n°29– 26/07/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI


01 – Roberto Ciccarelli*: Washington vende, l’Europa compra – Usa Le merci, come i missili, non si trovano sugli alberi: ogni missile è un taglio a qualcosa.
02 – Tommaso Di Francesco*: La lunga coda di paglia di Giorgia Meloni – Orrore ed «errore» Visto che potrebbe riconoscere lo Stato di Palestina, ma non lo fa; visto che potrebbe chiedere la sospensione dall’Accordo di associazione di Israele con l’Ue, ma invece si oppone; ci rende di fatto complice del massacro in corso a Gaza
03 – Chiara Cruciati*: Stato di Palestina, tra i leader europei un dibattito fuori tempo massimo
Editoriale I palestinesi e le palestinesi hanno diritto di vivere in libertà e dignità e di decidere per sé. Di stabilire quale forma giuridica dare alla propria società liberata. Si chiama decolonizzazione
04 – GAZA ALLA FAME. LA MATEMATICA DELLA FAME? NEGOZIATI: È ANCORA STALLO?
A Gaza aumentano i morti per denutrizione, soprattutto tra i bambini. E si moltiplicano le critiche all’Europa che condanna ma non agisce. ( ISPI, Daly Focus)
05 – Ore decisive per un accordo sui dazi, la Bce lascia fermi i tassi, Macron riconosce la Palestina.
( ndr)
06 – Beda Romano *: visto da Bruxelles – Gli equilibrismi di von der Leyen aspettando il Discorso sullo stato dell’Unione
07 – Giovanna Branca*: Trump: «Manderemo i Patriot. Ma li pagherà l’Alleanza atlantica» Amico caro Il presidente Usa parla di un «importante annuncio» sulla Russia lunedì prossimo. «Sono deluso da Mosca, ma vedremo cosa succede»

 

01 – Roberto Ciccarelli*: WASHINGTON VENDE, L’EUROPA COMPRA – USA LE MERCI, COME I MISSILI, NON SI TROVANO SUGLI ALBERI: OGNI MISSILE È UN TAGLIO A QUALCOSA.

DONALD TRUMP PARLA COME NEI MERCATI DOVE TUTTO HA UN PREZZO, ANCHE LA GUERRA. IERI A WASHINGTON, CON IL TRAGICO SEGRETARIO DELLA NATO MARK RUTTE ACCANTO, HA DETTO UNA VERITÀ LIMPIDA E BRUTALE: «L’EUROPA È ENTUSIASTA DELLA GUERRA IN UCRAINA, ALTRIMENTI NON LA PAGHEREBBE». Non ha mentito, Trump. Ha solo omesso di distinguere l’entusiasmo dalla coercizione e non ha specificato che sono le «classi dirigenti», mai espressione fu così infausta, a volerlo. Senza distinguere tra cinismo e realismo, per ora Trump si è soffermato sulle batterie di missili «Patriot» che costano un miliardo di dollari, tutto compreso. Ma il prezzo è destinato a salire.
Quanto agli europei sperano che questi missili necessari alla difesa ucraina contro le incursioni russe siano ritenute da Trump come un acconto di cifre ben più grandi, quelle che sono state prospettate al vertice della Nato all’Aja il 24 giugno scorso. La prospettiva è nota, ma va qui esplicitata, considerata la sua gravità. Nei prossimi dieci anni la spesa militare dei paesi membri della Nato dovrà raggiungere stabilmente il 5% del Pil. Non importa se un paese – l’Italia, per esempio – ha un sistema sanitario fragile, scuole che crollano, treni che saltano o pensioni da fame.
L’Europa paga per restare sotto l’ombrello della Nato, come un quartiere paga la protezione al boss. La legge è questa: Washington vende, l’Europa compra. A qualsiasi prezzo. E in silenzio. «È totalmente logico volere che gli europei paghino». La logica è quella mafiosa, una delle componenti della nuova economia di guerra che sta crescendo attorno a noi. E se il boss cambia umore, la tariffa cambia. Lo abbiamo visto sul 30% dei dazi. È già successo per le armi in Ucraina. Trump lo ha fatto tre volte, bloccando a sorpresa l’invio di armi promesse. Il messaggio è chiaro: «Pagate di più, o vi arrangiate». Ma davvero il problema è solo Trump?
In realtà, sono stati davvero in pochi ieri tra gli «europei», forse perché tutt’altro che «entusiasti», a trovare il coraggio di rispondere. Né con una smentita, né con una risata. Se sui dazi si continua a discettare se sia meglio lanciare «ponti», o a annunciare tremende ritorsioni, sulle armi tutto sembra già dato. Non per convinzione, ma per mancanza di alternative. Il copione è stato accettato, si recita a soggetto.
Perché gli europei «entusiasti» sanno che Trump ha detto la verità. La commissione von der Leyen ha fatto partire il treno degli 800 miliardi per «riarmare l’Europa». Eppure, ci raccontano che non ci saranno tagli. Né tasse. Né rinunce. Tutto si potrà fare. Le merci, come i missili, non si trovano però sugli alberi. Ogni missile è un taglio a qualcosa. Ogni blindato è un ospedale che non si costruisce. Ogni spesa militare strutturale è una rinuncia sociale altrettanto strutturale. E chi lo dice viene trattato come un disfattista, un relitto ideologico.
L’obiettivo è fare pagare al resto del mondo, e in questo caso agli europei, le politiche statunitensi, il loro enorme debito, il militarismo e la rapina alle classi popolari e a quelle medie organizzata con il «One Big Beautiful Bill Act», definizione parodistica della legge di bilancio approvata a Washington. Un regalo ai miliardari. Si usa una guerra, che Trump tiene a dire che è iniziata sotto Biden, per vendere all’Europa le «migliori armi al mondo», che genereranno «miliardi» di entrate… nelle casse americane. In attesa che gli improbabili dazi «al 100%» convincano Putin a fare la pace «entro 50 giorni», oggi sappiamo che questo è il costo dell’impero. Il suo interminabile declino non è un pasto gratis.
*(Roberto Ciccarelli – giornalista, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.)

 

02 – Tommaso Di Francesco*: LA LUNGA CODA DI PAGLIA DI GIORGIA MELONI – ORRORE ED «ERRORE» VISTO CHE POTREBBE RICONOSCERE LO STATO DI PALESTINA, MA NON LO FA; VISTO CHE POTREBBE CHIEDERE LA SOSPENSIONE DALL’ACCORDO DI ASSOCIAZIONE DI ISRAELE CON L’UE, MA INVECE SI OPPONE; CI RENDE DI FATTO COMPLICE DEL MASSACRO IN CORSO A GAZA

La destra europea e italiana ha sempre sventolato la bandiera dell’unicità fondativa delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. In Medio Oriente, culla delle tre religioni monoteiste, che una qualche responsabilità ce l’hanno nel disastro in corso, la rivendicazione è sempre apparsa non solo a dir poco parziale e riduttiva ma assai equivoca. Così ecco che esplode un cortocircuito politico di senso, quantomeno ideologico, che finora sul destino martoriato di Gaza e dei palestinesi non era ancora avvenuto.

Se accade che i cannoni di un’artiglieria ipertecnologica dello Stato ebraico – così si chiama ed è stato sancito dalla Knesset e dal governo di Tel Aviv come principio costituzionale nella Legge fondamentale del 2018 – spari a Gaza contro la chiesa cattolica della Sacra famiglia, uccidendo tre persone di cui due donne, ferendone 10 e, per fortuna, lievemente il parroco Gabriel Romanelli, l’interlocutore privilegiato di papa Francesco; una chiesa che è rifugio di centinaia di palestinesi. Un cortocircuito che spinge in prima battuta Giorgia Meloni – la premier di un’Italia che “ospita” lo Stato del Vaticano – ad uscire dal cono d’ombra del silenzio complice, che la mostra piccola ma con una grande coda di paglia, per alzare la voce e indignarsi contro il governo Israeliano. Come a dire: …stavolta avete superato ogni limite. La formulazione governativa è perfino più corretta: «Inammissibili gli attacchi contro i civili da mesi». Dai mesi del suo silenzio e inerzia. Visto che potrebbe riconoscere lo Stato di Palestina, ma non lo fa; visto che potrebbe chiedere la sospensione dall’Accordo di associazione di Israele con l’Ue, ma invece si oppone; visto che potrebbe anche sospendere direttamente il Trattato-Memorandum militare che come Italia ci lega dal 2005 a Tel Aviv e che ci rende di fatto logistica militare complice del massacro in corso a Gaza. Giorgia Meloni ha sempre detto No. Però adesso si indigna.
Passi che, senza indignazione, siano state rase al suolo finora decine di moschee con centinaia di fedeli dentro, corpi a pezzi tra le macerie dei quali non sapremo mai i nomi; passi che siamo a 90-100 morti al giorno tra donne e bambini che chiedono acqua e cibo e ricevono piombo; passi che siamo arrivati al traguardo criminale che sarà superato di 60mila morti e centinaia di miglia a di feriti. Ma la chiesa non si tocca. Nel buio del suo silenzio Giorgia Meloni non dice – come potrebbe? – la verità che Netanyahu prepara: che tutti i palestinesi, musulmani o cristiani che siano, devono essere cacciati in più di due milioni da Gaza, mentre in Cisgiordania i coloni avviano una violenta pulizia etnica che riguarda palestinesi sia musulmani che cristiani. Ma per questi territori occupati non batte il cuore d’Europa. Ha scritto il poeta palestinese Ibrahim Nasrallah nel poema luminoso “Maria di Gaza” – d’ispirazione cristiana ma scritto da un musulmano e che per tema ha però la collera: È’ il cielo sopra di noi/ che non ci vede? O forse è la croce/ sulle nostre spalle/ che nei campi di sangue amaro/ ci cela e nasconde?”.
Altro che la fiction della tregua, annunciata sempre insieme ai massacri: oltre la chiacchiera della tregua c’è la realtà della nuova Nakba (Catastrofe) per un intero popolo, senza alcuna meta stavolta. Naturalmente per il bombardamento della chiesa c’è subito la versione dell’errore da parte dei vertici militari e del governo israeliano, con l’immancabile inchiesta: «È stato un errore di tiro…». Si fa presto a trovare un soldato responsabile dei crimini di un governo.
Ma la pezza sembra peggiore del buco. Perché allora chi voleva, ma la precisione sarebbe mancata, colpire il cannone ipertecnologico israeliano, quale era il target «giusto», quanti civili voleva uccidere, quali case, scuole, centri dell’Onu, moschee voleva abbattere?
*(Fonte Il Manifesto. Tommaso Di Francesco, è un poeta, giornalista e scrittore italiano)

 

03 – Chiara Cruciati*: STATO DI PALESTINA, TRA I LEADER EUROPEI UN DIBATTITO FUORI TEMPO MASSIMO EDITORIALE I PALESTINESI E LE PALESTINESI HANNO DIRITTO DI VIVERE IN LIBERTÀ E DIGNITÀ E DI DECIDERE PER SÉ. DI STABILIRE QUALE FORMA GIURIDICA DARE ALLA PROPRIA SOCIETÀ LIBERATA. SI CHIAMA DECOLONIZZAZIONE

Ci sono abitudini dure a morire. Come quella a ritenersi in potere di stabilire quali popoli abbiano il diritto di vivere liberi, o quella a tracciare su una mappa le frontiere di uno stato con penna e righello. Accade così, e non è una novità, che a 77 anni dalla Nakba del 1948 la presidente del consiglio Giorgia Meloni ritenga prematuro e controproducente che il popolo palestinese si autodetermini. Un pensiero indegno che condivide con il cancelliere tedesco Merz, con il presidente statunitense Trump, con il premier israeliano Netanyahu, e giù a scendere, la lista del suprematismo bianco è lunga e prevedibile.
Il punto non è lo stato in sé, l’edificazione di infrastrutture istituzionali, una capitale, una banca centrale o un passaporto che non sia una farsa. Il punto è la permanenza dell’oppressione: il popolo palestinese è sotto occupazione da quasi un secolo. È soffocato da un colonialismo d’insediamento da cui è disceso – com’è naturale che fosse – un regime di apartheid, e ora anche un genocidio.
LA SUA LIBERTÀ È PREMATURA? Esiste un momento in cui diventa legalmente accessibile come la patente, o è il diritto innato di qualsiasi essere umano? Rimandare la sua liberazione perché controproducente (per chi?) non è un’opzione tra le altre, ogni giorno di ritardo significa un giorno in più sotto occupazione e non semplicemente senza statualità. Lo ha ordinato nel luglio 2024 la Corte internazionale di Giustizia quando ha dato un anno di tempo a Israele per smantellare l’occupazione. Tempo scaduto.

I palestinesi e le palestinesi hanno diritto di vivere in libertà e dignità e di decidere per sé. Di stabilire quale forma giuridica dare alla propria società liberata. Si chiama decolonizzazione. Ma proprio perché le abitudini sono dure a morire, all’Europa pare più che normale dettare i tempi, le forme, i confini. Gode di una certa esperienza, nel Medio Oriente del secolo scorso ha disegnato stati e generato mostri.
Appare dunque surreale, e invece è orribilmente vero, che i leader mondiali, di fronte al controllo strutturale esercitato da Israele su ogni aspetto della vita palestinese, di fronte alla distruzione sistematica di un popolo intero una persona dopo l’altra, di fronte a metodi di sterminio che tolgono il sonno, stiano là ad arrovellarsi se riconoscere o meno lo stato di Palestina. È la cometa di Don’t Look Up: riempiamo giornali e tv con un dibattito destinato a sopravvivere il tempo strettamente necessario a dirsi innocenti, in attesa di essere inceneriti. I palestinesi, però, a differenza di Meloni, Merz, Starmer e Macron, hanno fretta.

VENGONO INCENERITI OGNI MINUTO CHE PASSA, NEL CORPO E NELLA DIGNITÀ.
A cosa serve il riconoscimento dello stato di Palestina? Se serve a salvarsi dal giudizio della storia, delle società civili globali e da quello (si spera arrivi) degli umanissimi tribunali internazionali, è tardi: la cortina fumogena di dichiarazioni di sdegno per le pratiche di sterminio israeliane non nascondono la faccia di nessuno dei complici materiali del genocidio.
Se serve a fare pressione sul governo israeliano – che, lo dice dal 1948, non ha intenzione di riconoscere alcunché – ci tocca dare una delusione ai protagonisti di tale entusiasmante dibattito. Esistono metodi più rapidi delle strigliate in tv e degli appelli accorati a Israele per interrompere lo sterminio attraverso l’uso barbaro e fascista della fame, per impedirgli di bombardare tende e macerie a Gaza e di dare fuoco e spianare comunità in Cisgiordania, per porre fine alla carcerazione collettiva di milioni di persone.
Sanzionare Israele, isolarlo diplomaticamente, smettere di vendergli armi, mettere in pratica le decisioni dei tribunali dell’Aja su mandati d’arresto e fine dell’occupazione. Togliere la benzina alla macchina genocidaria: schiaccia e annienta quel che resta dei corpi scheletrici dei palestinesi e dell’anima dell’umanità intera solo grazie ai rifornimenti esterni. I nostri.
*(Chiara Cruciati – Segue le pagine internazionali, dalla scrivania di via Bargoni e dalle città del Medio Oriente. Vicedirettrice del manifesto)

 

04 – GAZA ALLA FAME. LA MATEMATICA DELLA FAME? NEGOZIATI: È ANCORA STALLO?
A Gaza aumentano i morti per denutrizione, soprattutto tra i bambini. E si moltiplicano le critiche all’Europa che condanna ma non agisce. ( ISPI, Daly Focus)

Dopo 22 mesi di combattimenti, raid aerei, sfollamenti ripetuti, spari sulla folla affamata stipata davanti ai centri di distribuzione degli aiuti, è la fame l’ultima, micidiale, arma di guerra scatenata contro i palestinesi a Gaza. Se le testimonianze e le immagini, agghiaccianti, che provengono dalla Striscia non fossero abbastanza, a certificare lo sterminio in corso, che colpisce soprattutto i più vulnerabili tra i civili – bambini, anziani e malati – sono le Nazioni unite. Il World Food Programme ha dichiarato questa settimana che la crisi alimentare nell’enclave ha raggiunto “nuovi e sorprendenti livelli di disperazione, con un terzo della popolazione che non mangia da diversi giorni consecutivi”. Il numero dei bambini morti di malnutrizione è aumentato drasticamente negli ultimi giorni. Molti non avevano patologie preesistenti, sono semplicemente morti di inedia. “Non so come altro definirla se non fame di massa, ed è causata dall’uomo, questo è molto chiaro”, ha dichiarato il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante una conferenza stampa da Ginevra. Alcuni giorni prima, era stata l’Agence France-Press (AFP) a lanciare l’allarme, avvertendo che “senza un intervento immediato, anche gli ultimi giornalisti a Gaza moriranno”, aggiungendo che la maggior parte di loro, “non ha più la capacità fisica di spostarsi nell’enclave per svolgere il proprio lavoro e che teme di “apprendere della loro morte da un momento all’altro”. In una lettera oltre 109 agenzie, tra cui Medici Senza Frontiere, Oxfam International e Amnesty International, denunciano che è il governo israeliano a impedire alle organizzazioni umanitarie di distribuire gli aiuti salvavita. “Abbiamo cibo. Abbiamo aiuti. Eppure non possiamo consegnarli. E il motivo è semplice: le autorità israeliane ci bloccano”, ha detto Bushra Khalidi di Oxfam chiedendo un cessate il fuoco immediato, l’apertura di tutti i valichi di frontiera e il libero flusso di aiuti umanitari.

LA MATEMATICA DELLA FAME?
Le accuse di usare la fame “come arma di guerra” sono state puntualmente respinte da Israele che ha invece replicato che a Gaza arriva cibo a sufficienza e che la scarsità di cibo è orchestrata da Hamas e della cattiva gestione delle organizzazioni umanitarie. Eppure, sono gli stessi numeri forniti dalla Gaza Humanitarian foundation (GHF) a confermare la drammatica carestia che Israele si ostina a negare. La controversa organizzazione, che di fatto detiene il monopolio della distribuzione di aiuti nella Striscia, sostiene infatti di aver già consegnato più di 85 milioni di pasti. Ma, come spiega il quotidiano Ha’aretz, calcolando gli abitanti di Gaza, i pasti da fornire avrebbero dovuto essere più del quadruplo. “Questo divario è solo la punta dell’iceberg della matematica della fame”, scrive Ha’aretz, secondo cui i punti di distribuzione gestiti da GHF sono aperti appena 15 minuti al giorno. E gli orari di apertura non vengono mai resi noti in anticipo, costringendo migliaia di persone a circondare i centri tutto il giorno nella speranza di riuscire a procurarsi un po’ di cibo. In questo clima di incertezza che aleggia sull’intero sistema di distribuzione, le strade limitrofe rischiano di trasformarsi in trappole mortali. Ogni giorno decine di persone vengono colpite dal fuoco di soldati e contractors, incaricati in teoria di gestire la sicurezza dei centri. Più di mille palestinesi sono stati uccisi nella calca presso dei centri di distribuzione o vicino ai camion che trasportavano cibo dal 26 maggio – data in cui la GHF ha cominciato a operare a Gaza – ad oggi.

NEGOZIATI: È ANCORA STALLO?
Intanto alla drammatica “guerra per fame” che si consuma nella Striscia, si alternano le notizie sempre meno incoraggianti che arrivano dai negoziati. Dopo l’ottimismo filtrato nei giorni scorsi i colloqui per un cessate il fuoco sono stati bruscamente interrotti da Israele e Stati Uniti che hanno annunciato il ritiro dei loro negoziatori da Doha. L’inviato statunitense Steve Witkoff ha accusato Hamas di “non agire in buona fede”. Secondo quanto riportato dai media israeliani, la proposta di Hamas includeva richieste sul numero di prigionieri da scambiare, sulle agenzie autorizzate a distribuire aiuti a Gaza e sulla fine definitiva del conflitto piuttosto che un cessate il fuoco temporaneo. Secondo il sito Axios, Hamas avrebbe chiesto a Israele di rilasciare 200 palestinesi che stanno scontando una condanna all’ergastolo per aver ucciso israeliani, anziché i 125 previsti dalla proposta, e 2mila palestinesi detenuti a Gaza dopo il 7 ottobre, anziché i 1200 proposti. Il Forum delle famiglie degli ostaggi israeliani ha criticato un’altra “occasione persa” per il rilascio di una quota dei 20 ostaggi ritenuti ancora in vita e dei corpi di quelli deceduti in oltre 20 mesi di sequestro dal 7 ottobre 2023. Il passo indietro di Usa e Israele ha già innescato le prime reazioni diplomatiche, con il premier britannico Keir Starmer che annuncia una chiamata di emergenza su Gaza con Francia e Germania. La fame a Gaza “è intollerabile”, ha detto Starmer, anticipando che i leder discuteranno di come “fermare le uccisioni e portare il cibo alle persone che ne hanno disperato bisogno”. Dal canto suo, il presidente francese Emanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina.
*(Fonte: ISPI, Daly Focus)

 

05 – ORE DECISIVE PER UN ACCORDO SUI DAZI, LA BCE LASCIA FERMI I TASSI, MACRON RICONOSCE LA PALESTINA (ndr)

È stata una settimana ancora una volta dominata dai negoziati commerciali con gli Stati Uniti per scongiurare dazi al 30% sui prodotti Ue dal 1° agosto.
Le parti, secondo fonti diverse ma concordanti, sembrano essersi avvicinate sull’ipotesi di tariffe generalizzate al 15%, sul modello dell’accordo annunciato da Washington con il Giappone, e l’incontro annunciato per oggi in Scozia tra la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente americano, Donald Trump, ha dato venerdì ulteriore spinta al cauto ottimismo diffuso. Restano naturalmente incognite e punti da chiarire su comparti chiave compresi o esclusi dall’intesa (dall’auto all’acciaio), nonché sugli impegni aggiuntivi che l’Europa potrebbe doversi sobbarcare, dall’acquisto di prodotti americani, come gas e petrolio, a eventuali investimenti negli Stati Uniti. E c’è, naturalmente, la variabile più imprevedibile: la firma finale del presidente Usa Donald Trump. Non a caso, Bruxelles si è preparata anche allo scenario di un no-deal, approvando una lista unificata di contro dazi su 93 miliardi di beni Usa, immediatamente utilizzabile a partire dal 7 agosto in caso di mancato accordo.
Qualunque sia l’esito del negoziato con gli Stati Uniti, l’Unione europea deve sforzarsi di assumere quelle iniziative che giovano alle sue imprese e ai suoi cittadini nel mondo conflittuale imposto da Trump, dal rafforzamento del mercato interno agli accordi con altre aree economiche, come chiarisce questa analisi.
Tra i nuovi punti di riferimento nello scenario globale non sembra che l’Europa possa fare molto affidamento sulla Cina, che continua ad apparire rivale sistemico più che partner strategico dell’Unione europea, come ha evidenziato il summit di questa settimana a Pechino, che è andato poco oltre un paio di esili accordi su terre rare e clima.
A guardare oltre gli Stati Uniti è del resto anche il Regno Unito, che pure un’intesa con Washington l’ha già siglata e che ha ufficializzato in settimana uno storico accordo di libero scambio con l’India, suggellato dalla visita a Londra del premier Narendra Modi.
Gli sviluppi dei negoziati commerciali tra Ue e Stati Uniti sono peraltro anche sotto la lente della Banca centrale europea, che in settimana ha lasciato invariati i tassi di interesse, accompagnando la decisione con un comunicato piuttosto laconico. Una scelta figlia anche – ma non solo – dell’incertezza legata alla guerra dei dazi, come vi spieghiamo con l’ausilio di grafici in questa analisi.
Restano caldi per l’Europa anche i due fronti di guerra: Gaza, che ha registrato in settimana l’annuncio del prossimo riconoscimento della Palestina da parte del presidente francese, Emmanuel Macron, e un più generale inasprimento delle posizioni europee nei confronti di Israele, anche a fronte della tragedia umanitaria sempre più grave nella Striscia; e l’Ucraina dove, più che gli sviluppi sul fronte bellico o diplomatico, hanno fatto parlare le vicende interne, con il presidente, Volodymyr Zelensky, costretto a un rapido dietrofront su un disegno di legge che minacciava l’indipendenza dei due organismi nazionali anticorruzione e che aveva scatenato proteste di piazza e critiche dell’Unione europea.
Chiudiamo parlando di ambiente e clima, con una pronuncia storica della Corte di giustizia internazionale dell’Onu, seppure non riferita solo all’Europa: i giudici dell’Aja hanno stabilito che gli Stati hanno l’obbligo di contrastare il climate change. Il parere non è vincolante, ma impatterà sulle future cause legali, anche per le richieste di risarcimento.

 

06 – Beda Romano *: VISTO DA BRUXELLES – GLI EQUILIBRISMI DI VON DER LEYEN ASPETTANDO IL DISCORSO SULLO STATO DELL’UNIONE

A DISPETTO DELLA PAUSA ESTIVA, LO SGUARDO DI MOLTI A BRUXELLES È GIÀ RIVOLTO AL DISCORSO CHE LA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA PRONUNCERÀ IN PARLAMENTO A STRASBURGO NELLA PRIMA METÀ DI SETTEMBRE. C’è particolare attesa quest’anno. Le ultime settimane sono state travagliate, segnate da un voto di fiducia che Ursula von der Leyen ha vinto di misura e da una proposta di bilancio europeo 2028-2034 che ha provocato non poche critiche. Il discorso sullo stato dell’Unione darà indicazioni non solo sulla situazione dell’Europa, ma anche e soprattutto sulle intenzioni della presidente.
Tra le altre cose, il programma della Commissione per l’ultimo trimestre prevede la presentazione di un provvedimento legislativo che regolamenti le comunicazioni digitali (il Digital Networks Act); di modifiche mirate al regolamento REACH, dedicato ai prodotti chimici; e di un piano d’azione per promuovere posti di lavoro di qualità. Più in generale, sarà interessante capire se la signora von der Leyen vorrà continuare a giocare su due piani: l’appoggio centrista e il sostegno dei conservatori, a seconda dei provvedimenti sul tavolo. Il terreno è minato: il voto di inizio luglio ha messo in luce quanto sia facile indire mozioni di sfiducia.
*(Fonte: 24Ore – Beda Romano, è un giornalista e scrittore italiano)

 

07 – Giovanna Branca*: Trump: «MANDEREMO I PATRIOT. MA LI PAGHERÀ L’ALLEANZA ATLANTICA» AMICO CARO IL PRESIDENTE USA PARLA DI UN «IMPORTANTE ANNUNCIO» SULLA RUSSIA LUNEDÌ PROSSIMO. «SONO DELUSO DA MOSCA, MA VEDREMO COSA SUCCEDE»

Mentre a Roma si conclude la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, con il passaggio di testimone al paese che la ospiterà l’anno prossimo, la Polonia, i titoli internazionali si concentrano su un’altra “promessa” per Kiev. Quella fatta dal presidente degli Stati uniti Donald Trump, a proposito dei sistemi Patriot che partiranno infine alla volta dell’Ucraina – ma con un intermediario: la Nato. «Manderemo le armi alla Nato, la Nato le pagherà al 100%», «Ciò che faremo è mandare le armi alla Nato, e l’Alleanza le darà all’Ucraina», ha specificato il presidente aggiungendo molte altre volte che il costo sarà sostenuto dall’Alleanza atlantica. Chi si farà davvero carico dei costi però non è ancora chiaro: come è noto il grosso del finanziamento della Nato è sostenuto dagli Stati uniti, ma l’insistenza di Trump sul fatto che il conto verrà pagato da altri paesi lascia presumere che si faccia riferimento all’idea, emersa di recente, per la quale sarebbero singole nazioni parte della Nato, come la Germania, a acquistare le armi, per poi consegnarle a Kiev.

NEL CORSO dell’intervista, il presidente Usa ha annunciato anche una «importante comunicazione che penso farò lunedì sulla Russia». Ha rifiutato di specificare oltre – restando criptico quanto il suo segretario di Stato Marco Rubio quando ha parlato della «nuova idea» suggeritagli dal suo omologo Sergei Lavrov durante il loro incontro a Kuala Lumpur, ai margini dell’Asean, il giorno precedente. Il presidente Usa si è poi detto favorevole al Sanctioning Russia Act of 2025, la legge bipartisan introdotta al Senato Usa lo scorso aprile dal senatore repubblicano Lindsey Graham, che prevede tra le altre cose dazi al 500% contro i paesi che acquistano prodotti russi quali petrolio, gas e uranio. «Sono deluso dalla Russia», ha affermato il presidente che pochi giorni fa aveva definito «stronzate» le parole di Vladimir Putin, «ma vedremo cosa accadrà nelle prossime settimane».

Anche alla Conferenza sulla ricostruzione di Roma non sono stati stretti accordi solo in campo civile: alla Nuvola di Fuksas è stata lanciata Brave Tech Eu, finalizzata ad accelerare l’innovazione nel settore della difesa. L’iniziativa, si legge sul sito della Commissione europea, «collega la piattaforma tecnologica di difesa Brave 1 del ministero della Trasformazione digitale con programmi dell’Ue quali il Fondo europeo per la difesa (Fed) e il sistema Ue di innovazione nel settore della difesa (Eudis)», ed è «tesa a promuovere l’innovazione sostenendo azioni congiunte, hackathon, test rapidi e collaborazioni dirette tra imprese europee e ucraine, in particolare start-up e Pmi (piccole e medie imprese, ndr)». «Un nuovo passo strategico – lo ha definito alla Conferenza di Roma il commissario Ue per la Difesa e lo spazio Andrius Kubilius – per lo sviluppo della cooperazione dell’Ue e dell’Ucraina nell’industria della difesa». Per il programma verranno «mobilitati» 50 milioni di euro.
GLI ALTRI ACCORDI e memorandum siglati a Roma (in totale 200 per oltre 10 miliardi di euro) riguardano le infrastrutture, l’agricoltura, la ricerca. Di questi «40 sono stati firmati solo dall’Italia», ha voluto sottolineare il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli.
Non si fermano per questo i bombardamenti notturni della Russia in Ucraina, e sulle capacità di Mosca è intervenuto, parlando con Reuters, il generale statunitense John Rafferty: «L’esercito russo oggi è più grande di quando ha iniziato la guerra in Ucraina”. E sappiamo», ha aggiunto a proposito di quella che definisce la necessità della Nato di dotarsi di un maggior numero di strumenti bellici, «che Mosca continuerà a investire in razzi e missili a lungo raggio, e in sofisticate difese aeree. Quindi un aumento delle capacità dell’alleanza è molto importante».
IERI, A QUANTO riportano le autorità di Mosca, sono stati i droni di Kiev a raggiungere la Russia: in un attacco lanciato contro le infrastrutture belliche del Cremlino sarebbero morti due cittadini russi nella regione di Tula, a 200 km a sud di Mosca, scrive su Telegram il governatore regionale Dmitry Milyaev. Il ministero della Difesa ha invece comunicato che sono stati abbattuti 155 droni provenienti dall’Ucraina, di cui 11 diretti a Mosca. Per questo nella mattinata di venerdì tre dei quattro aeroporti moscoviti hanno temporaneamente sospeso le loro operazioni.
*(Fonte: Il Manifesto. Giovanna Branca, giornalista)

 

 

Views: 71

DICHIARAZIONE REDDITI 2025 | DAI IL 5X1000 A FILEF

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.