n°03 – 20/01/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ESTERO

01 –La Marca* (PD) – Interrogazione alla Ministra Calderone sulla mancata erogazione della pensione agli italiani in Nord America–
02 – Giovanni De Mauro*: Spietato. Intervistato dal Guardian alla vigilia della lunga campagna elettorale statunitense che rischia di riportare alla presidenza Donald Trump, il senatore democratico Bernie Sanders è sconsolato
03 – Michele Giorgio*: Cento giorni, i morti per strada e i vivi in fila ai camion di aiuti – GAZA/ISRAELE. Tre mesi di guerra, 23.843 palestinesi uccisi.
04 – Andrea Valdambrini*: mille organizzazioni con il Sudafrica. L’Europa si spacca in due non solo gli stati. Tante realtà a sostegno del processo a l’aja. Spagna, Belgio e Irlanda le voci più critiche verso tel aviv. Ma per ora non aderiscono
05 – Luca Celada*: LOS ANGELES I sindacati statunitensi schierati per il cessate il fuoco. STATI UNITI. United auto workers, postali, elettricisti, docenti: «È ora che i nostri leader ci ascoltino e facciano ciò che serve per porre fine alla violenza»06 – Dal mondo.
07 – Israele boccia la proposta di Washington di creare uno stato palestinese. Un bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza, il 18 gennaio 2024. – Jack Guez, AfpUn bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza, il 18 gennaio 2024.(*)
08 – Massimo Villone*: Sull’autonomia la maggioranza trucca le carte. I LAVORI AL SENATO. Il 10 gennaio 2024 meriterà un richiamo speciale nella storia dell’autonomia differenziata. Le opposizioni hanno proposto di invertire l’ordine del giorno anteponendo la trattazione del disegno di legge di iniziativa […]
09 – Contro i progetti autoritari è tempo di nuovo antifascismo(*) . Giorgia Meloni ha confermato la volontà di procedere speditamente nella direzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio e in quella dell’autonomia differenziata
10 – Aldo Moro, tutta la dietrologia mistero per mistero(*)
11 – Lamperti*: Taipei. Taiwan, l’indipendentista Lai vince la presidenza e perde il parlamento
VITTORIA AGRODOLCE. Vota l’isola che Pechino rivuole e la parola d’ordine è «status quo»: il cerchio del Partito progressista e la botte del potente vicino Cina
12 – Massimo Teodori*: Primarie Usa, si parte. cosa sono e perché si tengono: un po’ di storia.
13 – Marco Bascetta*: Contro i progetti autoritari è tempo di nuovo antifascismo. Schlein «Meloni? Subisce il ricatto del suo passato».
14 – Emanuele Giordana*: Cina che c’era, Cina che – REPORTAGE. Nel Triangolo d’oro sono sparsi avamposti cinesi. E se il vecchio villaggio del Kuomintang non fa più oppio ma caffè, la Las Vegas dei nuovi tycoon di nome Kings Romans produce davvero di tutto.

 

01 –La Marca* (PD) – INTERROGAZIONE ALLA MINISTRA CALDERONE SULLA MANCATA EROGAZIONE DELLA PENSIONE AGLI ITALIANI IN NORD AMERICA.
Roma, 19.01.2024 – In queste ore, la Sen. La Marca ha depositato un’interrogazione a risposta scritta alla Ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Calderone per invitarla a spiegare i motivi dei ritardi nell’erogazione dei ratei della pensione a molti italiani residenti in Nord America. Molti gli esponenti di spicco del Partito Democratico che hanno sottoscritto l’interrogazione come i Senatori Furlan, Delrio, Malpezzi.
“Ho ritenuto necessario interrogare la Ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maria Elvira Calderone, in merito ai malfunzionamenti di INPS nel servizio di erogazione delle pensioni agli italiani residenti in Nord America. Numerose sono state le richieste, pervenute al mio ufficio negli scorsi mesi, che lamentano la mancata ricezione di molteplici mensilità arretrate”, dichiara la Senatrice La Marca.
“Nonostante le sollecitazioni – continua la Senatrice – non abbiamo ricevuto risposta dai funzionari di INPS delle sedi presenti nei comuni di riferimento per gli iscritti AIRE, responsabili di questo tipo di pratiche. La situazione è grave e riguarda, per lo più, persone anziane che per la maggior parte delle volte non hanno la possibilità di adoperarsi in prima persona per risolvere le incongruenze. Il servizio di assistenza non è adeguato e dimostra una scarsa attenzione anche ai tanti patronati attivi sul territorio. Serve una risposta rapida da parte del Ministero – conclude la Senatrice – che metta quest’ultimi nella condizione di poter offrire un servizio adeguato e valorizzi la comunità dei pensionati residenti all’estero”
*( La Marca , senatrice del (PD)

 

02 – Giovanni De Mauro*: SPIETATO. INTERVISTATO DAL GUARDIAN ALLA VIGILIA DELLA LUNGA CAMPAGNA ELETTORALE STATUNITENSE CHE RISCHIA DI RIPORTARE ALLA PRESIDENZA DONALD TRUMP, IL SENATORE DEMOCRATICO BERNIE SANDERS È SCONSOLATO.
“Stiamo affrontando una serie di crisi senza precedenti. Il clima: non sappiamo se riusciremo a ridurre le emissioni di carbonio per garantire un pianeta abitabile ai nostri nipoti. La crescita dell’oligarchia: un piccolo numero di uomini molto ricchi controlla la vita economica e politica di miliardi di persone. La democrazia: è gravemente minacciata da quelli che sfruttano le paure della gente”. Fino a poco tempo fa, osserva il Guardian, Sanders era preso in giro per i suoi discorsi. Oggi nessuno ride più di lui. Due guerre, una catastrofe umanitaria a Gaza, grandi aree del Nordamerica in fiamme, la crescita impressionante delle disuguaglianze. Come ha scritto il New Yorker, “la realtà è dalla parte di Bernie Sanders”. E anche l’ultimo rapporto di Oxfam. La ricchezza dei miliardari è cresciuta in tre anni di 3.300 miliardi di dollari in termini reali, un aumento del 34 per cento rispetto all’inizio del decennio, con un tasso di crescita tre volte superiore all’inflazione. Invece gli stipendi di quasi 800 milioni di lavoratori in 52 paesi sono diminuiti in termini reali di 1.500 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022, quasi uno stipendio mensile in meno per ogni lavoratore. Entro dieci anni potrebbe esserci il primo essere umano ad avere mille miliardi di dollari. Ai ritmi attuali ci vorrebbero invece più di due secoli per portare l’incidenza della povertà sotto l’1 per cento. Secondo Oxfam, mentre i cinque uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato la loro ricchezza dal 2020, cinque miliardi di persone sono diventate ancora più povere. Commentando proprio questi numeri, Sanders ha citato Martin Luther King Jr: “Spesso in America abbiamo il socialismo per i ricchi, e lo spietato capitalismo d’impresa per i poveri”.
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*(Giovanni De Mauro, direttore rivista Internazionale)

03 – Michele Giorgio*: CENTO GIORNI, I MORTI PER STRADA E I VIVI IN FILA AI CAMION DI AIUTI – GAZA/ISRAELE. TRE MESI DI GUERRA, 23.843 PALESTINESI UCCISI.
L’ONU DENUNCIA LE CONDIZIONI ORRIBILI DI GAZA. IN ISRAELE LE FAMIGLIE DEGLI OSTAGGI CHIEDONO IL LORO RILASCIO. A TEL AVIV MANIFESTAZIONE PER LE DIMISSIONI DI NETANYAHU

Quando le raffiche e le esplosioni si placano e solo il ronzio dei droni rompe il silenzio delle macerie di Gaza, i pazienti in grado di camminare provano a lasciare l’ospedale Al Aqsa, nel centro della Striscia sotto attacco. È rischioso, devono attraversare una zona di guerra proclamata dall’esercito israeliano. Eppure, lo fanno perché sono disperati. Monther Abu Their è riuscito ad allontanarsi quattro giorni fa. «Dentro l’ospedale non mi sentivo sicuro, le esplosioni erano sempre più vicine. Mi sono armato di coraggio e sono uscito. Ho camminato temendo di essere colpito da una raffica. Dio mi ha protetto e sono riuscito a raggiungere senza danni un gruppo di persone», ha raccontato Abu Their a un giornalista palestinese. Nell’ospedale Al-Aqsa non c’è più energia elettrica, i generatori autonomi sono fermi e l’assistenza a feriti e ammalati è minima. «È molto rischioso per i pazienti che stanno cercando di andarsene», ha spiegato il dottor Tareq Abu Azzoum alla tv Al Jazeera «l’ospedale si trova in un’area considerata una zona di battaglia». Azzoum ha aggiunto che le forze israeliane si sono posizionate a poche centinaia di metri dalla struttura sanitaria mentre cercano di prendere il pieno controllo della superstrada Salah al-Din che attraversava tutta Gaza prima di essere distrutta in più punti dai bombardamenti aerei e dal passaggio di bulldozer e carri armati. Simile a quella dell’ospedale Al Aqsa è la situazione al Nasser di Khan Yunis. Filmati diffusi dall’agenzia Reuters mostrano pazienti sdraiati su barelle nei corridoi dell’ospedale e medici che utilizzano i telefoni cellulari per illuminare i pazienti. «Non abbiamo più posti letti. I medicinali all’interno del pronto soccorso sono insufficienti. Stiamo cercando di trovare alternative» ha avvertito il dottor Mohammed al Qidra.
Parole che contrastano con la versione del «rispetto dei civili e delle leggi umanitarie internazionali a Gaza» data dall’esercito israeliano ripetuta decine di volte in questi giorni dai rappresentanti ufficiali israeliani in occasione del procedimento alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia che vede lo Stato ebraico accusato di genocidio. Venerdì notte 13 persone, tra cui una bimba di due anni, sono morte in un attacco aereo contro due case a Rafah. Bassem Arafeh, un parente, mostrando la foto di una bambina, ha detto che le famiglie stavano cenando al momento del raid. «Questa bambina aveva fame, è morta mentre mangiava un pezzo di pane senza niente sopra, dov’è la Corte internazionale di Giustizia quando muoiono i nostri bambini? Dove sono i musulmani…e i leader mondiali?», ha domandato Arafat rivolgendosi a giornalisti locali. L’esercito israeliano ha comunicato che ieri le sue forze hanno ucciso decind di combattenti di Hamas e altri gruppi armati a Khan Younis e nel centro di Gaza. Da parte sua il movimento islamico ha detto di aver sparato contro un elicottero militare nel sud di Gaza. Scontri a fuoco, cannonate e attacchi aerei anche nei campi profughi di Al Bureij, Al Nusseirat e Al Maghazi. Testimoni palestinesi hanno raccontato che un missile israeliano è esploso a pochi metri da un autobus. Più di 20 vittime nel nord di Gaza, a Beit Lahiya e nel quartiere di Daraj a Gaza City.

IL MINISTERO DELLA SANITÀ DI GAZA HA RIFERITO DI 135 PALESTINESI UCCISI E 312 FERITI TRA VENERDÌ E SABATO. IN TOTALE DAL 7 OTTOBRE I MORTI SONO 23.843.
Non lascia spazio alle interpretazioni il resoconto fatto venerdì sera all’Onu dal sottosegretario generale per gli affari umanitari e aiuti d’emergenza Martin Griffiths. «La campagna israeliana a Gaza è stata condotta quasi senza alcun riguardo per l’impatto sui civili» ha denunciato il funzionario dell’Onu aggiungendo che i palestinesi potrebbero non essere in grado di tornare nel nord di Gaza raso al suolo in gran parte dai bombardamenti. «Il sistema sanitario è al collasso. Le donne non sono in grado di partorire in sicurezza. I bambini non possono essere vaccinati. I malati e i feriti non possono ricevere cure. Le malattie infettive sono in aumento. E le persone cercano rifugio nei cortili degli ospedali» ha riferito. Poi Griffiths, citando il personale delle Nazioni unite che ha visitato la parte settentrionale di Gaza, ha descritto la situazione come «orribile», con corpi abbandonati nelle strade e persone affamate che fermano i camion per chiedere cibo e generi di prima necessità. Ha sottolineato infine che i centri di accoglienza dell’Onu sono stracolmi e che acqua e cibo stanno per finire.
In Cisgiordania almeno 10 giovani palestinesi sono stati feriti e cinque arrestati durante un assalto di reparti militari israeliani al campo di Al-Faraa, durato diverse ore. Rastrellamenti e arresti sono avvenuti nella zona di Hebron dopo l’assalto a un avamposto coloniale tentato da tre giovani palestinesi, tutti uccisi dai militari.
Da parte israeliana si sottolinea che siamo a 100 giorni dal sequestro di circa 240 ostaggi da parte di Hamas e altri gruppi palestinesi. Oltre 130 di questi ostaggi restano prigionieri a Gaza e le famiglie e le autorità israeliane hanno organizzato manifestazioni e sit-in di solidarietà in tutto il paese per chiedere la loro liberazione. Hamas avrebbe accettato che la Croce Rossa consegni agli ostaggi israeliani i medicinali di cui hanno bisogno. A Tel Aviv alcune migliaia di persone riunite ieri sera in Piazza Habima hanno chiesto le dimissioni immediate del premier Netanyahu e del suo governo.
*( Michele Giorgio, GERUSALEMME, giornalista, da anni vive in Medio oriente da dove è del quotidiano il manifesto. Per Alegre ha pubblicato nel 2012 Nel baratro)

 

04 – Andrea Valdambrini*: MILLE ORGANIZZAZIONI CON IL SUDAFRICA. L’EUROPA SI SPACCA IN DUE NON SOLO GLI STATI. TANTE REALTÀ A SOSTEGNO DEL PROCESSO A L’AJA. SPAGNA, BELGIO E IRLANDA LE VOCI PIÙ CRITICHE VERSO TEL AVIV. MA PER ORA NON ADERISCONO RONALD LAMOLA (C), MINISTRO DELLA GIUSTIZIA DEL SUD AFRICA, E VUSIMUZI MADONSELA (D), AMBASCIATORE SUDAFRICANO NEI PAESI BASSI, PRESSO LA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA (ICJ), PRIMA DELL’UDIENZA SUL CASO DI GENOCIDIO CONTRO ISRAELE IN SUD AFRICA, A L’AIA, L’ 11 GENNAIO – REMKO DE WAAL /ANSA

PIÙ DI MILLE ORGANIZZAZIONI, PARTITI, SINDACATI E MOVIMENTI IN TUTTO IL MONDO CHE HANNO ESPRESSO IL LORO SOSTEGNO AL SUDAFRICA NELLA CAUSA INTENTATA CONTRO ISRAELE ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA DE L’AJA (ICJ). LE ORGANIZZAZIONI SI ESPRIMONO ATTRAVERSO UN APPELLO CONGIUNTO AI PAESI CHE NON APPOGGIANO LA RICHIESTA DI PRETORIA PER «DARE FORZA ALLA DENUNCIA FORMULATA CON FORZA E CON BUONE ARGOMENTAZIONI».

È questo «il modo per assicurare che ogni azione di genocidio venga fermata e i responsabili possano essere assicurati alla giustizia», si legge nel testo firmato da sigle americane come il MalcolmX Center, britanniche come la Human Righs Commission e il Critical Studies of Zionism, ma anche spagnole, belghe, francesi e tedesche.
E non manca l’adesione di un gruppo sudafricano come il South African Jews for Free Palestine (Sajfp). Per l’Italia – defilata, almeno nei numeri – aderiscono Medicina democratica, l’Associazione di amicizia Italia-Cuba e la sezione nazionale della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf).
FORMALMENTE, l’azione all’Aja del governo sudafricano è stata appoggiata dai 57 paesi dell’Organizzazione di Cooperazione islamica – che comprende l’Egitto, ma anche l’Albania – così come Turchia, Bolivia, Malaysia, Maldive, Namibia e Pakistan. Più complicato il discorso sui paesi europei, sia intesi singolarmente, che come stati membri dell’Ue.
Ma tra i 27 i distinguo non sono mancati. Al gruppo dei pro-Israele senza se e senza ma, guidato da Berlino, ha fatto da controcanto un’azione diplomatica di segno opposto portata avanti da Spagna e Belgio, i due paesi che hanno ricoperto l’incarico di presidenza rotante del Consiglio dei ministri Ue nell’ultimo semestre dello scorso anno (Madrid) e in quello attuale (Bruxelles).
Nel caso spagnolo è arrivato martedì scorso dalla leader di Podemos Ione Belarra un invito a Pedro Sanchez a sostenere il «coraggio» del Sudafrica nella causa all’Aja: una lettera ufficiale a governo e ministro degli esteri di Madrid e l’annuncio di una richiesta di dibattito parlamentare. D’altronde il premier socialista spagnolo non ha mancato in passato di criticare duramente il governo Netanyahu per il mancato rispetto del diritto internazionale.
Ancora più dirette le parole di Petra de Sutter, vicepremier belga ed esponente dei Verdi, che ha dichiarato di volersi spendere nel governo – di ampia coalizione a sette partiti, guidato dal liberale Alexander De Croo – per schierarlo dalla parte del Sudafrica contro la minaccia di genocidio. In precedenza, De Sutter aveva sostenuto la necessità di boicottare Tel Aviv, anche imponendo sanzioni commerciali e sottolineando come «bombardare Gaza a pioggia è disumano, ma Israele ignora con tutta evidenza qualsiasi richiesta di cessate il fuoco».
È POLEMICA invece in Irlanda, tradizionalmente sostenitore della causa palestinese, dove il premier Leo Varadkar, leader del partito liberal-conservatore Fine Gael, ha escluso che Dublino possa appoggiare Pretoria alla Corte dell’Aja, sottolineando la necessità di usare con cautela il termine «genocidio».
Ragion per cui, diversi partiti di opposizione della sinistra, tra cui Sinn Fein e Labour Party lo hanno accusato di «inaccettabile assenza di coraggio». A nulla sembra valsa però la loro protesta, né l’editoriale apparso mercoledì scorso sul quotidiano Irish Times, dalle cui colonne il professor Maeve O’Rourke, del Centro per i Diritti umani dell’Università di Galway ha scritto: «I nostri rappresentanti politici dovranno rendersi conto del fatto che l’Irlanda è tenuta ad agire come stato firmatario della Convenzione sul Genocidio» (trattato internazionale adottato dalle Nazioni unite nel 1948, ndr). «Sua responsabilità è quella di proteggere i diritti delle persone», ha concluso riferendosi alla disastrosa situazione umanitaria di Gaza.
*( Andrea Valdambrini. Gestione Dei Conflitti, Mediazione, and Educazione..)

 

05 – Luca Celada*: LOS ANGELES I SINDACATI STATUNITENSI SCHIERATI PER IL CESSATE IL FUOCO. STATI UNITI. UNITED AUTO WORKERS, POSTALI, ELETTRICISTI, DOCENTI: «È ORA CHE I NOSTRI LEADER CI ASCOLTINO E FACCIANO CIÒ CHE SERVE PER PORRE FINE ALLA VIOLENZA»
Il mese scorso una dozzina di sindacati hanno firmato una petizione presentata a Washington per chiedere che l’amministrazione Biden si impegnasse per un cessate il fuoco. Nel documento presentato congiuntamente dalle parlamentari Cori Bush e Rashida Tlaib, si leggeva che i membri dei sindacati americani partecipavano al cordoglio per lo spargimento di sangue in Israele e Gaza. «Esprimiamo la nostra solidarietà con tutti i lavoratori, nel comune desiderio di pace e chiediamo al presidente Biden ed al Congresso di impegnarsi per una fine immediata all’assedio di Gaza, nella consapevolezza che non è possibile raggiungere la pace attraverso le bombe». Oltre alle parlamentari che avevano presentato un disegno di legge con lo stesso obbiettivo, hanno aderito i metalmeccanici della Uaw, elettricisti e postali, insegnanti e docenti universitari, ospedalieri, operatori turistici e molte altre categorie ancora. Era il 14 dicembre e la macabra conta delle vittime palestinesi era giunta a quota 18.700.
UN MESE DOPO, sono passati i 100 giorni di guerra e alle quasi 1200 vittime provocate dall’attacco di Hamas in Israele, si sono aggiunti 31.497 morti a Gaza e nei territori della Cisgiordania. Le adesioni alla petizione hanno superato quota 4.000 fra sindacati, sezioni locali e firmatari individuali (una cospicua eccezione rimane, per ora, la principale confederazione, Afl-Cio). Nel frattempo, Biden ha, a più riprese, espresso disapprovazione verso le azioni del governo Netanyahu. Come riportato dal sito Axios citando una fonte dell’amministrazione il presidente avrebbe espresso «immensa frustrazione» e starebbe «finendo la pazienza» con la politica israeliana. Non abbastanza apparentemente per desistere dalla continuata fornitura di armamenti. Il sostegno sul campo e dagli scranni dell’Onu è a sua volta fonte di crescente disapprovazione all’interno del partito democratico, in particolare nell’ala progressista e fra i più giovani – segmenti cruciali della coalizione di cui il presidente ha bisogno per sperare di poter essere rieletto.

PER QUELLE PROSPETTIVE, inoltre, i sindacati hanno un peso specifico fuori misura, anche dal punto di vista organizzativo. Il movimento labor l’anno scorso ha vissuto un momento di particolare fermento e successo, con importanti vertenze vinte dai creativi di Hollywood, dai metalmeccanici di Detroit e numerose altre categorie. Per Biden, autoproclamato presiedente «più filo sindacale di sempre», che a settembre era sui picchetti della Uaw in solidarietà con gli operai in sciopero, la pressione per la pace da parte dei sindacati potrebbe essere particolarmente determinante. A dicembre, Shawn Fain, presidente della Uaw, aveva definito i sindacati «una testa di ponte per la lotta ad ogni forma di odio, fobia, razzismo, sessismo, antisemitismo, omofobia ed islamofobia». «È ora che i nostri leader politici ci ascoltino e facciano il necessario per porre fine alla violenza». «Noi lavoratori stiamo indirettamente finanziando l’assistenza militare del nostro paese alla campagna di terrore di Israele», ha aggiunto Janvi Madhani, della United Electrical Workers. «È ora di unire le nostre forze – ed i nostri voti – in solidarietà incondizionata con la causa della libertà palestinese».
STANDO ai sondaggi, negli Usa si registra una chiara maggioranza a favore di un cessate il fuoco e di persone che auspicano un ruolo imparziale del paese a favore della pace, anziché il sostegno incondizionato ad Israele proclamato dal presidente all’indomani del 7 ottobre. Si moltiplicano anche le mozioni in questo senso votate da numerose municipalità, fra cui Detroit, Atlanta, Chicago, Denver, San Francisco e Minneapolis.
Per contrastare un’opinione pubblica poco caratteristicamente «sfavorevole», organizzazioni pro-Israele come Aipac (American Israel Public Affairs Committee) hanno annunciato contributi per 100 milioni di dollari agli avversari di esponenti progressisti come Bush, Tlaib ed Ocasio Cortez. Più in generale la controffensiva si basa sull’equiparazione di opposizione alla guerra e antisemitismo, una campagna attivamente promossa da organizzazioni filo-israeliane come la Adl (Anti Defamation League) per sopprimere l’opposizione, specie sui campus universitari. Il caso più eclatante in questo senso è stata l’udienza parlamentare costata il posto alle rettrici di UPenn ed Harvard ritenute troppo indulgenti nei confronti dell’antisemitismo (categoria in cui viene fatta rientrare ogni espressione di resistenza popolare palestinese).
Nella dichiarazione dei sindacati, si legge invece che tutte le parti «devono attenersi alla legge internazionale ed alla convenzioni di Ginevra per quanto riguarda la sicurezza dei civili».
*(Internazionale. Luca Celada, LOS ANGELES. Correspondent/staff writer at il Manifesto. Il Manifesto/Alias UCLA)

 

06 – DAL MONDO.
A TAIWAN il Partito democratico progressista ha vinto un terzo mandato consecutivo e Lai Ching-te, vicepresidente uscente, sarà il nuovo presidente. Lai ha ottenuto il 40 per cento dei voti e il suo partito ha perso la maggioranza in parlamento.
IL PAKISTAN ha colpito degli obiettivi terroristici sul territorio iraniano dopi che Teheran aveva attaccato due basi di un gruppo di miliziani islamisti nella provincia pachistana del Belucistan. Dov’è e cos’è il Belucistan, l’explainer del Guardian.
Le due parti vogliono far calare la tensione.
IN INDIA gli estremisti induisti hanno protestato contro un film di una casa di produzione nazionale uscito su Netflix ritenuto offensivo per la loro religione. La casa di produzione hanno ritirato lungometraggio e la piattaforma l’ha reso indisponibile.

07 – ISRAELE BOCCIA LA PROPOSTA DI WASHINGTON DI CREARE UNO STATO PALESTINESE. UN BOMBARDAMENTO ISRAELIANO SULLA STRISCIA DI GAZA, IL 18 GENNAIO 2024. – JACK GUEZ, AFPUN BOMBARDAMENTO ISRAELIANO SULLA STRISCIA DI GAZA, IL 18 GENNAIO 2024.

Il 19 gennaio l’esercito israeliano ha condotto massicci bombardamenti sulla Striscia di Gaza, uccidendo secondo le autorità di Hamas quasi ottanta palestinesi, mentre s’intensificano i combattimenti nella città meridionale di Khan Yunis.(*)
L’esercito israeliano è infatti convinto che molti leader di Hamas si nascondano a Khan Yunis.
Secondo il ministero della salute di Hamas, 77 palestinesi sono morti nelle ultime ore nei bombardamenti israeliani.
Il 18 gennaio l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso nel corso di un raid aereo Wael Abu Fanunah, considerato il “responsabile della propaganda della Jihad islamica”, un secondo gruppo armato palestinese coinvolto nei combattimenti.
Secondo le autorità di Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha causato finora la morte di 24.762 persone, circa l’1 per cento della popolazione del territorio. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha invece causato circa 1.140 vittime in Israele, secondo un conteggio dell’Afp basato sugli ultimi dati israeliani disponibili.
Circa 250 persone sono state prese in ostaggio e 132 si trovano ancora nella Striscia, anche se almeno ventisette potrebbero essere state uccise, secondo le autorità israeliane.
L’offensiva israeliana ha causato una crisi umanitaria catastrofica nella Striscia di Gaza. Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha definito le condizioni di vita degli abitanti “disumane”.
“Una vera sicurezza nella regione”
Mentre continuano gli appelli della comunità internazionale per una tregua umanitaria, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu insiste sulla necessità di continuare l’offensiva finché “i terroristi non saranno stati eliminati e gli ostaggi riportati a casa”.
Il 18 gennaio il premier ha affermato che “Israele deve avere il controllo della sicurezza su tutto il territorio a ovest del Giordano”, un’area che comprende Israele e i territori palestinesi della Cisgiordania (occupata da Israele dal 1967) e della Striscia di Gaza.
Questa dichiarazione mette Netanyahu in rotta di collisione con il governo statunitense, il principale alleato d’Israele, convinto che la nascita di uno stato palestinese sia indispensabile per avere “una vera sicurezza nella regione”.
Intanto, il 19 gennaio l’esercito israeliano ha affermato di aver intercettato un drone proveniente dal Libano e di aver colpito infrastrutture di Hezbollah nel sud di questo paese.
I ribelli huthi dello Yemen, che sostengono di agire in solidarietà con gli abitanti della Striscia di Gaza, hanno invece rivendicato un attacco contro una petroliera statunitense nel golfo di Aden
*(ndr)

 

08 – Massimo Villone*: SULL’AUTONOMIA LA MAGGIORANZA TRUCCA LE CARTE. I LAVORI AL SENATO. IL 10 GENNAIO 2024 MERITERÀ UN RICHIAMO SPECIALE NELLA STORIA DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA. LE OPPOSIZIONI HANNO PROPOSTO DI INVERTIRE L’ORDINE DEL GIORNO ANTEPONENDO LA TRATTAZIONE DEL DISEGNO DI LEGGE DI INIZIATIVA […]
Il 10 gennaio 2024 meriteroni hanno proposto di invertire l’ordine del giorno anteponendo la trattazione del disegno di là un richiamo speciale nella storia dell’autonomia differenziata. Le opposiziegge di iniziativa popolare al testo di Calderoli. La maggioranza ha detto no.
È troppo forte la pressione dello scambio perverso tra autonomia e premierato, che cementa la destra a palazzo Chigi. Ha ragione De Cristofaro, quando dice che lo scambio non si può fare «né sulla pelle dei cittadini, e nemmeno sulla pelle di questo parlamento». Scambio invece che il leghista Romeo ritiene utile e fisiologico.
Di più. Il governo ha collegato il disegno di legge Calderoli al bilancio. Una «vergognosa violazione delle regole» per il senatore Giorgis (e per Boccia, strumentale e disonesta), dato che si certifica l’assenza di oneri sul bilancio. Il fine è stato continuare il lavoro sul testo anche durante la sessione di bilancio. Con l’effetto collaterale di aprire a un rischio inammissibilità per un eventuale referendum abrogativo. E comunque con l’effetto ultimo di vanificare l’obiettivo posto dall’articolo 74 del regolamento del senato, che è – come dicono il senatore Patuanelli e le senatrici Maiorino e Musolino – di portare in aula la volontà popolare espressa nel disegno di legge.
Ma, per il senatore Lisei e lo stesso Presidente Balboni, una lettera ha impedito l’ordinato svolgersi del lavoro in Commissione, con l’inopinato arrivo in aula di un disegno di legge non ancora approfondito. Ebbene, sono colpevole. È una lettera scritta e sottoscritta da me, come presidente del Coordinamento della democrazia costituzionale, sostenitore e sponsor della raccolta delle firme. Essendo scaduti i termini previsti, ho sollecitato l’approdo della legge di iniziativa popolare in aula.
PERCHÉ? QUALE CALLIDO DISEGNO?
Nessuno, ma solo il già citato articolo 74 del regolamento. La mia lettura è che la norma offre all’iniziativa popolare un percorso speciale, privilegiato e garantito, affinché l’istituzione si debba esprimere in modo diretto e specifico su quello che volontà popolare propone. L’inciampo per la Commissione non è venuto da un Don Chisciotte di passaggio, ma dalla forza della regola. Nel merito, la maggioranza decide. Ma assumendo una precisa responsabilità su punti determinati. Lo stesso sarà per le opposizioni.
Quali i punti per la nostra proposta di legge di iniziativa popolare? Quattro questioni, su cui le opposizioni dovranno curare che l’istituzione si esprima. La prima. È compatibile con qualsivoglia accezione di unità del paese un assemblaggio di regioni e province ognuna delle quali è titolare di un proprio regime giuridico e di rapporti finanziari potenzialmente irreversibile? O va riscritto il modello dell’articolo 116, fondato sull’intesa tra stato e regione? La seconda. I livelli delle prestazioni da garantire per tutti devono essere «essenziali» o «uniformi»? Il punto è già emerso come centrale nell’intervento del senatore Magni. La terza. Ci sono limiti alle materie regionalizzabili? Va rivisto l’elenco delle materie di competenza concorrente di cui all’articolo 117.3? Il punto è già emerso nel testo Calderoli, con lo sbilenco affidamento al presidente del Consiglio del potere di porre limiti alla trattativa con la regione ai fini dell’intesa. Il quarto. Si deve o no prevedere una clausola di supremazia della legge statale, come esiste per lo stato centrale in tutti i sistemi genuinamente federali?
La legge di iniziativa popolare e le firme che ha raccolto sono state un successo. Hanno portato le questioni nell’istituzione, compattando le opposizioni su un tema di grande rilievo, e con i tempi che corrono non è poco. Inoltre, apre sul dopo. Il senatore Boccia non solo definisce la filosofia di paese sottesa all’intervento di Romeo un patchwork, ma dice quel che tutti ormai vedono: «Non ci sarà un centesimo per riequilibrare le diseguaglianze». Queste sono tra le diffide da consegnare ai parlamentari della destra, perché sappiano che un conto arriverà nel prossimo turno elettorale. Su tutto il percorso delle riforme andrà trovata la sinergia tra il lavoro parlamentare e quello di territorio. Un risultato che non si poteva raggiungere solo con la piazza o chiedendo per il disegno di legge Calderoli un ritiro che non sarebbe mai avvenuto.
Così va impostata la resistenza popolare alle riforme pensate e volute dalla destra. Oggi, conta poco che il presidente Balboni richiami 40 emendamenti delle opposizioni al testo Calderoli. Sa bene che non hanno cambiato molto la sostanza originaria. Il mastino leghista ha fatto buona guardia. Se però, come dicono, il più mastino di tutti i mastini è quello napoletano, sappia il ministro che da queste parti ce ne sono, pronti a mordere e a non mollare la presa
*(Massimo Villone

 

09 – CONTRO I PROGETTI AUTORITARI È TEMPO DI NUOVO ANTIFASCISMO(*) . Giorgia Meloni HA CONFERMATO LA VOLONTÀ DI PROCEDERE SPEDITAMENTE NELLA DIREZIONE DELL’ELEZIONE DIRETTA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E IN QUELLA DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA.
Il disegno di queste riforme tende a scardinare i fondamenti della Costituzione nata dalla Resistenza e ad avviare una nuova fase della storia repubblicana segnata da una prevalenza del potere esecutivo sul potere legislativo e giurisdizionale e sull’aumento delle diseguaglianze fra aree più ricche e aree più povere.
Meloni ha affermato che «l’elezione diretta del capo del governo non significa togliere potere al capo dello Stato». È una bufala. Se il presidente del Consiglio viene eletto a suffragio universale, la sua nomina da parte del presidente della Repubblica diventa un atto notarile. Inoltre l’articolo 88 della Costituzione prevede che il presidente della Repubblica possa, «sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Con la riforma invece, se per due volte il governo non riceve la fiducia del parlamento, «il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere», il che vuol dire che non è un più un potere ma un dovere. Di conseguenza la riforma cancella due poteri fondamentali del presidente della Repubblica.
Poniamo poi che alle elezioni politiche vinca il candidato presidente del consiglio che ottiene il 33% dei voti, con un’astensione del 35%. Questi, con la riforma, avrebbe alla Camera e al Senato una maggioranza del 55%. Tale maggioranza rappresenta in realtà circa il 22% degli aventi diritto al voto. Essa potrebbe eleggere dopo il terzo scrutinio il nuovo presidente della Repubblica. Questi a sua volta nomina cinque giudici della Corte costituzionale a lui graditi; la maggioranza del parlamento nomina altri cinque giudici della Corte costituzionale. Maggioranza e presidente del consiglio eleggono così due terzi della Consulta, riducendola ad un megafono del governo. Per non farsi mancare nulla, la maggioranza potrebbe eleggere la quota di membri laici del Csm. Infine, una persona sola al comando e una maggioranza che non rispecchia la volontà popolare potrebbero ulteriormente cambiare la Costituzione in base all’articolo 138.
Elezione diretta del presidente del consiglio e maggioritario in Costituzione svuotano ulteriormente di potere il parlamento e rendono insignificanti le opposizioni. Così si cambia la natura stessa della Costituzione, trasformando la democrazia parlamentare in democrazia di investitura, come affermato nella relazione della legge.
Con questa autonomia differenziata vince l’idea per cui la competizione fra regioni è fattore di crescita, mentre la cooperazione è elemento di freno e di stagnazione. Gli effetti economico sociali saranno micidiali, differenziando i diritti dei cittadini delle zone più deboli da quelli delle zone più forti, rendendo pressoché irrimediabile il divario del Mezzogiorno e configurando definitivamente due Italie.
Tutto ciò è corredato dai comportamenti del governo: l’abolizione del reddito di cittadinanza, la negazione del salario minimo, la politica di cieco contrasto al fenomeno migratorio (accompagnata da un oggetto misterioso chiamato Piano Mattei), la recente legge di bilancio, i decreti anti-rave, Cutro, Caivano, l’attacco al diritto di sciopero, le cariche della polizia e persino l’identificazione di chi si permette di gridare «Viva l’Italia antifascista!».
Per non parlare dell’ultra-atlantismo bellicista, del faraonico progetto di riarmo made in Crosetto, dell’occupazione di tutti gli spazi nel mondo della cultura e della comunicazione.
Si evince un’idea di Stato autoritario e di società gerarchica che è il contrario del progetto costituzionale di Stato e di società. Si passerebbe perciò dalla Costituzione come rivoluzione promessa, come diceva Calamandrei, alla controrivoluzione minacciata dagli epigoni di Almirante. C’è puzza di zolfo. Quanto basta per mettere in allarme l’intero arco di forze politiche e sociali che hanno a cuore la tenuta delle istituzioni democratiche e che si riconoscono, ciascuna nella sua autonomia e nella sua visione del mondo, nel comune sentire antifascista. È tempo di resistenza costituzionale e di unità democratica oltre i confini degli schieramenti, di cuore caldo e mente fredda, di progetti di rinnovamento solidale e di pace. È tempo di nuovo antifascismo.
*(Questo è un argomento di discussione collegato all’originale su: https://ilmanifesto.it/contro-i-progetti-autoritari-e-tempo-di-nuovo-antifascismo )

 

10 -Andrea Colombo*: ALDO MORO, TUTTA LA DIETROLOGIA MISTERO PER MISTERO(*)LA MORTE DI ALDO MORO È UNA TRAGEDIA POLITICA, FORSE LA SOLA VERA TRAGEDIA POLITICA DELL’ITALIA REPUBBLICANA, DERUBRICATA DA DECENNI A ROMANZETTO DI SPIONAGGIO DA DUE SOLDI.
Una infinita teoria di volumi e articoli e relazioni di commissioni d’inchiesta concentrata sulla posizione di una scopa messa ad asciugare da Barbara Balzerani nella base di via Gradoli, «ecco come voleva indirizzare il getto d’acqua della doccia per far scoprire il covo», oppure a misurare col metro la distanza dal marciapiede delle macchine posteggiate in via Fani la mattina del 16 marzo, «dieci cm in meno e la scorta sarebbe riuscita a svicolare: sarà davvero un caso?». Note a piè di pagina per tutto il resto: per il dramma lacerante di chi accettò di sacrificare l’amico e di farlo passare per pazzo pur di evitare una crisi di governo pericolosissima nella situazione di tensione estrema che si era creata dopo le elezioni del 1976; per il dilemma di un’organizzazione armata, di certo del suo capo, che si sentì costretta a concludere il sequestro con un efferato omicidio pur sapendo che quell’esito era una sconfitta devastante; per la vittima, la cui tragedia avrebbe meritato la penna di uno Shakespeare e ha dovuto accontentarsi di Sergio Flamigni o peggio.
Il lungo servizio di Report dedicato al caso due giorni fa segna un ulteriore slittamento: la degenerazione involontaria in satira, una messa in ridicolo di se stessa della dietrologia che, se consapevole, avrebbe toccato punte di genialità e fatto ululare di gioia Guy Debord il Situazionista.
Neppure gli appassionati di complotti dallo stomaco di struzzo possono essere rimasti imperturbati sentendo raccontare che Moro, l’uomo più ricercato del mondo, veniva trasportato da una casa all’altra nella città in stato d’assedio, spostato in una villa al mare, lasciato sulla spiaggia ad abbronzarsi, riportato nel cuore del centro di Roma nonostante la marea di posti di blocco. Nessuno può aver sentito senza batter ciglio che nella palazzina indicata come prima nella serie di prigioni coabitavano, evidentemente tutti d’accordo, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede, nella cui magione sarebbe stato rinchiuso il rapito, l’uomo di fiducia del cardinal Marcinkus, che passava di lì per farsi il barbecue, l’agente Nato rotto a ogni orrore, l’amica di Franco Piperno che naturalmente ospitava a sera il pericoloso autonomo per una rimpatriata: la Pantera Rosa sull’Orient Express di Agatha Christie. E poi l’M16 inglese, la Cia, il Mossad, la ’ndrangheta, la P2, Gladio, il commissario fellone di Monte Mario, la Nato, e a tirare i fili la stessa mano che aveva armato gli assassini dei fratelli Kennedy. Perché? Ma per difendere la logica di Yalta, ovvio. Senza dimenticare Kissinger, che aveva minacciato Moro cinque anni prima, e certo nel ’78 non era più segretario di Stato, era stato rimpiazzato dalla dottrina Carter, non diversa ma opposta, ma sono particolari ininfluenti.
L’ex leader socialista Signorile si è ripetuto certo di aver sentito con le sue proprie orecchie la polizia avvertire Cossiga del ritrovamento della macchina con salma qualche ora prima della nota telefonata di Morucci al professor Tritto. Sarebbe un elemento da approfondire. Non perché sia davvero credibile che la polizia fosse al corrente di cosa conteneva il bagagliaio della Renault rossa prima della telefonata, salvo assegnare a Cossiga stesso la parte ballerina di capo delle Br dopo Negri e Tognazzi. Però, complice un qualche sfalsamento nella memoria dell’autorevole testimone, magari è possibile che dopo la telefonata di Morucci una rapida ricognizione preventiva ci sia stata. I misteri, comunque, a roba del genere si riducono.
Non c’erano novità nel programma di Ranucci, neppure un mistero piccolo piccolo ma nuovo di zecca. In compenso è stata quasi una summa dei misteri presunti che si accumulano da decenni, sino a comporre un’enciclopedia sbrigliata. Averceli squadernati uno accanto all’altro è stato comunque utile. Quella massa contraddittoria e confusa, fondata su suggestioni invece che su prove, su accostamenti illeciti e deduzioni bislacche, ha rivelato la miseria della dietrologia che infesta la memoria come nient’altro poteva fare.
*(Andrea Colombo: è un giornalista, scrittore e commentatore politico italiano. Questo è un argomento di discussione collegato all’originale su: https://ilmanifesto.it/aldo-moro-tutta-la-dietrologia-mistero-per-mistero )

 

11 – Lorenzo Lamperti*: TAIPEI. TAIWAN.
a – L’INDIPENDENTISTA LAI VINCE LA PRESIDENZA E PERDE IL PARLAMENTOVITTORIA AGRODOLCE. VOTA L’ISOLA CHE PECHINO RIVUOLE E LA PAROLA D’ORDINE È «STATUS QUO»: IL CERCHIO DEL PARTITO PROGRESSISTA E LA BOTTE DEL POTENTE VICINO CINA
b – ALTRO CHE ESTREMA, QUELLA DI TAIWAN È UNA SCELTA PRAGMATICA. ELEZIONI WIN-WIN. NIENTE COLPI DI TESTA, LO STATUS QUO È SALVO. E PER PECHINO È UN ESITO DAL GUSTO AGRODOLC
E

a – Taiwan dice no alla Cina ma non dice un sì pieno nemmeno al Partito progressista democratico. Lai Ching-te è il presidente eletto ma il suo Dpp viene disarcionato dalla guida del parlamento.
Nel suo primo discorso subito dopo la conferma della vittoria, Lai ha ringraziato i taiwanesi per «aver scritto un nuovo capitolo della nostra democrazia». Ma non appare un capitolo di facile lettura. Certo, Lai è riuscito a conquistare la vittoria nonostante sia stato più volte additato come un “indipendentista”. Un termine che a Taiwan non significa riconoscere la sovranità de facto di Taipei col nome ufficiale di Repubblica di Cina, retaggio della guerra civile persa da Chiang Kai-shek contro Mao Zedong, ma perseguire una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan.
IN PASSATO Lai si era definito «un lavoratore pragmatico per l’indipendenza» ma il suo presente è fatto di «status quo». È questo il termine più citato da Lai durante la sua campagna elettorale, ma anche nelle parole di ieri sera. Parole moderate, tesa a rassicurare chi lo percepisce come una figura meno prevedibile della presidente uscente Tsai Ing-wen, di cui è stato per quattro anni il vicepresidente. Da una parte ringrazia gli elettori per aver «resistito alle interferenze esterne», riferendosi in modo implicito ma chiaro a Pechino. Dall’altra garantisce che «mantenere la pace e la stabilità sullo Stretto di Taiwan è una missione importante della mia presidenza». E dopo essersi reso disponibile al dialogo «sulla base di reciprocità e dignità» afferma che seguirà «il sistema costituzionale della Repubblica di Cina». Un’aggiunta cruciale, visto che nell’unico dibattito tv tra candidati aveva criticato la costituzione. Una gaffe utilizzata dai rivali per ribadire la sua presunta inclinazione all’indipendenza, che attraverso la precisazione di ieri lui garantisce che non dichiarerà.
IN EFFETTI, non sono molti a voler compiere quel passo. Neppure tra quelli che festeggiano davanti alla sede del Dpp, dove tra le bandiere del partito ne sventolano anche un paio di Ucraina e Israele. Quasi il 90% dei taiwanesi non vuole né l’unificazione (o «riunificazione» come la chiama Pechino) né l’indipendenza, ma lo status quo. Un pragmatismo che si è visto anche dal risultato delle urne. In molti, fuori dai seggi, spiegavano ieri di aver optato per un voto disgiunto tra presidenziali e legislative. Risultato: Lai diventa presidente col 40% delle preferenze, che significano cinque milioni e mezzo di voti. Oltre due milioni e mezzo meno di quelli conquistati da Tsai nel 2020. Hou Yu-ih, l’ex poliziotto candidato del Guomindang (Gmd) si è fermato al 33%, con le sue possibilità di vittoria compromesse dall’ottimo risultato dell’inusualmente serio terzo incomodo, Ko Wen-je del Partito popolare di Taiwan (Tpp) che ha totalizzato il 26%.
Mantenere la pace e la stabilità sullo Stretto è una missione della mia presidenza, ma seguirò il sistema costituzionale della Repubblica di Cina
MA ALLE LEGISLATIVE il Dpp cala nettamente, perdendo per la prima volta dopo otto anni la maggioranza assoluta in parlamento, confermando una tendenza al ribasso ormai chiara: i 68 seggi parlamentari conquistati nel 2016 sull’onda delle proteste del movimento dei girasoli erano diventati 61 nel 2020 e adesso sono 51. A mancare sono soprattutto i voti dei più giovani, che sembrano essersi spostati su Ko, l’ex medico populista che propone una «terza via pragmatica e anti ideologica». Ma cresce nettamente anche il Gmd, che guadagna 14 seggi e diventa così il primo partito a livello parlamentare. Pare abbastanza evidente che la vittoria alle presidenziali sia sfuggita all’opposizione per il naufragio in extremis dell’accordo tra Ko e Gmd per una candidatura unitaria.
Proprio Ko sembra destinato a giocare un ruolo decisivo. Dando per assodata l’inconciliabilità tra Dpp e Gmd, che dal piano politico sfocia anche in quello identitario, sarà proprio il Tpp l’ago della bilancia per dare il via libera o bloccare le riforme. Compreso il budget della difesa, osservato speciale di Xi Jinping.
SUBITO DOPO il voto, Pechino ha ribadito la sua posizione secondo cui la «riunificazione è inevitabile». Probabile che nei prossimi giorni possa esserci qualche reazione più concreta. Sul fronte militare, Taipei si aspetta un aumento delle manovre di jet e navi sullo Stretto, ma non esercitazioni vaste tanto quelle dell’agosto 2022 dopo la visita di Nancy Pelosi. Di certo, dopo essersi limitata a far volare alcuni palloni aerostatici, Pechino potrebbe mettere in mostra mezzi più operativi.
Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali foto Ap
Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali, foto Ap
Da molti è ritenuto invece più delicato il periodo a cavallo dell’insediamento di Lai, previsto per il prossimo 20 maggio. Probabile anche una mossa sul fronte commerciale, con un’ulteriore abolizione delle agevolazioni tariffarie per le importazioni di prodotti taiwanesi. Xi potrebbe calibrare la strategia anche tenendo in considerazione le possibili divisioni interne a Taipei, che potrebbero essere alimentate dalla nomina del battagliero Han Kuo-yu del Gmd alla guida del parlamento.
PARZIALI rassicurazioni alla Cina dalla reazione degli Usa. Joe Biden ha commentato l’esito delle elezioni dicendo semplicemente che gli Usa «non sostengono l’indipendenza di Taiwan». Il segretario di Stato Antony Blinken, invece, si è congratulato esplicitamente su X con Lai e «con il popolo taiwanese per aver partecipato a elezioni libere ed eque, dimostrando la forza del suo sistema democratico». A scaldare la situazione la delegazione che la Casa Bianca dovrebbe mandare già nei prossimi giorni a Taipei.

b – ALTRO CHE ESTREMA, QUELLA DI TAIWAN È UNA SCELTA PRAGMATICA. ELEZIONI WIN-WIN. NIENTE COLPI DI TESTA, LO STATUS QUO È SALVO. E PER PECHINO È UN ESITO DAL GUSTO AGRODOLCE
Una scelta estrema e radicale. Di primo acchito, senza conoscere bene la realtà interna di Taiwan e le dinamiche delle relazioni intrastretto con la Cina continentale, verrebbe da definire così l’esito delle elezioni presidenziali e legislative svoltesi ieri sull’isola.

Il primo voto con potenziali implicazioni globali di questo 2024 denso di appuntamenti alle urne. Se si scava più a fondo, però, si capisce che non è così. È vero che la vittoria di Lai Ching-te consegna al Partito progressista democratico (DPP) un terzo mandato presidenziale consecutivo per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere, cioè dal 1996. Ma è altrettanto vero che rispetto alle presidenziali del 2020 lo stesso partito ha perso circa due milioni e seicentomila voti. Una cifra imponente, considerando che gli aventi diritto sono poco più di 19,5 milioni. Dagli oltre otto milioni totalizzati quattro anni fa si è passati ai cinque milioni e mezzo di ieri. È vero che allora alla presidente uscente Tsai Ing-wen fu di fatto steso il tappeto rosso sotto i piedi: la repressione delle proteste di Hong Kong e il sostanziale prepensionamento dell’applicazione meno restrittiva del modello «un paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica ribaltò i rapporti di forza con il Guomindang (Gmd), l’opposizione dialogante con Pechino, spostando completamente la campagna elettorale sul tema identitario.

Fu la prova che più il Partito comunista cinese mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Era successo anche nel 1996 quando, nonostante le ripetute esercitazioni e i lanci di missili durante quella che è passata alla storia come la «terza crisi dello Stretto», vinse un candidato osteggiato da Pechino: Lee Teng-hui.

Non deve sorprendere eccessivamente, dunque, se bollarlo come un «secessionista radicale» come hanno fatto a più riprese le autorità continentali non sia bastato per sbarrare la strada del palazzo presidenziale a Lai. Anzi, consapevole che un’eccessiva aggressività durante la campagna elettorale avrebbe potuto rivelarsi controproducente, nella seconda parte del 2023 la Repubblica popolare ha adottato un profilo relativamente basso. Soprattutto sul fronte militare, preferendo invece un approccio da bastone e carota su quello commerciale. Prima, a due settimane dal voto, la rimozione di una serie di agevolazioni tariffarie sulle importazioni di prodotti taiwanesi. Poi, solo pochi giorni prima delle urne, la pubblicazione di un piano di integrazione economico e culturale tra Taiwan e Fujian, la provincia che si affaccia sullo Stretto. Con una serie di agevolazioni per i taiwanesi nell’aprire attività o risiedere sul “continente”, con accesso garantito anche al sistema di assistenza sociale.
Per Lai è stato così più difficile spostare il voto sul tema identitario come in precedenza era agevolmente riuscito a Tsai. Come la retorica da “guerra e pace” proposta a intermittenza da Pechino e dal Gmd ha delle lacune, anche quella identitaria del Dpp inizia a mostrare segni di stanchezza. Basti guardare al risultato delle legislative, dove il Dpp perde la maggioranza in modo piuttosto fragoroso.
Si scopre allora che forse il voto dei taiwanesi è stato più pragmatico di quanto sembrasse a prima vista. Non sono pochi coloro che ieri ai seggi parlavano di una necessità di bilanciamento dei poteri tra ramo esecutivo e ramo legislativo. Un modo anche per allontanare ulteriormente eventuali colpi di testa in grado di mettere a repentaglio lo status quo, il vero faro dei taiwanesi visto che quasi il 90% di loro lo indica come (non) soluzione preferita ai rapporti con Pechino.
A sembrare estrema e radicale potrebbe essere anche la prima presa di posizione ufficiale cinese dopo il voto.
«Taiwan è la Taiwan della Cina», si legge nel comunicato dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino. E ancora: «La madrepatria sarà inevitabilmente riunificata».
Eppure, c’è un’altra frase significativa: «I risultati delle elezioni a Taiwan mostrano che stavolta il Partito progressista democratico non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola». Un modo per sottolineare una piccola vittoria, ma anche (probabilmente e auspicabilmente) per evitare reazioni scomposte al voto.
*( Lorenzo Lamperti È giornalista e direttore dell’agenzia editoriale China Files. Vive a Taiwan)

 

12 – Massimo Teodori*: PRIMARIE USA, SI PARTE. COSA SONO E PERCHÉ SI TENGONO: UN PO’ DI STORIA. SI PARTE LUNEDÌ 15 GENNAIO CON I CAUCUS DELL’IOWA, SARÀ CRUCIALE IL SUPERTUESDAY DEL 5 MARZO, MA SI PROSEGUE FINO ALL’8 GIUGNO, A CACCIA DEI GRANDI ELETTORI. POI SPAZIO ALLE CONVENZIONI NAZIONALI (LUGLIO E AGOSTO) FINO AL GIORNO DEL VOTO, IL 5 NOVEMBRE 2024
Per votare gli americani devono registrarsi
Le elezioni primarie (e i cosiddetti “caucus”) che iniziano il 15 gennaio nello Iowa e continuano fino all’8 giugno (isole Vergini e Guam) sono la prima fase della complessa selezione dei candidati di partito, democratico e repubblicano, alla Casa Bianca. La logica delle primarie va ricondotta al quadro politico e istituzionale degli Stati Uniti:
a) il carattere federale della nazione;
b) la mancanza di partiti nazionali (cioè federali);
c) la registrazione dei cittadini (da democratico, repubblicano o indipendente) per accedere al voto;
d) l’elezione del presidente (unica autorità federale) come risultato della scelta combinata di Stati, partiti e voto popolare.
*(Fonte: Huffingtonpost: Massimo Teodori, è un politico, storico e giornalista italiano.)

 

13 – Marco Bascetta*: CONTRO I PROGETTI AUTORITARI È TEMPO DI NUOVO ANTIFASCISMO. SCHLEIN «MELONI? SUBISCE IL RICATTO DEL SUO PASSATO».
OLTRE ACCA LARENTIA. Dalla spagnola Vox al polacco Pis, dall’Afd tedesca all’ungherese Fidesz, da Fratelli d’Italia al Rassemblement nationale, passando per olandesi, austriaci e scandinavi, imponenti formazioni inglobano, depurate delle forme più estreme e anacronisticamente stataliste e isolazioniste, idee, politiche e mentalità che affondano le radici nel terreno ideologico e pratico dell’interclassismo fascista

Sull’adunata spiritica che ogni anno si ripete in via Acca Larentia a Roma per ricordare l’inutile e feroce uccisione di tre giovani missini nel gennaio del 1978, non c’è in realtà molto da dire se non riscoprire, inspiegabilmente sorpresi, che i fascisti esistono.
Converrebbe aggiungere che quelli in maschera, con tutto il loro torvo repertorio simbolico e le loro coreografie, sono di gran lunga preferibili a quelli in doppiopetto che nel corso del tempo, dopo essere stati “afascisti”, hanno talvolta finito per dichiararsi, sia pure a denti stretti, antifascisti. I primi si fanno onestamente riconoscere, mettono in imbarazzo i secondi tirando in ballo la loro storia comune neanche troppo passata, e si producono in frequenti carnevalate foriere di sgraditi incidenti e baruffe in famiglia. Per seguire la truppa in camicia nera, tuttavia, servirebbe oggi, contrariamente agli anni Venti, un certo stomaco.
Ragion per cui l’appeal degli squadristi e in conseguenza il loro numero rimangono tutto sommato contenuti, anche se non sempre innocui. Molte aggressioni e attentati a sfondo razziale in diversi paesi dell’Unione europea sono riconducibili a questo tipo di raggruppamenti.

Confezionati in formato “democratico” dai postfascisti istituzionalizzati l’autoritarismo, lo strapotere dell’esecutivo, la diffidenza per la libertà di stampa, l’idea gerarchica dell’ordine sociale, il nazionalismo, l’arroganza occidentalista, la xenofobia, il militarismo, la dottrina (e la pratica) antisindacale, la purezza dei valori, la difesa dei privilegi e molti altri temi comuni al fascismo e a tutta la tradizione reazionaria risultano digeribili a un ben più grande numero di cittadini che però continueranno a indignarsi per i saluti romani e i cerimoniali in stile Ventennio.
Che dagli attivisti di via Acca Larentia possa prendere le mosse la «ricostituzione del disciolto partito fascista» (che fra l’altro, nonostante indossino le camicie nere, nemmeno molti di costoro auspicherebbero) è un’ipotesi ridicola. Ciò che ridicolo non è, è invece il fatto che in Europa siano stati fondati nel corso degli ultimi decenni una pletora di partiti fascisti, accomunati da uno stesso impianto dottrinario autoritario e xenofobo e dal fatto di non aver assunto in nessun caso il nome proibito di quelli che hanno perso la Seconda guerra mondiale.
Dalla spagnola Vox al polacco Pis, dall’Afd tedesca all’ungherese Fidesz, da Fratelli d’Italia al Rassemblement nationale, passando per olandesi, austriaci e scandinavi, imponenti formazioni inglobano, depurate delle forme più estreme e anacronisticamente stataliste e isolazioniste, idee, politiche e mentalità che affondano le radici nel terreno ideologico e pratico dell’interclassismo fascista. Per poi adattarle al contesto delle crisi che si susseguono nella contemporaneità. Manfred Weber, leader del Partito popolare europeo, da sempre sbilanciato verso la destra, può anche tuonare contro i saluti romani, per cui «non c’è posto in Europa», ma per politiche razziste e liberticide di posto ce ne è a iosa e con l’avallo del Ppe.
Un nominalismo alla rovescia, che fa delle cose la conseguenza dei nomi e dell’apologia la causa del reato affligge sempre più insistentemente la politica e l’opinione pubblica. Cosicché è il nome del fascismo (e la sua simbologia) piuttosto che la traduzione politica attuale dei suoi contenuti a suscitare le reazioni più veementi. Di un antifascismo affetto da questa sindrome e a sua volta da un carattere rituale, non si sa bene che cosa farsene.
Invece di invitare pateticamente le destre istituzionalizzate a prendere le distanze dagli umori nostalgici che le pervadono converrebbe inchiodarle al rapporto che con queste inclinazioni strutturalmente intrattengono. Per farlo servirebbe però abbandonare quell’idea della politica come leale duello governato da regole condivise, che pur essendo in tutta evidenza fuori dal mondo si conserva tenacemente nella finzione del discorso pubblico.
*(Fonte: Il Manifesto. Marco Bascetta, giornalista)

14 – Emanuele Giordana*: CINA CHE C’ERA, CINA CHE – REPORTAGE. NEL TRIANGOLO D’ORO SONO SPARSI AVAMPOSTI CINESI. E SE IL VECCHIO VILLAGGIO DEL KUOMINTANG NON FA PIÙ OPPIO MA CAFFÈ, LA LAS VEGAS DEI NUOVI TYCOON DI NOME KINGS ROMANS PRODUCE DAVVERO DI TUTTO.

Chissà quali ideogrammi cinesi significano rien ne va plus. Forse li en qù jia. Ma al casinò “laotiano” di Van Pak Len c’è solo una roulette elettronica e i tavoli sono tutti da baccarat, circondati, nelle salette adiacenti, da svariate slot machine. I clienti però sono soprattutto cinesi. Qualche thailandese forse.
I croupier e in genere il personale, di servizio o della sicurezza, di diverse nazionalità: cinesi, laotiani, birmani. E birmana è una gentilissima cameriera che ci accompagna al ristorante dell’albergo che ospita il casinò. I prezzi dei piatti sono tutti in yuan e sono anche piuttosto accessibili. Non quelli dell’albergo, le cui camere variano dai 300 ai duemila dollari a notte. Sconto nel weekend.
BENVENUTI al Kings Romans Casino, la più pacchiana, sfavillante e controversa attività di imprenditoria cinese in odore di mafia del territorio laotiano. Anzi della Golden Triangle Special Economic Zone, un’area di 10mila ettari affittati per 99 anni in gran parte a privati. Gode sostanzialmente di extraterritorialità e, per poterci entrare, la polizia laotiana deve chiedere il permesso al Kings Romans Group con cui Vientiane fece un accordo nel 2007.
Sulle attività della Kings Romans Group e del suo padrone, il tycoon cinese Zhao Wei, si è già detto tanto e di tutto (l’ultimo è un rapporto dell’International Crisis Group (Icg) con un titolo che parla da solo: Transnational Crime and Geopolitical Contestation along the Mekong). Nondimeno, la città che visitiamo è in piena espansione: gru ovunque, sbancamenti, palazzi in costruzione e addirittura una sorta di grande mall in stile “austroungarico rivisitato” che sembra voler emulare qualche parco giochi di Disneyland.
NELLA ZONA speciale, che si trova sul Mekong all’incrocio tra Laos, Thailandia e Myanmar, ci siamo passati sulla rotta per un altro avamposto cinese fuori dalla Cina: una delle tante città che i soldati del Kuomintang, rifugiatisi in Myanmar per riorganizzare la resistenza dopo la vittoria di Mao, hanno creato prima in Birmania e poi in Thailandia.
Ma se Ban Rak Thai si è dimostrata una delusione, il reame del Kings Romans Casino è davvero una sorpresa.
Potreste immaginare che questa enclave urbana cinese – dove si compra e vende in yuan e le scritte sono solo ideogrammi – e che per ora si espande urbanisticamente su tremila ettari nella libera Repubblica del Laos, si spaccia per un “modello asiatico di sviluppo” in uno dei Paesi più poveri del Sudest asiatico? E che si sviluppa pur avendo collezionato denunce e sanzioni oltre a una serie di nomignoli non proprio edificanti, come Scam City (città della truffa) o Hub of Illicit Activity, sede di sospetti crimini transnazionali che vanno dalla tratta di animali esotici a quella di esseri umani passando per il traffico di stupefacenti?
DIFFICILE DIRE se la cameriera birmana che ci fa una breve visita guidata all’interno del gigantesco e pulitissimo hotel-casinò faccia parte di quel gruppo di vittime che ciclicamente viene alla luce del sole quando riesce ad andarsene dalle favolose promesse di guadagno a cui abboccano ragazzi e ragazze dei Paesi vicini. Tornati casa, quando ci riescono, raccontano di ore di lavoro chiusi in stanze dove si traffica con cellulari e siti web per accalappiare i conti correnti di qualche arzillo vecchietto in cerca di avventure virtuali.
Quell’area tra Myanmar e Laos è diventata una zona contigua di esuberante criminalità, in gran parte fuori dalla portata delle autorità statali
INUTILE DIRE che la guerra in Myanmar è uno dei miglior viatici per i birmani che cercano di uscire dal buio del conflitto. Basta attraversare la frontiera. “Lo Stato Shan del Myanmar e la provincia di Bokeo nel Laos settentrionale (dove si trova il Kings Romans, ndr) sono diventati una zona contigua di esuberante criminalità, in gran parte fuori dalla portata delle autorità statali. Il fiume Mekong che taglia in due la zona – scrive il rapporto di Icg – è anche un asse di competizione geopolitica che complica gli sforzi per combattere la criminalità organizzata”. La “competizione politica” è quella tra Usa e Cina.
AL KINGS ROMANS Casino nessuno è colpito dalla nostra presenza. Qualche europeo in cerca di avventure in carne e ossa non stupisce da queste parti e si confonde con i torpedoni dei turisti. Il sistema di sicurezza è discreto anche perché sembra godere di ampia impunità.
Venendo dal Laos, le autorità laotiane controllano i passaporti – come si fa alle frontiere – all’ingresso della zona speciale cui si può accedere comodamente anche dalla Thailandia in 5 minuti di battello. È in costruzione persino un aeroporto. L’aerostazione potrebbe portare dalla Cina o dalla Thailandia squadroni di giocatori incalliti che vengono da Paesi dove il gioco d’azzardo è vietato. Come in Laos peraltro (salvo rare eccezioni).l
Il punto di domanda è se dietro le luci del casinò si nasconda in qualche segreta stanza anche il “gambling online”, vietatissimo e già nell’occhio del ciclone in altre zone del Laos (Boten) o della Cambogia (Sihanoukville), dove per anni è stato possibile praticarlo. Poi, improvvisamente, le leggi sono cambiate e sia Boten sia Sihanoukville si sono svuotate di imprenditori mafiosi e ludopatici. I prezzi di terreni e immobili sono crollati e Boten è risorta (ora ci passa la mega ferrovia Vientiane – Kunming); Sihanoukville è ancora nel limbo.lll
Il Kings Romans (ormai questa città si chiama così) potrebbe fare la stessa fine?
PER ORA il denaro circola, pulito o sporco che sia e la città si espande nonostante i dossier sempre smentiti dal boss Zhao Wei, che per il Tesoro Usa è a capo di una Transnational Criminal Organization. Il lavoro non manca e i cinesi – tanto meno i laotiani – non battono ciglio.ll
Finché ci si limita a qualche sanzione o a qualche denuncia, le cose sembrano andare a gonfie vele. Ma nonostante lo sfavillio il luogo resta avvolto dalle tenebre. Forse anche per il nome che porta e che – visti i picchi di produzione nuovamente alti in Myanmar e Laos – potrebbe far ritornare il Triangolo d’oro ai fasti di oppio ed eroina da accompagnare alla pastiglie di metanfetamina, droga sintetica molto richiesta. Traghettarla lungo il Mekong non è un’impresa.l
MOLTO PIÙ A SUD, nella provincia tailandese di Mae Hong Son, il villaggio di Ban Rak Thai promette tutt’altro. E alla luce del sole.
Se una volta gli ex Kuomintang si davano davvero molto da fare a piantare e incidere papaveri nel Triangolo d’oro, ora non è certo l’oppio che li fa ricchi. La Thailandia ha fatto una gran pulizia delle piantagioni nelle zone di produzione e imposto la sostituzione delle coltivazioni.
A Ban Rak Thai, molto più a sud del Triangolo, è in espansione la pianta del caffè. Ma anche il turismo. Un turismo soprattutto locale ma che ha trasformato la piccola cittadina fondata dai nonni “bianchi” scappati dalla vittoria rossa: una trasformazione pacchiana con decine di villette monofamiliari in serie che scimmiottano la tradizione cinese classica ma sembrano un misto di edilizia popolare e vorrei ma non posso.
I residenti continuano a vivere in fatiscenti case tradizionali: le villette sono per i turisti. Affacciate su un laghetto, punteggiato da ristoranti e negozi di spezie e aromi cinesi, danno l’idea di un paesaggio finto dove le vestigia e i racconti che affascinavano i viaggiatori sono solo un ricordo sbiadito.
Come quella foto in bianco e nero che vediamo appesa in un negozietto cinese. Non c’è più traccia del Kuomintang e di una battaglia che Chiang Kai-shek ha perso ma che il capitalismo ha vinto. Del resto anche in Cina Deng Xiaoping aveva assicurato che «arricchirsi è glorioso».
I figli del Kuomintang lo sapevano già e da qualche anno a questa parte hanno superato i cinesi con questo business pacchiano che però non ha niente di illegale. Chissà non sia un modello anche per Zhao Wei.

 

 

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