
01 – Emanuele Dattilo*: L’inesauribile attrazione per i diversi e lontani mondi. Il profilo Raccontava di viaggi, incontri, amicizie, Fritz Lang e della Mensa per i bambini proletari. Una mobilità inarrestabile che rappresenta una delle chiavi per comprenderlo. Era portato a spingersi anche al di là delle posizioni che poteva rivendicare nei gruppi o riviste che animava
02 – Andrea Fumagalli*: Oro italiano in mano agli Usa – Operazione Goldfinger Un gruppo di economisti chiede di far rientrare le 2.452 tonnellate di metallo prezioso custodite a Fort Knox. Effetto della dipendenza economica post bellica
03 – Enrico Tomaselli *: La guerra ineluttabile – Possiamo certamente affermare che la lunga fase di transizione che stiamo vivendo, che cerca di traghettare il mondo dall’epoca dell’illusione unipolare statunitense a una nuova epoca, basata sul multilateralismo, è caratterizzata più che mai dalla presenza pregnante della guerra.
04 – “Economia del genocidio” *: il rapporto ONU che identifica le aziende che fiancheggiano Israele “dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. È questo il titolo dell’ultimo rapporto della relatrice speciale delle nazioni unite sui territori palestinesi occupati, FRANCESCA ALBANESE.
05 – GAZA*: I mercenari assunti dalla ug solution, impiegati per proteggere i punti di distribuzione degli aiuti umanitari a gaza, stanno utilizzando non solo granate stordenti e spray al peperoncino contro civili palestinesi disperati in cerca di cibo ma anche le armi da fuoco.
06 – Soldi a ricchi e difesa, pagano i lavoratori: la “grande e bellissima legge” di Trump. «Con questa legge ho mantenuto tutte le promesse che avevo fatto». È quanto ha affermato ieri il presidente statunitense Donald Trump durante un comizio in Iowa sulla “One Big Beautiful Bill Act” (la “grande e bellissima legge”), approvata ieri in via definitiva dalla Camera controllata dai
07 – Alessandro Visalli*: La collina e la pianura. Posizioni egemoniche e pretese imperiali – Siamo nei pressi di quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto dell’Occidente prosegue il suo lungo restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da qualche tempo si fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano divaricarsi repubblicani. (*)
01 – Emanuele Dattilo*: L’INESAURIBILE ATTRAZIONE PER I DIVERSI E LONTANI MONDI. IL PROFILO RACCONTAVA DI VIAGGI, INCONTRI, AMICIZIE, FRITZ LANG E DELLA MENSA PER I BAMBINI PROLETARI. UNA MOBILITÀ INARRESTABILE CHE RAPPRESENTA UNA DELLE CHIAVI PER COMPRENDERLO. ERA PORTATO A SPINGERSI ANCHE AL DI LÀ DELLE POSIZIONI CHE POTEVA RIVENDICARE NEI GRUPPI O RIVISTE CHE ANIMAVA
Goffredo Fofi non amava che si parlasse di lui. Presentava ogni mese quattro o cinque libri in giro per l’Italia, ma diceva che non aveva mai presentato in pubblico un proprio libro, e che quella gli sembrava la iattura estrema, da cui si era sempre tenuto scaramanticamente lontano. Così, quando qualcuno gli chiedeva una dedica o un autografo sul frontespizio di un suo libro, Goffredo non lo dedicava e molto raramente firmava.
PREFERIVA DISEGNARE – come sembra facesse Elsa Morante – due o tre grandi stelle, a cinque punte, magari con un pennarello colorato. Anni fa, un fisioterapista gli aveva prescritto un esercizio per la cervicale da fare ogni giorno davanti allo specchio: doveva torcere il collo a destra e a sinistra, e poi sopra e sotto, avanti e indietro, per alcuni minuti. Essere costretto a guardarsi in faccia per lunghi minuti, in bagno, facendo quelle smorfie: quella era secondo lui la vera tortura, molto peggio di vertigini e cervicali.
Eppure Fofi, tutti lo sanno, amava molto raccontare di sé. Dei suoi viaggi, degli incontri, delle sue amicizie. Tutto poteva diventare materia inesauribile dei suoi racconti: Gubbio, Parigi, Napoli, Palermo; ma anche Milano e Torino, e perfino – ma con disprezzo – Roma.
E non solo luoghi: il mondo contadino e il mondo industriale, Fritz Lang e la Mensa per i bambini proletari, le sue traduzioni del ciclo pornografico di Emmanuelle per un editore bordighista, la ranchera messicana, Faulkner, i fumetti.
Un suo libro scritto negli anni ’80 si intitolava Storie di treno. Quanto ha viaggiato Fofi? Quale regione gli era ignota? E quante storie conosceva, quanti i suoi amici fraterni, sparsi ovunque? Ma mi domando: parlava davvero di sé, in quelle storie? Credo di no. Goffredo era attratto dai mondi: dai molti diversi lontani mondi che ha saputo attraversare, mentre cresceva e si popolava quell’unico mondo povero di storie che tutti abitiamo.
Questa imprendibilità di Fofi, questo irrequieto rapporto con se stesso, credo che fosse una delle sue risorse più vitali e preziose. Lo si è rimproverato di poca coerenza, di avere predilezioni e antipatie troppo arbitrarie, di non avere un solido fondamento teorico per le sue critiche. Ma è chiaro: Fofi era mosso, anzitutto, da una propria irrefrenabile dionisiaca vitalità, per cui poteva contraddire o trasgredire se stesso e i propri editti papali, senza colpa. Fofi amava e odiava; imprecava e pregava; dava morsi e pugni e abbracci, spesso insieme; si commuoveva, cedeva ogni volta, si pentiva, si disilludeva. Era insieme Pinocchio e Geppetto.
Una specie di puer capriccioso, umorale e intelligentissimo, con una perfetta capacità di sintesi umoristica, con un profondo intuito sociologico. Nulla gli era più lontano del giudizio estetico, letterario.
IL SUO EROS MERCURIALE, insofferente, lo portava ogni volta al di là delle posizioni che poteva rivendicare nei gruppi o riviste che animava. Quelle posizioni, infatti, erano anzitutto prese di posizione. Dunque: inizio del movimento.
Questa mobilità inarrestabile credo sia una chiave per comprenderlo. A un certo punto le sue riviste furono invase dalle dure lettere polemiche di un tale Saverio Esposito: lo pseudonimo che utilizzava per scuotere le proprie stesse fondamenta.
Se doveva definire sé stesso, Goffredo Fofi preferiva il suo antico nobile titolo di diploma: «maestro elementare». E Fofi sapeva bene che non conta tanto ciò che un maestro dice o insegna, ma importa soprattutto come è. Questa virtù apparentemente più inafferrabile è proprio ciò che viene trasmesso dal maestro all’allievo. E credo che proprio questo, come Goffredo generosamente era, chi l’ha conosciuto non può dimenticarlo.
*(Fonte: Il Manifesto- Emanuele Dattilo. è dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università di Firenze, con una tesi su Giordano Bruno)
02 – Andrea Fumagalli*: ORO ITALIANO IN MANO AGLI USA – OPERAZIONE GOLDFINGER UN GRUPPO DI ECONOMISTI CHIEDE DI FAR RIENTRARE LE 2.452 TONNELLATE DI METALLO PREZIOSO CUSTODITE A FORT KNOX. EFFETTO DELLA DIPENDENZA ECONOMICA POST BELLICA.
Era il 1964 e nelle sale cinematografiche usciva il terzo film della serie di James Bond: Agente 007 operazione Goldfinger, sicuramente quello che ha avuto il maggior successo di pubblico. Nella trama si faceva esplicito riferimento al ruolo dell’oro non solo come catalizzatore della ricchezza ma anche e soprattutto come unità di misura del valore economico. Eravamo in pieno periodo fordista, fondato su un ordine mondiale che vedeva non solo la contrapposizione tra Usa da un lato e Urss (e Cina in subordine) dall’altro ma anche la centralità della produzione manifatturiera materiale su scala nazionale.
La regolazione dei pagamenti internazionali era fondata sull’egemonia del dollaro Usa, unica valuta che aveva una parità fissa con l’oro (appunto un’unità di misura, pari convenzionalmente a 35 dollari per oncia d’oro). La Federal Reserve nei forzieri di Fort Knox deteneva ingenti quantità di riserve auree proprio per garantire la stabilità di quel rapporto.
Questa architettura è il frutto degli accordi di Bretton Woods del 1944 che avevano sancito la gerarchia capitalistica internazionale. In Operazione Goldfinger l’obiettivo finale era osare l’inosabile, ovvero rubare l’oro di Fort Knox. In caso di successo, l’economia Usa sarebbe entrata in una crisi strutturale a seguito della perdita di centralità del dollaro come valuta di riferimento internazionale, con tutti gli effetti geopolitici che possiamo immaginare.
SE IL FILM è abbastanza noto, non lo è il fatto che nei forzieri della Federal Reserve è racchiusa anche parte delle riserve aure di alcuni paesi occidentali. In particolare, Germania e Italia hanno stoccato negli Usa una quota rilevante del proprio oro: rispettivamente 3.352 tonnellate e 2.452 tonnellate. Segue la Francia con poco meno di 2.300 tonnellate. Per l’Italia si tratta del 43% del totale di oro detenuto dalla Banca d’Italia, per un valore pari a 221,5 miliardi di euro. Tale situazione è andata maturando all’indomani degli accordi di Bretton Woods, durante il periodo di crescita economica del dopoguerra.
L’obiettivo era duplice: da un lato, preservare il valore dell’oro italiano grazie al rapporto di parità aurea detenuto dal dollaro, dall’altro favorire la stessa parità aurea grazie a una maggior disponibilità di oro gestibile dalla Federal Reserve.
Ammesso (ma non concesso) che tali ragioni potessero esse fondate in un contesto di dipendenza economica e militare (vedi Nato) dei due paesi usciti sconfitti dalla II Guerra Mondiale, oggi tutto è cambiato. È cambiato il modello di accumulazione capitalistica, che oggi si fonda prevalentemente sulla produzione intangibile e sulla messa a valore della vita umana, è cambiato il paradigma tecnologico (dall’automazione si è passati al linguaggio), è cambiata l’organizzazione di impresa (dalla grande fabbrica manageriale alle piattaforme digitali), è cambiato lo sfruttamento (da quello prevalentemente operaio a quello che opera su più piani sino a innervare la stessa vita umana, sempre più oggetto di mercificazione e valorizzazione), sono cambiate le fondamenta dell’ordine geo-economico e politico mondiale.
NON C’È QUINDI nessuna ragione che possa giustificare il deposito di quasi la metà delle riserve aure del nostro paese nei caveaux della Federal Reserve di New York. Anche in Italia, dopo un articolo al riguardo pubblicato dal Financial Time, si inizia a porre la questione. L’economista Enrico Grazzini ha sostenuto: «Lasciare il 43% delle riserve auree italiane in America sotto un’amministrazione Trump inaffidabile è molto pericoloso per l’interesse nazionale».
Il ritorno di Trump alla Casa bianca e le sue ripetute critiche al presidente della Fed, Jerome Powell, hanno infatti accentuato i timori sulla tenuta dell’indipendenza della banca centrale americana, minando in tal modo la fiducia europea nella gestione statunitense delle riserve auree. A tutto ciò poi si aggiungono le ripetute minacce di guerra economica che Trump ha rivolto contro il continente europeo. L’introduzione dei dazi è oggi un possibile strumento di ritorsione che domani potrebbe interessare proprio la gestione delle riserve auree altrui.
È STATO REDATTO in questi giorni, su proposta dello stesso Grazzini, un «Appello per il trasferimento dell’oro italiano dagli Stati Uniti in Italia» firmato da prestigiosi economisti e intellettuali italiani. Occorre tuttavia considerare che le riserve auree, dopo il crollo di Bretton Woods, non rappresentano più un asset strategico per la stabilità finanziaria e creditizia. Il venir meno della parità aurea ha fatto sì che la moneta perdesse qualsiasi rapporto con la materialità, diventando a tutti gli effetti pura “moneta segno”.
Oggi il valore della moneta non dipende più dalla politica monetaria delle Banche centrali ma dalle convenzioni speculative che si originano nei mercati finanziari. Paradossalmente, più la Banca centrale diventa “autonoma” dal potere politico, più diventa succube delle dinamiche oligarchiche delle grandi multinazionali della finanza. Le manovre sui tassi d’interessi della Federal Reserve non sono tanto rivolte a contenere l’aumento dei prezzi (che ha cause non monetarie) ma piuttosto a proteggere il dollaro perché mantenga il suo ruolo di valuta di riferimento internazionale.
CON L’AVVENTO dei paesi Brics+, infatti, la globalizzazione, inizialmente trainata dal Washington Consensus a trazione unipolare Usa, comincia a minacciare la supremazia statunitense soprattutto nel campo tecnologico e logistico. L’aumento del debito estero di Washington ne è una delle conseguenze, a cui si può porre riparo con un elevato surplus dei movimenti dei capitali se il dollaro e le borse americane continuano a svolgere il loro ruolo attrattivo.
Ma tale possibilità è oggi sempre più messa in discussione. Il processo di dedollarizzazione è già avviato seppur ancora in misura modesta. Fort Knox rischia di svuotarsi. Riportare in Italia le riserve auree depositate a New York non è quindi una questione di sovranità finanziaria (concetto ridicolo al giorno d’oggi) né di solo interesse nazionale: significa sottolineare che l’Italia spinge per un nuovo ordine multipolare non governato esclusivamente dagli interessi nazionalisti del Maga (Make America great again) ma aperto a nuove prospettive geopolitiche
*(Fonte: Il Manifesto. Andrea Fumagalli, è un economista italiano)
03 – Enrico Tomaselli *: LA GUERRA INELUTTABILE – POSSIAMO CERTAMENTE AFFERMARE CHE LA LUNGA FASE DI TRANSIZIONE CHE STIAMO VIVENDO, CHE CERCA DI TRAGHETTARE IL MONDO DALL’EPOCA DELL’ILLUSIONE UNIPOLARE STATUNITENSE A UNA NUOVA EPOCA, BASATA SUL MULTILATERALISMO, È CARATTERIZZATA PIÙ CHE MAI DALLA PRESENZA PREGNANTE DELLA GUERRA.
Non che questa sia mai stata assente dall’orizzonte globale, e segnatamente da quello occidentale, ma – com’è storicamente sempre stato – l’approssimarsi di grandi cambiamenti geopolitici è sempre preceduto dall’accentuarsi delle tensioni conflittuali. E quello che stiamo attraversando è, con tutta evidenza, particolarmente significativo, epocale: stiamo infatti parlando del tramonto dell’occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), cioè della fine di una egemonia militare, economica e quindi politica, protrattasi per secoli. La guerra, sia essa cinetica o ibrida, è dunque il terreno su cui si consuma la transizione, in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. È l’inevitabile passaggio per arrivare alla definizione di un nuovo ordine mondiale. La Pace di Westfalia, il Congresso di Vienna, il Vertice di Yalta, sono stati il punto d’arrivo di un processo, che in quelle sedi ha ridefinito il quadro geopolitico, ma che è stato delineato sui campi di battaglia. Pensare che si possa eludere oggi questo passaggio è una grande ingenuità. Il massimo per cui si può operare è la riduzione del danno.
La prima cosa di cui dobbiamo avere consapevolezza, è la necessità di spersonalizzare il conflitto. Rimuovere l’idea che questo dipenda – per un verso o per un altro – da questo o quel leader politico, e che quindi l’affermarsi di tizio o la rimozione di caio abbiano una qualche significativa incidenza sul processo in atto. A essere in azione sono forze profonde, radicate nella storia e nella geografia, e dobbiamo pensarle come uno scontro tra faglie tettoniche, piuttosto che come un duello tra leader politico-militari. La cui leadership può modificare lo sviluppo tattico dello scontro, ma non può arrestarlo né modificarne la natura strategica.
Esemplificando – anche ai limiti della banalizzazione – la leadership di Biden ha rappresentato il prevalere (all’interno degli Stati Uniti) di una linea tattica che riteneva di fermare la perdita di egemonia globale attraverso una politica aggressiva, che puntasse a colpire le potenze competitrici una alla volta, nella convinzione di disporre ancora della sufficiente capacità (militare, industriale, economica…) per poterlo fare; a sua volta, la leadership di Trump rappresenta (anche a seguito del macroscopico fallimento di quella linea) la presa d’atto che quella capacità non c’è più, e che quindi la priorità e ricostituirla.
Se sgombriamo il campo dalla fuffa propagandistica, di cui l’occidente si è nutrito negli ultimi decenni, e soprattutto dai retaggi del suprematismo occidentale, e guardiamo invece agli accadimenti degli ultimi anni – quelli in cui, appunto, si è manifestata acutamente la tattica aggressiva dell’amministrazione USA – possiamo chiaramente vedere quel che Washington vede, ma che non può riconoscere: la capacità egemonica (in senso complessivo) dell’occidente, ovvero la sua possibilità di imporre le proprie scelte strategiche e le proprie priorità, che già da molto tempo aveva cominciato a manifestare segni di cedimento, ha ormai raggiunto un livello di crisi manifesta. E, aggiungo, manifestamente irreversibile.
Gli Stati Uniti, che dal 1945 hanno rappresentato il centro imperiale dell’occidente, esattamente nel corso della seconda guerra mondiale (che li ha consacrati come grande potenza) hanno sviluppato l’idea cardine della propria egemonia militare, ovvero mantenere la capacità di combattere due guerre contemporanee, in due teatri diversi. Che allora furono la Germania in Europa e il Giappone nel Pacifico.
Questa capacità ha cominciato a degradare significativamente già dagli anni novanta del secolo scorso, quando – con la caduta dell’URSS – si è fatta strada a Washington l’idea di un mondo sostanzialmente unipolare, in cui non esistevano più potenze globali capaci di fronteggiare l’impero statunitense, ma solo potenze regionali, che potevano essere facilmente tenute sotto controllo.
Con questa convinzione da un lato, e la caduta di ogni residuo bilanciamento politico del potere economico dall’altro, la potenza militare-industriale che aveva vinto il conflitto mondiale ha imboccato la strada suicida della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione. Ne è conseguito per un verso lo smantellamento della capacità manifatturiera degli USA (quando Trump lamenta disavanzi commerciali, finge di non sapere che questi sono diretta conseguenza della ridotta produttività statunitense), e per un altro della svolta high-tech dello strumento militare.
Ritenendo di non avere più dinanzi paesi in grado di affrontare gli Stati Uniti su un piano di parità, ma solo piccole potenze contro le quali condurre guerre veloci e distruttive, le forze armate USA si sono poco a poco convertite in uno strumento bellico che faceva affidamento sulla propria (presunta) superiorità tecnologica, e che quindi si basava su un numero (relativamente) ristretto di personale professionale, e su armamenti di alta tecnologia. Che però, come poi si è visto, non solo avevano numerosi limiti (costo elevato, tempi di produzione lunghi e quantitativi ristretti, necessità di manutenzione molto frequente, etc), ma alla lunga si sono rivelati persino nemmeno così superiori tecnologicamente.
Ignorando totalmente questo aspetto della propria condizione militare, e sottovalutando enormemente l’altro, gli strateghi neocon che hanno influenzato la politica statunitense negli ultimi decenni, hanno creduto possibile ottenere comunque un risultato aprendo una guerra con la Russia attraverso un proxy che mettesse la carne da cannone, e mobilitando dietro questo l’intera NATO ed altri paesi alleati, nel ruolo di fornitori hardware (sistemi d’arma) e software (sistemi d’intelligence).
La fallacia di questo disegno è apparsa subito evidente a chiunque non avesse gli occhi foderati dal prosciutto della propaganda, ma ha richiesto tre anni perché a Washington si cogliesse la portata del fallimento (a Bruxelles la notizia non è invece ancora arrivata…).
Mosca, infatti, ha scelto la strada di una lenta guerra di logoramento, che ha dato l’opportunità di ridurre al minimo le perdite, nonché il tempo per sviluppare appieno la propria capacità industriale di sostegno al conflitto. Capacità che oggi sovrasta di gran lunga quella occidentale nel suo complesso.
In termini strategici, il conflitto in Ucraina ha messo in evidenza una serie di fattori. Innanzi tutto, appunto, che la Russia è assai più di “una pompa di benzina con l’atomica”, come invece si raccontavano a Washington dandosi di gomito i vari Ron De Santis, John McCain e Joseph Borrell.
La Russia non solo è più di una semplice potenza regionale, ma ha dimostrato di avere tutti i numeri per essere un attore globale, di pari potenza, o comunque in grado di sfidare la potenza statunitense, e di batterla.
Ma ciò che è emerso in questa guerra, è anche che la tecnologia militare made in US non è più così superiore, né così performante. Anzi, in alcuni casi, è addirittura inferiore e/o in ritardo – basti pensare alla missilistica ipersonica. E che la capacità industriale occidentale è spaventosamente al di sotto del minimo necessario per affrontare una guerra di logoramento, anche solo contro un singolo avversario.
Il conflitto riaccesosi in Medio Oriente, poi, ha dato il colpo definitivo alla mitologia della superiorità occidentale. L’accordo separato che l’amministrazione Trump è corsa a ricercare col governo yemenita di Ansarullah, dopo il vano tentativo di piegarlo, è stato da questo punto di vista emblematico. Ma ancor più il triplo fallimento nella guerra dei dodici giorni pesa come un macigno. Triplo perché è fallito il tentativo israelo-statunitense di provocare un regime change a Teheran, è fallita la difesa aerea dello stato ebraico (nonostante il massiccio impiego di tutto l’arsenale USA – aereo e anti-missile navale e terrestre – del Medio oriente, nonché delle aviazioni britannica e giordana), è fallita la ricerca di imporre la supremazia strategica (con Israele che chiede il cessate il fuoco dopo aver aperto le ostilità, e gli USA che per cavare entrambe d’impiccio devono mettere in scena un attacco-show preconcordato, con relativo contrattacco iraniano altrettanto telefonato).
La sanzione definitiva del rovesciamento strategico arriva nel momento in cui, dovendo scegliere, il Pentagono preferisce inviare i sistemi anti-missile in Israele piuttosto che in Ucraina. Non si tratta semplicemente di una mossa di sganciamento dal teatro europeo, ma della fine certificata della dottrina statunitense delle due guerre contemporanee.
Quello che, come si diceva all’inizio, a Washington sanno ma non possono dire, è che lo strumento militare – che ha consentito agli Stati Uniti di esercitare un potere globale per quasi un secolo – semplicemente non esiste più. Quantomeno per come è esistito sinora. Neanche la deterrenza nucleare è più una carta che si possa giocare, in quanto la Russia sopravanza gli USA sia per quantità di testate che per quantità di vettori.
Persino una guerra contro una media potenza regionale, come l’Iran, avrebbe oggi un prezzo troppo elevato per renderla anche solo considerabile. E infatti, andata buca la mossa israeliana, si sono precipitati a mettere una pezza e chiudere il match.
Da tutto ciò deriva una ulteriore riflessione. Se consideriamo lo stato pietoso – assai più di quello statunitense – in cui versano gli eserciti europei della NATO, appare evidente che questa alleanza, sempre ammesso che sopravviva, verrebbe semplicemente sbaragliata se dovesse impegnare il blocco avverso (Russia, Iran, Corea del Nord, Cina). E dal momento che vari paesi europei cominciano a siglare patti di mutua assistenza militare, segno che la fiducia nella garanzia dell’art.5 è a sua volta evaporata, il dubbio sulla durata dell’Alleanza Atlantica è più che legittimo.
Del resto è abbastanza evidente che vi regni il caos. Washington mostra di non avere più alcuna considerazione per il teatro europeo, e dopo aver evirato economicamente gli alleati recidendo il cordone ombelicale energetico con la Russia, adesso è impegnata esclusivamente a cercare di succhiarne le ultime stille di sangue, imponendo grosse quote di import delle sue produzioni militari. Bruxelles, così come le varie cancellerie, nonostante sembrino avere posizioni radicalmente diverse da quelle USA su una questione nodale come il conflitto ucraino, non riescono però a opporre nulla ai diktat d’oltre Atlantico, e sottoscrivono silenti l’impegno di portare il contributo alla NATO al 5% del PIL.
Impegno che non si capisce bene se debba sommarsi a quello per il ReArm Europe, o se l’uno comprenda l’altro, ma in ogni caso si rivela essere – in entrambe i casi – un’operazione che con la difesa ha poco o nulla a che vedere. A parte l’ovvia considerazione che l’impegno per il 5% è inteso da raggiungere “entro il 2035” (cioé quando i governi che l’hanno accettato saranno quasi tutti caduti, Trump non sarà più presidente, e la guerra in Ucraina sarà finita da un pezzo) mentre continuano a ripeterci che la Russia ci attaccherà entro il 2029, è proprio l’ordine dei fattori a denunciarlo. Non c’è infatti, né a livello NATO, né tantomeno a livello europeo, uno straccio di disegno strategico, nel quale vengano fissati gli obiettivi, e quindi venga delineato il quadro delle necessità per conseguirli (quali e quanti sistemi d’arma, quali infrastrutture logistiche, quali quantitativi di manpower…), e solo successivamente si indichi la spesa necessaria. Si parte invece dall’indicazione del volume di spesa, stabilito non si capisce in base a quale criterio, che potrebbe benissimo risultare insufficiente o, al contrario, ridondante.
Ma, come detto, l’unica difesa con cui ha a che fare tutto ciò è quella degli interessi industriali.
WASHINGTON vi fa affidamento per finanziare il rilancio della sua produzione manifatturiera, e Bruxelles coltiva a sua volta l’illusione che una iniezione massiva di miliardi possa far resuscitare la boccheggiante industria europea. Come se produrre carri armati piuttosto che auto elettriche fosse una soluzione praticabile – e del tutto indipendente dai costi energetici, dai costi sociali, e dalla ricostruzione di una filiera commerciale per tutte le componenti di cui abbisogna.
Il punto è che, con ogni evidenza, le classi dirigenti occidentali hanno completamente perso la bussola, ed oscillano costantemente tra la convinzione di poter invertire il processo di declino e la convinzione di esser ancora alla guida della potenza egemone globale. E tutto questo produce l’incapacità di produrre una strategia coerente ed efficace, in grado anche solo di garantirne la sopravvivenza.
Ed è proprio questa incapacità strategica a produrre i rischi maggiori. Quello che abbiamo sotto gli occhi, infatti, è un quadro in cui le leadership occidentali fanno mosse avventate e avventuriste, che alimentano sempre nuovi conflitti, ma senza alcuna capacità di risolverne positivamente nessuno. E, oltretutto, all’interno di questo quadro, va tenuto presente che agisce la variabile impazzita rappresentata da Israele, che avverte con maggiore chiarezza e maggiore urgenza che la propria parabola storica si avvicina alla fine, e che quindi mette in campo azioni dettate da un mix di delirio messianico e disperazione, solo apparentemente rivestite di una qualche razionalità politica o militare.
È insomma dall’occidente che promanano i pericoli di una deriva devastante, che può trascinare gran parte del pianeta in una guerra cinetica; che a sua volta, proprio in virtù della sua insostenibilità per l’occidente stesso, porta con sé l’ulteriore rischio di scivolare in un confronto nucleare.
Vale ripeterlo ancora una volta: nelle condizioni attuali, una guerra cinetica che vedesse in azione l’intero fronte delle nazioni che si oppongono al dominio occidentale, e vedrebbe prevalere. Ma le leadership di queste sono consapevoli che ciò comporterebbe estese devastazioni da entrambe le parti, e quindi operano per evitare il più possibile questo esito, anche nella convinzione che il tempo gioca a loro favore, e quanto più si riesce a mantenere il conflitto al di sotto di una certa soglia, logorando la capacità occidentale giorno dopo giorno, tanto più diventa probabile che questa arrivi autonomamente a un punto di pre-collasso. In tal modo, sperano che la guerra inevitabile sia comunque più breve e più ristretta territorialmente.
Quando il ministro degli esteri cinese Wang Yi dice alla insignificante Kaja Kallas che la Cina “non può permettere che la Russia subisca una sconfitta in Ucraina”, sta mandando un messaggio assai preciso, che intende placare i bollori bellicisti dell’Unione Europea. Il messaggio è: non pensiate di poter ribaltare le sorti del conflitto (anche ammesso che ne foste in grado). Il senso è: cercare di impedire che l’avventurismo di qualche leader faccia più danni di quanto strettamente necessario.
Le classi egemoni europee e statunitensi, chiuse nella propria bolla dorata, sono in preda al panico, all’idea di perdere anche solo una parte dei propri privilegi. Nel loro mondo, il pensiero che domani potrebbero non potersi più permettere di affittare una città per farne il set del proprio matrimonio (o anche solo di esservi invitati) appare intollerabile.
Il che, unito alla sensazione di possedere un potere illimitato, li spinge inesorabilmente alla guerra. Che è vista come molto più che una semplice occasione di arricchimento ulteriore, quanto piuttosto come una grande operazione di polizia, per sgomberare il campo da bande di predoni barbari che vorrebbero sottrargli ricchezze e privilegi.
Prima di arrivare a cedere – che si tratti di ricchezze, di potere o di terre rubate – si batteranno con le unghie e coi denti. E prima di arrivare ad una nuova Yalta, che ridefinisca equilibri non egemonici, la strada è ancora lunga, e irta di pericoli.
Prepararsi a questa prospettiva significa molto più che predisporre lo zainetto col kit di sopravvivenza, come suggeriscono in Germania. Significa decidere da che parte stare.
“O la rivoluzione impedirà la guerra, oppure la guerra provocherà la rivoluzione”.
Mao Zedong
*(Fonte: Sinistrainrete, Enrico Tomaselli, ricercatore)
04 – “Economia del genocidio”: IL RAPPORTO ONU CHE IDENTIFICA LE AZIENDE CHE FIANCHEGGIANO ISRAELE “DALL’ECONOMIA DELL’OCCUPAZIONE ALL’ECONOMIA DEL GENOCIDIO”. È QUESTO IL TITOLO DELL’ULTIMO RAPPORTO DELLA RELATRICE SPECIALE DELLE NAZIONI UNITE SUI TERRITORI PALESTINESI OCCUPATI, FRANCESCA ALBANESE.
Nel documento, Albanese esplora «i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano». Il rapporto scoperchia il proverbiale vaso di Pandora, mostrando chi guadagna da questa duplice operazione di cancellazione e sostituzione dei palestinesi dalla propria terra: dietro vi sono aziende belliche come l’italiana Leonardo, di sorveglianza tecnologica come Palantir, di commercio digitale come Amazon, ma non solo; si parla dell’industria alimentare di Tnuva, dei supermercati di Carrefour, dei colossi del turismo globale di AirBnB e Booking, delle ONG, delle università, dei fondi pensionistici. Una fitta rete di interessi che fa spesso capo ai maggiori gruppi finanziari del mondo, come Vanguard e Blackrock, e che risponde a quella domanda che tutti si pongono quando vengono quotidianamente esposti alle immagini atroci di ciò che accade a Gaza: come è possibile che il genocidio continui? La risposta, conclude il rapporto, è semplice: «perché è redditizio per molti».
COME LE AZIENDE VIOLANO IL DIRITTO INTERNAZIONALE
Il rapporto di Albanese indaga sui meccanismi e i legami aziendali che contribuiscono allo sfollamento e alla sostituzione dei palestinesi nei territori occupati, mostrando le entità che traggono profitto «dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e, ora, genocidio». Albanese ha sviluppato un database di oltre 1.000 entità aziendali che collaborano con la macchina economica israeliana: con “entità aziendali” «si intendono imprese commerciali, società multinazionali, entità a scopo di lucro e non a scopo di lucro, private, pubbliche o statali». Aiutando Israele, queste aziende violano i Principi guida su imprese e diritti umani, e le norme più fondamentali del diritto internazionale.
Al centro delle violazioni, c’è la duplice logica di eradicazione e sostituzione dell’eredità palestinese dal territorio. Questa pratica si è affermata sin da prima della fondazione di Israele, con l’istituzione del Fondo Nazionale Ebraico nel 1901, è con l’aiuto crescente di entità aziendali». Specialmente dopo il 1967, il settore aziendale ha fornito a Israele tutto il necessario per distruggere l’eredità palestinese, aiutando lo Stato ebraico a segregare e reprimere le comunità arabe, per infine incentivare la loro sostituzione e la presenza militare israeliana. In cambio, le aziende hanno tratto e traggono ancora oggi profitto da tale sistema, sfruttando il lavoro e le risorse palestinesi, costruendo e alimentando le colonie, e vendendo e commercializzando beni e servizi in Israele. Con gli accordi di Oslo, la situazione è peggiorata, perché il «monopolio di Israele» è stato istituzionalizzato «sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)». Oggi questo sistema costa alla Palestina almeno il 35% del suo PIL, e questa forma di economia coloniale si è trasformata in un’economia del genocidio.
LA CANCELLAZIONE: ARMI, TECNOLOGIA E CIVILE
Un mezzo della Caterpillar viene utilizzato nei campi a ovest di Betlemme, in Cisgiordania.
Il primo tassello fondamentale del progetto coloniale e genocidario israeliano è quello della cacciata dei palestinesi dalla propria terra, che ha dato vita a una vera e propria economia della cancellazione di un popolo. Nell’economia del genocidio, gli arei F-16 ed F-35, i droni, i quadricotteri, gli esacotteri, fino ad arrivare alle armi da fuoco e ai proiettili risultano centrali. Molte tecnologie sono sviluppate in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology; alcuni materiali robotici sono forniti dalla giapponese FANUC Corporation; le componenti sono consegnate da aziende di trasporto come la danese Maersk; diversi progetti, tra cui quelli della caccia, sono realizzati dalle israeliane Elbit Systems e Israeli Aerospace Industries, dalla statunitense Lockheed Martin e dall’italiana Leonardo. «Per aziende israeliane come Elbit e IAI, il genocidio in corso è stato un’impresa redditizia», scrive Albanese. Nel 2024 la spesa militare israeliana è aumentata del 65% e ha generato un forte aumento dei profitti annuali di tali aziende.
Accanto al settore militare, c’è quello della sorveglianza e in generale della tecnologia. Le stesse aziende tecnologiche israeliane nascono dal settore militare: è il caso di NSO Group, sorto su iniziativa dell’unità 8200 delle IDF, le cui tecnologie di riconoscimento vengono utilizzate contro gli attivisti palestinesi ed esportate in tutto il mondo. La statunitense IBM opera in Israele dal 1972, addestrando personale militare e di intelligence; IBM gestisce anche il database centrale di alcune istituzioni israeliane, e consente la raccolta, l’archiviazione e l’uso governativo dei dati biometrici sui palestinesi. Accanto a IBM, c’è HP, che ha a lungo «abilitato i sistemi di apartheid di Israele, fornendo tecnologia al COGAT, al servizio carcerario e alla polizia». Le tecnologie di Microsoft sono integrate con il sistema israeliano, «nel servizio carcerario, nella polizia, nelle università e nelle scuole, comprese le colonie», nonché nell’esercito. Col passare degli anni, questo fitto sistema tecnologico ha iniziato ad avere bisogno di tecnologie cloud per l’archiviazione e l’elaborazione di dati, che nel 2021 Israele ha assegnato ad Alphabet (Google) e Amazon, con un contratto da 1,2 miliardi di dollari. La tecnologia, sottolinea Albanese, è redditizia: nel 2024 Israele ha registrato un aumento del 143% delle start-up di tecnologia militare, prodotti che hanno rappresentato il 64% delle esportazioni israeliane durante il genocidio.
Ultimo, ma non meno importante, elemento dell’economia della distruzione è l’impiego di tecnologie civili e mezzi pesanti per distruggere campi, abitazioni, e infrastrutture palestinesi. A guadagnare dalle operazioni di demolizione è stata, per decenni, la statunitense Caterpillar, fornendo attrezzature e mezzi pesanti, anche attraverso il programma statunitense di finanziamento militare estero. In collaborazione con aziende come IAI, Elbit Systems e RADA Electronic Industries (in mano alla nostra Leonardo) Israele ha trasformato il bulldozer D9 della Caterpillar in un armamento automatizzato dell’esercito israeliano. Anche Hyundai e Volvo sono da tempo collegate alla distruzione di proprietà palestinesi, fornendo «attrezzature attraverso rivenditori israeliani autorizzati esclusivamente». I mezzi di queste aziende sono oggi utilizzati tanto nella Striscia di Gaza quanto in Cisgiordania.
LA SOSTITUZIONE: RISORSE, COMMERCIO E TURISMO
In parallelo alla cacciata, alla segregazione e alla cancellazione dei palestinesi, le aziende hanno anche aiutato nella costruzione di ciò che li sostituisce: le colonie e tutto ciò che le circonda. Dopo ottobre 2023 queste ultime attività sono aumentate. Nel 2024, infatti, il bilancio del Ministero delle Costruzioni e dell’Edilizia Abitativa israeliano è raddoppiato. Oltre ai già citati mezzi pesanti per distruggere gli insediamenti palestinesi, Israele «saccheggia milioni di tonnellate di roccia dolomitica dalla cava di Nahal Raba su terreni confiscati ai villaggi palestinesi in Cisgiordania» concedendo licenze alla tedesca Heidelberg Materials. Proprio lo sfruttamento delle risorse e il conseguente controllo dei servizi essenziali risultano centrali nell’economia del genocidio israeliano: Mekorot detiene il monopolio dell’acqua nel territorio palestinese occupato; Gaza dipende dalle importazioni di carbonio e carburante di cui Drummond Company e Swiss Glencore sono i principali fornitori; lo Stato ebraico ha concesso licenze per l’esplorazione di idrocarburi a Chevron e BP. Il consorzio della Chevron fornisce inoltre più del 70% del consumo interno di gas naturale israeliano.
Israele guadagna e fa guadagnare alle aziende anche nei settori agricolo, commerciale e turistico. Tnuva, il più grande conglomerato alimentare israeliano, ora di proprietà maggioritaria della cinese Bright Dairy & Food, ha alimentato e beneficiato dell’espropriazione delle terre palestinesi, aumentando la dipendenza palestinese dall’industria alimentare israeliana; in molti Paesi non si fa distinzione tra i prodotti provenienti da Israele e quelli provenienti dalle sue colonie; alcune catene di supermercati come Carrefour operano direttamente nelle colonie, così come le piattaforme di commercio elettronico come Amazon; Booking e AirBnb affittano proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, tanto che negli ultimi cinque anni il numero di tali annunci è più che raddoppiato.
GLI ABILITATORI: FONDI PENSIONISTICI, ONG, ISTITUTI FINANZIARI
A oliare l’articolata macchina dell’economia del genocidio, permettendo la speculazione, sono ONG, banche, gruppi assicurativi, fondi sovrani e pensionistici, istituti finanziari. «Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un deficit del 6,8%». Ad aumentare la fiducia degli investitori sono intervenute alcune tra le più grandi banche del mondo, quali BNP Paribas e Barclays, che hanno sottoscritto i titoli israeliani, consentendo al Paese di contenere il premio del tasso di interesse, malgrado un declassamento del credito. Ad acquistarli, le maggiori società di gestione patrimoniale: Blackrock, per 68 milioni di dollari, Vanguard per 546 milioni di dollari, e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, PIMCO, per 960 milioni di dollari. Queste stesse società possiedono una cospicua percentuale di diverse delle aziende citate precedentemente: Blackrock è il secondo maggiore investitore in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%); Vanguard è il maggiore investitore istituzionale in Caterpillar (9,8%), Chevron (8,9%) e Palantir (9,1%), e il secondo maggiore in Lockheed Martin (9,2%) ed Elbit Systems (2,0%). BNP Paribas è stato uno dei principali finanziatori europei dell’industria delle armi che rifornisce Israele, prestando, tra le altre cose, 410 milioni di dollari a Leonardo; nel 2024, Barclays ha fornito 862 milioni di dollari a Lockheed Martin e 228 milioni di dollari a Leonardo.
Accanto agli istituti bancari e finanziari ci sono anche i fondi sovrani e pensionistici: dopo il 2023, il più grande fondo sovrano del mondo, il Norwegian Government Pension Fund Global (GPFG), ha aumentato i suoi investimenti in società israeliane del 32%, toccando quota 1,9 miliardi di dollari. Entro la fine del 2024, il GPFG aveva investito almeno 121,5 miliardi di dollari nelle aziende citate da Albanese, il 6,9% del suo valore totale. La Caisse de Dépôt et Placement du Québec, un fondo pensionistico canadese, vi ha invece investito 6,67 miliardi di dollari. Anche le organizzazioni di beneficenza religiose «sono diventate importanti facilitatori finanziari di progetti illegali», sfruttando i propri vantaggi fiscali. Il Fondo Nazionale Ebraico (KKL-JNF) e le sue oltre 20 affiliate finanziano l’espansione dei coloni e progetti legati all’esercito; dall’ottobre 2023, piattaforme come Israel Gives «hanno consentito il crowdfunding deducibile dalle tasse in 32 Paesi per unità militari e coloni israeliani»; Christian Friends of Israeli Communities con sede negli Stati Uniti, Dutch Christians for Israel e affiliati globali, hanno inviato oltre 12,25 milioni di dollari nel 2023 a vari progetti che sostengono le colonie, «compresi alcuni che addestrano coloni estremisti».
*(Dario Lucisano – Laureato con lode in Scienze Filosofiche presso l’Università di Milano, collabora come redattore per L’Indipendente dal 2024)
05 – GAZA*: I MERCENARI ASSUNTI DALLA UG SOLUTION, IMPIEGATI PER PROTEGGERE I PUNTI DI DISTRIBUZIONE DEGLI AIUTI UMANITARI A GAZA, STANNO UTILIZZANDO NON SOLO GRANATE STORDENTI E SPRAY AL PEPERONCINO CONTRO CIVILI PALESTINESI DISPERATI IN CERCA DI CIBO MA ANCHE LE ARMI DA FUOCO.
Lo denuncia il quotidiano “Politico”, che riporta la testimonianza di due contractor statunitensi anonimi in merito alle pratiche definite “pericolose e irresponsabili” di “personale armato non qualificato e apparentemente autorizzato a usare la forza senza controllo”. In alcuni casi, affermano i due intervistati, i mercenari hanno sparato in aria o a terra, ma spesso anche contro i civili causando un alto numero di vittime.
Video visionati da “Politico” mostrano centinaia di palestinesi ammassati tra cancelli metallici, mentre si sentono spari, esplosioni e lamenti causati dal gas urticante.
In un video visionato invece dall’agenzia Associated Press si vedono gli uomini delle ditte appaltatrici in piedi in cima a un cumulo di terra e, dopo una serie di spari, si sentono delle voci fuori campo che esultano in inglese e dicono “Penso che ne hai colpito uno” e poi “Diavolo, sì, ragazzo!”. Il contractor che ha filmato la scena ha dichiarato all’AP che gli altri hanno inizialmente sparato nel tentativo di disperdere la folla, ma poi hanno continuato a farlo deliberatamente, in direzione dei palestinesi che avevano raccolto i loro aiuti e stavano solo lasciando il sito.
L’inchiesta di “Politico” si somma alle diverse testimonianze emerse nei giorni scorsi che mettono sotto accusa per le stragi di civili non solo i soldati israeliani ma anche le guardie di sicurezza della “Gaza Humanitarian Foundation”, un’organizzazione statunitense istituita lo scorso febbraio per gestire direttamente la distribuzione di aiuti umanitari nella Striscia dopo che gli occupanti e Washington hanno esautorato l’”Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi” (Unrwa). Il governo statunitense ha donato 30 milioni di dollari alla fondazione, sostenuta anche da Israele, ma i suoi finanziamenti restano in gran parte opachi.
La decisione di espellere l’Unrwa è giunta dopo che Israele aveva completamente bloccato, per oltre due mesi, l’ingresso di cibo, acqua e medicinali a Gaza. Da qualche settimana gli aiuti sono ricominciati ad affluire, seppure con il contagocce, e la distribuzione è divenuta occasione di massacri quotidiani.
I giornalisti non hanno accesso ai centri di distribuzione, situati in aree sotto controllo militare israeliano, e negli ultimi mesi sono stati denunciati numerosi casi di attacchi ai civili in attesa degli aiuti da parte di militari israeliani.
Numerosi testimoni riferiscono che le forze israeliane aprono quotidianamente il fuoco sui corridoi che portano ai punti di distribuzione. Nell’ultimo mese sono state uccise 550 persone e circa 4000 sono state ferite.
Da parte sua Israele sostiene di sparare solo colpi di avvertimento e nega di prendere deliberatamente di mira civili, affermando di voler ridurre la “frizione con la popolazione”.
Intanto oggi, secondo l’ufficio per le informazioni del governo di Gaza, almeno 94 persone sono state uccise nella Striscia, tra cui 33 civili in attesa di aiuti alimentari. Le autorità locali accusano le truppe di Israele di aver colpito aerei aree civili sovraffollate, come rifugi, centri di sfollamento, abitazioni, mercati popolari e punti di distribuzione alimentare gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf).
Secondo fonti mediche citate dall’emittente televisiva qatariota “Al Jazeera”, tredici persone sono morte nel bombardamento di una tenda ad al Mawasi, nel sud della Striscia, mentre altre undici sono state uccise in un raid che ha colpito la scuola Mostafa Hafez, a ovest di Gaza City, dove avevano trovato riparo sfollati interni.
*(Da Deir al Balah, il corrispondente della tv araba, Tareq Abu Azzoum, ha raccolto testimonianze di sopravvissuti che parlano di “fuoco improvviso e non annunciato” mentre centinaia di persone attendevano razioni alimentari. “La zona era inaccessibile ai soccorritori a causa della densità degli spari”, ha dichiarato il giornalista. Redazione Mappamondo, Medioriente)
06 – SOLDI A RICCHI E DIFESA, PAGANO I LAVORATORI: LA “GRANDE E BELLISSIMA LEGGE” DI TRUMP. «CON QUESTA LEGGE HO MANTENUTO TUTTE LE PROMESSE CHE AVEVO FATTO». È QUANTO HA AFFERMATO IERI IL PRESIDENTE STATUNITENSE DONALD TRUMP DURANTE UN COMIZIO IN IOWA SULLA “ONE BIG BEAUTIFUL BILL ACT” (LA “GRANDE E BELLISSIMA LEGGE”), APPROVATA IERI IN VIA DEFINITIVA DALLA CAMERA CONTROLLATA DAI REPUBBLICANI. (*)
Nonostante le divergenze e le perplessità che circolavano tra i repubblicani, alla fine solo due dei 220 membri della Camera hanno votato contro, dopo una notte di stallo. Si tratta di una delle iniziative legislative più importanti del secondo mandato di Trump che si fonda su due pilastri: la riduzione della pressione fiscale e l’aumento della spesa per la sicurezza e la difesa delle frontiere. Un punto, quest’ultimo, su cui il presidente statunitense ha posto subito l’accento affermando che «metteremo fine all’invasione dei nostri confini», una tematica particolarmente sentita dal suo elettorato. Secondo i repubblicani, la legge ridurrà le tasse per gli americani in tutte le fasce di reddito e stimolerà la crescita economica, ma a smentirli è intervenuto subito il CBO (Congressional Budget Office), l’agenzia indipendente del Congresso degli Stati Uniti, secondo cui gli americani più ricchi trarrebbero i maggiori benefici dal disegno di legge, mentre le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi a causa dei tagli alla spesa pubblica e allo stato sociale. In altre parole, la legge si concretizzerebbe in un travaso di ricchezza verso le classi sociali più ricche e pagarne il prezzo più alto sarebbero solo i lavoratori e le classi sociali meno abbienti.
Nello specifico, secondo il CBO, la legge ridurrebbe le entrate fiscali di 4,5 trilioni di dollari in 10 anni e taglierebbe la spesa di 1,1 trilioni di dollari: a risentire dei tagli alla spesa sarebbe innanzitutto il Medicaid, il programma sanitario che copre 71 milioni di americani a basso reddito. La “grande e bellissima legge”, infatti, inasprirebbe i requisiti di iscrizione al programma e limiterebbe un meccanismo di finanziamento utilizzato dagli Stati per incrementare i pagamenti federali, lasciando quasi 12 milioni di persone senza assicurazione, secondo il CBO. Oltre ai tagli alla sicurezza sanitaria, la legge ridurrebbe anche i fondi relativi alla sicurezza alimentare e azzererebbe decine di incentivi per l’energia “verde”. Al contrario, invece, la legge stanzierebbe la cifra senza precedenti di 170 miliardi di dollari per il controllo dell’immigrazione, secondo un’analisi dell’American Immigration Council, un ente pro-immigrazione, e secondo un’analisi dell’agenzia di stampa Reuters. Di questi 170 miliardi, 45 sarebbero spesi per la detenzione degli immigrati, aumentando così il numero di persone detenute dalle attuali 41.500 al giorno, in media, ad almeno 100.000, il numero più alto di sempre.
Oltre alla riduzione della pressione fiscale e l’aumento delle spese per la sicurezza interna, la legge estenderà, rendendo permanenti, i tagli fiscali del 2017, approvati durante il primo mandato del tycoon. Tra le nuove agevolazioni fiscali previste ci saranno quelli sulle mance, gli straordinari, gli anziani e i prestiti per le auto, tutte cose promesse da Trump durante la campagna elettorale. Inoltre, il provvedimento approvato al Congresso intende ridurre gli sprechi pubblici e innalzare il tetto del debito degli Stati Uniti. Proprio quest’ultimo punto ha suscitato preoccupazione per le finanze pubbliche, in quanto si teme che l’eccesso di debito possa limitare lo stimolo economico previsto dalla norma, creando un rischio di maggiori costi di indebitamento a lungo termine.
Uno dei punti più critici del provvedimento, tuttavia, resta il potenziale trasferimento di ricchezza dai poveri verso i ricchi segnalato dal CBO: secondo l’ufficio di bilancio del Congresso, infatti, entro il 2033, il 10% delle famiglie con il reddito più basso vedrebbe le risorse finanziarie a loro disposizione diminuire del 4% ogni anno, mentre il 10% con il reddito più alto le vedrebbe aumentare del 2%. Secondo alcuni analisti, l’esenzione fiscale sulle mance avrebbe pochi vantaggi sui cittadini americani a basso reddito e coloro che ne trarranno beneficio potrebbero comunque vedere i guadagni controbilanciati dai tagli all’assistenza sanitaria e alimentare. Inoltre, le persone con redditi più bassi vedrebbero di fatto diminuire i propri redditi, poiché i tagli alla rete di sicurezza sociale supererebbero i tagli alle tasse. Nonostante ciò, l’idea di rendere esentasse le mance, e in generale la legge fiscale nel suo complesso, ha riscosso una grande approvazione tra l’elettorato trumpiano.
Il capo democratico della Camera, Hakeem Jeffries, in un discorso record di otto ore e 46 minuti ha invece affermato che «L’obiettivo di questa proposta di legge, la giustificazione per tutti i tagli che danneggeranno la gente comune americana, è quello di garantire massicce agevolazioni fiscali ai miliardari». Come prevedibile, le disposizioni fiscali di Trump hanno rinvigorito le divisioni presenti nella società americana, avvantaggiando però con ogni probabilità le classi ricche della popolazione, sebbene gli elettori del capo della Casa Bianca siano in gran parte cittadini della classe media e lavoratori.
*(Giorgia Audiello – Laureata in Economia e gestione dei beni culturali presso l’Università Cattolica di Milano. Si occupa principalmente di geopolitica ed economia con particolare attenzione alle dinamiche internazionali e alle relazioni di potere globali.)
07 – Alessandro Visalli*: LA COLLINA E LA PIANURA. POSIZIONI EGEMONICHE E PRETESE IMPERIALI – SIAMO NEI PRESSI DI QUEGLI ISPIDI PASSI DI MONTAGNA NEI QUALI I SENTIERI SI BIFORCANO. DA UNA PARTE IL LARGO SENTIERO BATTUTO DELL’OCCIDENTE PROSEGUE IL SUO LUNGO RESTRINGERSI. DALL’ALTRA UN RIVOLO SI AMPLIA, AL CONTEMPO FACENDOSI VIA VIA PIÙ LISCIO E COMODO. IL VECCHIO SENTIERO, DA QUALCHE TEMPO SI FA PER MOLTI PIÙ RIPIDO, PIETROSO, DENSO DI RISCHI, IL NUOVO È CRESCIUTO SOTTO MOLTI PROFILI ALL’OMBRA, MA NEL TEMPO SI È FATTO VIA VIA PIÙ LARGO E FORTE. I DUE SENTIERI SEMBRANO DIVARICARSI.
Ad aprile, in “Considerazioni intermedie su tempi complessi” [1], proponevo di saggiare prudentemente i bordi di quel consolidato e rassicurante schema mentale per il quale siamo solo in una perturbazione, se mai ciclica, del cammino indefettibile e (perché tale) provvidenziale dell’umano universale. Un umano che, alla fine liberato dai vincoli ascrittivi delle tradizioni, e ovunque secolarizzato [2], vedrà in ogni luogo e tempo l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della democrazia, forma perfetta della loro espressione). Il cammino indefettibile risulterebbe in questa visione più forte di ogni eccezione temporanea alla finale “occidentalizzazione” del mondo. Chi vede questi tempi confusi sotto questa lente tradizionale non può che vederli come un incomprensibile incidente, un’aberrazione (ed è quel che il buon cittadino cerca di fare, dichiarando sistematicamente come “pazzi” coloro che deviano). Ciò che scuote il buon cittadino è la nascita e il rafforzamento dei Brics[3], la crescita lungo la catena del valore della Cina[4], e, facendo leva sulle modifiche delle basi produttive per effetto dell’introduzione di nuovi ecosistemi tecnologici, dietro di lei di altri[5], i movimenti politici non liberali nei santuari occidentali[6], l’indisponente rifiuto della Russia a riconoscersi sconfitta nella guerra in Ucraina, o dell’Iran a conformarsi all’invito di scegliere meglio i suoi governanti durante lo scontro con Usa e Israele nella “guerra dei 12 giorni”[7].
Stazionando nei bordi di questo rassicurante schema mentale, di questa cosmologia e fede trascendente, sorge il sospetto che le anomalie abbiano un segreto. E che sia semplice: l’egemonia tecnica, economica e politica dell’Occidente non era il segno della designazione divina, come vorrebbero le due principali teocrazie mondiali (i due governi più trascendenti del mondo [8]), quella americana e quella israeliana, ma un fatto meramente e pienamente storico. Come tale provvisorio.
Ma se è provvisorio, diventa possibile chiedersi cosa cresce fuori.
Zhang Weiwei [9], in un articolo di giugno 2025 su Guancha [10], sottolinea un’importante differenza tra ciò che è fuori delle munite colline dell’occidente anglosassone e il ‘giardino’, come si trovò a chiamarlo Joseph Borrell [11]: i popoli controegemonici cinese e russo possiedono secondo questa lettura un’eredità culturale che deriva dalla medesima struttura familiare (qui echeggiando, da avversario, l’analisi di Todd [12]) e di paese. Un caratteristico stile che attribuisce valore al collettivo prima che all’individuo e l’esperienza di una storia nella quale hanno grandemente sofferto (entrambi in occasione delle Guerre Mondiali promosse dall’Occidente). Come sostiene Weiwei, chi ha memoria, e riposa nella certezza della propria identità e forza, non ha bisogno di schiacciare l’altro. Può praticare lo spirito di Bandung: il non allineamento, non confronto e non prendere di mira terze parti.
Ma c’è una differenza, che lo stesso Weiwei sottolinea, la Russia è un attore che cerca attivamente di cambiare l’ordine internazionale unipolare, opponendo forza a forza e che è giunta, dal suo punto di vista per autodifesa[13], fino alla guerra di aggressione per affermare il proprio diritto alla sicurezza. La Cina, invece, è piuttosto un paziente riformatore, che cerca di integrarsi negli scambi internazionali, si sforza pragmaticamente di accumulare benefici bilaterali e di evitare danni. Dunque, la differenza tra le due posture è che quella cinese punta a un nuovo ordine multipolare senza egemoni centrali, equo e cooperativo, mentre gli Usa, provenendo dalla fase unipolare, vogliono ripristinare lo schema mercantilista e il sistema di Yalta.
Viceversa, i principi di non allineamento, non conflitto e non attacco a terze parti, sono l’esatto contrario della postura statunitense che consiste nel cercare sempre chi è il nemico. Postura che individua ora come nemico la Russia e la Cina, ma non disdegna di identificarne in ogni quadrante geostrategico.
Per capire per quale ragione l’Occidente vede autoritarismo dove altri vedono coesione sociale in termini di sistemi-paese, e con particolare riferimento alla Russia, ci si può riferire ad una lettura critica del potente, ma semplificato, schema di Todd[14]. Come ricorda l’autore francese dal 2000 l’Occidente collettivo ha iniziato un processo di mobilitazione, percependo la Russia come avversario strategico e nemico esistenziale in particolare dalle sinistre (in Usa, Francia, Gran Bretagna e altrove). Ad esempio, nel 2016 la postura verso il mondo Russo fu oggetto di scontri isterici nella campagna presidenziale americana. Riemerse la russofobia che ha radici storiche e, secondo la lettura di Todd, antropologiche. I valori comunitari che caratterizzano il popolo russo sono sempre percepiti nell’Occidente liberale, e quindi tanto più quanto più è liberale (da sinistra verso destra), come autoritarismo o “totalitarismo”[15].
Ma la radice di tale “verticalismo elettorale” non è da rintracciare nel controllo dei media, o in altri fattori patologici o leaderistici, quanto nell’essere una ‘democrazia-ceppo’. Ovvero, nell’organizzazione sociale che nel sistema caratterizzato dalla famiglia comunitaria esogama[16] (Russia, Serbia, Albania, Cina, Vietnam, Italia centrale, Finlandia) è organizzato tradizionalmente per grandi famiglie patriarcali e comunità di villaggio, in Russia sotto l’autorità del mir. La differenza che rende incomprensibile questa visione per la mente “occidentale” (in realtà per la mente anglosassone) è determinata dalla distanza con le tradizioni familiari nucleari e bilaterali (nell’Est quelle della Polonia e di parte dell’Ucraina). O, come dice Todd, con le “famiglie stipide” [17] (Scozia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Germania, Austria, Svizzera), nelle quali la trasmissione ereditaria avviene verso il primogenito, con conseguente dottrina della predestinazione e della disuguaglianza, da una parte, e con le famiglie “nucleari” [18] anglosassoni, poi estremizzate in America e tradotte in quello che Todd chiama la “democrazia razziale” [19]. Una democrazia nella quale il razzismo non è imperfezione, ma caratteristica strutturale. Nel senso che il gruppo, altrimenti minacciato costantemente di frammentazione identitaria e individuale, forma la propria coesione per differenza con gli “Altri” (nativi prima, neri dopo, varie minoranze in mezzo, e oggi chi non appare allineato); ovvero nel sentirsi superiore perché predestinato. L’affermazione di sé, come gruppo, avviene tramite il rigetto dell’altro, precisamente, scrive Todd, “di tutti gli altri”.
Per le stesse ragioni l’Occidente, fino a che tra le sue molte anime prevarrà quella anglosassone, nella versione estrema americana, non riesce a comprendere e accettare la differenza di sistemi comunitari ed egualitari, e spesso patrilineari ed autoritari, come quello cinese (e, per certi versi, anche arabo). Il punto è che si tratta di visioni del mondo, radicate in un orientamento antropologico di base, opposte che portano a visioni geopolitiche inconciliabili. E porta alla caratteristica postura “trascendente” della politica statunitense.
Come riassume lo stesso Todd, ormai ben otto anni fa:
“a livello internazionale, l’egualitarismo cinese porta ad una visione vicina a quella della Russia, quella di un mondo multipolare costituito da nazioni equivalenti. La Cina si presenta quindi come un attore ragionevole e affidabile sulla scena internazionale”[20].
Senza condividere l’approccio weberiano ed hegeliano dell’autore, e quindi la sua drastica svalutazione del dinamismo cinese (che nel 2017 prevede sull’orlo della stagnazione[21], contraddetto fragorosamente nei successivi otto anni[22]), questa semplificata visione monocausale (che riconduce tutto, religione inclusa, all’unica radice delle strutture familiari e in esse delle dinamiche padre/figli e uomo/donna), contribuisce a spiegare la reciproca incomprensione. Chiaramente il modello di Todd[23], che valorizza le culture “del testo”[24], incontra obiezioni e confutazioni significative nella sua rigidità; ad esempio quando il nesso weberiano tra protestantesimo, individuo autonomo, coscienza razionale e critica, e spinta conseguente verso l’istruzione di massa e l’alfabetizzazione, si scontra con il fatto della storica superiore alfabetizzazione e istruzione di massa del mondo arabo, già dal IX secolo, e del mondo cinese dalla dinastia Song (960-1279) in poi. L’Islam e il confucianesimo sono entrambe culture “del testo”, ma non diventano per diverse ragioni incubatori né della democrazia liberale né della modernità all’occidentale. Insomma, il pensiero di Todd rischia di restare impigliano nell’eurocentrismo. Ovvero di leggere la storia umana come una parabola verso la modernità occidentale, e di valutare altre civiltà in base alla loro conformità o distanza da questo modello. Viceversa, come mostrano storici come Kenneth Pomeranz[25] o Jack Goody[26], la storia globale è segnata da molteplici vie alla modernità, e l’Europa non deteneva su queste alcuna superiorità predeterminata. Per richiamare la sintesi di Goody, l’idea che l’Europa abbia acquisito un vantaggio precoce (nel “miracolo greco”, ad esempio), poi perso nel medioevo, e recuperato per via di una superiorità militare dall’anno mille (tesi di Landers[27]), o per effetto del cristianesimo (tesi di Dumont[28]) o all’individualismo germanico originario (tesi di Macfarlane[29]), o, ancora, dell’innovazione tecnica derivante da una superiore creatività (tesi di Brenner[30]), o, per effetto dell’espansione coloniale (tesi di Wallerstein[31]), ma anche dell’illuminismo (Habermas[32] e Giddens[33]), o, come sintesi di molte di queste linee alla “rivoluzione industriale”.
La differenza che si manifesta, come si vede da lungo tempo, tra le culture “comunitarie” e quelle dominate dall’individualismo ed improntate alla “democrazia razziale” occidentale, contiene la fine della legittimità della pretesa, nutrita da cinque secoli, di incarnare e guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Modernizzazione che è al contempo sinonimo di sviluppo scientifico e tecnologico, di liberazione dalle tradizioni e dall’influenza di spiriti e religioni, di creazione del “sociale” come espressione collettiva del “civile” e quindi del concetto di “cittadino” e di “individuo”.
Concetti, tutti, che fanno rete nella nostra mente e gli consentono anche di assumere quella tipica postura “critica” che è il lascito dell’età delle rivoluzioni (tra le quali anche quelle non “occidentali”, anzi, in effetti, soprattutto queste: quella di Haiti, che è la prima, le rivoluzioni anticoloniali sud americane, la Messicana e quella Cinese che partono negli anni Dieci del Novecento, quella Russa, che non è pienamente tale, i tanti movimenti di liberazione anti-coloniale, quella cubana, e via dicendo). Postura critica che, vista dall’Occidente, si definisce tramite un catalogo come soggetto, individuo, cittadinanza, diritti umani, società civile, sfera pubblica, sovranità popolare, stato, democrazia, giustizia sociale. Mentre, da quello della gran parte del mondo, il catalogo è, piuttosto rappresentato dalle parole, comune, autonomia, libertà sociale e collettiva, indipendenza, sovranità nazionale, stato, giustizia. Quindi, da una parte sono valorizzati individuo, diritti, cittadinanza, dall’altro, comunità, autonomia, giustizia collettiva. Reti di concetti ai quali non possiamo e dobbiamo rinunciare e che non dobbiamo reciprocamente svalutare, ma che dobbiamo vedere nella loro provenienza etnografica e storica, ma anche nella loro funzione (talvolta) di schermo e giustificazione. Spesso nella loro disponibilità a farsi tradire, proprio nel momento in cui sono pretesi come universali senza alcun bisogno di traduzione.
Quando immaginiamo il primo catalogo come universale, posto come destino. Allora prevale la “città sulla collina” [34] americana, poi divenuta eccezionalismo missionario, giustificazione dell’interventismo, universalismo militarizzato; causa che è sempre “just, moral, right” [35], e trasforma l’iniziale impulso di colonialismo religioso (implicitamente razzista) in impulso laico che vede un “altro” da liberare, istruire, civilizzare, se necessario con la forza. Ciò in quanto, “The survival of liberty in our land increasingly depends on the success of liberty in other lands… The call of freedom comes to every mind and every soul.” (discorso di insediamento di George W. Bush nel 2005).
Questa vocazione ad un tempo universalista, trascendente nel senso già detto, e differenziale per effetto di una predestinazione, conduce gli Stati Uniti[36], e prima la Gran Bretagna imperiale, ma anche un paese per certi versi simile quanto a ispirazione[37] come Israele, a definire alleanze, dottrine strategiche, obiettivi ed ambizioni in una prospettiva che vede il mondo intero e l’eternità come unica destinazione.
Nel momento in cui questo caratteristica spinta universalista e provvidenziale è stata trattenuta da limiti di potenza, durante l’ascesa nel XIX secolo, o il confronto con altri progetti imperiali e trascendenze (delle potenze europee, dei fascismi e del comunismo, per dire i principali) nella prima metà del XX gli Stati Uniti sono stati limitati; come lo sono stati dal blocco sovietico (una trascendenza intramondana particolarmente forte, ma meno espansiva nella pratica, anche per limiti interni di capacità) durante la Guerra Fredda. Al termine di questa, nel 1991 e seguenti, si è avuta una rapida espansione non frenata e una fase di ubriacatura unipolare, durante la quale l’’eccezionalismo’ è stato rilanciato ideologicamente e praticamente. Ma questo ha portato ad una sovra estensione e alla crescita di nuovi e vecchi concorrenti egemonici.
Si rende ormai necessaria una “ritirata imperiale” che restringa le catene logistiche bisognose di protezione e riduca drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio (convertendoli in ampliamento della spesa militare dei satelliti), rinegozi il multilateralismo, e quindi i margini di autonomia degli attori principali, si garantista gli spazi effettivi di autonomia strategica che poggiano sulla industrializzazione e l’equilibrio delle partite commerciali e finanziarie. Chiaramente, e qui viene la difficoltà forse insormontabile, questo programma di rivolgimento presume da una parte conservare il consenso delle masse (ovvero la formazione di un “blocco sociale populista” di riferimento), dall’altra la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque l’affermazione della “logica territorialista” (Arrighi[38]) alla scala opportuna. Questa “ritirata” strategica è resa indispensabile da cinque fattori:
L’attuale amministrazione americana è espressione, ed ultimo risultato, dell’esaurimento per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti di recupero, del modello di ‘accumulazione per spoliazione’ del liberismo. Tale modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale (come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da Karl Polanyi[39]che pose termine all’egemonia inglese).
E’ quindi espressione del tentativo di trovare una nuova formula politica di gestione della situazione.
Parte necessaria di questo tentativo è il superamento con assorbimento-incorporazione e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve diventare forma di governo e rientrare. Al contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “nazionalismo imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli[40]).
La ricerca di un “prelievo imperiale”[41], intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina, deve perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di potere, con referenti sociali precisi.
Quindi per la ricerca di una soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che rivoluzioni-conservando per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa è la novità direi), sopendo e reprimendo e creando nuova gerarchia.
Dal lato americano questo progetto, abbozzato ma necessario, prevede un’aspra riorganizzazione del mondo su base bi o tripolare, e quindi una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie che ne consegue. Perderanno, o almeno questa è l’idea, i centri industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia probabilmente l’Inghilterra) se non accettano di stare al loro posto di fortini di confine.
In questa struttura d’ordine, potrebbe esserci uno spostamento relativo di ricchezza dall’economia dell’intrattenimento e immateriale, privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale l’Iran ne laurea come gli USA, la Russia il doppio (e per lo più donne).
Dunque, dal lato occidentale il “Nazionalismo imperiale” potrebbe essere la nuova forma ideologica adatta a questa configurazione (che richiederà anni per affermarsi) che, nella versione Usa, potrebbe essere vestita di universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto vesti di diverso colore (che all’inizio confonderanno). D’altra parte, se si tratta di ridefinire, ed al contempo consolidare, il “perimetro di protezione”[42], la questione centrale resta definire una “propria area”. E qui, in un mondo multipolare conterà anche lo stile di egemonia, ovvero la capacità di esprimere quel che Nye chiama “soft power”[43].
Una risorsa che la mossa della Presidenza americana, nella sua franca brutalità, mette a rischio nel medio termine. Abbiamo, infatti, avuto come prime mosse della nuova amministrazione Trump, minacce agli alleati danesi per il dominio di aree geografiche decisive per la competizione nel Grande Nord (Artico), al Canada, a Panama; una brutale serie di semi-ultimatum all’Europa sulla spesa militare, sul sostegno alla guerra ucraina (che cerca di terminare), una sconvolgente guerra dei dazi verso tutti, seguita da una trattativa uno-ad-uno che ha visto uno scontro con numeri a tre cifre con la Cina e un compromesso che è apparso a tutti da posizione di debolezza relativa. Per effetto di tali mosse, un significativo indebolimento del dollaro, che aiuta su due piani l’amministrazione, favorendo le esportazioni e inibendo le importazioni e riducendo in valore reale il debito, ma rischia di provocare la fuga dai Titoli del Tesoro, con conseguente innalzamento del servizio del debito. Inoltre, rischia di alimentare l’inflazione (per ora non vista) e, insieme alla nuova legge finanziaria BBB[44], appena approvata, può spostare i rapporti di forza economici ancora più verso le élite, rendendo difficile l’equilibrio politico[45] che ha portato al potere Trump.
Il contesto generale è dato da un deficit insostenibile e crescente, ormai pari al 120% sul Pil ed in peggioramento[46], perdita di credibilità internazionale, di influenza geopolitica, crescenti difficoltà di finanziare le spese “imperiali” (soldati all’estero[47], armi per gli amici[48], gestione di scontri frizionali[49], erogazioni compensative verso ‘clientes’ contesi dalla controparte), e una competizione ideologica in termini di progetti-mondo che si sta riaccendendo per effetto della sfida sistemica dei Brics, che propongono un modello alternativo di ordine mondiale che sia multipolare, non preveda egemonie fisse e rigide, enfatizzi la sovranità, la non-ingerenza, lo sviluppo e il rispetto culturale e politico. Un confronto, questo ultimo, che vede da una parte la logica dell’universalismo liberale (mercati ‘aperti’, primato americano in quanto parte del destino manifesto) e dall’altro il pluralismo culturale (modello di sviluppo e politici differenti, nuove centralità regionali).
La perdita di credibilità internazionale, un asset cruciale, potrebbe essere accelerata anche dallo svolgimento e dagli esiti della “Guerra dei 12 giorni” con l’Iran. Infatti, un effetto della guerra è, contro alcune apparenze dovute alla copertura mediatica orientata e propagandistica in Occidente, la dimostrazione di vulnerabilità di Israele ad attacchi con mezzi moderni (missili ipersonici che per lo più non sono stati intercettati) o massivi. Inoltre, la conferma di alcune alleanze iraniane (Pakistan e Yemen), l’influenza sotto traccia della Cina e della stessa Russia, che hanno esibito incontri bilaterali subito prima dello show Usa (bombardamento annunciato dei siti nucleari e risposta iraniana sulle basi americane, anch’essa annunciata, entrambe senza vittime) e seguente cessate il fuoco. Ciò viene confermato dalla rapidità con cui Cina e Russia hanno chiesto il cessate il fuoco (appena dopo il blitz americano) che non può essere interpretato in altro modo che come una dimostrazione coordinata di forza negoziale (ed accordo preventivo): le controparti hanno lasciato che la guerra rivelasse i limiti di Israele, per poi spingere su tavoli multipolari e chiudere l’accordo con gli Usa (probabilmente imponendolo ad un riluttante Netanyahu, che rischia libertà e carriera politica[50]).
In altre parole, questo scontro ad alto contenuto simbolico e danni tutto sommato limitati, con intensità medio-alta ma controllata da entrambe le parti (colpi mirati e repliche calibrate), è in effetti da vedere come uno dei luoghi di insorgenza del nuovo Ordine Multipolare. Il messaggio che resta è che l’Occidente può essere fermato, o limitato, e la risposta dei contro-egemoni, se coordinata e sostenuta a strati, può essere efficace. Potrebbe essere letto tra qualche tempo, insieme all’esito che si avvicina della crisi ucraina, nella quale la Russia insiste a voler raggiungere i suoi obiettivi e la risposta occidentale ha sempre meno margini, come una soglia di mutazione dell’ordine internazionale. Ordine nel quale si presentano equilibri di fatto che impediscono esiti come quello siriano (o libico), in favore, se mai, di messe in scena geopolitiche per saggiare determinazione e resistenza nei punti di margine. La posta delle prossime micro-guerre, che saranno numerose e per un tempo non breve, sarà la ridefinizione e l’aggiustamento della percezione e della determinazione in contesto di confronto altamente “ibrido”[51]. Lo stato più piccolo, aggressore ma tecnologicamente avanzato e con l’alleato più forte, è stato mostrato vulnerabile ad attacchi militari asimmetrici, informatici, diplomatici e propagandistici, oltre che minacce al sistema mondiale energetico, l’obiettivo era la coesione interna e la percezione pubblica, la mente prima del territorio. Nel campo simbolico lo stato più grande, ma meno sostenuto direttamente e aggredito, ha lottato sul terreno simbolico, esibendo resilienza, alleanze ibride anche nuove, ed anche implicite, profondità strategica e orgoglio. Sembra essere stato la prova di una strategia di “deterrenza inversa”, che punta a dimostrate che l’Occidente può essere limitato anche senza sconfiggerlo in un troppo costoso (per tutti) scontro militare diretto generalizzato. Una strategia la cui posta sono l’apertura di fratture sistemiche, la creazione di tensioni interne nella struttura politico-sociale della controparte, la rinegoziazione implicita delle sfere di presenza ed influenza.
Il punto è, allargando la prospettiva, che in questo scontro storico per la preminenza globale – visto dalla “collina” occidentale come una lotta per mantenere il primato, e dalla “pianura” come il tentativo di affermare relazioni più paritarie – il vero campo di battaglia non sarà solo quello degli scontri “ibridi” di confine. Sarà decisivo imporre come egemone la propria “piattaforma geo-tecnologica”[52] e quindi ridurre al margine l’altra. Non si tratta qui solo di imporre il proprio ritmo di innovazione, quanto di: orientare gli standard internazionali (tecnici, commerciali e legali); definire una rete di partner che intrecciano le proprie economie e condividono le tecnologie-chiave; estendere le proprie reti finanziarie e infrastrutturali; consolidare flussi di uomini e competenze, ampliando e gestendo le relative “diaspore”; sviluppare il soft power, l’influenza ed il prestigio culturale; controllare l’immaginario e il futuro. Ora, detto in modo altamente schematico, la “piattaforma geo-tecnologica” cinese si impernia su un sistematico e programmatico, ma anche profondamente radicato nella cultura storica, rifiuto della logica amico-nemico, sostituito dalle molteplici vie (Dao) alla comune umanità. Invece, la “piattaforma geo-tecnologica” americana, immagina una gerarchia e l’ineguaglianza in modo che, ordinatamente, ognuno abbia i “suoi” satelliti da gestire (verso i quali regolare a proprio favore le ragioni di scambio) e da “proteggere” (cosa che costa), e tra questi ci siano scambi regolati dai rapporti di forza.
Dunque Trump immaginava di rovesciare il tavolo inclinato del declino relativo americano, facendo un accordo separato con la Russia, confinando la Cina nello scacchiere Indopacifico, al contempo avendo via libera per estendere la propria marcatura geopolitica all’intero continente americano, integrando strettamente in posizione subalterna Canada e Goenlandia, il Canale di Panama (da sottrarre alla proiezione di capitali cinesi), recuperando in Argentina (per ora fatto, grazie a Milei) e Brasile, e quindi nell’intero sub-continente. Ciò comporta il superamento della sfida sistemica dei Brics+ e la formalizzazione di una sorta di Nuova Yalta.
Ma la Cina non appare disponibile. Oltre ad essere una postura storica del “paese di mezzo”, questa impostazione segue anche una lettura pratica e storica: sul piano storico la Cina ha imparato dall’esperienza della spartizione con Yalta dell’Europa in aree di influenza tra l’Urss da una parte e gli Stati Uniti e il Regno Unito dall’altra. Un accordo che aveva definito la quantificazione in percentuale del rispettivo potere in ciascun Paese. Alla fine, questi accordi, nel complesso dello svolgimento del quarantennio della loro vigenza, imposero a Usa e Urss costi elevatissimi per la continua stabilizzazione sul piano militare ed economico dei “satelliti”. Inoltre, costò all’Urss il danno reputazionale della repressione dell’Ungheria nel ’56, e della Cecoslovacchia nel ’68 o, infine, della Polonia nel ’78, fino a che gli Usa decisero di sostenere Solidarnosc e fare crollare il Muro di Berlino. Gli Usa dovettero sostenere l’Europa, favorire la reindustrializzazione tedesca, giapponese e italiana, detenere importanti forze di occupazione fino ad ora, compiere decine di interventi militari in centro e sud-America, in Medio-Oriente, in Asia, favorire regimi fascisti e colpi di stato, etc.
Sul piano pratico la Cina sa che i rapporti con i vicini nell’Indopacifico sono tutt’altro che semplici, storicamente molti di loro si sono sempre sentiti contenuti dalla presenza del gigante economico e demografico asiatico. Per non parlare del rapporto con i due rivali ad Oriente ed Occidente, Giappone e India, che in una prospettiva meramente confinata non sarebbe gestibile. Insomma, restare confinato in una sola regione, ricchissima ma altamente complessa, non è nel suo interesse e ridurrebbe enormemente le prospettive del paese.
Pechino, dunque, non intende abbandonare la sua storica postura per il Sud del mondo e il suo millenario orientamento alla “Comunità umana dal futuro condiviso” (per usare la formula programmatica di Xi). Ovvero alla vocazione a ‘risuonare’ e ‘trasformare’, raggiungere ‘l’unità nella molteplicità’, e ‘l’armonia senza riduzione all’Uno’. Quindi non rinuncia allo schema plurale (e per questo ad un tempo modesto e contraddittorio, caratteristica che guardata da occhi occidentali è una debolezza, da orientali una forza) dei Brics+; ovvero a cooperazioni orizzontali tra diversi e lontani, basate su pragmatici interessi, e rispetto reciproco.
Anche su questo piano, delle rispettive visioni strategiche, si gioca il futuro del mondo.
*(Alessandro Visalli – architetto e dottore di ricerca in Pianificazione territoriale. Da anni si occupa di scienze del territorio e di ambiente, e nel blog “Nella fertilità cresce il tempo”)
Note
[1] – Alessandro Visalli, “Considerazioni intermedie su tempi complessi”, Tempofertile, 14 aprile 2025.
[2] – Si veda il meraviglioso libro di Charles Taylor, L’età secolare. Feltrinelli 2007 (ed. or. 2007).
[3] – Nel 2001 l’acronimo Bric (Brasile, Russia, India, Cina) fu creato da Jim O’Neill di Goldman Sachs, secondo il quale si trattava delle economie emergenti destinate a dominare il XXI secolo. Questa profezia diventa un organismo di cooperazione interstatale nel 2009 con il primo vertice di Ekaterinburg, in Russia. Nel 2010 aderì il Sud Africa. Da allora i cinque paesi tengono summit regolari per coordinare le politiche economiche e finanziarie, ed in misura minore, geopolitiche. Nel 2104 il gruppo fondò la Nuova Banca di Sviluppo (NDB) e poi il Contingent Reserve Arrangement (CRA), espressamente disegnati per fornire alternative alla BM e FMI ai paesi del Sud del mondo. I Brics sono impegnati, con qualche ambiguità nelle politiche indiane e differenze di vedute in quelle russe e cinesi, nella promozione di un ordine multipolare, nella riforma dell’ONU, la cooperazione Sud-Sud, e la riduzione del ruolo centrale del dollaro. Dal 2023 al 2025 sono entrati Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, mentre hanno acquisito lo status intermedio di “partner associati” la Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan, Vietnam. Tra i progetti strategici si trova: il sistema di pagamento alternativo all’Occidentale SWIFT, una valuta digitale dei Brics, alcuni corridoi infrastrutturali come l’International North-South Transport Corridor (INSTC) che dovrebbe collegare India, Iran, Russia e Asia Centrale, l’integrazione e potenziamento della Belt and Road Initiative cinese. I Brics+ controllano il 40% della produzione petrolifera mondiale, ovvero insieme agli Usa definiscono l’80% della produzione. Altri venticinque paesi hanno presentato domanda ufficiale di ingresso o manifestato la volontà, sono Afghanistan, Arabia Saudita, Azerbaigian, Bahrein, Bangladesh, Birmania (Myanmar), Iraq, Kuwait, Laos, Pakistan, Palestina, Sri Lanka, Siria, Turchia, Yemen, Algeria, Angola, Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, RD del Congo, Ghana, Guinea Equatoriale, Libia, Mali, Senegal, Sudan, Sudan del Sud, Tunisia, Zimbabwe, Bolivia, Colombia, El Salvador, Messico, Nicaragua, Perù, Uruguay, Venezuela, Serbia.
[4] – Malgrado l’opinione prevalente degli osservatori economici occidentali fino a tutti gli anni Dieci, la Cina nel secondo decennio del XXI secolo si è trasformata da semplice fornitore (da “fabbrica del mondo”, status raggiunto intorno al 2010) a protagonista strategico delle catene globali del valore (GVC). La quota di valore domestico nelle esportazioni cinesi è salita dal 61 al 71%, trattenendo maggiore ricchezza, il programma Made in China 2025 punta, con enormi e persistenti investimenti pubblici e privati, a raggiungere e superare l’occidente nelle industrie chiave dei semiconduttori, intelligenza artificiale, veicoli elettrici, biotecnologie. Per ora solo nel terzo il risultato è raggiunto, ma negli altri la distanza diminuisce. Nelle tecnologie connesse alla transizione energetica la Cina ha ormai quote dell’80% della produzione mondiale, nella cantieristica navale il 70%, nelle telecomunicazioni il dominio tecnologico è saldamente in mano a Huawei e ZTE, ci sono progressi nell’aerospazio. La nuova classe media urbana conta ormai quasi mezzo miliardo di persone, una fascia sociale giovane, istruita, digitalizzata e altoconsumatrice, ci sono ancora problemi di potenziamento del welfare, riduzione della propensione al risparmio familiare, accesso ai servizi pubblici, differenze storiche tra città e campagna, alcune università sono ormai di primo piano (Fudan, Tsinghua).
[5] – Ad esempio, l’ASEAN sta attirando investimenti esteri record in microelettronica, microchip e batterie, in parte a causa di strategie di riposizionamento delle multinazionali occidentali a causa della tendenza alla divaricazione con la Cina; Messico, Brasile e Cile stanno scalando la catena del valore in settori come l’automotive, l’agritech e il green tech; l’India continua a crescere.
[6] – Ovvero i movimenti politici “populisti”, promossi in particolare dalla crisi finanziaria globale del 2008, lo Jobbik in Ungheria nel 2008, il Tea Party Movement in Usa nel 2009, il Fidesz di Orban nel 2010, Syriza in Grecia nel 2011, Podemos in Spagna nel 2012, AFD in Germania nel 2013, il nuovo Front National in Francia nel 2014, il MAGA di Trump nel 2015, la France Insoumise nel 2015, l’UKIP in Gran Bretagna nel 2016, VOX in Spagna nel 2017, il M5S tra il 2013 e 2018, una fase della Lega di Salvini nel 2018, Fratelli d’Italia nel 2019, il People’s Party of Canada nel 2020, Milei in Argentina nel 2023.
[7] – Dal 13 al 24 giugno 2025, mentre erano in corso i negoziati tra Usa e Iran per il rinnovo del trattato sul nucleare annullato unilateralmente da Trump nel precedente mandato, Israele ha improvvisamente attaccato l’Iran, lanciando l’operazione “Leone nascente”. Un attacco ibrido contro impianti nucleari (Natanz, Fordow, Isfahan), basi militari, infrastrutture civili, militari con le loro famiglie, scienziati con le loro famiglie. L’Iran ha reagito vigorosamente lanciando droni e missili balistici (probabilmente più di 500) sia di vecchia concezione che ipersonici. Sono state duramente colpite le città israeliane di Tel Aviv, Haifa e Been Sheva. Il 22 giugno gli Usa sono intervenuti direttamente colpendo tre siti nucleari con bombe ad alto potenziale. Il 24 giugno, su iniziativa americana e sottostanti accordi con Russia e Cina, è stato annunciato il cessate il fuoco. La valutazione di tale evento vede almeno i seguenti elementi: la celebrata difesa antimissile a strati israeliana (vertice della tecnologia occidentale) si è dimostrata solo in parte efficace, in particolare contro la più avanzata missilistica iraniana (che potrebbe essere stata sostenuta dalla tecnologia russa e coreana del Nord, e da forniture di combustibile solido cinese), gli alleati storici Houti e Hezbollah, se pure indeboliti da attacchi antecedenti, hanno mostrato la loro utilità in attacchi “di saturazione”. Il Pakistan ha offerto aiuto, la copertura multipolare di Cina e Russia, se pure non esibita, potrebbe essere stata decisiva. La conclusione ha tutta l’apparenza di un accordo preso a livello di “mondo multipolare” (ovvero tra Usa e Russia/Cina). Quindi il messaggio che nei circoli del Sud del mondo è passato è: l’egemonia israeliana è fragile e contestabile, la deterrenza americana è soggetta a limiti geopolitici di escalation, come durante la Guerra Fredda.
[8] – Intendendo, come vedremo, per “trascendenza” l’orientamento a pensare il proprio ruolo nel mondo, la propria missione, e quindi azioni, come innervate da un mandato del cielo. Qualcosa come un destino manifesto e una funzione storico-epocale che deriva dall’accesso ad una superiore verità, ad una predestinazione. Questo spirito ha natura diversa da paesi come l’Iran (che ha una componente teocratica, ma si vede in una missione difensiva in favore degli sciiti e non universalistica), o l’Arabia Saudita (che si vede come custode dei luoghi santi, ma si riferisce ad una legittimità dinastica).
[9] – Direttore del National High-level Think Tank Council, Preside dell’Istituto Cinese dell’Università di Fudan.
[10] – Zhang Weiwei, Liu Jun, Dove sta andando il triangolo Cina_Stati Uniti-Russia? Guancha, 22 giugno 2025. Si veda anche, Zhang Weiwei, The China Wave: Rise of a Civilizational State, World Century Publishing, 2012
[11] – Ex responsabile della politica estera europea, che pronunciò nel 2022 queste memorabili parole: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”.
[12] – In particolare, in Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità. Dall’homo sapiens all’homo oeconomicus, LEG Edizioni, 2020 (ed. or. 2017), cap.XVIII “Le società comunitarie: la Russia e la Cina”, da p. 495.
[13] – Si tratta di un tema chiaramente complesso e delicato, la catena degli eventi che ha portato alla drammatica divaricazione tra i due paesi ex sovietici, legati da storie intrecciate che affondano nei millenni, tra il “Rus” di Kiev e quello di Mosca, ha un punto di svolta negli accordi che sovraintendono al pacifico smantellamento della stessa Unione Sovietica, realtà in crisi sociale ed economica da almeno un paio di decenni ma iperarmata e in grado di far cessare il mondo. L’incredibile evento che la generazione nata negli anni Cinquanta e Sessanta riteneva impossibile, la fine del colosso sovietico senza alcuna guerra con l’Occidente, per eutanasia, ha alla sua base anche gli impegni che la presidenza americana assunse con Gorbaciov: non avanzare verso Est. Questo accordo sarebbe stato preso nel contesto della trattativa per consentire da parte sovietica la riunificazione tedesca e formalizzato dalla dichiarazione di James Baker (Segretario di Stato Usa) «Not one inch eastward.» del 9 febbraio 1990 durante i colloqui con Gorbaciov e Shevardnadze (Ministro degli Esteri sovietico). Nel National Security Archive è presente questo documento (https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/russia-programs/2017-12-12/nato-expansion-what-gorbachev-heard-western-leaders-early) che lo confermerebbe. Tuttavia, il Trattato 2+4 del settembre 1990 non assume impegni formali in tal senso. Questo impegno, tradito anche per l’autonoma spinta di paesi come la Polonia che richiese l’associazione all’Occidente (ed alla UE) per ragioni di storica ostilità al mondo russo, o dell’Ungheria, legata da legami storici con il mondo austriaco, è considerato da parte russa un impegno politico e morale. La sua violazione come un rischio di sicurezza (per l’avvicinamento di sistemi d’arma a lungo raggio ai suoi confini, e quindi al cuore della Russia) e la negazione dello spirito di cooperazione che si immaginava per il dopo “Guerra Fredda”. Dopo l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca (1999) e poi Bulgaria, Romania, Paesi Baltici (2004), l’Ucraina e la Georgia furono designate dalla Russia come “linea rossa”. In particolare, la percezione di pericolo è stata amplificata dall’aggressione da parte Nato e Usa di due storici paesi vicini al sistema socialista come la Serbia (1999) e la Libia (2011), oltre che per il sostegno alle “rivoluzioni colorate”, tra le quali quella in Siria. Dopo la caduta del governo “filorusso” (eletto regolarmente) Ucraino nel 2014 e l’avvio della guerra civile nel Donbass (regione a maggioranza filorussa, parte dell’Impero Russo fino al 1700) e l’intervento diretto in Crimea, nel 2022, mentre l’esercito ucraino si apprestava a liquidare le milizie del Donbass la Russia ha invaso l’Ucraina ed è iniziata la guerra.
[14] – Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità, op.cit., p. 494.
[15] – Sulla storia di questo termine altamente ambiguo e caratterizzato si veda Enzo Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Ombre Corte, 2015.
[16] – Sistema in cui le famiglie allargate formano unità comunitarie con autorità collettiva, come l’Obscina, che è l’organo decisionale di origine medioevale delle comunità rurali russe.
[17] – Sistema patrilineare e inegualitario (es.: primogenitura). Cfr. Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità, op.cit., p. 163
[18] – Sistema bilaterale, egualitario o individualista. Cfr. Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità, op.cit., p. 239
[19] – Cfr. Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità, op.cit., p. 306
[20] – Cfr. Emmanuel Todd, Breve storia dell’umanità, op.cit., p. 525
[21] – In sostanza Todd, che vede il sistema russo come “democrazia autoritaria” e quello cinese semplicemente come “totalitarismo”, un paese fondamentalmente poliziesco e corrotto, individua semplicemente le ragioni della crescita cinese tra il 1978 ed il 2017 come “paradiso dei profitti enormi delle classi agiate occidentali”, le quali hanno avuto dal partito Comunista al potere la licenza di sfruttare manodopera sottopagata. Un modello non perpetuabile perché spinto solo da investimenti in stile “sovietico” (eccessivi rispetto al Pil, ma con rendimenti decrescenti). Questa rozza lettura, ma condivisa con la maggior parte delle élite occidentali, porta alla diagnosi che il crollo sia vicino. Con una previsione che ricorda il ricorrente ritornello dell’Economist, “difatti, in considerazione del peso incredibile degli investimenti sul Pil del paese, il tasso di crescita ufficiale, leggermente inferiore al 7% nel 2016, dovrebbe rapidamente avvicinarsi allo zero” (ivi, p.515).
[22] – Dopo otto anni è ancora superiore al 4%, se pure in fisiologico rallentamento, ma, soprattutto in questi anni la Cina ha ridotto le esportazioni rispetto al Pil e ha avviato con successo crescente la transizione in società dei ceti medi.
[23] – Un punto di vista al quale si potrebbero muovere obiezioni. Da una parte la cultura non dovrebbe essere ridotta ad un solo asse, ma andrebbe conservato il suo carattere polisemico e simbolico. La stessa parentela non si esaurisce in relazioni di autorità o egualitarie. In base alle letture di autori come Mary Douglas, Pierre Bourdieu, Clifford Geertz, ma anche studiosi come James Clifford o Marilyn Strathern, non può essere individuata una “causa prima” che sia in grado di spiegare tutte le variazioni storiche e culturali, ma sono all’opera contingenze, rotture, ibridazioni che sono lette nello schema di Todd come eccezioni e anomalie. La tendenza di Todd ad essenzializzare le culture, insomma, soffre della sottovalutazione dei meccanismi simbolici e performativi, ma anche delle determinanti storico-economiche, all’irruzione di eventi geopolitici e delle politiche relative. Quello di Todd si può capire come una sorta di weberismo ridotto, o naturalizzato, e più rigido. Inoltre, resta legato ad una valutazione simpatetica del protestantesimo calvinista ugonotto francese (in particolare in L’origine des systèmes familiaux) in quanto portatore di una autonomia individuale, razionalità etica e egalitarismo familiare in grado di favorire l’alfabetizzazione precoce, la mobilità sociale e lo sviluppo economico.
[24] – Culture nelle quali un testo sacro (la Bibbia, il Corano, il corpus dei testi Confuciani) è centrale nel percorso di definizione individuale e accesso alla verità.
[25] – Kenneth Pomeranz, La Grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino 2004 (ed. or. 2000).
[26] – Jack Goody, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito, Raffaello Cortina Editore, 2005 (ed. or. 2004).
[27] – Landers D., Prometeo liberato, Einaudi 2000 (ed. or. 1969)
[28] – Dumont, L., From Mandeville to Marx: the genesis and triumph of economic ideology, University of Chicago Press, 1977
[29] – Macfarlan, A., The origins of english individualism: the family property and social transition, Blackwell, 1978
[30] – Brenner, R., The origin of capitalismo development: a critique of neo-smithian marxism, in New Left Review, 104, 1977.
[31] – Wallerstein, I., Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino 1978 (ed. or. 1974)
[32] – Habermas, J., Protestbewegung und hochschulreform, Surhrkamp, 1969
[33] – Giddens, A., Capitalismo e teoria sociale. Marx, Durkheim, and Max Weber, Il Saggiatore 1991 (ed.or. 1971)
[34] – John Winthrop, approdando con l’Arabella nel 1630, fondando la Massachusetts Bay Colony, pronunciò un sermone (A Model of Christian Charity) nel quale, riferendosi a Matteo 5:14 (“Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può restare nascosta.”) invitò i coloni a costruire una comunità fondata sulla carità cristiana e l’unità, sapendo che “gli occhi del mondo sarebbero stati puntati su di loro”. Questo concetto, connesso con il radicalismo religioso puritano, fu ripreso in tutt’altro contesto e per ben altri scopi da due Presidenti in particolare, da John F. Kennedy, per stimolare responsabilità e onore pubblico e da Ronald Reagan che nella “shining city on a hill”, vedeva un paese forte, aperto e moralmente guida per il mondo (nel Discorso di addio alla nazione, 11 gennaio 1989, “I’ve spoken of the shining city all my political life… a tall, proud city built on rocks stronger than oceans, wind-swept, God-blessed, and teeming with people of all kinds living in harmony and peace”). Di qui, al “Nuovo ordine mondiale” di George H.W.Bush, e soprattutto, nel contesto neocon la “luce tra le nazioni” di George W.Bush che, nel discorso di insediamento dice: “The survival of liberty in our land increasingly depends on the success of liberty in other lands… The call of freedom comes to every mind and every soul”.
[35] – I tre termini con i quali Bush giustifica al Congresso la campagna di aggressione “Desert Storm” contro l’Iraq.
[36] – Cfr. ad esempio, Robert Bellah, La religione civile in America, Morcelliana, 2021 (ed. or.1967)
[37] – Cfr. Gershom Scholem, Il messianismo ebraico, Einaudi, 1990 (Ed. Or. 1971)
[38] – Si veda Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, 1996 (Ed. Or. 1994), anche in Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[39] – Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974 (ed. or. 1944).
[40] – Primo Ministro inglese nel 1868 e nel 1874-80, che offrì alle classi lavoratrici organizzate dai cartisti e dai protosocialisti l’orgoglio di appartenere ad un Impero e il relativo ‘dividendo’.
[41] – Chiamo “prelievo imperiale” l’insieme di ragioni di scambio squilibrate, vere e proprie esazioni dirette ed indirette, imposizione di standard e regolamenti che sbilanciano il piano negoziale, minacce, talvolta, che consentono di vendere beni o servizi a prezzi maggiorati, di regolare gli scambi finanziari in modo da attirare e gestire flussi, etc. Alcuni esempi, oltre al mio Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020, in Qiao Liang, L’arco dell’impero, Leg Edizioni 2021, e Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Leg Edizioni, 2001, anche utile Giacomo Gabellini, Krisis, Mimesis 2021.
[42] – Chiamo qui semplicemente “perimetro di protezione” l’area nella quale si estende il potere politico-militare americano e che determina stati più o meno pronunciati di sovranità limitata. La protezione costa, sia per la necessità di tenere in piedi la capacità di minaccia (che tante volte è stata dispiegata), sia perché l’arma del controllo è il predominio del dollaro, sempre più sfidato, e questo rende necessario tecnicamente che ci sia richiesta della moneta americana che si può ottenere o vendendo più beni e servizi americani di quanti se ne comprano (ma non è così), o costringendo gli altri a comprare commodites e asset in dollari, anche quando le due parti non sono americane. Per ottenere questo ci vuole una rete di influenza e penetrazione nei sistemi economico-politici che costa una continua sorveglianza, mobilitazione, presenza.
[43] – Robert Nye, Soft Power. Un nuovo futuro per l’America, Einaudi 2005.
[44] – La legge “One Big Beautiful Bill”, prevede tagli fiscali permanenti, spesa su difesa e immigrazione con incrementi di ca 300 mld di dollari, per contenere il deficit così creato, tagli a Medicaid/Medicare e agli altri programmi assistenziali, riduzioni dei crediti alle rinnovabili. Potrebbero esserci danni alla protezione sociale di almeno 10 milioni di persone, costi energetici, incremento del deficit di 2-3.000 miliardi in dieci anni.
[45] – Una strana alleanza tra la base populista del MAGA, basata sul lavoro povero bianco e alcune minoranze integrate e minacciate da nuovi ingressi, e l’élite tecnologica che ha fatto il salto dai democratici.
[46] – Anche per effetto indiretto della disgregazione interna, che obbliga, per assenza di direzione politica condivisa, di ‘comprare’ i vari gruppi e interessi uno ad uno.
[47] – Oltre 750 basi all’estero, questo è uno dei fattori cruciali che, in contesto di indebolimento della sterlina, portò a decidere la ritirata imperiale inglese nei primi decenni del Novecento.
[48] – L’elenco è lungo ed oneroso, come si vede dalle recenti dichiarazioni non più sostenibile: Ucraina, Israele, Taiwan, Asean, paesi NATO.
[49] – Come la lotta nel cyber spazio permanente, le proxy war, le competizioni industriali in settori cruciali per lo sviluppo ed il controllo della nuova “piattaforma tecnologica”.
[50] –
[51] – Si veda Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG 2001 (ed. or. 1999), Qiao Liang, L’arco dell’Impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, LEG 2021 (ed. or. 2016).
[52] – Sinteticamente definibile come insieme integrato di tecnologie, standard normativi, istituzioni e modelli valoriali capaci di orientare i flussi economici, sociali e politici su scala globale, ed ancorati nel loro complesso ad una cosmologia e quindi una “cosmotecnica”.
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