
01 – Andrea Colombo*: Meloni prepara la guerra d’Albania – RIMPATRIOTI Domani il decreto sui Paesi sicuri. Non sarà risolutivo ma darà il via allo scontro frontale. Palazzo Chigi punta a esasperare la pressione sui giudici e a massimizzare il consenso elettorale
02 – Roberto Ciccarelli*: Record povertà, tagliati i sostegni, il governo offre un caffè al giorno.
Il caso I dati Istat 2023, 600 mila nuclei senza sussidio, in manovra c’è solo lo spot «Carta dedicata a te»: 5,7 milioni di persone erano in «povertà assoluta» l’anno scorso. Il bilancio sarà più pesante il prossimo per i tagli ai sussidi. Ne arrivano altri con la legge di bilancio, a cominciare dai servizi sociali. Il sit-in della Rete dei numeri Pari a Roma: “Un’altra agenda sociale è possibile”
03 – Sen. Francesca La Marca*: Fine settimana di impegni a New York per la Sen. La Marca per il “Columbus Weekend” èItalea”.
04 – Gianluca Schinaia*: Jeremy Rifkin vuole ribattezzare la Terra. E riscrivere la storia dell’uomo.
05 – Mazzino Montinari: Berlinguer e la grande ambizione della collettività perduta.
Festa del Cinema di Roma In apertura il nuovo film di Andrea Segre, racconto di un’epoca e di un fare politica ormai scomparso. Elio Germano nel ruolo del segretario del Pci, l’Italia tra lotte e crisi
07 – Marco Bascetta*: Israele, una violenza senza proporzione – La brutalità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre è stata sepolta sotto decine di migliaia di vittime civili e sotto le macerie di Gaza ridotta alla fame, pur di annientare il nemico
01 – Andrea Colombo*: Meloni PREPARA LA GUERRA D’ALBANIA – RIMPATRIOTI DOMANI IL DECRETO SUI PAESI SICURI. NON SARÀ RISOLUTIVO MA DARÀ IL VIA ALLO SCONTRO FRONTALE. PALAZZO CHIGI PUNTA A ESASPERARE LA PRESSIONE SUI GIUDICI E A MASSIMIZZARE IL CONSENSO ELETTORALE
l’Albania entro la settimana prossima. Il rischio di doverli riportare indietro in poche ore c’è tutto. Ma il clamore, a quel punto, diventerebbe davvero assordante. Sul Colle si aspetta l’inizio della settimana prossima nel classico clima di tensione immobile che precede le battaglie vere. Lo scontro istituzionale stavolta è serio, molto più di quelli che si registravano ai tempi del braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e i togati.
Qui la posta in gioco è molto più alta di un caso personale e non saranno solo dichiarazioni esplosive quelle che partiranno lunedì alle 18, ora della convocazione del consiglio dei ministri, dalle batterie del governo.
Sarà un decreto legge che dovrà essere emanato dal presidente della repubblica e che certamente verrà presentato in anticipo dal sottosegretario Mantovano al segretario generale del Quirinale Zampetti.
L’opposizione avrebbe molto gradito un pronunciamento di Mattarella su quella che considera una gravissima invasione di campo da parte del ministro della Giustizia Nordio. Ma il capo dello Stato in materia è irremovibile: il Quirinale valuta gli atti, e se del caso interviene, non le dichiarazioni per quanto fragorose.
NESSUNO COMUNQUE si illude che il governo limiti la reazione al ricorso in Cassazione già annunciato dal ministro dell’Interno Piantedosi o alla richiesta di chiarimenti dettagliati che probabilmente il centrodestra inoltrerà alla Corte di Giustizia europea in merito alla sentenza del 4 ottobre, che costituisce la base giuridica sovranazionale sulla quale poggia in buona parte la sentenza del Tribunale di Roma.
La parte politicizzata della magistratura vuole sancire il diritto di migrare a piacimento e impedire di contrastare l’immigrazione illegale Giorgia Meloni
Il passare delle ore non ha moderato l’irritazione oltre i livelli di guardia della premier Meloni, ancora convinta che «la parte politicizzata della magistratura» voglia «sancire il diritto di migrare a piacimento e impedire al governo di contrastare l’immigrazione illegale».
DALL’ALBANIA A BARI «IMPAURITI E SOTTO CHOC»
Ma una contromossa davvero efficace, cioè in grado di sottrarre la decisionalità alla magistratura ordinaria, ieri il governo non la aveva ancora trovata. Si ipotizzava soprattutto lo spostamento per decreto della decisionalità ai giudici di pace ma è un’opzione che il governo ha già vagliato e poi scartato perché impraticabile in passato. Significherebbe, oltretutto, arrivare a uno scontro frontale con Mattarella – presidente della repubblica e del Consiglio superiore della magistratura – che la premier vuole invece evitare.
CENTRO DEL PROVVEDIMENTO sarà dunque, salvo trovate in extremis, la definizione per decreto legge invece che per decreto interministeriale dei Paesi considerati sicuri.
Solo che, se fosse davvero questo l’intervento del governo, non basterebbe a evitare sentenze come quella che ha imposto il rientro in Italia dei dodici migranti tornati ieri dall’Albania.
Non solo perché il decreto non annullerebbe il verdetto della Corte europea ma anche perché nella legislazione internazionale c’è una quantità di appigli che consentono, caso per caso, di bloccare i rimpatri.
A quel punto però lo scontro istituzionale sarà frontale e senza precedenti, tanto più se il decreto sarà scritto in modo da contrastare platealmente con la sentenza europea, che ha valore costituzionale.
Sarebbero i magistrati stessi a dover chiamare in causa la Consulta, che alla fine sarà comunque probabilmente chiamata a giudicare perché questo è sia l’obiettivo che lo sbocco naturale di uno scontro tra le istituzioni come quello che si prepara a scatenare il governo Meloni.
MAJORINO: «ACCELERAZIONE AUTORITARIA PAZZESCA PER COPRIRE L’ORRORE DELLE DEPORTAZIONI»
PALAZZO CHIGI è consapevole di non disporre di armi risolutive. Portando la guerra alle estreme conseguenze punta però a esercitare una pressione che auspica insostenibile sui giudici, forte anche dell’«interesse» che molti Paesi hanno manifestato nei confronti del Protocollo con l’Albania. Ma soprattutto mira a massimizzare il consenso elettorale che la vicenda garantisce.
Non a caso il più soddisfatto di tutti, nella maggioranza, è Matteo Salvini, il leader che più di ogni altro, e molto più della premier stessa, tira dall’inizio a rendere lo scontro sull’immigrazione esclusivamente politico. Forse il consenso, a fronte del fallimento di un modello sul quale conta molto a livello europeo, è solo una consolazione per Giorgia Meloni. Ma non di quelle insignificanti.
PERCHÉ LA COSTITUZIONE VUOLE CHE DECIDA UN GIUDICE
Proprio nell’ottica di rendere il conflitto quanto più estremo possibile, il governo medita davvero di imbarcare altri migranti verso
*(Andrea Colombo redattore de il manifesto e Gli Altri ha collaborato con varie testate, tra cui Liberazione.)
02 – Roberto Ciccarelli*: RECORD POVERTÀ, TAGLIATI I SOSTEGNI, IL GOVERNO OFFRE UN CAFFÈ AL GIORNO. IL CASO I DATI ISTAT 2023, 600 MILA NUCLEI SENZA SUSSIDIO, IN MANOVRA C’È SOLO LO SPOT «CARTA DEDICATA A TE»: 5,7 MILIONI DI PERSONE ERANO IN «POVERTÀ ASSOLUTA» L’ANNO SCORSO. IL BILANCIO SARÀ PIÙ PESANTE IL PROSSIMO PER I TAGLI AI SUSSIDI. NE ARRIVANO ALTRI CON LA LEGGE DI BILANCIO, A COMINCIARE DAI SERVIZI SOCIALI. IL SIT-IN DELLA RETE DEI NUMERI PARI A ROMA: “UN’ALTRA AGENDA SOCIALE È POSSIBILE”
In Italia nel 2023 c’erano 5,7 milioni di persone e 2,2 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta a cui si aggiungono 8,5 milioni di persone e 2,8 milioni di famiglie che sono lavoratori poveri e vivono in una condizione di «povertà relativa».
Se i primi non riescono ad assicurare a sé, e alla propria famiglia, una vita dignitosa, i secondi non arrivano nemmeno alla fine del mese.
Così i figli di entrambi ereditano in maniera diversa la povertà che si manifesta in molteplici dimensioni: relazionale e dell’istruzione, senza contare quella energetica e l’altra legata all’impossibilità di affrontare spese impreviste perché i soldi non bastano mai.
Oggi la povertà colpisce maggiormente le famiglie numerose e con figli minori, le famiglie operaie, quelle del Mezzogiorno, quelle in affitto e i migranti.
UN LAVORO NON BASTA, LA POVERTÀ È INVISIBILE
È il ritratto che emerge dal rapporto annuale pubblicato ieri dall’Istat sulla povertà in Italia. Si tratta della fotografia di una situazione in transizione.
È probabile, infatti che l’anno prossimo di questi tempi racconteremo una situazione peggiorata dal governo Meloni negli ultimi 12 mesi.
I dati potrebbero infatti registrare gli effetti dell’abolizione del cosiddetto «reddito di cittadinanza» e della sua rimodulazione nel doppio canale dell’assegno di inclusione e del supporto alla formazione e lavoro. Stando agli ultimi dati dell’Osservatorio dell’Inps il taglio delle risorse voluto dal governo Meloni pari a 1,1 miliardi al vecchio sussidio ha espulso più di 600 mila famiglie che hanno ricevuto almeno una mensilità del «reddito di cittadinanza» negli anni scorsi.
NEL PRIMO SEMESTRE DEL 2023 ERANO IN TOTALE 1.324.104 NUCLEI, SONO DIVENTATI 695.127 NELLO STESSO PERIODO DEL 2024.
UN RECORD PER MELONI: NEL 2023 È AUMENTATA LA POVERTÀ ASSOLUTA
Le conseguenze di questa operazione, non priva di una ferocia ideologica più volte mostrata dagli esponenti della maggioranza a cominciare dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni, sono state occultate.
Nel sistema mediatico la povertà è andata fuori moda, salvo ieri in cui si è stata celebrata la «giornata mondiale per l’eliminazione della povertà».
Una responsabilità ce l’hanno anche le opposizioni che hanno preferito convergere sull’idea del salario minimo, respinta tra l’altro dal governo, e hanno abbandonato un progetto complessivo di rilancio del Welfare universale che va insieme alla lotta contro il lavoro povero e contro la precarietà.
La proposta avanzata ieri dall’Alleanza contro la povertà di un «reddito minimo europeo» – che potrebbe avere un immediata applicazione in Italia – arriva in un vuoto di elaborazione politica (ma non culturale) causato da una visione segmentata e categoriale del Welfare.
NEL FRATTEMPO MELONI HA INSISTITO SUI DATI DELL’OCCUPAZIONE CHE HANNO REGISTRATO UN AUMENTO.
In realtà si è trattato di lavoro povero e non riguarda in gran parte i poveri assoluti che sono tali anche perché non riescono a (ri)entrare nel mercato del lavoro.
La sovrapposizione di elementi eterogenei nella propaganda governativa è servita a separare l’argomento «povertà» da quello sul «lavoro povero». Ed è stata usata per dimostrare che i «poveri» oggi lavorano. Prima no, a causa dell’assistenzialismo.
In realtà i «poveri» non smettono di lavorare nella scandalosa economia sommersa che c’è in Italia. Infine Meloni ha rilanciato il mito dell’impresa, tanto cara alla destra postfascista neoliberale: va sussidiato l’imprenditore che «assume».
IL VERO ASSISTENZIALISMO È QUELLO ALLE IMPRESE. ALLE DESTRE PIACCIONO LE TRADIZIONI. ECCONE UNA.
QUALCOSA PERÒ NON FUNZIONA NEL MAGICO MONDO DI MELONI & CO.
Con un caffè al giorno il governo non scaccia lo spettro della povertà
Lo ha dimostrato l’istituzione della «Carta dedicata a te» che sarà rifinanziata dalla prossima legge di bilancio con 500 milioni.
È una misura incongrua e una tantum, da 500 euro a famiglia, che non può essere paragonata a una misura garantita.
È pari a poco più di un caffè al giorno ed è rivolta a una minoranza di chi è stato escluso dallo governo dal «reddito di cittadinanza».
Si chiama pauperismo. L’umiliazione è la sua cifra. L’Italia è la sua «patria».
RETE DEI NUMERI PARI: UN’ALTRA AGENDA SOCIALE È POSSIBILE
«Il governo sta per varare una legge di bilancio pessima, ingiusta e inadeguata – ha detto Giuseppe De marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari in un sit-in ieri a piazza Capranica a Roma – Si può fare diversamente, come chiedono più di 700 realtà sociali che promuovono un’altra Agenda Sociale». Al sit in, organizzato in occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della povertà e contro il Ddl sicurezza, hanno partecipato numerose reti sociali. Tra gli interventi quello di Gaetano Azzariti, Marina Boscaino e Maura Cossutta. «Con questo governo, il numero di persone aumenterà» ha detto Tino Magni (Avs). «Una situazione difficile con la destra che si oppone al salario minimo e vuole fare l’autonomia differenziata» ha aggiunto Marta Bonafoni (Pd).
*(Roberto Ciccarelli (Bari, 1973). Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto»,)
03 – Sen. Francesca La Marca*: FINE SETTIMANA DI IMPEGNI A NEW YORK PER LA SEN. LA MARCA (PD) PER IL “COLUMBUS WEEKEND” E “ITALEA”.
Fine settimana denso di impegni istituzionali a New York per la Senatrice La Marca, dove ha partecipato a manifestazioni dedicate alla promozione della cultura italiana e al consolidamento dei legami tra l’Italia e la folta comunità italiana di New York e dintorni.
Il momento clou del sabato è stato l’annuale “Columbus Citizens Foundation Gala” che ha visto la partecipazione di circa mille persone. Questo importante evento, volto a riconoscere l’eccellenza italiana in America attraverso l’assegnazione di borse di studio, attrae svariati esponenti di spicco della collettività. Tra i presenti, i Vicepresidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica italiani, Giorgio Mulé e Licia Ronzulli, rispettivamente, accompagnati da delegazioni regionali, Sindaci e rappresentanti delle Istituzioni italiane all’estero, tra cui il Console Generale d’Italia a New York, Fabrizio Di Michele. Al Gala hanno inoltre partecipato il Coordinatore per il Turismo delle Radici del Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, Cons. Amb. Giovanni Maria De Vita, e il Direttore Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie, Luigi Maria Vignali, rappresentanti di spicco del Ministero degli Affari Esteri. La presenza della Governatrice dello Stato di New York, Kathy Hochul, e di numerosi esponenti della comunità italiana come la Presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone, del Sindaco di Caserta, Carlo Marino, e le altre delegazioni delle regioni Toscana, Calabria, e Sicilia hanno arricchito ulteriormente l’evento.
Le Regioni ospiti dell’iniziativa – Toscana, Calabria, Puglia e Sicilia – hanno contribuito a presentare l’eccellenza italiana in ambito culturale ed enogastronomico. La Senatrice La Marca ha voluto sottolineare l’importanza di eventi come questo per rafforzare i legami tra l’Italia e le sue comunità all’estero, contribuendo a mantenere viva l’eredità culturale e promuovendo opportunità di crescita per le nuove generazioni attraverso borse di studio e progetti educativi. “Eventi come questo – ha dichiarato la Senatrice La Marca nel suo intervento – sono fondamentali per sostenere le nuove generazioni italo-americane, dando loro la possibilità di studiare e di crescere professionalmente, mantenendo sempre viva la fierezza delle loro radici italiane.”
La giornata di domenica si è aperta con una partecipata degustazione di prodotti gastronomici organizzata dalla Regione Sicilia, sempre nel quadro del progetto “Italea”, grazie al contributo del MAECI, un’iniziativa volta a promuovere i sapori e le tradizioni dell’isola. All’evento erano presenti delegazioni provenienti direttamente dalla Sicilia, insieme all’Assessore al Turismo della Regione e a rappresentanti del settore agroalimentare. Particolarmente significativa è stata la presenza di Nicola Fiasconaro, conosciuto imprenditore e fondatore dei prodotti di alta gastronomia Fiasconaro – noti al pubblico soprattutto per gli storici Panettoni artigianali – che ha offerto una selezione dei suoi pregiati prodotti ai partecipanti.
Durante un’intervista, la Senatrice La Marca ha ribadito il suo orgoglio per le sue origini siciliane, sottolineando come la gastronomia rappresenti un ulteriore mezzo per riscoprire le proprie radici culturali. Ha inoltre ribadito l’importanza del progetto “Italea” – “Riscoprire le proprie radici – ha detto La Marca – non è solo un viaggio fisico, ma un percorso identitario che rafforza l’appartenenza culturale e alimenta il futuro della nostra comunità globale. La cucina è molto più di un semplice piacere culinario; è un legame vivo e profondo con la nostra terra e le nostre tradizioni. Attraverso il cibo possiamo ritrovare i sapori dell’infanzia e trasmettere alle nuove generazioni il senso di appartenenza che è radicato nei luoghi da cui proveniamo”.
La giornata di domenica si è poi conclusa con un cocktail riservato a circa 400 ospiti, tra cui influencer, operatori turistici ed esponenti di spicco della comunità italiana per la presentazione del programma “Italea” inserito nell’insieme delle iniziative di promozione del turismo delle radici. Durante l’evento, la Senatrice ha preso la parola per congratularsi con il Ministro De Vita e il Direttore Vignali per il successo del progetto “Italea”, che mira a creare un ponte tra le comunità italo-discendenti nel mondo e le realtà italiane locali. La Marca ha espresso il suo sostegno alla continuazione di questo importante progetto, auspicando che vengano stanziate nuove risorse per la sua prosecuzione anche nel prossimo anno. “Progetti come “Italea” – ha sottolineato la Senatrice – non solo contribuiscono a promuovere il turismo delle radici, ma – rafforzano il legame indissolubile tra l’Italia e le sue comunità all’estero. Da bambina e poi adolescente, ho avuto la possibilità di vivere in prima persona la bellezza e la ricchezza dei piccoli paesi di origine dei miei genitori ed è questo che vogliamo offrire ai giovani di origine italiana sparsi nel mondo: la possibilità di riappropriarsi di un pezzo della loro identità”.
La partecipazione della Senatrice La Marca a questi eventi sottolinea il suo continuo impegno nel promuovere l’identità italiana all’estero e nel rafforzare i legami tra l’Italia e le comunità italiane nel mondo. Il successo di progetti come “Italea” e gli eventi dedicati alla cultura e alle tradizioni italiane testimoniano la vitalità e la centralità del patrimonio culturale italiano a livello internazionale. La Marca, con la sua presenza, ha ribadito la sua intenzione di continuare a sostenere iniziative che promuovano non solo l’eccellenza italiana, ma anche il senso di appartenenza e orgoglio che contraddistingue le comunità italo-discendenti ovunque nel mondo.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)
04 – Gianluca Schinaia*: JEREMY RIFKIN VUOLE RIBATTEZZARE LA TERRA. E RISCRIVERE LA STORIA DELL’UOMO.
L’AUTORE AMERICANO, ATTRAVERSO IL SUO ULTIMO LIBRO PIANETA ACQUA, DISEGNA PASSATO, PRESENTE E FUTURO DELL’UMANITÀ NELL’OTTICA DELL’IDROSFERA. E PARLA DI METAVERSO, FILOSOFIA, GEN-Z E TRANSIZIONE ECOLOGICA IN QUESTO COLLOQUIO ESCLUSIVO CON WIRED
Viviamo su un pianeta chiamato Terra, che è composto per due terzi d’acqua: per l’economista Jeremy Rifkin, già solo questa incomprensione sulla nostra identità rivela un grande caos sulla nostra direzione come specie dominante. Per citare il rapper Salmo, “dove cazzo vai se non sai dove vieni” (1984). Per questo, ribattezzare il pianeta con un nuovo nome può essere un primo passo per raccontare una storia diversa dell’umanità? Insomma, può aiutare a salvarci da una corsa chiamata progresso che ci sta portando all’autodistruzione?
Da questa proposta forte e chiara inizia l’ultimo libro di Jeremy Rifkin, intitolato appunto Pianeta Acqua. Wired lo ha intervistato all’interno del Wired Next Fest 2024 di Rovereto. Partiamo da un parallelo azzardato con il linguaggio del marketing: l’autore americano propone un rebranding del Pianeta? Alla fine, il target principale di chi ha il potere di cambiare le carte in tavola nella sfida del cambiamento climatico sono dirigenti e Ceo aziendali, e i business men conoscono l’importanza di ridisegnare l’identità del marchio di un’azienda quando si definisce una nuova mission. “Ben detto”, risponde lui, “spiega parte della filosofia che ho cercato di portare con questo libro: presentare una narrazione diversa che sia uno schema di comprensione di ciò che siamo”.
Per quasi due ore, Rifkin parla in collegamento dal suo ufficio di Washington, dopo essere intervenuto anche all’interno del festival in Trentino da remoto, di diverse sfumature che riguardano le nuove sfide dell’umanità. Citando tecnici, scienziati, filosofi, poeti. E offrendo visioni alternative. Schopenhauer? Non certo un pessimista. Platone? Ha messo l’umanità sulla strada sbagliata. L’AI? Non manterrà ciò che promette (ha bisogno di troppa acqua). E i petrolieri? Sanno che la (loro) festa è finita. Pianeta Acqua, da cui parte questa conversazione sul futuro dell’umanità, è il suo libro numero 24 (gli altri sono stati tradotti complessivamente in 35 lingue) in oltre mezzo secolo di attività. Oltre alle diverse attività autoriali e accademiche, oggi Rifkin è uno dei principali architetti dei piani economici dell’Unione europea e della Cina per la transizione green e ha svolto il ruolo di consigliere del leader della maggioranza democratica al Senato degli Stati Uniti. Ecco cosa ha raccontato in esclusiva a Wired Italia.
UN NUOVO PARADIGMA, A PARTIRE DALL’ACQUA
“Questo libro si è scritto da solo: dopo cinquant’anni di attività, ho cominciato a realizzare che in Occidente abbiamo sbagliato tutto”. Rifkin comincia così ad introdurre il motivo per cui ha scritto Pianeta Acqua. Parte dal libro della Genesi nella Bibbia, citando l’incipit: in principio c’era il ‘profondo’, ovvero le acque. Solo dopo apparse Dio che separò la luce dal buio e l’acqua dalla terra. Le acque, insomma, preesistevano perfino a Dio. Come l’autore americano scrive nel suo libro, questa preesistenza compare anche nel racconto della creazione della civiltà babilonese e in altre versioni religiose della creazione in tutto il mondo.
“Un punto importantissimo – racconta -. Ci dà la dimensione dell’importanza dell’acqua per la vita. Solo che nelle religioni occidentali, come racconta la storia di Adamo ed Eva, Dio affida il ‘creato’ all’uomo, come fosse il suo custode ma anche la sua guida. Nelle religioni orientali, l’Uomo è invece parte della Natura, non sovraordinato a lei”. Un tema che ricorre spesso nel dialogo con Rifkin e nella sua ultima opera: il riferimento continuo all’animismo, in contrapposizione alle religioni rivelate: un invito a recuperare quel senso di unità tra diverse entità naturali, di cui l’umanità è solo una componente. Una narrazione diversa, una delle chiavi per salvarci dalla nostra attuale concezione suicida di futuro e scegliere un progresso resiliente. E questo storytelling riparte dall’importanza dell’acqua.
SARÀ LO STORYTELLING A SALVARE IL PIANETA?
Dati e statistiche non sono riusciti a suscitare la reazione globale necessaria a fronteggiare la crisi climatica: forse è il momento di provare con le storie
Rifkin ricorda nel libro che il 24 agosto 2021 l’Agenzia spaziale europea introdusse l’espressione “Planet Aqua”. La Nasa si dichiarò d’accordo, affermando sul proprio sito web che, guardando la nostra Terra dallo spazio, è evidente che viviamo su un pianeta d’acqua. “Il paradosso – riprende nell’intervista – è che oggi la nostra Nazione, gli Usa, è letteralmente sott’acqua: è una crisi di visione riflessa in problemi enormi e concreti. È necessario vedere la Natura come una life source and not a resource (come fonte di vita e non come una risorsa, ndr). Pensiamo ai riflessi sociali di questa crisi, ad esempio sul fatto che la Gen-Z si chiede se valga la pena riprodursi o meno. Noi sappiamo che stiamo andando nella direzione sbagliata: il problema è che stiamo cercando di affrontare la cosa con gli stessi strumenti che hanno creato il problema. Penso all’industrializzazione, al capitalismo in particolare. Per questo, riprendendo il tema del rebranding, abbiamo bisogno di un nuovo playbook”.
Nel linguaggio del business, il playbook è un manuale che descrive le politiche, i flussi di lavoro e le procedure di un’azienda. Qui il riferimento è al futuro della nostra specie sul Pianeta. “Quello che abbiamo fatto in Europa [nel suo lavoro di consulenza alla Commissione, ndr] è partito da questo: dato che il playbook non funziona, non abbiamo un playbook. Dobbiamo cominciare da zero”. E l’autore si riferisce alla governance che usiamo, al sistema economico in cui viviamo, all’approccio a scienza e tecnologia, al modo in cui educhiamo le giovani generazioni. E perfino a come concepiamo ed orientiamo tempo e spazio. Le attuali grandi infrastrutture umane, sia fisiche che organizzative, bloccano lo sviluppo umano in senso assoluto: “La cosa più imbarazzante che ho scoperto è che se prendi un libro di biologia della scuola superiore tutto questo appare chiarissimo”.
LA STORIA UMANA NELL’OTTICA DELL’IDROSFERA
“I ragazzi a scuola non imparano la storia corretta: sono seimila anni che esiste una cultura diversa dello sviluppo umano, basata sull’acqua”. L’idrosfera è l’insieme delle acque presenti sul pianeta nei vari stati di aggregazione: dal sottosuolo alla superficie sino all’atmosfera. Secondo Rifkin, per seimila anni abbiamo canalizzato, privatizzato, sfruttato e avvelenato l’idrosfera: oggi questa si sta ribellando e minaccia di provocare la sesta estinzione di massa sulla Terra. “Come disse di me una mia insegnante a mia madre: ‘Non è il più intelligente, ma si applica: ci prova’. Ecco, per 40 anni ho provato a mettere in contatto punti diversi per dargli una lettura. È il mio proposito con questo libro: offrire uno scenario completo, una visione composta”.
In Pianeta Acqua, l’autore ripercorre i principali snodi della storia umana nell’ottica del rapporto umano con le risorse idriche. A partire dalla prima società idraulica urbana, che fu fondata dai Sumeri lungo i fiumi Tigri ed Eufrate, in Mesopotamia: dove si riconosce universalmente sia nata la civiltà umana moderna. La necessità di addomesticare i grandi flussi idrici ha richiesto sviluppo di competenze: ci fu bisogno di migliaia di braccianti per costruire canali e dighe, artigiani per allestire edifici e produzione, architetti, ingegneri e contabili per progettare e dirigere. E infine fu inventata la prima forma di scrittura, il cuneiforme, per amministrare il tutto.
Nella stessa ottica, l’autore ci spiega come i cereali abbiano svolto un ruolo cruciale nella formazione dello Stato agricolo, la prima forma complessa di organizzazione politica: “Semplicemente perché i cereali potevano essere conservati, quindi immagazzinati e trasportati rispetto ai tuberi e le radici: peccato che però siano estremamente idrovori, richiedono moltissima acqua”. Questo ed altri aspetti affrontati da Rifkin ridisegnano il rapporto dell’uomo con l’acqua come fondamento del nostro sviluppo: “Pensavo fosse necessario in questo libro condividere questa versione della Storia, per capire cosa abbiamo fatto di sbagliato è cosa dobbiamo fare invece adesso”.
LA RIVINCITA DEGLI UMANISTI SUI TECNOLOGI
Nel libro di Jeremy Rifkin emergono numerosi riferimenti a filosofi e poeti, oltre alle più canoniche citazioni a scienziati e innovatori come nelle sue opere precedenti. Alcuni ricordano gli appelli dello scrittore Amitav Gosh, sull’importanza della letteratura e della filosofia per comunicare il cambiamento climatico: il cambio di narrazione, per rendere più sensibile il problema dei cambiamenti che affronteremo e l’urgenza delle soluzioni da intraprendere. Non solo presentare informazioni, ma raccontare storie diverse per trasmettere messaggi più profondi.
Alla domanda se in qualche modo Rifkin intende spingere la rivincita della sfera umanistica su quella tecnica, dopo che quest’ultima ha plasmato il secolo scorso (con risultati brillanti e terrificanti), l’autore risponde con un sorriso: “Ti racconto un episodio: nel 2018 abbiamo realizzato un documentario sul mio libro The Third industrial Revolution. All’inizio c’era questa lunga frase di Walter Benjamin: ‘Il valore dell’informazione non sopravvive al momento in cui è nuova. Vive solo in quel momento; deve abbandonarsi completamente ad esso e spiegarsi senza perdere tempo. Una storia è diversa. Non si consuma. Conserva e concentra la sua forza ed è in grado di liberarla anche dopo molto tempo.’ Il target del doc erano giovani e non c’era musica, non c’era grafica, durava 1 minuto: così aveva deciso il produttore. Abbiamo pensato: ehi, dopo al massimo 30 secondi ci abbandoneranno. E invece il documentario è stato visto da 8 milioni di persone, di cui la stragrande maggioranza giovani. Sorprende per capire cosa può essere proposto alle nuove generazioni”. Al di fuori della dimensione di un video da 30 secondi su Tik Tok.
Da qui parte il suo ragionamento che critica la direzione data dalla filosofia di Platone alla storia umana. Platone introdusse nella filosofia occidentale il concetto di scissione mente-corpo: si può fare esperienza soltanto mediante il pensiero puro e il ragionamento deduttivo, e non mediante l’esperienza sensoriale. Questo pensiero, secondo Rifkin, ha finito per condizionare il modo in cui generazioni di studiosi e scienziati hanno condotto le loro ricerche. “Abbiamo sentito tutti innumerevoli volte la battuta ‘cerca di non essere così emotivo… Sii più razionale. Fidati della ragione più che dell’esperienza’. Anche Bacone innestò nell’Illuminismo un’idea della Natura come passiva, come oggetto di scienza da cui estrarre segreti. È questo approccio utilitaristico con tutto ciò che ci circonda è quello che ancora oggi guida i nostri avanzamenti scientifici”. Poi arrivò John Locke, che secondo l’autore di Pianeta Acqua ha dato le basi filosofiche al concetto di proprietà privata e nel caso specifico la possibilità di possedere proporzioni di idrosfera. “La sua tesi sulla Natura e il ruolo della proprietà privata fornì la base intellettuale per lo sviluppo del capitalismo”. Da qui, la sottrazione del suolo per uso privato, che è parte attiva del processo di fotosintesi: alla lunga tutto ciò ha creato problemi come la frammentazione della Natura (uno dei rischi più grandi ad esempio per la biodiversità in Europa). E alla concezione estrema dell’utilitarismo naturale.
“OGNI ESSERE VIVENTE, OGNI ELEMENTO NATURALE, INTERAGISCE CON TUTTO IL RESTO: DEPRIVARE IN MODO SCONSIDERATO LE ACQUE AD ESEMPIO DAL SOTTOSUOLO, LO RENDE VUOTO. E QUESTO STA PORTANDO AL COLLASSO DELLE CITTÀ. ANCHE CHICAGO, SOLO PER FARE UN ESEMPIO TRA GLI ALTRI, STA COLLASSANDO”
Ecco perché abbiamo bisogno di una storia nuova, che racconti come l’acqua crei tutto: “La scienza lo sa, ma non lo spiega o forse non lo realizza in modo pieno per raccontarlo al meglio: per questo dobbiamo recuperare filosofi e umanisti per riconfigurarla anche a livello narrativo”.
IL RUOLO DELLA GEN-Z NEL FUTURO DELL’UOMO
“Credo che i ragazzi della Gen-Z siano molto consapevoli. Loro protestano da sempre e in questo caso non ancora secondo un contesto narrativo: ma solo per istinto”. C’è qualcosa di nuovo in questo istinto che Rifkin riconosce e che ha realizzato proprio in Italia. “A Milano ho capito per la prima volta, parlando con tre ragazzi della Gen-Z, come la nuova generazione abbia un istinto consapevole: si sono qualificati come ‘specie in pericolo e come le altre creature siano parte di loro. Semplice così: possiedono la biofilia, l’empatia con gli altri esseri viventi”. E a questo punto lancia una prospettiva per la grande sfida climatica che attende le nuove generazioni. La Smithsonian Institution, come racconta anche nel suo libro, ha condotto uno studio per capire come la nostra minuscola specie si sia sviluppata durante il breve periodo di tempo trascorso sulla Terra. “Per me – spiega – si tratta forse della massima nota di speranza dei nostri tempi”. I ricercatori hanno considerato gli ultimi 800.000 anni della documentazione geologica, per scoprire che questo periodo fu caratterizzato scandito dall’inclinazione dell’asse terrestre e da improvvisi mutamenti estremi della temperatura e del clima sulla Terra, tra glaciazioni e surriscaldamento improvviso. Questi drastici cambiamenti si sono ripetuti più e più volte per 800.000 anni. E lo studio conclude che ce l’abbiamo fatta perché la nostra è tra le specie più adattive del pianeta, anche se fisicamente molto meno dotata di altre.
“Possiamo imparare da ciò che abbiamo vissuto: abbiamo un cervello eccezionalmente grande, i pollici opponibili per la tecnica, abbiamo il cuore per l’empatia con altri umani e altri esseri viventi. Questo è quello che le giovani generazioni devono tenere a mente come segno di speranza per la sfida dei cambiamenti climatici nel prossimo futuro”
IL RUOLO DELL’ARTE CHE DEVE DIVENTARE EFFIMERA
Nel libro, l’autore mette in discussione molti dogmi: uno tra questi è il ruolo contemporaneo dell’arte. Contro una visione commerciale e utilitaristica dell’opera artistica, dove un oggetto è fatto per durare e più dura più acquisisce valore, Rifkin suggerisce di fare attenzione alla crescita di quella che chiama arte effimera. “Questa è immediata, destinata a dissolversi e non a essere conservata. È una forma di arte che celebra la dimensione temporale dell’esistenza”. Solo per fare qualche esempio, si tratta dello stand-up comedy, delle jazz session e delle battle di freestyle rap, delle installazioni temporanee nelle mostre e dei flash-mob. “Negli anni Novanta le generazioni hanno cominciato ad avvicinarsi ad un’arte effimera, legata agli elementi naturali come ad esempio la sabbia. Attraverso questo tipo di arte effimera puoi sentirti parte di qualcosa di più grande. Il problema delle nuove generazioni è che possono protestare, ma poi se stanno più di sette ore davanti ad uno schermo, come succede normalmente, la salute mentale si deteriora e i cervelli smettono di svilupparsi. In futuro avremo molto tempo in cui dovremo stare chiusi in casa, ma altro in cui bisognerà stare fuori per imparare e anche performare nella realtà vivente. Quindi l’avvento delle arti effimere sarà tanto importante quanto quelle che hanno dato vita al Rinascimento”.
L’INSOSTENIBILE FREDDEZZA DEL METAVERSO
Rifkin sostiene l’importanza dell’avvento dell’intelligenza artificiale, ma non condivide l’entusiasmo sul metaverso: il problema è che genera al momento un distacco dalle capacità umane legate all’empatia. Una qualità che deve essere allenata nella vita reale, e non si può trasmettere tramite un device digitale. E dubita che l’AI si svilupperà tanto come si crede: “Ci sarà un ruolo per l’AI, ma adesso chi la sviluppa sta solo puntando a guadagnare triliardi di dollari: ma non si svilupperà come pensano. La motivazione è questa: non c’è abbastanza acqua. È vero che l’AI funziona con elettricità, ma per realizzarla serve tanta acqua”. Infatti secondo l’autore gli studi dimostrano come sole ed eolico possano già sostituire le energie fossili nell’approvvigionamento elettrico generale e che quindi questo potrebbe supportare la diffusione dell’AI, “ma il problema è che stiamo raccogliendo troppi dati: stiamo installando sensori dappertutto. Quindi, ad esempio, se tu hai un veicolo autonomo che manda ad un cervello generale i dati, c’è un tempo di latenza che creerà problemi. E poi sai quanta acqua ci vuole per produrre un chip? 8 tonnellate di acqua dolce per ognuno. L’anno scorso sono stati prodotti 1 miliardo e 300 milioni di chip. Wow! E si stanno spendendo triliardi di dollari per questo tipo di tecnologia”, mentre l’umanità ha sempre più sete d’acqua. “Quindi abbiamo bisogno di acqua e di AI, ma quest’ultima non per usi secondari. Dobbiamo usarla per motivi primari: dalle infrastrutture alla mobilità. Ad esempio, nella distribuzione di energia nei governi bioregionali che ipotizzo nel libro. Ma chi si occupa di AI al momento conosce o si preoccupa di ciò di cui stiamo parlando adesso? Non credo”.
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ENTRA IN UFFICIO
Finora sono le società di consulenza le vere vincitrici della corsa all’intelligenza artificiale
Perché l’impatto sul business delle aziende è molto meno di quanto ci si aspetta, e in taluni casi con risultati deludenti. Ma c’è chi è già passato all’incasso
La fine dell’era delle energie fossili
Pochi hanno una visione più aggiornata di Rifkin sulla sfida della transizione ecologica, dato il suo ruolo di consulente su alcuni di questi aspetti per il governo americano, cinese e per la Commissione europea. Recentemente, fondi d’investimento della portata di Blackrock o Vangard hanno mostrato più timidezza nel supporto agli investimenti in sostenibilità. La Shell dichiara di voler estrarre petrolio fino al 2050. Se dobbiamo realizzare la transizione energetica per salvarci, le premesse di un cambiamento sembrano oscurarsi. “È un’impressione momentanea: in realtà le aziende petrolifere non stanno più investendo tanto nelle esplorazioni. Quello su cui si concentrano adesso è aumentare il prezzo del petrolio e delle risorse fossili che sono già a disposizione. Ma non so davvero cosa i loro dirigenti dicano ai propri figli quando tornano a casa la sera. Se sei un Ceo di un’azienda petrolifera sai bene che hai 5-10 anni al massimo per massimizzare i profitti e mostrarli ai tuoi azionisti. E sai bene che solare ed eolico sono molto più economici del nucleare, molto più economici del petrolio, assolutamente più economici del carbone. Non gli importa davvero del mercato: il costo marginale delle rinnovabili corre verso la prossimità allo zero, in futuro non c’è gara ad esempio con l’impiego dell’uranio o l’estrazione di risorse fossili”.
SALVARCI CON IL SUBLIME: LA PAURA CHE CREA MERAVIGLIA
All’inizio e alla fine del libro di Rifkin c’è il grande scontro al centro della concezione del sublime, il concetto elaborato dal filosofo irlandese Edmund Burke. Scrive l’autore americano a proposito di questo concetto che ci sono due impostazioni diverse e contrapposte nate da due grandi filosofi. Immanuel Kant ci spingerebbe a esercitare il nostro impulso razionale e a costringere le acque ad adattarsi ai capricci della nostra specie, “mentre Arthur Schopenhauer ci spingerebbe a immedesimarci nella natura vivificante dell’esistenza e a trovare il modo di adattarci a un ciclo idrologico in rapida evoluzione. L’umanità dovrà scegliere tra questi due modi molto diversi di guardare al futuro del pianeta blu. Le decisioni che prenderemo su quale opzione scegliere influenzeranno non solo il nostro destino, ma il futuro della vita stessa sulla Terra”. Appare chiaro che l’autore scelga chiaramente una visione per il futuro alla Schopenhauer, che nel linguaggio comune è un pessimista. Qualcosa di simile al nostro poeta Giacomo Leopardi e alla sua poesia La ginestra, dove riflette sulla bellezza e sull’effimero di un fiore come la ginestra comune che cresce vicino ad un vulcano. Eppure lo stesso Leopardi in quello sforzo eroico della ginestra trova il senso dell’esistenza umana e la meraviglia per l’amore per la vita, anche oltre la razionalità.
VOGLIAMO DAVVERO FONDERCI CON L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?
Nel suo ultimo libro, l’indovino delle nuove tecnologie Ray Kurzweil immagina un futuro utopico che potrebbe anche rivelarsi un incubo
La nostra ultima domanda è quindi se la soluzione per non estinguerci sia recuperare la paura oltre che il rispetto per la Natura che ci circonda. “Tanti anni fa ho scritto La civiltà dell’empatia, un libro di quasi 650 pagine, ci ho messo 10 anni. Mia moglie mi disse: ‘Tu sei pazzo, non lo leggerà nessuno’”. Rifkin, con la sua consueta placida ironia, ci dice che nessuno della sua famiglia più stretta ha mai letto una pagina di un suo libro: o almeno di quello in particolare. “In quel libro ho parlato del concetto di sublime secondo Bulke. Dove lui parla di osservare queste manifestazioni naturali estreme, da un tornado a un’inondazione, che ci sovrastano come individui. Ma lo stesso può avvenire anche alla vista di un arcobaleno.
Il punto è che queste manifestazioni suscitano in te meraviglia: questo scatena l’immaginazione. E l’immaginazione può portare a due strade: uno è mettersi in sicurezza da questo fenomeno, un altro è arrivare ad una forma di trascendenza che spiega cos’è la vita. Una trascendenza che ci porta ad apprezzare a fondo la meraviglia della vita. Questo ci succede con le arti effimere contemporanee e con il senso di appartenenza ad una specie in pericolo nelle nuove generazioni”
JEREMY RIFKIN
Tutto questo adesso rappresenta l’evoluzione della narrazione che stiamo vivendo. “Quindi ce la faremo in tempo a cambiare lo storytelling dell’umanità per salvarci? Non lo so. Ci sono dei movimenti verso una nuova narrazione? Sì, stanno emergendo”. La sfida è sulle piccole spalle dei giovani, secondo Rifkin: se riusciranno a muoversi oltre la protesta per cambiare l’accademia, il modo in cui concepiamo le scienze, la maniera in cui pensiamo. “La chiave sarà evolvere come umanità in senso adattivo per vedere la Natura come un processo e un modello, come un essere vivente: non più solo come un oggetto strumentale ai nostri fini”.
*(Gianluca Schinaia. Giornalista, scrive di sostenibilità. È collaboratore di Wired e Avvenire, docente di sustainability communication all’Università Statale di Milano e all’Almed dell’Università Cattolica, e soprattutto Partner e Head of Sustainability dell’agenzia FpS)
05 – Mazzino Montinari: BERLINGUER E LA GRANDE AMBIZIONE DELLA COLLETTIVITÀ PERDUTA.
FESTA DEL CINEMA DI ROMA IN APERTURA IL NUOVO FILM DI ANDREA SEGRE, RACCONTO DI UN’EPOCA E DI UN FARE POLITICA ORMAI SCOMPARSO. ELIO GERMANO NEL RUOLO DEL SEGRETARIO DEL PCI, L’ITALIA TRA LOTTE E CRISI
La diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma è iniziata con la proiezione del film in concorso, Berlinguer – La grande ambizione (in sala dal 31 ottobre), quinto lungometraggio di Andrea Segre che, tra numerosi documentari e finzioni, per la prima volta si cimenta con il racconto biografico e, in particolare, con la vita di un uomo le cui parole e azioni sono parte fondante della nostra recente storia e forse, ancor più, di un immaginario da difendere in un’epoca nella quale si avverte il declino, se non il tracollo, della politica e dell’etica.
Fa rabbia e tristezza, vedere e ascoltare per circa due ore Enrico Berlinguer (interpretato da Elio Germano) all’indomani della prima spedizione di una nave militare italiana partita con sedici migranti a bordo e arrivata in Albania. Eppure è così. Sono bastati pochi decenni per seppellire definitivamente la grande ambizione. Anni nei quali è scomparsa la tensione verso il bene della collettività. E dunque dai compagni combattivi ed entusiasti delle fabbriche che chiedono come progredire, come realizzare l’eguaglianza, come impedire lo sfruttamento, come comportarsi nei confronti dell’Unione Sovietica (oggi che sembra quasi impossibile esprimersi su Israele), si è passati a trattare le persone come nudi corpi privati di identità e diritti. A leader, sostenuti dal consenso, che incarnano l’idea de L’État, c’est moi!
Nel percorso cinematografico di Segre, Berlinguer – La grande ambizione rappresenta un passaggio quasi obbligato. Come se tutti gli incontri fatti in precedenza con i migranti e i lavoratori, da Marghera canale nord a Come un uomo sulla Terra, da Io sono Li a Welcome Venice, avessero trovato in Berlinguer la voce capace di accogliere istanze, comprendere traiettorie, cercare nuove direzioni.
Il regista nato a Dolo ha raccontato cinque anni cruciali, dal 1973 al 1978, dalla caduta di Salvador Allende in Cile, con la conseguente presa di coscienza che il Partito Comunista non avrebbe potuto governare nemmeno con il cinquantuno percento, al rapimento e omicidio di Aldo Moro, che segna il tramonto (senza una vera alba) del «compromesso storico».
UN QUINQUENNIO decisivo tanto per il segretario del Pci quanto per l’intero Paese, scosso da attentati nei treni e nelle piazze, da violenti conflitti per le strade dove perdevano la vita giovani donne e uomini che speravano di cambiare il mondo e non di perderlo. Eravamo sull’orlo di un baratro, tra tentativi di colpi di stato, soppressione delle libertà, eversioni, profonde crisi economiche, in mezzo a una Guerra Fredda e arsenali atomici pronti a mostrare la loro distruttiva potenza.
Non solo violenza, però. Perché in quel periodo le elezioni politiche e amministrative premiavano i comunisti italiani. Bandiere rosse sventolavano in festa, nonostante Papa Paolo VI, Giovanni Agnelli e Amintore Fanfani. Avversari e nemici non così temibili, a dire il vero, come quelli che provenivano da Ovest, anche se si nutrivano tiepide speranze per il nuovo presidente Jimmy Carter, e da Est, con i vertici sovietici che non tolleravano l’Eurocomunismo e tramavano contro l’italiano che parlava di democrazia.
Al di là della mimesi e della ricostruzione di un’epoca attraverso costumi e scenografie, il film rielabora per frammenti lo spirito di un tempo, non sempre riuscendo a evitare interventi eccessivamente didascalici, soprattutto in alcuni dialoghi che invece di rivelare una dimensione privata (e magari più tormentata), si limitano a spiegare lo stato delle cose.
Proprio in questi giorni è uscito nelle sale italiane Megalopolis di Francis Ford Coppola (evento di pre-apertura della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella Città). Un film che insieme a Berlinguer – La grande ambizione spinge a riflettere, attraverso modalità cinematografiche decisamente diverse, sul senso dell’utopia in un frangente della pur modesta storia umana nella quale a prevalere è il distopico.
DA QUESTO punto di vista, i materiali d’archivio recuperati da Segre, le movenze di Germano, lo spettrale Roberto Citran che ridà vita ad Aldo Moro, unito alle fantasmagorie di Coppola, narrano di ideali che si ha il dovere di inseguire, di tempi futuri che si possono immaginare, di azioni volte a provocare il benessere del prossimo. E come canta Pierangelo Bertoli nel film: «Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba, il falso progresso ha voluto provare una bomba, poi pioggia che toglie la sete alla terra che è viva, invece le porta la morte perché è radioattiva. Eppure il vento soffia ancora spruzza l’acqua alle navi sulla prora e sussurra canzoni tra le foglie e bacia i fiori li bacia e non li coglie»
*(Fonte: Il Manifesto. Mazzino Montinari. Giornalista)
O6 – Claudia Fanti*: LA RIVOLTA STUDENTESCA CHE PREOCCUPA MILEI – ARGENTINA LA RISPOSTA DELLE UNIVERSITÀ ALLA RATIFICA DA PARTE DEL CONGRESSO DEL VETO DI MILEI SULLA LEGGE DI FINANZIAMENTO UNIVERSITARIO RIBATTEZZATA COME “ESTUDIANTAZO”, È STATA INFATTI TANTO RAPIDA QUANTO POTENTE
Più passano i giorni, più la ratifica da parte del Congresso del veto di Milei sulla Legge di finanziamento universitario appare esattamente per quello che è stata: una vittoria di Pirro. La risposta delle università, ribattezzata come Estudiantazo, è stata infatti tanto rapida quanto potente: un’ottantina di facoltà occupate, lezioni all’aperto – per strada, anche sotto il sole e in mezzo al rumore del traffico -, manifestazioni e scioperi.
Il governo agita lo spauracchio della rivolta cilena – nella versione rivista e corretta della ministra della Sicurezza Patricia Bullrich, secondo cui gli studenti avrebbero «rotto e distrutto tutto» – e rivolge le sue consuete minacce. «È chiaro che dopo questo verranno le molotov», ha dichiarato la ministra, annunciando provvedimenti: «Non lo permetteremo perché non siamo scemi, sappiamo qual è il loro obiettivo», quello cioè, a suo giudizio, di una protesta fuori controllo con «rivolte e morti».
«I discorsi di violenza alimentano la violenza», le ha risposto il presidente del Consiglio interuniversitario nazionale (Cin) Víctor Moriñigo. E a prendere sul serio il pericolo è stata anche la rettrice dell’Università nazionale de Comahue Beatriz Gentile, la quale ha sollecitato la giustizia a indagare sulle minacce contenute in un post su X rilanciato da Milei: «Siete avvisate, zecche. Poi non venite a piangere su diritti umani e lesa umanità».
Studenti e lavoratori, tuttavia, non si lasciano intimidire, come indica lo sciopero nazionale universitario di 24 ore che si è svolto ieri rivendicando ancora una volta l’aumento degli stanziamenti di bilancio per gli atenei pubblici e per i salari del personale docente e non docente, il 70% dei quali si trova al di sotto della soglia della povertà (e il cui adeguamento costerebbe al fisco un misero 0,14% del Pil, a fronte di una caduta degli investimenti nel settore educativo del 40% in un solo anno). E molte altre misure sono previste nel piano di lotta definito martedì dal Cin insieme al Fronte Sindacale e alla Federazione universitaria argentina: uno sciopero di 48 ore lunedì e martedì prossimi; lezioni all’aperto in tutto il paese come accompagnamento al dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio; marce regionali in cinque diverse province nel corso di novembre.
Già mercoledì, tuttavia, studenti e lavoratori di diverse facoltà dell’Università di Buenos Aires (Uba), armati non di molotov ma di candele, avevano marciato di sera fino al Palazzo Pizzurno, la sede dell’ex ministero dell’Educazione declassato da Milei a segreteria del dicastero del Capitale umano. Una fiaccolata organizzata in segno di protesta contro l’atto di violenza consumato all’Università di Quilmes da un gruppo di militanti de La Libertad avanza – i quali avevano fatto irruzione in un’assemblea autoconvocata lanciando gas al peperoncino – ma anche contro le violenze verbali del governo Milei.
E, soprattutto, contro le sue menzogne. Come quella che in Argentina l’università pubblica sarebbe nient’altro che un regalo dei poveri ai figli della classe alta e medio-alta e ostacolerebbe, anziché favorirla, la mobilità sociale: secondo i dati ufficiali, al contrario, 2 su 3 studenti appartengono alla fascia bassa della popolazione – il 48% addirittura sotto la soglia della povertà, con uno scatto di 20 punti in appena un anno – e il 47,8% degli iscritti nel 2022 rappresentava la prima generazione di universitari nelle proprie famiglie (correndo così 4 volte in meno il rischio di lavorare senza contratto).
O la menzogna che le università pubbliche, che per inciso godono di una profonda legittimità sociale, sfuggirebbero ai controlli da parte dello stato «per continuare a rubare», seguita dalla decisione del governo – accettata peraltro senza alcuna resistenza dai vertici accademici – di attribuire nuovamente alla Sigen (Sindicatura General de la Nación), vincolata all’esecutivo, la responsabilità dei controlli che, dal 2022, era passata all’Agn (Auditoría General de la Nación), dipendente dal Congresso. E pazienza se il titolare della Sigin Miguel Blanco abbia riconosciuto che non risulta sia stato commesso alcun atto di corruzione.
*(Claudia Fanti. Giornalista, scrive soprattutto di America Latina. Da più di 20 anni scrive sul settimanale Adista e collabora con il Manifesto e con altre testate.)
07 – Marco Bascetta*: ISRAELE, UNA VIOLENZA SENZA PROPORZIONE – LA BRUTALITÀ DELL’ATTACCO DI HAMAS DEL 7 OTTOBRE È STATA SEPOLTA SOTTO DECINE DI MIGLIAIA DI VITTIME CIVILI E SOTTO LE MACERIE DI GAZA RIDOTTA ALLA FAME, PUR DI ANNIENTARE IL NEMICO
La scelta di assegnare il Nobel per la pace all’organizzazione fondata e animata dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki per la messa al bando delle armi nucleari proprio nel momento in cui il loro impiego sta rientrando nell’orizzonte del possibile è quasi un imperativo morale.
Ma vi è un altro aspetto della percezione e della memoria della bomba cui converrebbe prestare attenzione.
Nella memoria collettiva del dopoguerra la distruzione nucleare delle due città giapponesi ha in qualche modo eclissato le molte atrocità commesse dall’esercito giapponese durante il conflitto mondiale. Non saranno queste ultime, non dissimili da quelle ad opera delle truppe naziste, né Pearl Harbour e la responsabilità dell’attacco a rimanere impresse nelle menti di testimoni e posteri ma le centinaia di migliaia di vittime evaporate in un istante nel fungo atomico.
UN NOBEL CONTRO L’ATOMICA
Qualcosa di simile sta accadendo alla sanguinosa aggressione subita da Israele il 7 ottobre del 2023, tanto più dopo l’uccisione del suo principale ideatore, Yahya Sinwar e di molti altri dirigenti di Hamas.
La brutalità dell’invasione lampo dei miliziani e le sue vittime sono state sepolte sotto decine di migliaia di vittime civili e sotto le macerie in cui Gaza è stata ridotta.
Sono state seppellite dalle agghiaccianti esternazioni del governo israeliano sulla legittimità di lasciar morire di fame centinaia di migliaia di civili (non solo un’ipotesi senza conseguenze) pur di annientare il nemico.
Il 7 ottobre resta naturalmente quello che è stato: qualcosa che, per quanto se ne valutino le cause profonde, si situa per le sue modalità di esecuzione tra l’attentato terroristico e il crimine di guerra.
Ma non è più e non può più essere il centro della scena e il fulcro di quella solidarietà generale e quasi esclusiva che Israele ha ricevuto subito dopo l’aggressione.
Le vittime del 7 ottobre, così come gli ostaggi abbandonati alla loro sorte nelle mani di Hamas, perdono di peso e di consistenza, sommersi dall’enormità degli eventi che sono seguiti, ridotti a pedine di uno spietato gioco di potere nelle spire del quale la tragica realtà delle singole esperienze e il valore delle singole vite si dissolvono.
Gli ostaggi, è cosa nota, cadono spesso non solo per mano dei loro carcerieri, ma anche e soprattutto per conto della ragion di stato che si nutre del loro sacrificio. E che, ancora una volta, continuando a negare ogni occasione di tregua, ne mette a repentaglio la vita pur di continuare la guerra.
Se così forte continua ad essere l’insistenza con la quale Israele, ma anche i governi alleati di Tel Aviv, pretendono il riconoscimento del 7 ottobre come legittimazione di un diritto di rappresaglia su vasta scala è anche perché non sfugge il fatto che le spaventose proporzioni della rappresaglia stessa stanno offuscando del tutto la sua origine e i suoi motivi, mentre nessuno crede più che da Gaza possa provenire una seria minaccia per la sicurezza dello stato ebraico.
In ogni codificazione del diritto, in ogni sistema etico il principio di proporzionalità è imprescindibile e decisivo. Calpestarlo significa porsi al di fuori di ogni regola di convivenza presente e futura e imboccare una via suprematista che rende legittimo qualunque obiettivo raggiungibile con il puro e semplice esercizio della forza, compreso il totale annientamento dell’avversario e la conquista di nuovi territori.
Il problema è che la politica dell’attuale governo di Israele è fondata proprio sulla sproporzione, ovverosia sul fatto che a qualunque atto aggressivo rivolto contro lo stato ebraico, seguirà una risposta cento volte più violenta e sanguinosa.
Per colpire un solo nemico diventa normale e persino “morale” annientare decine di innocenti. Declassati al ruolo, sacrificabile come quello degli ostaggi, di scudi umani. L’attenzione per i civili e i bombardamenti mirati sono da tempo solo una stucchevole farsa.
Di fronte a un potere che pratica questa strategia della dismisura, che è poi anche una politica del terrore, il diritto internazionale è impotente e le Nazioni unite poco più che un coretto dell’esercito della salvezza.
Ma anche gli inviti alla moderazione e alla prudenza dei potenti alleati di Israele (che disporrebbero di sostanziali strumenti di pressione) cadono regolarmente nel vuoto perché moderazione e prudenza rappresenterebbero la negazione stessa di una politica israeliana fondata, appunto, sull’esercizio “sproporzionato” della forza.
E questi alleati, che hanno contribuito a renderlo possibile e lo hanno sostenuto, non possono ora negarlo e impedirlo. Nemmeno quando la dismisura della rappresaglia si trasferisce al Libano del sud, prende di mira Unifil, bombarda Beirut e rischia di investire l’Iran scatenando un incendio senza confini.
Nondimeno, non solo il 7 ottobre, ma Israele stesso, la sua immagine, le simpatie e le speranze (oltre alle ostilità e le critiche) che ha suscitato nel corso della sua complessa storia rischiano di finire sepolte sotto questo cumulo immane di cadaveri, di macerie, di ipocrisie e di menzogne.
Non siamo ingenui, le ragioni storiche e geografiche della forza militare israeliana ci sono tutte e vanno riconosciute.
Ma si può vivere solo di questo? Progettare un futuro garantito dalla “sproporzionata” capacità di combattimento?
Nessun criterio sensato di sicurezza può corrispondere a un simile schema. L’egocentrismo armato, alimentato dal mito della propria unicità, non è in grado di star dietro a un mondo che sta cambiando.
Destinato a un sicuro isolamento continuerà a riprodurre intorno a sé nuovi nemici da combattere, nuove minacce da scongiurare
*(Fonte: Il Manifesto. Marco Bascetta, giornalista)
Views: 73
Lascia un commento