AL MESE IN MANOVRA 2025

Il rapporto sottolinea per prima cosa l’aumento annuo dello 0,6% delle prestazioni erogate, con una media di 1,4 pensioni a testa (il 32% dei beneficiari, infatti, percepisce due o più assegni pensionistici).
Tuttavia, i pensionati con un assegno sotto i mille euro erano quasi un terzo del totale. Di questi, circa un altro terzo prende meno di 500 euro al mese. Le donne ricevono le pensioni più basse: PIÙ DI TRE MILIONI SOTTO I MILLE EURO (il 36,3% del totale) e DI QUESTE QUASI UN MILIONE NON ARRIVA A 500 EURO.
A livello territoriale, il numero di pensionati si concentrano maggiormente nelle regioni del Nord, dove sono più elevati anche gli importi medi. Se le donne rappresentano il 52% del totale dei pensionati, gli uomini percepiscono il 56% dei redditi pensionistici.
IL 77,5% DELLE PENSIONI, inoltre, è di tipo previdenziale (invalidità, vecchiaia, superstiti), mentre le pensioni assistenziali sono il 19,8% (invalidità civili, assegni e pensioni sociali, pensioni di guerra) e il rimanente 2,7% sono le prestazioni di tipo indennitario.
La maggior parte dei pensionati, in ogni caso, percepisce la pensione di vecchiaia. Sono complessivamente 11,4 milioni, dei quali il 28% è anche titolare di trattamenti di altro tipo.
(Fonte PMI.it – Teresa Barone – giornalista )

 

02 – di Roberto Iannuzzi*: LA SCONFITTA DELL’OCCIDENTE – L’IRRINUNCIABILE ANALISI DI EMMANUEL TODD – TODD HA IL GRANDE MERITO DI AVER APERTO UN DIBATTITO TROPPO A LUNGO RIFIUTATO DALL’IPOCRISIA DELLE ÉLITE OCCIDENTALI, TRACCIANDO UN QUADRO REALISTICO DELLE RAGIONI DEL DECLINO DELL’OCCIDENTE

Una ragione c’è: le cose non stanno andando come la gran parte degli strateghi, dei commentatori, dei grandi mezzi di informazione occidentali aveva previsto.
Kiev è sulla difensiva, la speranza ucraina di riconquistare i territori perduti si è rivelata un’illusione, le forze russe stanno avanzando sull’intero fronte del Donbass. L’invasione estiva dell’oblast russo di Kursk da parte ucraina si è risolta in un estemporaneo episodio di avventurismo militare.
Ma soprattutto, l’entusiasmo occidentale per il sostegno all’Ucraina si sta affievolendo, con una Germania sempre più alle prese con la sua crisi economica interna, e gli Stati Uniti assorbiti da un’incerta campagna presidenziale.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO OCCIDENTALE IN UCRAINA
Sebbene il conflitto sia tutt’altro che concluso, e presenti tuttora rischi di escalation a seconda delle scelte che compiranno i leader occidentali, esso ci parla di un fallimento.
Ad aver fallito sono le strategie militari della NATO, le sanzioni che avrebbero dovuto mettere in ginocchio un’economia russa che è invece più che mai vitale, l’industria militare americana ed europea che si sono rivelate incapaci di stare al passo con la produzione bellica russa.
Ma, ancora una volta, USA ed Europa stanno compiendo un processo di rimozione, di autoinganno. Non si analizzano le ragioni dell’ennesimo disastro occidentale, le tragiche conseguenze di aver sacrificato un intero paese sull’altare dell’ostilità occidentale contro Mosca, ci si illude di poter magari giungere a un “pareggio” con Putin.
C’è però un’eccezione a questo panorama desolante, un volume uscito da pochi giorni in edizione italiana per Fazi Editore: La sconfitta dell’Occidente, di Emmanuel Todd, storico, sociologo e demografo francese.
Oltre che un best-seller, il libro ha rappresentato un caso editoriale in Francia, e il suo autore, il quale si definisce un dissidente dell’intellighenzia francese, è stato prevedibilmente accusato di simpatie putiniane.
Eppure tale opera solleva interrogativi fondamentali sulla crisi in cui si dibatte l’Occidente, interrogativi che pochi hanno avuto il coraggio di affrontare, e che sono invece necessari per comprendere le ragioni del fallimento occidentale contro la Russia
Il libro viene scritto nell’estate 2023, con l’intento di fornire una previsione: la sconfitta dell’Ucraina. Oggi questa previsione è una certezza, sostiene Todd nella prefazione scritta per l’edizione italiana.
Temi centrali del volume sono il collasso dell’Occidente – e soprattutto degli USA, il paese che lo ha guidato per circa un secolo – e la ritrovata centralità della Russia.
In maniera stupefacente, per chi non conosce la genesi della guerra ucraina, o per chi l’ha seguita solo attraverso i media occidentali, Todd descrive il conflitto come una “aggressione promossa dall’Occidente” (riferendosi, com’è ovvio, alla continua espansione a est della NATO, e soprattutto alla sua progressiva infiltrazione dell’Ucraina dopo il 2014)
Egli pone quindi tre interrogativi fondamentali: perché l’Occidente non accetta la sconfitta? Per quale motivo sembra disposto a correre il rischio di uno scontro diretto con la Russia?
Perché la pace viene descritta dai leader occidentali “come se rappresentasse una minaccia ancora più grave di uno scontro termonucleare”?

LE SORPRESE DEL CONFLITTO UCRAINO
L’autore traccia anche un possibile scenario di fine conflitto (un conflitto congelato?), con l’ampliamento obbligato degli obiettivi militari russi a seguito dell’intransigenza occidentale, e le relative incognite che potrebbero riguardare un simile quadro (in particolare il destino di Leopoli, e le Repubbliche Baltiche).
Il conflitto ucraino, inizialmente provocato dagli USA, e quello a Gaza e in Medio Oriente, dimostrano, secondo Todd, la crescente impotenza di Washington, trascinata da alleati radicalizzati (Ucraina e Israele) che avrebbe in realtà dovuto controllare – una tesi che si applica maggiormente al caso israeliano che non a quello ucraino, dove le sorti del presidente Volodymyr Zelensky restano tuttora incerte.
Una pace alle condizioni russe significherebbe la sconfitta americana e la fine dell’egemonia USA, scrive lo storico francese. Per Washington la guerra deve dunque continuare, al fine di mantenere il controllo sui propri vassalli in Europa e nel Pacifico.
Egli descrive l’Unione Europea come totalmente assoggettata, e la NATO come strumento di asservimento del vecchio continente agli USA.
L’Europa va tuttavia incontro a una crisi crescente che deriva dal suo distacco dalla Russia, ed in particolare dalla sua rinuncia alle fonti energetiche russe a basso costo.
In tre paesi chiave dell’UE (Italia, Germania e Francia), ci troviamo in una crescente dinamica di popoli contrapposti ai governi: le oligarchie europee hanno perciò poco tempo per trascinare le loro popolazioni in una guerra a oltranza con la Russia.
Todd enumera le sorprese prodotte dal conflitto ucraino. Fra esse spiccano la resilienza economica russa, l’evanescenza europea, il bellicismo antirusso dei paesi scandinavi, l’insufficienza militare dell’industria bellica USA, la solitudine ideologica dell’Occidente (abbandonato dal Sud globale) e, in conseguenza di tutto ciò, l’imminente sconfitta occidentale.
Ma la sorpresa maggiore, che include le altre fin qui enumerate, non è la ritrovata assertività della Russia (un paese che, con una popolazione in calo e un territorio addirittura troppo esteso per essa, non minaccia nessuno), ma il fatto che a mettere a rischio l’equilibrio del pianeta è la crisi occidentale, e “più precisamente, la crisi terminale degli Stati Uniti”.

CRISI DELLO STATO-NAZIONE OCCIDENTALE E STABILITÀ RUSSA
Todd attribuisce il declino dell’Occidente alla progressiva scomparsa dello Stato nazionale. USA ed Europa soffrono di differenti forme di disgregazione dello Stato-nazione, accompagnate dalla morte del cristianesimo, in particolare nella sua forma protestante, che aveva sostenuto il capitalismo occidentale.
Alla morte del cristianesimo fa da contraltare l’emergere di un nichilismo inteso da Todd come pulsione a distruggere, a livello fisico, ed a negare la nozione stessa di verità e di qualsiasi descrizione ragionevole del mondo, a livello concettuale.
Vengono così messe a confronto due Weltanschauung, secondo lo storico francese. Da un lato, il realismo strategico degli Stati-nazione come la Russia. Dall’altro, la mentalità post-imperiale occidentale, emanazione di un impero in disfacimento che tuttavia ambisce a rappresentare la totalità del mondo, non ammettendo più l’esistenza dell’altro (si pensi al totalitarismo del moderno sistema neoliberista globalizzato, che non ammette altro da sé).

Todd esamina, in particolare a livello demografico, le ragioni della stabilità russa (calo del tasso di decessi legati all’alcolismo, del tasso di omicidi e di suicidi, del tasso di mortalità infantile che scende addirittura al di sotto di quello americano) e dell’incredibile abbaglio occidentale, ovvero dell’incapacità dell’Occidente di riconoscere tale stabilità. Questo abbaglio è dovuto, secondo l’autore, alla progressiva scomparsa, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, dell’abilità occidentale di concepire la diversità del mondo.

Scrive Todd:
“Era evidente che la Russia postcomunista: avrebbe mantenuto alcuni tratti comunitari nonostante l’adozione di un’economia di mercato; che una di queste caratteristiche sarebbe stata l’esistenza di uno Stato più forte che altrove; che un’altra sarebbe stato un modo diverso, rispetto a quello occidentale, di rapportarsi con le varie classi sociali da parte di questo Stato; e che un’altra ancora sarebbe stata l’accettazione, in misura differente, da parte di tutte le classi sociali – più forte in quelle popolari, più mitigata in quella media – di una certa forma di autoritarismo e di aspirazione a un’omogeneità sociale”.

Perciò, aggiunge l’autore:
“Il ‘sistema Putin’ risulta stabile in quanto è frutto della storia russa e non dell’opera di un singolo individuo. Il sogno di una rivolta antiputiniana, che ossessiona Washington, altro non è che un vagheggiamento, il quale nasce dal rifiuto occidentale di constatare come sotto il suo regno le condizioni di vita siano migliorate e di riconoscere la specificità della cultura politica russa”.

ASCESA E MORTE DEL PROTESTANTESIMO
Dopo aver analizzato le ragioni della stabilità russa, come anche quelle della strana “resilienza” ucraina – uno Stato apparentemente fallito – nel conflitto (cfr. cap. 2), Todd passa al cuore del problema, che è anche il cardine centrale del libro.
La radice dell’attuale crisi mondiale, egli scrive, va ricercata nella decadenza dell’Occidente. Alla luce della centralità mondiale dell’Occidente fra il 1700 e il 2000, la sua crisi equivale alla crisi del mondo.
E qui Todd si dichiara discepolo di Max Weber, allorché afferma che all’origine dello sviluppo occidentale non troviamo “il mercato, l’industria e la tecnologia”, bensì una religione: il protestantesimo. Nella sua opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Weber poneva la religione di Lutero e di Calvino all’origine della cosiddetta “superiorità occidentale”.
Ma, se il protestantesimo è stato davvero alla base del decollo dell’Occidente, scrive lo storico francese, è la sua morte oggi a causarne la dissoluzione.
Per affrontare questo discorso, Todd identifica due Occidenti, uno ristretto, emerso dalla rivoluzione liberale, e composto da Inghilterra, Stati Uniti e Francia.
Esso si fonda su tre eventi fondamentali: la “Gloriosa rivoluzione” inglese del 1688, la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, e la Rivoluzione francese del 1789.
La seconda definizione, più ampia, di Occidente è quella che coincide essenzialmente con il sistema di potere statunitense. In questo Occidente, così definito, il decollo dello sviluppo economico rispetto al resto del mondo è stato determinato da due rivoluzioni culturali: il Rinascimento italiano e la Riforma protestante tedesca.
La Germania ha dunque giocato essa stessa un ruolo centrale nello sviluppo occidentale, in quanto la religione protestante “ha accidentalmente forgiato una forza lavoro altamente efficiente”.
Il nucleo protestante dell’Occidente è dunque emerso “a cavallo tra le sue componenti liberali e autoritarie”, essendo uno dei suoi poli il mondo anglosassone, e l’altro la Germania. La Francia cattolica, scrive Todd, “per contiguità” è riuscita a mantenersi “nella sfera più sviluppata dell’Occidente, che è essenzialmente protestante”.
Altro elemento chiave del protestantesimo, a livello sociale, è il seguente: esso ha ereditato dalla dottrina della predestinazione l’idea “secondo cui alcuni sono eletti e altri dannati, per cui gli uomini non sono tutti uguali”.
Perciò non sorprende, scrive l’autore, che le due forme più potenti e durevoli di razzismo siano emerse nei paesi protestanti: il nazismo e la discriminazione americana nei confronti dei neri.

A ciò, bisogna dire, si potrebbe aggiungere il radicato razzismo che tutte le potenze coloniali europee, pressoché indistintamente, hanno manifestato nei confronti delle popolazioni colonizzate.
Non vanno poi dimenticate, aggiunge Todd, l’eugenetica e le sterilizzazioni forzate, nella Germania nazista, ma anche in Svezia e negli Stati Uniti, che furono conseguenza di una prospettiva protestante la quale non riconosceva tutti i diritti fondamentali a ogni individuo.
Il protestantesimo fu però anche un potente motore di sviluppo degli Stati nazionali, instillando tramite la lettura della Bibbia la convinzione dei popoli protestanti di essere “eletti da Dio”.

DECLINO DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE
L’aspetto paradossale dell’attuale fase di declino dell’Occidente, è che esso pretende di rappresentare la democrazia liberale in contrapposizione alle “autocrazie”, come quella russa, proprio mentre il suo nucleo anglo-americano-francese, quello che ha inventato tale forma di democrazia, è in una crisi profonda.
La rappresentazione “democratica” che l’Occidente dà di sé in questa fase di contrapposizione mondiale, fra l’altro, è in completa contraddizione con il dibattito interno sulla crisi della democrazia che, sebbene in sordina, nei paesi occidentali è in atto almeno dalla fine del secolo scorso.
Al di là delle negazioni ufficiali e di facciata, dunque, “l’idea di una democrazia occidentale in crisi terminale non è affatto eccentrica o marginale; è ormai un luogo comune e condiviso, seppure con sfumature diverse, da molti intellettuali e politici”.
Tale crisi è stata accompagnata e favorita da un aumento generalizzato delle disuguaglianze “che ha frantumato le classi tradizionali, ma ha anche peggiorato le condizioni materiali e l’accesso all’occupazione degli operai e delle stesse classi medie”.
Il malessere occidentale, dunque, precede di gran lunga la guerra in Ucraina, contrapponendo due categorie ideologiche: l’elitismo e il populismo. “Se il popolo e l’élite non riescono più ad accordarsi per lavorare insieme”, scrive Todd, “il concetto di democrazia rappresentativa perde ogni suo significato: si finisce con l’avere una élite che non vuole più rappresentare il popolo e un popolo che non è più rappresentato”.

QUESTA CONSTATAZIONE ALTERA IL SIGNIFICATO DELLA GUERRA IN CORSO IN UCRAINA:
“Annunciata dal pensiero dominante come la lotta delle democrazie liberali dell’Occidente contro l’autocrazia russa, questa diventa piuttosto un confronto tra le oligarchie liberali occidentali e la democrazia autoritaria russa”.
Il malfunzionamento delle oligarchie liberali ha l’effetto di selezionare élite incompetenti sul piano politico e diplomatico, provocando inevitabilmente gravi errori nella gestione della competizione con avversari come Russia e Cina.
Ma, ovviamente, anche sul piano interno si assiste a crescenti disfunzionalità, sebbene istituzioni e leggi della democrazia liberale apparentemente non siano mutate, sostiene Todd:
“Formalmente, sono ancora delle democrazie liberali, dotate del suffragio universale, di Parlamenti e talvolta di presidenti eletti, nonché di una stampa libera. A sparire sono stati invece i costumi democratici. Le classi più istruite si ritengono intrinsecamente superiori e le élite, come abbiamo detto, si rifiutano di rappresentare il popolo, al quale non resta che adottare dei comportamenti bollati come populismo. Ovviamente, sarebbe un errore credere che un sistema del genere possa funzionare in maniera armonica”.
Ne segue semplicemente, conclude Todd, che “essendo le elezioni una procedura ancora in vigore, il popolo deve essere tenuto fuori dalla gestione economica e dalla distribuzione della ricchezza; in sostanza, deve essere ingannato”.

NICHILISMO E ATOMIZZAZIONE SOCIALE
Assieme a questa crisi, “si assiste a un fenomeno di atomizzazione sociale, di polverizzazione delle identità, che interessa tutti i livelli della società”. Un fenomeno in gran parte conseguenza della progressiva scristianizzazione e secolarizzazione delle società occidentali.
La prima fase della secolarizzazione non può essere considerata come una condizione realmente post-religiosa, scrive l’autore:

“E’ allora che compaiono le credenze sostitutive, in genere delle ideologie politiche forti che organizzano e strutturano gli individui nello stesso modo in cui lo faceva la religione. Per quanto sconvolte dalla scomparsa di Dio, le società rimangono comunque coerenti e capaci di agire”.

NELLA FASE FINALE DELLA SECOLARIZZAZIONE,
“i costumi e i valori ereditati dalla religione iniziano a infiacchirsi o a disintegrarsi, per poi infine sparire; ed è allora, e solo allora, che appare ciò che stiamo vivendo: un vuoto religioso assoluto, in cui gli individui sono privi di qualsiasi credenza collettiva sostitutiva. Uno stato zero della religione”
Questa condizione post-religiosa e post-ideologica coincide con la dissoluzione dello Stato-nazione e il trionfo della globalizzazione, “in società atomizzate dove non è più neanche concepibile che lo Stato possa agire efficacemente”.
Lo “stato zero della religione” è dunque per Todd quello nel quale sono stati spazzati via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, e la capacità di sacrificarsi per la comunità.
Ci siamo dunque liberati dalle credenze metafisiche, fondanti e derivate, comuniste, socialiste o nazionali, per sperimentare semplicemente un vuoto che ci sfinisce, ci ridimensiona e ci rende deboli

AGONIA DI UN IMPERO
Todd articola la crisi complessiva dell’Occidente nelle sue varie declinazioni: quella europea, tedesca e francese in particolare, progressivamente asservita ai meccanismi di una globalizzazione finanziaria guidata dagli USA i quali, paradossalmente, pur in declino, hanno accresciuto la loro influenza sul vecchio continente.
Un quadro, questo, in armonia con l’emergere di un rapporto generale di “sfruttamento sistemico della periferia da parte del centro americano”.

GLI STATI UNITI, A LORO VOLTA, NON ESCONO ILLESI DA QUESTA CRISI. AL CONTRARIO, NE COSTITUISCONO IL CENTRO:
“La loro dipendenza economica dal resto del mondo è diventata immensa; e la loro società si sta disgregando. I due fenomeni interagiscono. Perdere il controllo delle proprie risorse esterne provocherebbe un calo del tenore di vita, già poco brillante, della popolazione. Ma è tipico di un impero il fatto di non poter più separare ciò che, nella sua evoluzione, è interno da ciò che è esterno. Per comprendere la politica estera americana bisogna di conseguenza partire dalle dinamiche interne della società, o piuttosto dalla sua regressione”.
La globalizzazione promossa dagli Stati Uniti da un lato ne ha minato la loro stessa egemonia industriale, dall’altro, pur permettendo l’industrializzazione del resto del mondo, è fondata su un sistema di sfruttamento costituito dal lavoro sottopagato del Sud del mondo.
Esiste dunque un ponte che lega il colonialismo precedente al 1914 e la recente globalizzazione. Ciò contribuisce a spiegare perché, quando l’Occidente ha intimato al mondo di partecipare al sistema di sanzioni contro la Russia, la maggior parte di questi paesi non ha accettato di applicare tali misure coercitive.
“Poiché si doveva scegliere da che parte stare, possiamo affermare che il Resto del mondo ha sostenuto la Russia nei suoi sforzi per smantellare la NATO, acquistando il suo petrolio e il suo gas e fornendole le attrezzature e i pezzi di ricambio necessari per portare avanti la guerra e per funzionare come società civile senza troppi patimenti”.
Così Todd legge la crisi dell’Occidente e la pone alla radice della sua sconfitta contro la Russia in Ucraina. Egli fornisce una panoramica storica di grande respiro, arricchita da dati demografici e sociologici, enumerando le ragioni che hanno portato al declino occidentale.
Si può non concordare con alcune delle conclusioni a cui giunge l’autore, visto che quella della crisi occidentale è una tematica estremamente complessa, la quale probabilmente necessita dell’apporto di ben più di un singolo studioso per essere indagata e compresa in tutte le sue sfaccettature e implicazioni.
Ma Todd ha il grande merito di aver aperto questo dibattito troppo a lungo negato, e rifiutato dall’ipocrisia delle élite occidentali, tracciando complessivamente un quadro realistico delle ragioni del declino dell’Occidente.
Un declino dovuto essenzialmente a fattori endogeni, e non a fantomatiche minacce esterne rappresentate da paesi come la Russia.
*(Fonte: Sinistrainrete. Roberto Iannuzzi. Analista di politica internazionale, ha scritto di questioni legate al tramonto dell’attuale ordine mondiale su testate italiane)

 

03 – Gianni Beretta*: GUSTAVO GUTIERREZ, IL PADRE RIBELLE DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE. AMERICA LATINA È SCOMPARSO IN PERÙ, AVEVA 96 ANNI. NELLA SUA «OPZIONE PREFERENZIALE PER I POVERI» FU AVVERSATO DA WOJTYLA E INQUISITO DA RATZINGER

Se ne è andato a Lima a 96 anni padre Gustavo Gutierrez, dominicano, letterale coniatore della Teología de la Liberación. Un’intellettuale a tutto tondo che aveva studiato medicina e filosofia in Perù, e psicologia e filosofia a Lovanio, in Belgio.
SOBRIO, DISCRETO, QUANTO FORTE e determinato, l’avevamo conosciuto in Nicaragua al Centro Ecumenico Antonio Valdivieso (intitolato a un vescovo ucciso laggiù nel ‘500 dagli stessi conquistadores perché difendeva gli autoctoni) nei primissimi anni della Rivoluzione Popolare Sandinista. L’ultima della storia moderna: aperta, plurale, ispirata all’antimperialismo più che al marxismo; così come in quella teologia della liberazione incentrata sulla opción preferencial para los pobres. A tal punto che ci furono ben quattro preti/ministri nel governo rivoluzionario. In qualche modo tollerati dalla allora ostpolitik del segretario di stato vaticano Agostino Casaroli; interpretata sul posto dall’apertissimo nunzio Andrea Cordero Lanza di Montezemolo.
Fino a che papa Wojtyla non giunse a Managua quel fatidico 4 marzo 1983, strapazzando appena sceso dall’aereo (eravamo lì) il ministro della Cultura padre Ernesto Cardenal che gli si era inginocchiato. Per poi essere clamorosamente contestato dai fedeli nella Plaza 19 de Julio mentre celebrava la messa. Al suo ritorno a Roma Giovanni Paolo II dispose l’immediata sospensione a divinis dei quattro sacerdoti dell’esecutivo sandinista. E poco dopo elevò a cardinale l’oppositore interno numero uno: l’arcivescovo metropolitano Obando y Bravo.
Mentre l’anno successivo il suo inquisitore, Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Fede, convocava alla Santa Sede lo stesso Gustavo Gutierrez per mettere sotto processo le sue teorie «azzardate». Ma Gustavo, senza colpo ferire, non si presentò, forte della solidarietà subito manifestatagli dal mondo ecclesiale sudamericano.

DEL RESTO IL SUO PRIMO SAGGIO sulla Teologia della Liberazione risale al 1971. Non a caso successivo alla seconda Conferenza dell’Episcopato dell’America Latina di Medellín (Colombia) del ’68, cui presenziò nientemeno che Paolo VI, il quale diede il via libera a quella tendenza d’avanguardia nell’applicazione del Concilio Vaticano II.
In ogni caso ci pensò il papa polacco, dopo il viaggio in Centro America, ad azzerare in pochi anni quella teologia in tutto il subcontinente; promuovendo via via presuli e porporati legati alla storica oligarchia coloniale. Come quelli che nel marzo 1980 legittimarono di fatto l’assassinio sull’altare dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero. E la stessa uccisione dei sei gesuiti dell’Università Centroamericana nell’89 per mano dei militari durante la guerra civile.

IN QUEL MODO (e suo malgrado) ossessionato com’era dal «fantasma comunista», Wojtyla paradossalmente spalancò la strada alla diffusione delle sette fondamentaliste nel subcontinente più cattolico del pianeta, una strada pianificata da Washington dagli anni ’70 e strutturata nel Documento di Santa Fe del 1980 (durante la presidenza Reagan). Tanto che oggi quei predicatori disputano ai cattolici la storica «egemonia della fede» avuta nell’intera regione. Ma all’insegna (nel migliore dei casi) dell’antipolitica. Anche se ormai si stanno strutturando al fianco di destre alla Bolsonaro.
Certo poteva essere comprensibile che il pontefice polacco, cresciuto in un paese sotto il giogo sovietico, cadesse nella trappola strumentale di coloro che sbandieravano l’ossessione dell’arrivo del comunismo in America Latina. Quando in realtà la rivoluzione messicana del 1910 e quella del ’44 dei giovani militari in Guatemala non si basavano su un’ideologia bensì sull’improrogabile necessità di una riforma agraria che rovesciasse lo storico schema terratenientes versus peones. Allo stesso modo del più recente nuovo corso cubano del ’59; dove però Fidel Castro, per niente comunista ma iscritto al Partido Ortodoxo (antimperialista), per sopravvivere a sole 90 miglia dagli Usa fu costretto alla scelta di Mosca.
Ci volle la caduta del Muro di Berlino per far socchiudere un pochino gli occhi di Giovanni Paolo II sulla barbarie del sistema a libero mercato imperniato sul “dio denaro”. Ma nemmeno l’avvento di Bergoglio, primo papa venuto proprio da quell’«altra parte del mondo» è riuscito a rilanciare il Concilio Vaticano II; pressoché sepolto dal terzo papato più lungo in assoluto della storia (27 anni) e seguito dagli altri 7 di Benedetto XVI
NON È BASTATO che papa Francesco si precipitasse a fare beato e santo Romero; e insieme a lui Paolo VI che quel concilio concretizzò. Mentre alla canonizzazione di Wojtyla fece affiancare quella di Giovanni XIII che quel concilio, all’insegna degli «uomini di buona volontà» e della «de/piramidazione» della Chiesa ispirò. Da ultimo, neppure è bastato che nel 2013, poco dopo essersi insediato sul soglio di Pietro, ricevesse in udienza lo stesso padre Gustavo Gutierrez. Che ben aveva conosciuto per venire dal medesimo subcontinente.
*(Gianni BERETTA. Dall’inizio degli anni ’80 corrispondente da Managua per il Centro America e il Caribe per il quotidiano il Manifesto,)

04 – Roberto Ciccarelli*: BANCHE, IL TRUCCO DEI «CONTRIBUTI»: LO STATO LI RESTITUIRÀ TRA DUE ANNI – LA CAMBIALE MELONI VOLEVA “STUPIRE” E CI È RIUSCITA. ECCO COME..

SUI «CONTRIBUTI» DELLE BANCHE MELONI VOLEVA «STUPIRE». E DAVVERO LO HA FATTO. STUPEFACENTE. IL GOVERNO HA INVENTATO UN’ALTRA PARTITA DI GIRO, CONCORDATA CON LE BANCHE, PER EVITARE DI PAGARE. FUNZIONA COSÌ: SUI 3,5 MILIARDI PREVISTI, UNO SARÀ PAGATO DALLE ASSICURAZIONI, GLI ALTRI 2,5 SARANNO VERSATI NEI PROSSIMI DUE ANNI (1,75) DA ALCUNI ISTITUTI BANCARI PARTICOLARMENTE IN SALUTE.

Questi soldi sono solo un’anticipazione delle cosiddette «imposte differite attive» che lo Stato dovrà restituire tra il 2027 e il 2029. Giustamente non si è parlato di «tassa». È un trucco, per di più spacciato per «sacrificio» dal ministro dell’economia Giorgetti nella sconnessa conferenza stampa di ieri. Per questo i poveri e sensibili «mercati» non erano turbati ieri. Per Giorgetti hanno «interiorizzato» il tremendo choc di una partita di giro. Chissà cosa penseranno «i pescatori e gli operai» che «si svegliano all’alba».
Li ha così ricordati Giorgetti sostenendo che «saranno contenti». Lo saranno meno quando capiranno la natura dell’operazione fatta dal suo governo. Ogni tanto bisogna tenere a freno il cavallo populista, ministro.
L’operazione, in fondo, è riuscita. È stata studiata con cura. Lo ha spiegato chiaramente la presidente del consiglio da Bruxelles: «Volevamo da una parte avere risorse ma non vogliamo dare il segnale che le banche sono avversarie . Per questo abbiamo fatto un lavoro con loro – ha detto Meloni – C’è stata una collaborazione che è un messaggio molto positivo»
*(Roberto Ciccarelli. Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto»)

 

05- Gaetano Azzariti*: LA PRETESA DEL GOVERNO DI NON FARSI OSTACOLARE DAI GIUDICI NELLE POLITICHE MIGRATORIE (MA ANALOGO DISCORSO POTREBBE FARSI ANCHE IN MATERIA DI SICUREZZA E ORDINE PUBBLICO) È LA DIMOSTRAZIONE DELL’ANALFABETISMO COSTITUZIONALE DELL’ATTUALE MAGGIORANZA.

Dovrebbe essere ben noto, infatti, che le Costituzioni rigide del Novecento hanno reso «indisponibile» a qualsiasi maggioranza la definizione dei principi in materia di diritti fondamentali e anzi è la Costituzione a chiedere al governo (in verità alla Repubblica intera) di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale per garantite i diritti inviolabili dell’uomo. Diritti che appartengono ad ogni persona senza possibilità di distinzione per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, tantomeno per provenienza geografica.
Dunque, i governi – ma certamente anche i giudici – non possono adottare atti in contrasto con quanto la Costituzione impone. Con riferimento alle politiche migratorie basterebbe allora leggere l’articolo 10 della nostra Costituzione.
Per comprendere l’infondatezza della pretesa del governo di impedire ai giudici di decidere in materia di migrazione autonomamente.
«Autonomamente» vuol dire non subordinato all’indirizzo politico maggioritario o impedito da norme che, seppure legittimamente poste, si pongano però in contrasto con il diritto costituzionale e internazionale. In tal modo diventerebbe, inoltre, immediatamente evidente come non si possa più continuare a seguire la strada intrapresa dall’attuale governo.
Si è contestato al Tribunale di Roma di avere applicato i principi definiti dalla Corte di Lussemburgo, che ha individuato, in base alla normativa europea, i criteri per la definizione di «Paese sicuro».
È stata ritenuta sbagliata la decisione assunta dai nostri giudici rivendicando che, non ad essi ma ai governi spetti stabilire quali siano i Paesi da considerare «sicuri». Scordando così che, non solo i magistrati, ma anche il governo è obbligato a conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (articolo 10 della Costituzione, primo comma).
Quelli posti dal giudice europeo sono principi che neppure un eventuale e preannunciato atto avente forza di legge nazionale potrebbe contrastare. Il governo dovrebbe pensarci prima di adottare – al prossimo consiglio dei ministri convocato d’urgenza per domani sera – atti che creeranno altri conflitti e alla fine verranno ritenuti illegittimi.
D’altronde, che spetti al potere giudiziario e non al potere politico la decisione ultima su quali Paesi possono essere considerati «in via di fatto» rispettosi dei diritti umani è ben comprensibile e dal punto di vista costituzionale indispensabile. Lo dimostra la modalità con cui viene predisposta dal governo la lista di Paesi sicuri: definita sulla base di una trattativa con lo Stato interessato che accetta il rimpatrio dei migranti.
Dunque, in base ad accordi di natura esclusivamente politico-diplomatica che nulla o poco hanno a che fare con le effettive garanzie prestate ai diritti delle persone. In fondo avere incluso l’Egitto nonostante il caso di Giulio Regeni, ma anche quello di Patrick Zaki, dimostra la scarsa attenzione all’effettività delle tutele e alla realtà dei sistemi giudiziari in tali Paesi.
È NECESSARIO che sia un giudice a verificare la situazione di fatto perché deve essere assicurato quel che la Costituzione impone, che non è il prevalere della ragione di stato o politiche di chiusura delle frontiere. Quel che la nostra legge fondamentale pretende è che si rispetti il diritto dei migranti di espatriare in ogni caso in cui allo straniero «sia impedito nel suo territorio l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» (articolo 10, terzo comma).
Tutte queste persone sono titolari di un diritto perfetto ed esigibile, il diritto d’asilo, che nessuna maggioranza politica può negare. Lo prescrive non solo la nostra Costituzione, ma anche le norme internazionali generalmente riconosciute.
La legge può stabilire le condizioni per esercitare tale diritto, non lo può però negare. Che l’accertamento sia di volta in volta definito a seconda dei casi concreti da un giudice e non in via generale ed astratta dal legislatore è il presupposto per il rispetto del diritto costituzionalmente protetto.
Una considerazione conclusiva. Le politiche migratorie e il governo dei flussi sono un problema epocale, non v’è dubbio. Non è facile dare giudizi assoluti ed è palese l’incapacità sino ad ora dimostrata dai Paesi occidentali ed europei in particolare di adottare soluzioni equilibrate.
Quel che può però dirsi con certezza è che i migranti non sono merci (o «carichi residuali», come pure sono stati definiti) bensì persone, alle quali devono essere garantiti dignità e rispetto dei diritti fondamentali. Da qui dovremmo ripartire sia in Italia sia in Europa. Mi sembra che il nostro governo, ma anche l’Europa, guardino altrove.
*( Gaetano Azzariti. è professore ordinario di “Diritto costituzionale” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.)

 

06 – Alessandro Stefanelli*: I VELENI DELL’OCCUPAZIONE A TULKAREM, LA PICCOLA GAZA..
REPORTAGE
UN POLO INDUSTRIALE DAL NOME BEFFARDO, «GERMOGLI DI PACE», SORTO SUI CAMPI CONFISCATI AGLI AGRICOLTORI PALESTINESI. FABBRICHE ALTAMENTE INQUINANTI SPOSTATE DA ISRAELE IN CISGIORDANIA, DOVE SI RESPIRA UN’ARIA DI PESTICIDI E RASSEGNAZIONE. E L’UNICO DIRITTO RICONOSCIUTO AI LAVORATORI È QUELLO DI FIRMARE IL PROPRIO LICENZIAMENTO

TULKAREM
Sono le tre del pomeriggio, l’aria sa di varechina, secca la gola e brucia le narici, due uomini sotto un sole cocente camminano con un secchio in mano su un campo di terra rivoltata e secca, lanciano semi a spaglio. Alle loro spalle a delimitare il terreno si erge un alto muro di cinta a protezione di un’industria chimica che spruzza nell’aria i suoi fumi bianchi che vanno a posarsi tutt’intorno.
Da quella parte del muro, Abed, 38 anni, lavora in una fabbrica di pesticidi. Ha quasi finito il suo turno e sta per uscire da una piccola porta, tutta arrugginita, incastonata tra alti blocchi di cemento armato e filo spinato, assemblati a ridosso di un edificio fatiscente, sulla cui parte superiore si intravedono dei teli mimetici militari utilizzati dai cecchini israeliani.
La bassa postierla si apre alle 16 e qualche minuto, Abed abbassa il capo per evitare di sbattere ed esce in strada, ha un pantalone con le tasche laterali, una maglia blu, stringe una busta di plastica con gli avanzi del pranzo, cammina con il capo basso verso la fermata dell’autobus.
Operai e operaie escono dalle fabbriche dopo il turno del mattino nella zona industriale di Tulkarem (foto di Alessandro Stefanelli)
Prima e dopo di lui escono ed entrano altri lavoratori per il cambio turno, controllati da tre guardie private israeliane armate di fucili automatici. Dopo il turno del mattino l’uomo sale su un minibus diretto alla sua casa di Tulkarem. Ha i capelli brizzolati dalle polveri, è un operaio e sa che di lì a poco sarà licenziato.
A PARTIRE DAGLI ANNI ’80 diverse fabbriche specializzate nel riciclaggio dei rifiuti, nella produzione di nylon, plastica, filtri per l’acqua, fertilizzanti e pesticidi sono state trasferite da Israele in Cisgiordania. Il governo israeliano ha fornito, nel tempo, incentivi fiscali alle aziende israeliane con un’attività che produce alti tassi di inquinamento affinché si trasferissero sui territori palestinesi.
A Tulkarem, città del nord-ovest della West Bank, definita la piccola Gaza – città resistente, con due campi profughi, Tulkarem e Nur Shams, soggetti a raid israeliani prolungati e sanguinosi – è stato creato un polo industriale altamente inquinante, costruito su terreni confiscati agli agricoltori palestinesi, formato da 12 fabbriche, chiamato Nitzanei Shalom («Germogli di pace»).
All’interno di queste fabbriche gli operai sono quasi tutti palestinesi. I loro contratti di lavoro, che firmano ma di cui non hanno copia, sono soggetti alle obsolete leggi giordane sul lavoro risalenti ai tempi del protettorato di Amman sulla regione e presentano tutele minime. Non garantiscono pensioni, congedi per malattia – ogni tre giorni di malattia certificata ne viene retribuito uno – o giorni di ferie sufficienti, solo 6 giorni all’anno. I lavoratori palestinesi hanno meno diritti e stipendi nettamente più bassi rispetto ai loro corrispettivi israeliani.
Sulla strada principale del campo profughi di Tulkarem, distrutta dopo un raid israeliano (foto di Alessandro Stefanelli)
NEI CAMPI PROFUGHI della città è in corso un raid israeliano, la maggior parte dei negozi sono chiusi e di persone in strada non se ne vedono. In una strada anonima del centro, di fianco a un baracchino buio dove un uomo vende gli ultimi felafel della giornata, aprendo un massiccio battente in ferro si entra in un piccolo corridoio di un piano seminterrato che conduce all’interno della sede del Sindacato dei lavoratori di Tulkarem, dichiarato organizzazione terroristica da Israele in seguito agli attacchi avvenuti il 7 ottobre 2023. In una stanza vi sono operai seduti che bevono del tè, alcuni sono stati licenziati, altri hanno da poco finito il turno. Abed è seduto e fuma intensamente una sigaretta dopo l’altra.
Si respira rassegnazione, dopo il 7 ottobre l’area di Natzanei Shalom è stata dichiarata zona militare, le fabbriche hanno interrotto la produzione per un mese senza pagare gli stipendi e alla ripresa le ore e i giorni di lavoro sono diminuiti. Tutti gli operai proveniente dai campi profughi della città sono stati licenziati su ordine dello Shabak – i servizi segreti israeliani che si occupano degli affari interni – che ha proclamato una «Age regulation» che impedisce ai lavoratori sotto i 30 anni, agli uomini single e a coloro che non hanno figli di lavorare, per questioni di sicurezza.
Vecchie fotografie appese a una parete nella sede del Sindacato dei lavoratori di Tulkarem (foto di Alessandro Stefanelli)
Un uomo versa a tutti del caffè al cardamomo, Abed racconta che ha cercato di ottenere, nuovamente, una copia del suo contratto di lavoro ma gli è stato negato; lamenta la presenza di un nuovo manager israeliano che gira armato tra i lavoratori e li offende verbalmente tutti i giorni al minimo errore. Nel suo reparto è stato annunciato recentemente un taglio di personale, lui è nella lista, non ci si può opporre.
L’ARIA È DENSA DI FUMO, nessuno parla, le foto alle pareti ritraggono le lotte del passato con gli operai che scioperavano fuori dalle fabbriche con i fucili puntati addosso, il sindacato ora non ha più alcun potere.
Abed sarà licenziato di lì a poco, senza mai ricevere copia del suo contratto, costretto a firmare un foglio in cui dovrà rassegnare volontariamente le dimissioni.
*( Alessandro Stefanelli. Giornalista)

 

 

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