n°32 – 10/08/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Senatrice La Marca (PD) ricorda il sessantottesimo anniversario del disastro minerario di Marcinelle
02 – Lorenzo Lamperti*: Taipei – ESCLUSIONE DI ISRAELE: USA E UE boicottano NAGASAKI GIAPPONE. ALLA COMMEMORAZIONE DELLE VITTIME DELL’ATOMICA È STATO INVITATO IL RAPPRESENTANTE PALESTINESE.
03 – Roberto Ciccarelli*: Le carte truccate sul Pnrr: enfasi sulle misure attivate, non sui progetti avviati Bilancio. È arrivata la quinta rata: Meloni «primi in Europa», l’Italia è solo quarta nel rapporto risorse erogate e fondi totali Le carte truccate sul Pnrr: enfasi sulle misure attivate, non sui progetti avviati.
04 – Roberto Ciccarelli*: Fumagalli: «Crollo in borsa, mercati in tilt: banche centrali responsabili»
Il crack. Intervista a Andrea Fumagalli: “Alla base della crisi c’è la politica monetaria della Federal Reserve americana che tiene alto il costo del denaro, seguendo una logica capitalista a difesa del dollaro
05 – Le dichiarazioni del governo sul Pnrr rischiano di essere fuorvianti.
06 – Alfiero Grandi* : perchè e’ fondamentale il referendum abrogativo della legge sull’autonomia regionale differenziata, articolo di Alfiero Grandi su sinistra sindacale.
07 – Giovanna Branca*: Harris guarda a sinistra: il suo vice è Tim Walz – elettorale americana. Il governatore del Minnesota, ex professore di liceo, che ha difeso aborto e diritto di voto. Ha invocato il cessate il fuoco a Gaza e l’ascolto dei cittadini arabo americani
08 – Mario Pianta*: Commenti Un messaggio ai giovani: andatevene – Sotto scacco. In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata.
09 – Claudia Fanti*: Sei deputati di Milei in visita ai torturatori della dittatura. Argentina. L’obiettivo è far uscire dal carcere gli assassini della dittatura militare. L’ira delle opposizioni: vanno espulsi dal parlamento.

 

 

01 – La Senatrice La Marca (PD) HA RICORDATO IL SESSANTOTTESIMO ANNIVERSARIO DEL DISASTRO MINERARIO DI MARCINELLE.
L’8 agosto, ricorre il 68° anniversario del disastro minerario di Marcinelle, la più grande tragedia che abbia mai colpito la migrazione italiana in Europa e una delle più grandi del mondo. La mattina dell’8 agosto del 1956 un incendio in una miniera di carbone del Bois du Cazier di Marcinelle in Belgio che causò la morte di 262 uomini provenienti da ogni parte del vecchio continente, tra cui 136 italiani, la metà proveniente dalla Regione Abruzzo.
Ancora oggi le nostre comunità nel mondo portano il peso di queste tragedie, per sempre scolpite nella nostra memoria – noi siamo gli eredi di queste vicende, della sofferenza di chi ci ha preceduto, di chi ha sacrificato la propria vita per dare un futuro migliore alla generazione successiva. Abbiamo dunque il dovere di onorare la memoria delle vittime e di non disperdere il valore del loro sacrificio, soprattutto per i nostri giovani, così che anche loro conoscano un pezzo importante della nostra storia e apprezzino i privilegi di cui godono oggi. Perciò, l’8 agosto, giornata dedicata al Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo, ma non soltanto l’8 agosto, credo che abbiamo il dovere di unirci come Paese in un pensiero di gratitudine per tutti i nostri connazionali che furono costretti a lasciare il proprio paese, la propria famiglia, tutto ciò che per loro era sicuro e familiare, per lo sconosciuto, rischiando tutto per la speranza di un futuro migliore.”
“Mi unisco a voi, oggi e non solo oggi, in un pensiero di gratitudine e affetto per tutti i nostri connazionali caduti sul lavoro, in ogni parte del mondo, ma anche per riaffermare, qui ed oggi, che dobbiamo continuare a batterci per scongiurare i troppi infortuni e le troppe morti sul lavoro che affliggono le donne e gli uomini della nostra comunità nel mondo.”
*( Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

02 – Lorenzo Lamperti*: TAIPEI – ESCLUSIONE DI ISRAELE: USA E UE BOICOTTANO NAGASAKI. GIAPPONE: ALLA COMMEMORAZIONE DELLE VITTIME DELL’ATOMICA È STATO INVITATO IL RAPPRESENTANTE PALESTINESE

GLI USA NON SI PRESENTANO ALLA COMMEMORAZIONE DEL MASSACRO COMPIUTO DALLA LORO BOMBA ATOMICA SU NAGASAKI. COME LORO, ASSENTI ANCHE REGNO UNITO, AUSTRALIA, CANADA, GERMANIA, UE. NON CI SARÀ NEMMENO L’ITALIA. MOTIVO?
Il sindaco della città giapponese ha deciso di non invitare Israele all’anniversario del bombardamento del 9 agosto 1945, quando la Fat Man sganciata dal Boeing B-29 del maggiore Charles Sweeney uccise all’istante almeno 40mila dei 240.000 abitanti di Nagasaki
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IL PRIMO CITTADINO Shiro Suzuki ha motivato il mancato invito all’ambasciatore israeliano a Tokyo, Gilad Cohen, con «problemi di sicurezza». Parlando di una scelta «difficile», ha spiegato che è stata presa sulla base di «vari sviluppi nella comunità internazionale in risposta alla situazione attuale in Medio oriente». Il timore di Suzuki è che con la presenza del rappresentante di Israele la cerimonia possa essere disturbata, mentre il desiderio è di «tenere la cerimonia per commemorare le vittime in un’atmosfera pacifica e solenne, garantendo che tutto si svolga senza rischi».

Nonostante l’allineamento pressoché totale della politica estera del Giappone a quella degli Stati uniti, non sono state poche in questi mesi le manifestazioni di solidarietà dal basso verso la Palestina. Nei giorni scorsi, la presenza di Cohen alla commemorazione di Hiroshima ha provocato le critiche di diversi gruppi di attivisti. C’è chi ha accusato la municipalità di doppi standard, visto che da anni vengono escluse Russia e Bielorussia per l’invasione dell’Ucraina e le bombe contro le sue città. Soprattutto, è stata attaccata la decisione di non invitare nessun rappresentante palestinese.
NAGASAKI ha deciso così di prendere un’altra strada, invitando il rappresentante palestinese e non quello israeliano. La richiesta è pervenuta al sindaco anche dagli hibakusha, i sopravvissuti del bombardamento. Senza dimenticare che Nagasaki ha alle spalle una tradizione politica vivace, spesso non allineata al governo centrale. Nel 1945, memore della tradizione socialista e del ruolo di primo approdo degli occidentali, era una delle città più ostili al fascismo militarista del governo centrale. Non bastò a salvarla.
Dopo il mancato invito, Cohen ha protestato: «Si sono inventati la scusa della sicurezza, ma non ha nulla a che fare con l’ordine pubblico». Accusando Suzuki di utilizzare la cerimonia per mandare «un messaggio opposto a quello che dovrebbe essere inviato al mondo libero». Non la pensa così chi ricorda l’orrore di Fat Boy, che oltre alle minacce nucleari di Mosca denuncia le decine di migliaia di vittime causate dai bombardamenti israeliani su Gaza.
L’AMBASCIATORE Usa Rahm Emanuel ha fatto sapere che non parteciperà per la «politicizzazione dell’evento» e andrà invece a un evento separato in un tempio a Tokyo. Nel giro di poche ore, la scelta americana è stata imitata da diversi paesi occidentali. Prima dall’ambasciatrice britannica Julia Longbottom, poi dagli altri. Secondo l’Asahi Shimbun, gli ambasciatori di tutti i paesi del G7 (escluso ovviamente il Giappone stesso) e quello dell’Ue hanno inviato nelle scorse settimane una lettera in cui anticipavano la loro assenza in caso di mancato invito a Israele. Al loro posto, ci saranno funzionari di rango inferiore. Il consolato Usa a Fukuoka manderà il suo responsabile Chuka Asike.
LA VICENDA è arrivata sul tavolo del governo centrale giapponese. Il ministro degli Esteri Yoshimasa Hayashi ha sottolineato che si tratta di una scelta dell’amministrazione locale, su cui l’esecutivo non è in grado di intervenire. Il premier Kishida, protagonista di un netto rafforzamento dei rapporti (anche e soprattutto militari) con Usa e Nato, sarà molto attento a prendere le distanze. A Nagasaki, invece, si ricorderà.
*( Fonte: Il Manifesto – Lorenzo Lamperti è un giornalista professionista, di base a Taipei. Per Wired si occupa di Asia orientale, con particolare attenzione agli intrecci tra politica, tecnologia e produzione culturale)

 

03 – Roberto Ciccarelli*: LE CARTE TRUCCATE SUL PNRR: ENFASI SULLE MISURE ATTIVATE, NON SUI PROGETTI AVVIATI BILANCIO. È ARRIVATA LA QUINTA RATA: MELONI «PRIMI IN EUROPA», L’ITALIA È SOLO QUARTA NEL RAPPORTO RISORSE EROGATE E FONDI TOTALI LE CARTE TRUCCATE SUL PNRR: ENFASI SULLE MISURE ATTIVATE, NON SUI PROGETTI AVVIATI.

«Siamo primi in Europa». Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha salutato ieri l’arrivo della quinta rata (su 10) del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), pari a 11 miliardi di euro. La consueta, eccessiva, enfasi data dal governo al mero calcolo degli gli «obiettivi» raggiunti in rapporto con l’importo complessivo da 194,4 miliardi di euro risulta dissonante rispetto all’incertezza in cui versa il Sacro Graal dell’economia italiana.
Incertezza, in primo luogo, politica. Raffaele Fitto, il ministro delegato alla grana di inizio secolo, è stato candidato a ricoprire un ruolo da commissario europeo. Se così fosse, lascerebbe vacante il suo posto. Vista l’oscurità e la difficoltà dell’incarico potrebbe essere un modo per complicare ancora un percorso sempre più in salita. La seconda incertezza è che il governo sa già che non riuscirà a rispettare la scadenza di giugno 2026. È questa la data entro la quale dovrà avere speso tutti i fondi europei. Impresa complicata. A giugno di quest’anno sono stati spesi 51,3 miliardi. All’appello mancano 143 miliardi da spendere in meno di due anni. Non a caso il ministro dell’economia Giorgetti ha chiesto, più volte, di rinviare la scadenza. Ipotesi che è stata respinta, senza tanti complimenti, dalla Commissione Ue uscente.
Nel frattempo il governo spera di accelerare la spesa, ma gli osservatori dubitano fortemente del suo percorso. Anche perché il Pnrr non ha pace. Fitto ha annunciato una revisione che dovrebbe riguardare l’attribuzione del 40% dei fondi al Sud.
Non c’è pace per il Pnrr: Fitto parla di una revisione dei fondi per il Sud
È possibile vedere oltre la cortina fumogena o sul Pnrr. Lo facciamo con il nuovo fact-checking pubblicato ieri dalla fondazione Openpolis che ha analizzato la quinta relazione del governo sul Pnrr. Anche qui è stata messa molta enfasi sulle «misure attivate», cioè gli investimenti già finanziati e in corso di esecuzione: sono l’85% degli importi, il 92% se si considerano quelli tramite bandi.
Tale indicazione però non dice molto sullo stato di avanzamento dei diversi progetti. Un’indicazione più rilevante riguarda la spesa sostenuta. Questa ammonta a meno di 10 miliardi nel 2024. I fondi spesi finora sono il 26% circa del totale.
Per quanto riguarda le risorse già ricevute, l’Italia si trova al primo posto: 102,45 miliardi di euro. Il secondo dato più elevato è quello della Spagna che però si ferma a 38,41 miliardi. Segue la Francia con 30,86 miliardi. Occorre però tenere presente che l’importo dei Pnrr varia da paese a paese. L’Italia è prima perché ha una ricevuto più soldi di tutti (194,4 miliardi di euro) e ha più rate da conseguire. Altri hanno ricevuto meno e vanno più veloci. Il rapporto percentuale tra scadenze già raggiunte e il totale di quelle previste. Al primo posto troviamo invece la Francia (67%).
L’Italia è solo nona. Il governo, semplicemente, non lo dice. Sul rapporto tra risorse erogate e dotazione finanziaria totale al primo posto troviamo la Francia (76,6%). L’Italia è quarta (52,7%). Anche includendo le scadenze italiane riguardanti la quinta rata il rapporto percentuale del nostro paese sale al 38% circa. Dato ancora non particolarmente elevato
*( Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.)

 

04 – Roberto Ciccarelli*: FUMAGALLI: «CROLLO IN BORSA, MERCATI IN TILT: BANCHE CENTRALI RESPONSABILI» IL CRACK. INTERVISTA A ANDREA FUMAGALLI: “ALLA BASE DELLA CRISI C’È LA POLITICA MONETARIA DELLA FEDERAL RESERVE AMERICANA CHE TIENE ALTO IL COSTO DEL DENARO, SEGUENDO UNA LOGICA CAPITALISTA A DIFESA DEL DOLLARO.
IL SUO ORIENTAMENTO DANNEGGIA I SALARI E CONTRASTA LA CONFLITTUALITÀ SOCIALE. I VINCITORI DELLE POLITICHE ANTI-INFLAZIONE SONO LE GRANDI IMPRESE, CHI HA PERSO SONO I LAVORATORI. IN ITALIA LO SCENARIO PEGGIORE, SALARI AL PALO”

Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, un crollo delle borse simile a quello visto tra venerdì scorso e ieri non lo si vedeva dal «Lunedì nero» del 1987 o dai tempi della pandemia. Quali sono i motivi?
Quando c’è un calo abbastanza forte degli indici azionari che perdura per giorni le cause non sono mai univoche. Può essere dovuto ai forti investimenti nelle Big Tech e nell’intelligenza artificiale che hanno ridotto i profitti e i dividendi e richiedono tempi abbastanza lunghi per vedere i risultati. Il grado di incertezza è molto elevato, soprattutto se vi sono previsioni di calo della crescita dell’economia americana. Crescono i segnali di guerra in Medioriente, il prezzo del petrolio sta calando. Ma credo che il problema principale stia nella politica della Federal Reserve americana di tenere alti i tassi di interesse, seguita a ruota dalla Bce e dalle altre banche centrali.
Una politica giustificata dall’alta inflazione. Ora che si è abbassata perché la Fed non taglia i tassi di interesse?
Innanzitutto perché il reale obiettivo della Fed non è l’inflazione ma continuare a garantire una ciambella di salvataggio al dollaro per mantenere l’egemonia economica Usa. La tenuta del dollaro consente agli Usa di finanziare un debito interno che ha raggiunto livelli mai visti prima: il 122,3% del Prodotto interno lordo e un debito estero strutturale. Se il dollaro perde di appeal l’economia Usa corre rischi seri. I due debiti sono una spada di Damocle. Fintanto che i mercati finanziari sono egemonizzati dal dollaro, le bolle che producono possono essere sotto controllo, anche se ci sono segnali di segno contrario. I paesi del Sud Globale organizzati nei Brics+, dopo la riunione della scorsa estate a Johannesburg, stanno premendo per una governance mondiale multipolare, un rischio che gli Usa non si possono al momento permettere.
Il presidente della Fed Powell sta aspettando che il mercato del lavoro americano peggiori per tagliare i tassi. Nell’attesa che aumenti la disoccupazione, la banca centrale americana (e così quella europea) fa pagare di più i mutui ai lavoratori. Non è paradossale questa idea? Come la spiega?
La spiego con il fatto che la politica delle banche centrali è una politica anti-salariale e contro il lavoro che ha favorito l’accumulo di grandi profitti, sta diminuendo la domanda, contrasta l’aumento dei salari e la conflittualità sociale, Che nel periodo post-covid era ripresa, almeno negli Stati Uniti. Penso alle vertenze nel settore automobilistico, a Hollywood, nei servizi, tra gli addetti alle pulizie. Ci sono stati grandi aumenti salariali in linea con l’inflazione.
Il ribasso delle borse, e il rallentamento del mercato del lavoro, potrebbero convincere la Fed a tagliare i tassi a settembre?
Potrebbe concedere un taglio dello 0,25% per aiutare i democratici. Nell’anno delle elezioni alla Casa Bianca di solito vengono fatte politiche espansive per consentire a chi ha governato di dire di averlo fatto bene. Del resto la segretaria al tesoro è l’ex governatrice della Fed Janet Yellen. La situazione però è incerta.
Perché?
La Fed non segue la logica del ciclo politico elettorale, ma una logica prettamente capitalistica a difesa del dollaro e spesso contrasta anche con gli interessi degli stessi mercati che sono molto nervosi. Alla lunga queste politiche non piacciono nemmeno ai governi. Soprattutto quelli con un debito alto come l’Italia che lo devono pagare con gli interessi.
Chi sono i vincitori e i vinti di questa politica contro l’inflazione?
Negli Stati Uniti i vincitori sono state le corporation delle piattaforme e gli speculatori finanziari che hanno fatto tantissimi soldi. Tra i lavoratori c’è stato un miglioramento della forza lavoro bianca più istruita e un peggioramento per la popolazione non bianca.
In Europa? In Italia?
Qui di certo ha perso tutto il lavoro. I vincitori sono stati il capitale e la rendita: le grandi banche, le grandi imprese. All’aumento dei prezzi non è seguito un aumento dei salari che mantenesse inalterato il potere di acquisto. Ci sono grandi differenze a livello nazionale. C’è stata una tenuta, parziale, in Spagna, Francia e in Germania. In Italia non è successo per nulla. Non a caso noi viviamo nella situazione peggiore, qualunque cosa dica Meloni che fa propaganda.
Il ritorno della volatilità in borsa, e le incertezze nell’economia globale, spingeranno a politiche ancora più prudenti, e a rafforzare le politiche di austerità da noi?
L’Europa ha fatto una scelta di economia politica ben chiara: sostegno all’offerta, e dunque ai profitti, non disturbare l’impresa che «crea ricchezza» – un altro mantra di Meloni e il ripristino delle politiche di controllo dei bilanci pubblici. All’orizzonte non si vedono grandi conflitti salariali. Il rischio è che queste politiche di austerità vadano a penalizzare i servizi sociali, cioè le forme di salario indiretto, ancora di più di quanto non sia già avvenuto in passato.
*( Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.)

 

05 – LE DICHIARAZIONI DEL GOVERNO SUL PNRR RISCHIANO DI ESSERE FUORVIANTI(*)

– NEL 2024 L’ITALIA HA SPESO MENO DEL 20% DI QUANTO PREVISTO
– L’ITALIA HA COMPLETATO SOLO IL 38% DELLE SCADENZE RIGUARDANTI IL PROPRIO PNRR.
– PNRR, SOLO 3 AMMINISTRAZIONI TITOLARI HANNO SPESO ALMENO LA METÀ DEI FONDI ASSEGNATI.
– L’ITALIA HA COMPLETATO SOLO IL 38% DELLE SCADENZE RIGUARDANTI IL PROPRIO PNRR

La scorsa settimana il governo Meloni ha pubblicato una nuova relazione sul Pnrr italiano. Il documento pone molta enfasi su alcuni dati trascurandone altri. Questo rende molto difficile avere un’idea del reale stato di avanzamento del piano.

• IL GOVERNO HA PUBBLICATO LA QUINTA RELAZIONE SUL PNRR. MOLTI DATI PRESENTI NEL DOCUMENTO RISCHIANO DI ESSERE FUORVIANTI SE NON CONTESTUALIZZATI.
• LA RELAZIONE PONE MOLTA ENFASI SULLE “MISURE ATTIVATE”. TALE INDICAZIONE PERÒ NON DICE MOLTO RIGUARDO LO STATO DI AVANZAMENTO DEI DIVERSI PROGETTI.
• UN’INDICAZIONE PIÙ RILEVANTE RIGUARDA LA SPESA SOSTENUTA. QUESTA AMMONTA A MENO DI 10 MILIARDI NEL 2024. I FONDI SPESI FINORA SONO IL 26% CIRCA DEL TOTALE.
• SONO LE MISURE DI COMPETENZA DEL MINISTERO DELL’AMBIENTE A RIPORTARE IL LIVELLO PIÙ ALTO DI SPESA, PARI A 14,3 MILIARDI. SEGUE IL MINISTERO DELLE IMPRESE.
• L’ITALIA HA COMPLETATO MENO DELLA METÀ DELLE SCADENZE PREVISTE. A LIVELLO EUROPEO, DIVERSI PAESI RIPORTANO PERCENTUALI PIÙ ALTE.
La scorsa settimana il governo ha diffuso la quinta relazione sullo stato di avanzamento del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nel documento, così come nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, l’esecutivo ha posto grande enfasi sui dati riguardanti le “misure attivate”. Quegli investimenti cioè già finanziati e in corso di esecuzione.
La relazione evidenzia che l’85% degli importi è attribuibile a misure già attivate. Dato che sale al 92% se si considerano gli investimenti che prevedono l’assegnazione delle risorse tramite bandi o avvisi pubblici.
Questa e altre informazioni contenute nella relazione devono però essere contestualizzate per non rischiare di risultare fuorvianti. Il fatto che le misure siano state attivate ad esempio non implica automaticamente che i vari progetti siano già nella fase di concreta realizzazione. Da questo punto di vista un indicatore più significativo è quello relativo alla spesa sostenuta.

8,5 mld € LA SPESA DEI FONDI PNRR SOSTENUTA NEI PRIMI 6 MESI DEL 2024.
Non si trovano però riferimenti all’obiettivo di spesa previsto per l’anno corrente. Cifra che, in base alle informazioni più recenti disponibili pubblicate dalla corte dei conti, dovrebbe aggirarsi intorno ai 43,2 miliardi di euro. Traguardo che sembra davvero difficile da raggiungere a meno di un clamoroso cambio di passo.
Da contestualizzare anche il confronto con gli altri paesi europei. Il governo ha sottolineato infatti come l’Italia sia il paese con il maggior numero di traguardi e obiettivi, le cosiddette scadenze, già conseguiti. Se da un lato questo è vero in termini assoluti, dall’altro occorre evidenziare che gli adempimenti completati rappresentano meno del 40% del totale. Diversi paesi da questo punto di vista riportano percentuali più alte.
Un ultimo elemento che vale la pena sottolineare riguarda il fatto che la relazione cita le valutazioni di diversi organismi internazionali sull’operato dell’Italia. Dalla commissione europea all’Ocse al Fondo monetario internazionale. Il documento governativo evidenzia gli elogi riconosciuti al nostro paese ma omette quasi del tutto il fatto che tali soggetti riportano anche la presenza di criticità ancora non risolte.

The implementation of Italy’s recovery and resilience plan is underway, however timely completion will require increased efforts. […] The size and complexity of the plan, and challenges linked to absorption capacity, call for accelerating investments and addressing emerging delays while strengthening administrative capacities to ensure that reforms and investments can be completed on time. Investments, in particular, are highly concentrated towards the end of the RRP implementation and merit special attention.
– Recomendation for a Council recommendation on the economic, social, employment, structural and budgetary policies of Italy, 19 giugno 2024.

Le procedure di attivazione e la spesa sostenuta
Il governo ha posto molta enfasi sulle cosiddette “misure attivate”. Con questo termine si fa riferimento in particolare a quegli investimenti contenuti nel Pnrr per cui sono state avviate le procedure per la selezione dei progetti da finanziare così come dei soggetti attuatori che dovranno realizzare tali interventi. Il valore complessivo delle misure già attivate è di circa 164,8 miliardi sui 194,4 totali assegnati al nostro paese (l’85% circa).
Aggregando i dati per missione – le macro aree di intervento con cui si categorizzano le diverse misure – emerge che 3 su 7 sono già attivate per oltre il 90% degli importi previsti. La percentuale più alta è quella della missione 3 (Infrastrutture per una mobilità sostenibile) che arriva al 99%.
29,6 mld € GLI IMPORTI DEL PNRR AFFERENTI A MISURE NON ANCORA ATTIVATE.
In base a quanto riportato dalla relazione governativa, gli interventi non ancora attivati riguardano misure nuove (con particolare riferimento a quelle contenute nella missione 7) o che hanno cambiato amministrazione titolare a seguito della revisione del piano e ad altre misure per le quali la fase di selezione dei progetti da finanziare è in via di conclusione. Si tratta in prevalenza di interventi che prevedono l’erogazione di incentivi o di forniture di beni e servizi per i quali sono state espletate le procedure di selezione e sono in corso le attività di verifica.

Com’è cambiata la programmazione economica del Pnrr.
La relazione inoltre fornisce le stesse informazioni ma facendo riferimento solamente a quegli interventi che richiedono procedure di affidamento come bandi, avvisi e decreti di finanziamento per l’assegnazione delle risorse.
Per questo sottoinsieme di progetti, la presenza di procedure di affidamento è un indicatore affidabile di avanzamento perché la messa a gara presuppone una serie di atti procedurali e attuativi riguardanti la definizione delle specifiche modalità di realizzazione del progetto stesso.
– Quinta relazione del governo sullo stato di attuazione del Pnrr, 22 luglio 2024
Gli investimenti che rientrano in questa categoria valgono in totale circa 133 miliardi di euro, di cui 122 miliardi relativi a misure già attivate. A livello di missione quella che riporta il valore più alto è ancora la numero 3 dove la totalità delle risorse che richiede procedure di questo tipo è stata attivata. Solo le missioni 4 (Istruzione e ricerca) e 5 (Inclusione e coesione) presentano un valore inferiore al 90%.
In questo caso specifico però è forse più interessante valutare la percentuale di risorse che sono già state messe a gara. L’importo che risulta associato ad almeno un bando ammonta a 111 miliardi, pari al 91% del valore delle misure attivate. Tutte le missioni presentano una percentuale pari o superiore al 90% con la sola eccezione della missione 5 (76%). Il dato più alto è ancora quello della missione 3 (97%).
Il dato sulle “misure attivate” non dice molto sul reale stato di avanzamento dei progetti.
Il fatto che la percentuale di risorse attivate sia alta, così come anche quello delle misure già andate a gara è certamente un’indicazione importante. Anche perché molti osservatori, tra cui l’ufficio parlamentare di bilancio, hanno notato che proprio gli aspetti procedurali sono quelli più difficili da portare a conclusione. Mentre una volta che i cantieri partono si riesce a procedere abbastanza speditamente. Occorre tuttavia rilevare che queste informazioni non ci forniscono nessuna indicazione circa lo stato di realizzazione dei vari interventi.
L’attivazione di una misura infatti è abbastanza irrilevante a fronte delle procedure per la selezione degli operatori per la realizzazione degli interventi, di cantieri che procedono lentamente o che ancora devono partire. In questo senso, il dato della spesa già sostenuta può rappresentare un’indicazione più consistente. Nella relazione sono forniti dati aggiornati anche su questo aspetto.
51,36 mld € IL TOTALE DEI FONDI PNRR GIÀ SPESI AL 30 GIUGNO 2024.
Cifra che corrisponde al 31% se si considera il valore totale delle risorse rientranti nelle misure attivate e che scende al 26% considerando l’importo totale del Pnrr italiano.

NEL 2024 L’ITALIA HA SPESO MENO DEL 20% DI QUANTO PREVISTO
I DATI SULLO STATO DI AVANZAMENTO PROCEDURALE E FINANZIARIO DEL PNRR PER MISSIONE
Le misure “attivate” sono quelle per cui sono state avviate le procedure sia per l’assegnazione del finanziamento ai soggetti attuatori sia per l’individuazione dei progetti da finanziare (ad esempio bandi, avvisi, circolari e decreti di finanziamento).
La percentuale è quella riportata dal governo nella quinta relazione sullo stato di attuazione del Pnrr ed è calcolata rispetto agli importi monetari espressi in euro. Può pertanto differire dal dato approssimato in miliardi di euro presente nei popup grafici.
FONTE: elaborazione openpolis su dati governo.
(ultimo aggiornamento: domenica 30 Giugno 2024)
A meno di eventuali riprogrammazioni del piano di spesa, di cui al momento non si ha notizia, servirebbe davvero uno sforzo straordinario per completare tutte le erogazioni di fondi entro il 2026, com’è attualmente previsto.
I dati delle amministrazioni titolari
La relazione del governo sul Pnrr fornisce informazioni anche sull’impegno delle diverse amministrazioni titolari. Cioè i soggetti (principalmente i ministeri) che hanno la responsabilità della realizzazione delle misure e del rispetto delle varie scadenze. In questo caso, tenendo conto di quanto già detto riguardo le procedure di attivazione, ci focalizzeremo sulla spesa già sostenuta.
In valori assoluti, la spesa più rilevante si è registrata per le misure di competenza del ministero dell’ambiente (14,34 miliardi). Seguono il ministero delle imprese (14 miliardi) e quello delle infrastrutture (8,1 miliardi).
Ovviamente l’importo assegnato varia da amministrazione ad amministrazione. Per questo per avere un’indicazione utile a valutare la “capacità di spesa” si può analizzare il rapporto tra spesa sostenuta e totale dei fondi assegnati. Tenendo in considerazione questo indicatore, al primo posto troviamo il dipartimento per le politiche giovanili con il 66,2% (pari a circa 430 milioni rispetto alla dotazione totale di 650). Seguono il ministero degli esteri (55%) e gli organismi giudiziari superiori (Tar e consiglio di stato, 50%).

PNRR, SOLO 3 AMMINISTRAZIONI TITOLARI HANNO SPESO ALMENO LA METÀ DEI FONDI ASSEGNATI
I DATI SULLA SPESA SOSTENUTA PER OGNI AMMINISTRAZIONE TITOLARE DELLE MISURE DEL PNRR
Il grafico riporta la spesa totale sostenuta al 30 giugno 2024 per ogni amministrazione totale di misure del Pnrr. Anche se hanno la responsabilità della realizzazione dei vari interventi, nella stragrande maggioranza dei casi non sono i ministeri a occuparsene direttamente. Questi si affidano a soggetti attuatori quali enti pubblici o privati e aziende partecipate.
Ci sono poi 4 soggetti che fanno registrare un dato sulla spesa sostenuta pari a 0. Si tratta del dipartimento per gli affari regionali e di quello per le pari opportunità e la famiglia che però hanno importi assegnati molto ridotti (rispettivamente 140 e 10 milioni). A questi si aggiunge la struttura per la ricostruzione post alluvione in centro Italia che però è stata istituita a fine 2023. Lo 0% di spesa sostenuta è quindi fisiologico.
Una parte dei fondi del Pnrr deve ancora essere assegnata.
Ci sono infine 1,38 miliardi ancora da spendere che risultano essere di competenza della struttura di missione del Pnrr. Da notare che a seguito della riprogrammazione economica del piano, delineata con il decreto legge 19/2024, la stessa cifra risultava ancora da assegnare. È molto probabile quindi che questi fondi saranno ricollocati.
È interessante osservare che anche in questo caso la relazione del governo riporta solamente la percentuale di risorse spese a fronte degli importi rientranti nelle misure attivate. In questo modo però si fornisce un’informazione incompleta e fuorviante.
Il confronto con gli altri paesi
Gli ultimi dati riportati nella relazione sul Pnrr che passeremo in rassegna sono quelli legati al confronto con l’operato degli altri paesi. Il governo ha affermato che il piano italiano è al primo posto sia per quanto riguarda le scadenze completate che per la quantità di risorse ricevute. In realtà questi sono dati che dicono poco sulla qualità dell’operato del nostro paese se non contestualizzati in maniera corretta.
Per fare un confronto con gli altri paesi europei è possibile fare riferimento ai dati messi a disposizione dalla commissione europea sull’apposita piattaforma. Per quanto riguarda le scadenze già completate il dataset non tiene ancora conto, limitatamente al caso italiano, dei traguardi e degli obiettivi che il nostro paese doveva conseguire entro il primo semestre di quest’anno. Ciò perché anche se la commissione ha già accertato il raggiungimento di tutti gli impegni, tale decisione deve ancora essere ratificata dal consiglio dell’Unione europea.
Tenendo presente questo elemento, possiamo osservare che è in realtà la Spagna il paese che ha il numero assoluto di scadenze già completate più alto. Si tratta di 180 adempimenti già conseguiti a fronte di 595 scadenze previste in totale. Il nostro paese viene al secondo posto con 178 scadenze completate su 617, mentre al terzo troviamo la Croazia con 156 impegni già raggiunti a fronte dei 436 previsti in totale. Se però si considera il rapporto percentuale tra scadenze già raggiunte e il totale di quelle previste, l’Italia scivola al nono posto.

29% LE SCADENZE GIÀ COMPLETATE DALL’ITALIA RISPETTO AL TOTALE DI QUELLE PREVISTE.
Al primo posto troviamo invece la Francia (67%) seguita da Danimarca (46%) e Lussemburgo (43%). Ovviamente bisogna tenere presente che questi ultimi due paesi hanno un numero totale di scadenze da raggiungere molto più basso: 93 nel primo caso e 60 nel secondo.
Anche includendo le scadenze italiane riguardanti la quinta rata il rapporto percentuale del nostro paese sale al 38% circa. Dato ancora non particolarmente elevato. A questo proposito però occorre rilevare che l’Italia ha già inviato anche la richiesta di pagamento dei fondi legati alla sesta rata.

L’ITALIA HA COMPLETATO SOLO IL 38% DELLE SCADENZE RIGUARDANTI IL PROPRIO PNRR
IL CONFRONTO SULLO STATO DI AVANZAMENTO DEI PNRR DEI VARI PAESI EUROPEI
Per quanto riguarda le risorse già ricevute, l’Italia si trova ampiamente al primo posto anche senza considerare gli importi legati alla quinta rata che ancora devono essere erogati. Nel nostro paese sono già arrivati 102,45 miliardi di euro. Il secondo dato più elevato è quello della Spagna che però si ferma a 38,41 miliardi. Segue la Francia con 30,86 miliardi.
Occorre però tenere presente che l’importo dei Pnrr varia da paese a paese. Per cui per fare un confronto omogeneo è utile valutare il rapporto tra risorse già erogate e dotazione finanziaria totale. In questo caso al primo posto troviamo la Francia (76,6%) seguita dall’Estonia (53,7%). L’Italia si trova al quarto posto (52,7%) superata di poco anche dalla Danimarca (53%).
Non tutti i Pnrr prevedono l’invio di 10 richieste di pagamento.
Un ultimo elemento da tenere in considerazione è quello legato al cronoprogramma delle erogazioni dei fondi da parte delle istituzioni europee. Il piano italiano prevede 10 rate ma non per tutti è così. Solo altri 7 Pnrr infatti prevedono il pagamento in 10 rate. Oltre all’Italia anche Croazia, Slovacchia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Cipro. Non deve sorprendere più di tanto che questi paesi siano anche quelli che hanno già presentato il maggior numero di richieste di pagamento.
Tra questi paesi effettivamente l’Italia è l’unica che ha già presentato la richiesta della sesta rata. La Croazia ne ha presentate 5, Spagna, Slovacchia e Portogallo 4.Considerazioni finali
Come abbiamo spiegato anche in un precedente articolo, per quanto l’Italia abbia fatto dei passi avanti nell’attuazione del Pnrr c’è ancora molta strada da percorrere e non può essere dato per scontato che il nostro paese riuscirà a realizzare tutti gli obiettivi prefissati.
Dopo aver passato in rassegna alcuni dei dati contenuti nella quinta relazione sul piano è però opportuno fare alcune precisazioni. In primo luogo a partire dai dati sulla spesa. Questi restituiscono infatti un’immagine comunque parziale dello stato di avanzamento del Pnrr. Anche perché non ci dicono niente sull’attuazione delle riforme. Misure che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno fondi a disposizione ma sono comunque una componente fondamentale del Pnrr. Da questo punto di vista è il rispetto delle varie scadenze l’indicatore da prendere in considerazione.
L’esecutivo ha inoltre sottolineato come sia fisiologico un livello limitato di spesa nei primi anni che poi tenderà ad aumentare nelle fasi finali, man mano che i vari cantieri si completeranno.
È corretto attendersi una concentrazione della spesa nella seconda parte dell’orizzonte temporale di attuazione del Piano poiché nei primi anni di attuazione erano prevalenti gli obiettivi qualitativi.
– Quinta relazione del governo sullo stato di attuazione del Pnrr, 22 luglio 2024
Si evidenzia inoltre come i dati a questo proposito possano essere sottostimati a causa di una tardiva rendicontazione da parte dei soggetti attuatori. Ostacolo che peraltro ha portato a un rallentamento delle erogazioni con conseguenti problemi di liquidità delle realtà coinvolte.
A questo proposito, l’articolo 2 del già citato decreto Pnrr quater aveva imposto ai soggetti attuatori di aggiornare il cronoprogramma procedurale e finanziario entro 30 giorni dall’entrata in vigore della norma. Tale processo, stando a quanto si legge nella relazione, avrebbe raggiunto un livello di copertura pari all’85,8% dei progetti.
Il nostro osservatorio sul Pnrr
Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.
*( FONTE: elaborazione openpolis su dati governo )

 

06 – Alfiero Grandi* : PERCHÈ E’ FONDAMENTALE IL REFERENDUM ABROGATIVO DELLA LEGGE SULL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA, ARTICOLO DI ALFIERO GRANDI SU SINISTRA SINDACALE.
IL REFERENDUM PER ABROGARE LA LEGGE CALDEROLI SULL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA È OGGETTO DI ATTACCHI SUBDOLI, PER SMINUIRNE LA PORTATA O PEGGIO INSINUARNE L’INUTILITÀ, CHE VANNO CONTRASTATI CON FORZA. E’ UN’INIZIATIVA NECESSARIA, INDISPENSABILE PER BLOCCARE CONSEGUENZE POLITICHE, ISTITUZIONALI, SOCIALI DEVASTANTI PER L’ITALIA.

La legge – già in vigore – rappresenta un pericolo per l’Italia. Ha regalato al Paese un secondo “Porcellum” ed è un pericolo per la possibilità dei cittadini italiani di godere degli stessi diritti (istruzione, salute, ecc.) in qualunque territorio risiedano e di avere le stesse regole per le materie che dovrebbero passare dallo Stato alle Regioni in 21 modi diversi (fino a prefigurare 21 simil staterelli) come reti di comunicazione, energia, ambiente, contratti di lavoro, previdenza, ecc. Un pasticcio per tutti, imprese comprese.
Ad esempio, su ferrovie ed autostrade si ragiona con una visione europea, prefigurando corridoi da un capo all’altro dell’Unione. Perché mai il potere decisionale e di controllo dovrebbe passare alle Regioni, frammentando in Italia quello che in Europa si cerca di rendere unitario? Questo è uno dei poteri che si apprestano a chiedere Veneto e Lombardia.

Il trasferimento di poteri alle Regioni porta con sé personale e soldi per poterli esercitare, ma chi si assumerà il debito pubblico corrispondente alle entrate che mancherebbero allo Stato? Se mancano entrate allo Stato chi ripagherà il debito pubblico italiano?

L’obiettivo delle Regioni richiedenti è di trattenere una parte più consistente delle entrate fiscali, il Veneto ha ipotizzato il 90%. Di più: è prevista una sorta di scala mobile (abolita per i salari) con il ricalcolo annuale delle entrate passate dallo Stato alle Regioni. Quelle che hanno maggiore forza economica avranno a disposizione più risorse di quelle meno forti, che per di più nemmeno potranno contare su un intervento di solidarietà per la differenza. Lo scopo teorico dei Lep è garantire che in tutta Italia i cittadini abbiano gli stessi diritti e le stesse risposte, ma in questo modo è un obiettivo impossibile da realizzare.

Per di più la legge Calderoli prevede che non ci siano nuovi oneri per lo Stato, quindi se alle Regioni più forti andranno più risorse ne mancheranno per le altre. Si passa da una concezione solidale del regionalismo a una divaricazione nei diritti delle persone.
E’ vero ci sono già differenze nei diritti effettivi esigibili dalle persone, tanto che nella sanità ci sono 800mila trasferimenti all’anno dalle regioni più deboli a quelle più forti. Tuttavia, un conto è registrare le differenze e darsi l’obiettivo di superarle, altro è aumentarle ancora di più come avverrà come conseguenza della legge Calderoli, fino a creare di fatto Stati diversi.
La legge è certamente procedurale, tanto è vero che i primi protocolli di pre-accordo nel 2018 fra 3 Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) e il governo furono siglati in assenza di questa legge, ma la loro attuazione per il trasferimento di poteri alle Regioni avrebbe dovuto rispondere alle leggi esistenti, a partire dal ruolo del Parlamento, dalla legge di bilancio, e soprattutto non avrebbero potuto stabilire un meccanismo blindato di approvazione (procedura simile a quella degli accordi tra Stato e confessioni religiose). E, una volta approvati, gli accordi di fatto non sono più modificabili se non con l’accordo del presidente della Regione interessata.
La legge Calderoli mette ai margini della procedura il Parlamento, infatti viene informato poco e male e alla fine può solo dire sì o no all’accordo raggiunto dal presidente del Consiglio e dal presidente della Regione interessata recepito in legge. E’ evidente che in caso di rischio per l’approvazione verrebbe usato il voto di fiducia per imporlo ai parlamentari riottosi.
Inoltre, la commissione paritetica istituita tra governo e Regione ha poteri che scavalcano il Parlamento, il ministro dell’Economia, la Ragioneria dello Stato e gli organi dello Stato che debbono attestare la verità in materia di conti pubblici, come l’Upb e la Banca d’Italia.
Il ministro dell’Economia Giorgetti non avrebbe mai dovuto accettare una procedura che lo vincola con tempi e modi finora sconosciuti a dare un consenso, altrimenti la procedura prevista andrà avanti comunque a conferire funzioni, poteri e soldi alle Regioni differenziate. Questo non è casuale: i presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto sono leghisti, Calderoli pure e Giorgetti anche. Una cordata leghista, che ha poteri enormi sull’attuazione della legge.
Perché Fratelli d’Italia, che nel suo passato ha un’attenzione all’unità nazionale, ha deciso di regalare alla Lega questa legge che esalta le pulsioni secessioniste di alcune regioni del nord? La spiegazione è che la Meloni, pur di ottenere una sorta di surrogato del presidenzialismo, ha fatto un patto di potere con la Lega per avere il premierato in cambio del decentramento dei poteri alle Regioni. Per di più l’elezione diretta del presidente del Consiglio porterebbe ad una drastica riduzione dei poteri del Presidente della Repubblica, per fare posto al nuovo “Capo assoluto”, e ridurrebbe il Parlamento ad un ruolo subalterno al Capo, con un sostegno obbligato all’eletto, dal cui destino dipenderebbe la sua stessa esistenza.
Questa maggioranza di destre divise e diverse regge solo in quanto ha potere da spartire e tre modifiche da realizzare: autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega, premierato voluto da Fratelli d’Italia, separazione delle carriere dei magistrati e deriva securitaria volute da Forza Italia. Un pasticcio istituzionale formidabile e inaccettabile, che stravolgerebbe la Costituzione.
Il referendum per abrogare la legge Calderoli è l’unica via possibile per bloccare un percorso che porterebbe l’Italia sull’orlo della “secessione dei ricchi” e ai margini dell’Europa.
Il quesito referendario è depositato, la raccolta delle firme a sostegno (almeno 500mila) è iniziata. I tempi sono molto stretti, ma ci si può e deve riuscire. Occorre un impegno straordinario entro il 30 settembre, termine ultimo di presentazione delle firme in Cassazione.
Il Parlamento non è riuscito a bloccare l’approvazione di questa legge nefasta. Solo il referendum abrogativo a questo punto può riuscirci. Il percorso parlamentare di opposizione è servito a maturare una consapevolezza politica dei partiti di opposizione sulla necessità di arrivare al referendum abrogativo. A questo punto c’è un importante schieramento sociale e insieme uno schieramento dei partiti di opposizione che convergono sull’obiettivo di abrogare la legge Calderoli. L’abrogazione della legge Calderoli è un obiettivo oggi possibile, necessario, indispensabile.
Il governo deve essere costretto a tenere tutto fermo fino allo svolgimento del referendum e a questo fine sarebbero molto utili i ricorsi delle singole Regioni, già impegnate a promuovere anch’esse il referendum abrogativo, sull’incostituzionalità della Calderoli. Incostituzionalità più volte richiamata nelle argomentazioni delle cinque Regioni per motivare i quesiti referendari che presenteranno. I ricorsi delle singole regioni alla Corte costituzionale “spingerebbero” il governo a fermare tutto fino al voto degli italiani, e darebbero tempo anche a Regioni del Mezzogiorno, guidate dalle destre di riflettere meglio su cosa vorrebbe dire attuare questa legge anziché abrogarla. Ci sono incertezze tra le Regioni, ma questo ricorso sarebbe importante.
Occorre recuperare alla contrarietà l’opinione pubblica del nord. Stefano Fassina ha scritto un volume sulle ragioni che dovrebbero portare proprio i cittadini del nord, non solo quelli del sud, a bocciare questa autonomia differenziata. Non si tratta solo dei sacrosanti principi costituzionali fondamentali che vengono disattesi da una legge che, sotto le mentite spoglie dell’attuazione del 116 e 117, versione 2001, li contraddice e di fatto stravolge la Costituzione.
Sono in discussione gli ideali che hanno portato all’unità dell’Italia, e concretissimi danni attuali che deriverebbero da questa autonomia regionale differenziata anche alle regioni del nord.
La Corte Costituzionale a gennaio si pronuncerà sull’ammissibilità del quesito abrogativo della legge Calderoli. Occorre argomentare bene le ragioni che possono aiutare la Corte a decidere per l’accoglimento del quesito.
Per giustificare la legge Calderoli si è cercato di sminuirne il potere distruttivo che invece sarebbe enorme sulla finanza pubblica, sui tassi, sull’economia nazionale, sui diritti fondamentali dei cittadini – economici e sociali – sulle istituzioni e perfino sullo spirito pubblico dell’Italia. E’ un pericolo enorme per l’Italia, e la sua attuazione avrebbe conseguenze devastanti, difficilmente rimediabili. La Corte dovrà tenerne conto.
Se tutto andrà come è sperabile, bisognerà preparare la campagna referendaria. Ai cittadini viene chiesto di decidere se abrogare o no la legge Calderoli, correggendo la decisione del Parlamento. Questo dovrebbe essere un potente antidoto contro l’astensionismo. Partecipate e decidete, questo è il messaggio.
Le destre probabilmente sceglieranno l’astensionismo. Se lo faranno nelle urne sarà prevalente il “No” e di conseguenza anche il governo arriverebbe rapidamente al capolinea, come è avvenuto nel 2011 con il governo Berlusconi. Non sarà facile, ma è possibile costruire un riscatto politico, un rilancio di partecipazione, che è il migliore antidoto all’astensionismo crescente, alla sfiducia fin troppo diffusa. E ci saranno insieme i quattro referendum abrogativi promossi dalla Cgil per rilanciare i diritti dei lavoratori. Quattro referendum sui diritti di chi lavora e uno contro l’autonomia regionale differenziata possono essere un pacchetto di mobilitazione di tutto rispetto, e tutti chiedono di abrogare leggi sbagliate o parti di esse.
Quindi la risposta per tutti è “Sì”. Una vittoria del “Sì” nei referendum potrebbe provocare anche il blocco degli attacchi alla Costituzione rappresentati dal premierato e dalla separazione delle carriere, e forse un cambiamento sostanziale dello scenario politico.
*(Alfiero Grandi, è un politico e sindacalista italiano. Deputato della Repubblica Italiana. XIII Legislatura – è vice presidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, organismo che svolse un ruolo decisivo per la vittoria)

 

07 – Giovanna Branca*: HARRIS GUARDA A SINISTRA: IL SUO VICE È TIM WALZ – ELETTORALE AMERICANA. IL GOVERNATORE DEL MINNESOTA, EX PROFESSORE DI LICEO, CHE HA DIFESO ABORTO E DIRITTO DI VOTO. HA INVOCATO IL CESSATE IL FUOCO A GAZA E L’ASCOLTO DEI CITTADINI ARABO AMERICANI.

«Weird», strano, strambo. È la parola che ha proiettato il governatore del Minnesota Tim Walz nelle prime linee della campagna elettorale democratica, fino alla scelta di Kamala Harris, ieri, di nominarlo suo vice nella corsa alla Casa bianca. «Non ci piace quel che è successo – aveva detto durante il programma Msnbc Morning Joe criticando le politiche repubblicane – per cui non possiamo neanche andare alla cena del Ringraziamento con nostro zio senza finire in qualche strano litigio». «È la verità, questi tizi sono proprio strani!»
DEFINIZIONE nata per ridimensionare l’aura di malvagia imbattibilità di Donald Trump e i suoi, «weird» è diventata virale sui social, è stata abbracciata dalla campagna elettorale dem, ripresa da Harris e perfino dal rivale più temibile di Walz nella rosa dei candidati alla vicepresidenza, il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro.
La scelta di Walz non è però certo dovuta alla vitalità di una felice trovata linguistica che fa infuriare il Gop («Non siamo weird» si è ridotto a dire di sé e del suo vice Trump), quanto a una scelta di campo desiderata e acclamata in particolare dalla sinistra del partito: si rallegrano Alexandria Ocasio Cortez – «un’ottima scelta» – e Bernie Sanders: «È un ex insegnante, coach di football e grande sostenitore dei sindacati», il presidente della Uaw (United Auto Workers) Shawn Fain lo ha citato come uno dei due favoriti del suo sindacato. Walz ha legiferato in favore di «pasti scolastici gratuiti, congedi familiari e per malattia, legalizzazione della marijuana e la protezione dei diritti riproduttivi», scrive Ilhan Omar su X. Congratulazioni anche da Barack Obama, Joe Biden, Nancy Pelosi e lo stesso centro del partito, fino alla destra: un messaggio di endorsement arriva dall’ex senatore dem, diventato indipendente, Joe Manchin.
NATO E CRESCIUTO in Nebraska, trasferitosi in Minnesota nel 1996, Tim Walz è l’”uomo bianco”, ammantato dall’aura di american dad e di pragmatismo rurale che spunta molte delle caselle di cui la campagna di Harris era evidentemente in cerca – anche se non viene da uno swing state o uno stato rosso: il Minnesota non vota per un presidente repubblicano dal 1972, e sotto il secondo mandato di Walz i democratici hanno conquistato sia il posto di governatore che Camera e Senato statali.
A lungo membro della Guardia nazionale e professore di liceo, Walz si avvicina alla politica già quarantenne: la sua candidatura al Congresso come deputato per un distretto rurale del Minnesota – che ha poi ricoperto per 5 cariche consecutive dopo aver strappato il seggio a un repubblicano – arriva nel 2006. Ex pupillo della National Rifle Association, che lo aveva insignito di una A, ha voltato le spalle alla tutela a oltranza del secondo emendamento dopo il mass shooting di Parkland, nel 2018, e da governatore ha sostenuto i controlli sul passato di chi cerca di acquistare un’arma. Ora la Nra «mi da delle F, e il mio sonno non ne è minimamente danneggiato», ha detto in un’intervista Walz.
«IL PIÙ GRANDE onore della mia vita», ha definito ieri la scelta di Harris. Che fino all’ultimo si pensava destinata ad appuntarsi su Shapiro (da cui è arrivato immediato l’endorsement per Walz): non è un dato di secondo piano che l’aspirante vice più vicino a Israele sia infine stato scartato, e non può che indicare un tentativo di avvicinamento alla comunità arabo americana che stava voltando le spalle al partito per il sostegno del governo alla guerra a Gaza. In merito, Walz non ha mai detto molto, ma si è schierato per il cessate il fuoco e ha invitato l’amministrazione Biden a prestare ascolto alla preoccupazione dell’ampia cittadinanza arabo americana di Minneapolis: durante le primarie democratiche, il Minnesota aveva espresso il 19% dei voti uncommitted – il voto di protesta contro il massacro nella Striscia – una percentuale perfino superiore al Michigan.
DURANTE il primo mandato di Walz da governatore, il suo Minnesota è stato teatro della miccia che ha catapultato Black Lives Matter sulla scena nazionale e globale: l’omicidio a Minneapolis di George Floyd. La destra critica Walz per non aver subito mobilitato la Guardia nazionale contro i manifestanti, la sinistra è giustamente più scettica del fatto che la Guardia nazionale sia stata infine chiamata a sedare con la forza la rabbia della cittadinanza per l’omicidio di un uomo inerme le cui ultime parole – I can’t breathe – sono rimaste scolpite nella storia del razzismo americano. Come nota The Intercept, anche l’approccio di Walz al movimento per la riforma della polizia e la giustizia innescato da Blm è stato ambivalente: a gennaio dell’anno scorso ha sostenuto il sindacato di polizia nella difesa dell’agente che aveva ucciso un altro uomo nero, Ricky Cobb II, dopo un fermo per una violazione stradale.
Dopo aver agevolmente rivinto la carica di governatore nel ’22, Walz si è però fatto campione di importanti misure progressiste, dalla protezione del diritto all’aborto alla tutela dell’accesso al voto; ha varato misure contro il cambiamento climatico e in favore dei migranti (una sua legge consente alle persone senza documenti di avere la patente).
IN CASO DI VITTORIA democratica a novembre, a rimpiazzare Walz alla guida del Minnesota sarà la sua vice Peggy Flanagan, della tribù degli Ojibway, che diventerebbe la prima nativa americana a ricoprire la carica di governatrice.
Le reazioni repubblicane che dipingono Tim Walz come un pericoloso «estremista di sinistra in stile San Francisco» (JD Vance) non si sono fatte attendere. Il suo diretto rivale Vance ha anche detto di avergli lasciato un messaggio di congratulazioni in segreteria. Intanto la campagna Trump dichiara ai quattro venti che una presidenza Harris/Walz «scatenerebbe l’inferno sulla terra». Weir
*( fonte: Il Manifesto – Giovanna Branca, giornalista)

 

08 – Mario Pianta*: COMMENTI UN MESSAGGIO AI GIOVANI: ANDATEVENE – SOTTO SCACCO. IN AUTUNNO RISCHIAMO DI TROVARE UN’UNIVERSITÀ MENO FINANZIATA, MENO CAPACE DI FAR CRESCERE LE COMPETENZE DEI GIOVANI, PIÙ GERARCHIZZATA.
AL RIENTRO DALLE VACANZE STUDENTI E PROFESSORI TROVERANNO LE UNIVERSITÀ CAMBIATE. UN MESE FA UN DECRETO HA TAGLIATO 513 MILIONI IN CORSO D’ANNO, IN PARTICOLARE LE SPESE NON VINCOLATE, SOLLEVANDO LE PROTESTE DELLA CONFERENZA DEI RETTORI (CRUI) E DEL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE (CUN).

Ieri il governo ha approvato un disegno di legge che cambia profondamente le figure previste per i giovani ricercatori e per i docenti esterni. A fare ricerca (e, spesso, lezione) potranno esserci neolaureati magistrali (assistenti di ricerca junior), neodottorati (assistenti di ricerca senior), contrattisti post-doc (che rimpiazzano gli attuali assegnisti di ricerca), mentre resta congelato il contratto di ricerca che offriva tutele e remunerazioni dignitose, a costi maggiori per gli atenei. Per di più, i corsi universitari potranno avere come docenti «professori aggiunti»: esperti esterni incaricati direttamente dai rettori.
Il disegno di legge lascia grande incertezza – forse in attesa di verificare le reazioni che verranno – sulle procedure di selezione, sui compensi e sulle regole. Altri interventi sono stati annunciati dalla ministra Anna Maria Bernini, che ha ricevuto nei mesi scorsi un’ampia delega per la riforma dell’università all’interno del disegno di legge «Semplificazione». Molte cose potranno ancora cambiare prima della riapertura.

DECRETO OMNIBUS: MANCE A PIOGGIA, I NODI A SETTEMBRE
Le misure prese finora dal governo si scontrano con tre nodi di fondo. I

L PRIMO È IL SOTTOFINANZIAMENTO strutturale dell’università e della ricerca in Italia. Il «Tavolo tecnico» insediato dal governo Draghi due anni fa chiedeva di stabilizzare la ricerca pubblica allo 0,75% del Pil, sfiorato nel 2023 grazie ai finanziamenti straordinari e temporanei del Pnrr. Da quest’anno, con il Pnrr ancora in piedi, stiamo scivolando indietro, in un quadro europeo in cui siamo tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati sulla forza lavoro.

LA SECONDA QUESTIONE è la moltiplicazione del precariato. Le nuove figure coinvolgono già i neolaureati in forme di collaborazione poco precisate e trasparenti, ampliano le modalità con cui si si prolunga il limbo della ricerca instabile. Tutto ciò va a complicare una situazione già difficile: nel 2022 c’erano in Italia 12mila ricercatori a tempo determinato (A e B) e 19mila assegnisti: il 40% di tutto il personale di ricerca. Si è scelto di infittire il sottobosco del precariato, anziché offrire prospettive di crescita professionale ai giovani che tengono in piedi le attività universitarie, ed evitare la «fuga dei cervelli», visto che in un decennio 15mila giovani ricercatori italiani hanno trovato lavoro all’estero.
Per di più tra il 2022 e il 2027 c’è il pensionamento del 18% dei professori ordinari e associati: senza un piano adeguato di nuovi concorsi, c’è un rischio concreto di svuotamento degli atenei, sostituendo magari i docenti con «professori aggiunti» pescati dall’esterno.

LA TERZA CONTRADDIZIONE riguarda l’enfasi sul merito e sulla valutazione della qualità della ricerca che ha segnato gli ultimi 15 anni delle politiche universitarie, a partire dall’Abilitazione scientifica nazionale, che ha orientato fortemente le traiettorie professionali dei giovani ricercatori. Tutto questo ora sembra dimenticato: le forme di reclutamento – sia dei nuovi precari della ricerca, sia dei «professori aggiunti» – prevedono di evitare in molti casi i concorsi. In cattedra potremmo avere sempre più persone scelte dai vertici degli atenei, ma che non sono passate attraverso alcuna verifica delle loro competenze.
In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata tra grandi atenei, premiati dai fondi speciali da un lato, e, dall’altro, le università piccole e periferiche, colpite dai tagli e indebolite dal calo delle iscrizioni. È anche questa – a modo suo – una riforma delle istituzioni del paese che ci allontana dai maggiori paesi europei, aggrava i divari interni, riduce gli spazi di mobilità e partecipazione sociale.
*( Mario Pianta è Professore Ordinario di Politica Economica presso la Scuola Normale Superiore, Classe di Scienze Politico-Sociali di Firenze, ..)

 

09 – Claudia Fanti*: SEI DEPUTATI DI MILEI IN VISITA AI TORTURATORI DELLA DITTATURA. ARGENTINA. L’OBIETTIVO È FAR USCIRE DAL CARCERE GLI ASSASSINI DELLA DITTATURA MILITARE. L’IRA DELLE OPPOSIZIONI: VANNO ESPULSI DAL PARLAMENTO.

TUTTI IN POSA PER LO SCATTO, DEPUTATI DI «LA LIBERTAD AVANZA» DI MILEI E GENOCIDI DELLA DITTATURA MILITARE. È LA FOTO DELLO SCANDALO, QUELLA DELLA VISITA – OGGETTO DI UNA DENUNCIA PENALE – ALLA UNIDAD 31 DEL CARCERE DI EZEIZA REALIZZATA DA SEI DEPUTATI CON UN OBIETTIVO SPECIFICO: CERCARE IL MODO DI FAR TORNARE A CASA QUANTI SONO STATI CONDANNATI PER AVER SEQUESTRATO, TORTURATO, ASSASSINATO, FATTO SPARIRE E SOTTRATTO FIGLI ALLE VITTIME.
Dall’ultima fila sorride Alfredo Astiz, lo stesso che ad Alicia Milia, sequestrata e condotta alla Esma il 28 maggio del ’77, parlava dei vantaggi dei voli della morte: «Da quell’altezza l’acqua si trasforma in una lastra d’acciaio e l’impatto stesso sfracella i corpi. E quello che resta se lo mangiano le orche».
VICINO A LUI si trova Raúl Guglielminetti, membro del famigerato Battaglione di intelligence 601, che avrebbe consegnato al deputato Beltrán Benedit, l’organizzatore dell’incontro, un documento con «idee per gli arresti domiciliari», secondo quanto è riuscita a osservare la deputata Rocío Bonacci, l’unica che non ha voluto farsi immortalare nella foto di gruppo con repressori.
Compaiono invece nello scatto sia Antonio Pernías, uno dei criminali della Esma, che Marcelo Cinto Courtaux, membro dell’intelligence dell’esercito, il cui figlio è stato consigliere della vicepresidente Victoria Villarruel quando era ancora una deputata.
Non è stata questa l’unica visita. Come ha dimostrato il quotidiano Página 12, già il 15 marzo Benedit e Alida Ferreyra Ugalde avevano incontrato i genocidi della Unidad 34 di Campo de Mayo – un carcere vip per criminali in uniforme, con celle spaziose e campi da tennis -, tra i quali trascorre non troppo spiacevolmente il suo tempo anche Christian Federico Von Wernich, cappellano della polizia di Buenos Aires condannato all’ergastolo per l’assassinio di sette persone e per più di 40 sequestri.
Una settimana prima, il ministro della difesa Luis Petri aveva inviato nello stesso carcere due suoi funzionari, il sottosegretario Guillermo Madero e il direttore nazionale per i Diritti umani Lucas Erbes, i quali si sarebbero portati via la bozza di un decreto per la prescrizione dei crimini commessi durante gli anni della dittatura, in aperta contraddizione con l’attuale giurisprudenza.
Per il governo, tuttavia, c’è anche un piano B: quello della concessione degli arresti domiciliari, come chiedono a gran voce la ministra della sicurezza Patricia Bullrich e il ministro della giustizia Mariano Cúneo Libarona, secondo il quale i macellai della dittatura meriterebbero di «morire tenendo per mano la moglie». «Stiamo calpestando il criterio della dignità umana e questo si traduce non in giustizia ma in vendetta», ha spiegato il ministro.
E PAZIENZA se, come ha spiegato il procuratore Miguel Palazzani, in prigione siano rimasti ben pochi – l’80% è già ai domiciliari – e nessuno con più di 90 anni o con malattie in fase terminale, come invece è convinta Bullrich.
Dure reazioni sono venute dalla coalizione progressista «Unión por la patria», che chiede non solo una commissione di inchiesta sulla visita, ma anche l’espulsione dei sei deputati. E a dar loro ragione è anche la madre di Piazza di Maggio Taty Almeida: «Questi sei individui non possono continuare a rappresentare il popolo».
Che il clima sia grave lo dimostra, del resto, anche l’assassinio avvenuto sabato di Susana Beatriz Montoya, vedova di un desaparecido della dittatura e madre di un militante di Hijos di Córdoba: «Vi uccideremo tutti. Adesso andiamo a prendere i tuoi figli», era scritto su una delle pareti della casa.
*( Claudia Fanti: Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate.)

 

 

 

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