
01 – Chantal Meloni*: Gaza, un assedio lungo trent’anni. Come l’indifferenza. Dov’è il diritto Da due mesi a Gaza non entra nulla, niente cibo, medicine, nessun bene necessario alla sopravvivenza di una popolazione bombardata, sfollata, ferita e già ridotta allo stremo.
02 – Anna Flavia Merluzzi*: Libertà di stampa, il crollo è globale. L’Italia finisce al 49esimo posto
03 – Massimo Mazzotti*: Nuovo maccartismo ma università Usa assai più deboli – Pro Pal come i «rossi» Quello che sta accadendo nelle università di ricerca americane ha un che di surreale.
04 – Geminello Preterossi*: La teologia narrativa di Francesco – Il pontificato di Francesco presenta delle ambivalenze che affondano le radici in una tensione storica tra la Chiesa e la modernizzazione estrema dell’Occidente.
05 – Paolo Rodari*: Conclave incerto, ma la Chiesa non può chiudersi-Vaticano Il conclave che si aprirà fra qualche giorno resta uno dei più incerti dell’epoca contemporanea
06 – Il rogito di papa Francesco – Il testo ufficiale La traduzione italiana del documento in latino deposto nella bara di papa Francesco prima della sepoltura.
07 – Francesco Cappello*: Dollarizzazione digitale.
08 – Andrea Meccia*: Giuseppe De Santis, Portella della Ginestra e un film mai fatto – Cinema politico In un trattamento il progetto mai portato a termine sulla strage politica e mafiosa: il soggetto decostruisce la figura di Giuliano come bandito sociale e romantico
01 – Chantal Meloni*: GAZA, UN ASSEDIO LUNGO TRENT’ANNI. COME L’INDIFFERENZA. DOV’È IL DIRITTO DA DUE MESI A GAZA NON ENTRA NULLA, NIENTE CIBO, MEDICINE, NESSUN BENE NECESSARIO ALLA SOPRAVVIVENZA DI UNA POPOLAZIONE BOMBARDATA, SFOLLATA, FERITA E GIÀ RIDOTTA ALLO STREMO.
Da due mesi a Gaza non entra nulla, niente cibo, medicine, nessun bene necessario alla sopravvivenza di una popolazione bombardata, sfollata, ferita e già ridotta allo stremo. Di fronte alla paralisi, ignobile, dei nostri rappresentanti statali e degli organismi internazionali, un piccolo gruppo di attivisti si è organizzato attorno alla Freedom Flotilla, un’iniziativa della società civile per portare assistenza alla popolazione intrappolata. Le notizie riportano che la barca che avrebbe dovuto trasportare circa 30 persone e gli aiuti è stata attaccata di notte da un drone in acque internazionali al largo di Malta.
Il pensiero va indietro nel tempo, a 15 anni fa: la Mavi Marmara – la più grande tra le barche con a bordo centinaia di attivisti da tutto il mondo che tentavano di rompere il blocco di Gaza – fu presa d’assalto nella notte del 31 maggio 2010 da forze speciali israeliane. Il bilancio fu di nove civili uccisi e quasi trenta feriti. Nonostante le commissioni di inchiesta e le insistenti richieste, anche alla Corte penale internazionale (Cpi), di processare i responsabili di questo apparente crimine di guerra, non c’è stata mai alcuna forma di giustizia, né a livello interno né internazionale.
Il blocco di Gaza non ha due mesi di vita: con intensità diverse, da decenni Israele impone questa forma di punizione collettiva alla popolazione di quel piccolo lembo di terra. La politica di chiusura, o blocco, o assedio, di Gaza è praticata dagli anni Novanta: è da allora che il Palestinian Center for Human Rights di Gaza (Pchr) ha iniziato a documentare le restrizioni alla circolazione di persone e di beni a Gaza, ben prima dell’avvento di Hamas al potere. La situazione è drammaticamente peggiorata dal 2007, dopo la presa del potere di Hamas nella Striscia: Israele dichiarò l’intera Gaza «un’entità nemica» e alzò il livello di una politica illegale già in atto, centellinando tutto ciò che entrava a Gaza, perfino le calorie consumabili dalla popolazione – calcolate su quel minimo necessario per passare il vaglio dei giudici. È in quegli anni, che organizzazioni per i diritti umani, tra cui alcune israeliane, come Gisha, insieme a quelle palestinesi, iniziarono a denunciare insistentemente il blocco come illegale e a presentare petizioni ai tribunali israeliani per contrastare i divieti di ingresso a Gaza di merci fondamentali – cibo e medicinali ma anche il carburante per l’elettricità, necessaria al funzionamento di tutte le infrastrutture civili, tra cui gli ospedali. Come accade oggi, anche 15 anni fa le corti israeliane diedero di fatto mano libera al governo sulla base di presunte esigenze di sicurezza.
Ciò che sta avvenendo oggi e il compimento di quella politica, è l’atto finale di decisioni che vengono da lontano. Ciò che sconvolge ulteriormente è che ciò avviene mentre alla Corte internazionale di giustizia (Cig) si continua a discutere degli obblighi di Israele rispetto alla popolazione civile palestinese, che è popolazione protetta (compresa quella di Gaza) in base al diritto internazionale umanitario, tra cui la IV Convenzione di Ginevra.
Proprio questa settimana, mentre l’Unrwa e le altre organizzazioni umanitarie continuano a suonare allarmi sempre più disperati sulla catastrofe umanitaria in corso a Gaza – mostrandoci foto strazianti, specie di bambini, che muoiono di fame davanti ai nostri occhi – si susseguono le udienze all’Aia, dove i delegati di oltre 40 Stati hanno preso una chiara posizione contro le politiche di Israele di questi mesi e alla decisione di impedire alle agenzie delle Nazioni unite che prestano assistenza ai palestinesi di svolgere la propria missione.
Assistiamo impotenti, come se l’Onu non potesse fare nulla di fronte alla più grande violazione di tutti i principi posti alla base della sua Carta, lasciando nelle mani di trenta attivisti su una barca il tentativo (già fallito) di rompere l’assedio di Gaza. Come può essere che la più importante organizzazione internazionale, l’Onu, non possieda alcun meccanismo giuridico attivabile di fronte a uno Stato che sta affamando la popolazione civile come arma di guerra, come riconosciuto nei mandati di arresto della Cpi, e i cui atti sono in discussione quali atti di genocidio davanti alla Cig?
Il diritto internazionale non si «auto-esegue»: le Corti prendono decisioni, ma spetta agli Stati renderle esecutive. È vero tanto nel caso dell’obbligo di prevenire un genocidio (gli ordini emessi nel 2024 dalla Cig verso Israele sono rimasti lettera morta), quanto del parere consultivo del 19 luglio 2024 sull’illegalità dell’occupazione di tutto il territorio palestinese (Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e Gaza), che la Corte ha dichiarato debba cessare «il più rapidamente possibile». Il governo di Israele, lo ha dimostrato, non si fermerà – nemmeno di fronte a una eventuale sentenza della Cig. Netanyahu è oggetto di un mandato di arresto per gravissimi crimini di guerra e contro l’umanità spiccato dalla Cpi. Eppure, nessuno Stato sta prendendo misure concrete per costringerlo a rispettare i principi dello stato di diritto, il divieto di commettere un genocidio o almeno quelle regole basiche del diritto internazionale umanitario, in cui gli Stati fanno ancora finta di credere nei loro argomenti davanti alla massima autorità giudiziaria dell’On
*(Chantal Meloni è associata di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano, ove è titolare del corso di International Criminal Law)
02 – Anna Flavia Merluzzi*: LIBERTÀ DI STAMPA, IL CROLLO È GLOBALE. L’ITALIA FINISCE AL 49ESIMO POSTO
REPORTERS SANS FRONTIÈRES INDEX «SENZA INDIPENDENZA ECONOMICA NON CI PUÒ ESSERE STAMPA LIBERA». A PARLARE È ANNE BOCANDÉ, DIRETTRICE EDITORIALE DI REPORTERS SANS FRONTIÈRES (RSF), COMMENTANDO L’INDICE 2025 DELL’ASSOCIAZIONE SULLA LIBERTÀ DI STAMPA GLOBALE. […]
«Senza indipendenza economica non ci può essere stampa libera». A parlare è Anne Bocandé, direttrice editoriale di Reporters sans frontières (Rsf), commentando l’indice 2025 dell’associazione sulla libertà di stampa globale. La «difficile situazione» mondiale dei media, individuata come tale per la prima volta nella storia del rapporto, si concentra quest’anno sul fattore economico, che dei cinque presi in considerazione (politico, economico, legislativo, sociale, sicurezza) ha subito il crollo più drastico. L’indebolimento dei media è legato alla concentrazione della proprietà, alle pressioni degli sponsor e dei promotori finanziari e alla restrizione dei finanziamenti pubblici (assenti o opachi). Per oltre dieci anni Rsf ha riscontrato un declino mondiale nella libertà di stampa, ma il 2025 ha registrato un crollo inedito: la media di tutti i paesi analizzati è sotto 55 su 100, 112 paesi (6/10) hanno visto un declino complessivo nel punteggio.
Il nostro paese scende al 49esimo posto su 180, tre posizioni più in basso rispetto al 2024: «La libertà di stampa in Italia continua a essere minacciata da organizzazioni mafiose e gruppi di violenti estremisti. I giornalisti denunciano tentativi di ostruzione da parte dei politici per coprire i casi giudiziari», si legge nel rapporto. Non è passato inosservato il caso Paragon, che compare tra i primi documenti. Globalmente 34 paesi spiccano per la chiusura di massa dei media.
In 42 stati la situazione è classificata come «molto seria», a cominciare dalla Palestina dove dall’inizio del genocidio Israele ha ucciso oltre 200 giornalisti. La regione Medio Oriente-Nord Africa rimane la più pericolosa al mondo per i giornalisti.
Negli Stati uniti il fattore economico registra 14 punti in meno in due anni, con un peggioramento dall’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca.
*(Annaflavia Merluzzi, Università degli Studi “La Sapienza”)
03 – Massimo Mazzotti*: NUOVO MACCARTISMO MA UNIVERSITÀ USA ASSAI PIÙ DEBOLI – PRO PAL COME I «ROSSI» QUELLO CHE STA ACCADENDO NELLE UNIVERSITÀ DI RICERCA AMERICANE HA UN CHE DI SURREALE.
BISOGNA ASSISTERE GLI STUDENTI A CUI SONO STATI ANNULLATI I VISTI, FORNIRE CONTATTI DI AVVOCATI AI PROFESSORI NEL CASO FOSSERO ARRESTATI, MENTRE GLI UFFICI AMMINISTRATIVI SCONSIGLIANO A TUTTI GLI STRANIERI DI TORNARE A CASA PER LE VACANZE. AI DOCENTI DI BARNARD COLLEGE, IL GOVERNO HA CHIESTO VIA EMAIL DI DICHIARARE SE FOSSERO EBREI O MENO.
Intanto, migliaia di ricercatori si sono visti annullare fondi di ricerca federali già assegnati. La sola National Science Foundation ha cancellato più di quattrocento progetti in discipline Stem, inclusi quelli su temi sensibili come disinformazione e deepfakes. Molti di più i progetti cancellati in ambito medico, mentre le materie umanistiche sono state letteralmente spazzate via: cancellati circa mille progetti federali, l’85% di quelli esistenti.
È su questo sfondo che il governo ha iniziato ad agire direttamente contro singole università, minacciando di bloccarne le attività. La richiesta è chiara: le università devono cambiare i criteri di assunzione e immatricolazione, l’offerta dei corsi, e devono promuovere una «diversità di punti di vista», che in pratica significa inserire ideologi Maga nel corpo docente.
Columbia University ha ceduto per poi ricevere una serie di richieste ancora più inaudite delle precedenti. Il che ha convinto Harvard a usare una strategia diversa, e ingaggiare una battaglia legale che si preannuncia lunga e costosa. Intanto, sono entrate nel mirino le università pubbliche (che non dipendono dal governo federale ma dagli stati): a Madison e Berkeley sono in corso indagini su presunti e non meglio definiti abusi amministrativi.
Come in altri settori, le mosse scomposte del governo americano in materia di educazione e ricerca minano alla base lo stato di diritto, provocando caos e paura. Non che le università americane non siano mai state obiettivo di attacchi politici, basti pensare all’epoca del maccartismo.
Durante gli anni Cinquanta, le università vennero setacciate alla ricerca di spie o simpatizzanti comunisti, e almeno un centinaio di professori vennero licenziati in tronco per motivi politici, in violazione della loro libertà accademica. Quella paranoia anticomunista è stata paragonata, con qualche ragione, all’accusa di antisemitismo lanciata recentemente contro molte università e dipartimenti. Ma la situazione attuale, in realtà, è molto più preoccupante.
Durante il maccartismo le università erano colpite indirettamente, l’obiettivo era eliminare i «rossi», lì come in ogni altro ambito della vita pubblica. Oggi, l’antisemitismo, le politiche di equità e inclusione, e qualunque altro argomento verrà usato a breve, sono solo pretesti: l’obiettivo è l’università stessa. Un’università che il governo percepisce come irrimediabilmente liberal e cosmopolita, e quindi come un ostacolo per la creazione dell’etnostato e il pieno dispiegamento dell’ideologia Maga.
Gli anni Cinquanta, a ben vedere, sono stati un periodo d’oro per l’università americana. I finanziamenti federali alla ricerca sembravano non avere limiti, e lo shock che seguì al lancio dello Sputnik, nel 1957, consolidò l’integrazione tra industria della difesa, Pentagono, e ricerca universitaria. Le grandi università di ricerca ne uscirono rafforzate ed autorevoli. Il prezzo da pagare fu il silenzio sui temi politici: il mantra era quello della scienza neutrale.
L’ordine della guerra fredda inizia a scricchiolare nel 1964, con le proteste studentesche di Berkeley che, sullo sfondo della lotta per i diritti civili, denunciano il sistema militare-industriale di cui l’università è parte. Ronald Reagan diventa governatore della California, nel 1966, proprio con la promessa di restaurare l’ordine a Berkeley: le università cominciano a perdere autorità epistemica e ad essere descritte come bastioni di radicalismo politico. A partire dagli anni Settanta, alla reazione conservatrice si aggiungono le nuove politiche di austerità e il progressivo declino dei finanziamenti pubblici.
Oggi vediamo gli effetti di questo lungo processo di disgregamento. Il governo attacca un sistema universitario molto più debole di quello degli anni Cinquanta. È una debolezza strutturale: l’alleanza sancita dal progetto Manhattan è in crisi. Se l’atomica fu costruita da professori di università come Berkeley e Chicago, oggi ci sono nuovi attori in campo, a partire dai giganti di Silicon Valley. Sono loro a presidiare le frontiere delle nuove tecnologie strategiche – prima tra tutte Ia. L’università gioca ancora un ruolo in questo settore, ma non è più centrale. La ricerca è quasi sempre ibrida, accademia e industria si sono integrate al punto è che difficile riconoscerne i confini.
Le università di ricerca sono state uno dei pilastri della potenza americana nel ventesimo secolo, e il loro apogeo coincide con l’era atomica. Caduto l’ordine della guerra fredda, le università non devono solo difendersi dagli attacchi politici delle forze reazionarie, ma immaginare di nuovo il loro ruolo nella società americana. Un ruolo che tenga conto del riequilibrio dei rapporti di forza globali e della trasformazione del capitalismo tecnologico. Per le università pubbliche, in particolare, la domanda sempre più urgente è: che cosa significa essere al servizio dei cittadini?
*(Fonte: Il Manifesto – Massimo Mazzotti (PhD in Science Studies, Università di Edimburgo, 2000) insegna storia della scienza all’Università della California – Berkeley.)
04 – Geminello Preterossi*: LA TEOLOGIA NARRATIVA DI FRANCESCO – IL PONTIFICATO DI FRANCESCO PRESENTA DELLE AMBIVALENZE CHE AFFONDANO LE RADICI IN UNA TENSIONE STORICA TRA LA CHIESA E LA MODERNIZZAZIONE ESTREMA DELL’OCCIDENTE.
UNO DEI SUOI GRANDI MERITI È STATO QUELLO NON DI INNOVARE LA DOTTRINA MA DI CAMBIARE PROFONDAMENTE IL LINGUAGGIO
IL PONTIFICATO DI PAPA FRANCESCO HA SEGNATO QUESTO DECENNIO IN MODO LARGAMENTE POSITIVO, SOPRATTUTTO SUL PIANO DELLA POLITICA INTERNAZIONALE. FRANCESCO HA RAPPRESENTATO — E RAPPRESENTA — UNA VOCE AUTONOMA, CRITICA, LIBERA E ANCHE ASSENNATA, DIREI, RISPETTO AD ALCUNE DERIVE DEL NOSTRO TEMPO.
LA GUERRA MONDIALE A PEZZI, UN MOVIMENTO TETTONICO
Una di queste derive riguarda innanzitutto lo scivolamento verso un’idea di guerra totale. Colpisce, infatti, come si stia sdoganando il concetto stesso di una ostilità totalizzante. Negli anni del secondo dopoguerra, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, l’uso della bomba era ancora un tabù condiviso da tutti: intellettuali, scrittori, uomini di Chiesa, politici di ogni orientamento.
Come diceva anche Norberto Bobbio: “La guerra non si può più fare, perché sarebbe l’ultima guerra”. Oggi, però, non sarei più così convinto che quel tabù esista ancora. Anzi, come abbiamo sentito poco fa, sembra proprio che sia venuto meno.
Si parla ormai apertamente dell’uso di armi nucleari tattiche, di armi di distruzione di massa… e non soltanto in modo ipotetico. Non è solo un delirio, un’illusione: forse è anche il segno di un cinismo estremo. Ma, comunque, è indicativo di una deriva culturale profonda.
In questo contesto, Papa Francesco — con la formula, ormai nota, della “terza guerra mondiale a pezzi” — ha trovato una chiave espressiva efficace. Mi pare che sia pienamente consapevole del fatto che oggi ci troviamo davvero di fronte a un rischio estremo.
Si tratta di un cambiamento che ha anche delle ragioni strutturali, nel senso che siamo davanti a un cambio di paradigma geopolitico e geoeconomico che genera inevitabilmente degli scossoni, una sorta di movimento tettonico.
IL POLITICO E LO SPIRITUALE
Mi sembra interessante, in particolare, un profilo: il rapporto tra politica e spiritualità che ho sempre più la convinzione siano profondamente intrecciati.
Il politico e lo spirituale non coincidono, non si sovrappongono completamente, ma si alimentano a vicenda. In questo senso, è evidente che anche il pontificato di Francesco presenta delle ambivalenze. La Chiesa, infatti, è in parte condizionabile anche sul piano etico e vive una situazione di difficoltà. Ma si tratta di una difficoltà che non nasce oggi, che affonda le radici in una tensione storica tra la Chiesa e le trasformazioni della società, in particolare di fronte alla modernizzazione estrema dell’Occidente, quell’Occidente che si propone come vettore dominante di senso e potere.
CREDENTI E NON CREDENTI
E proprio in questo contesto, credo sia utile e necessario affrontare queste posizioni in modo articolato, tirarle fuori e discuterle apertamente.
Sia all’esterno che all’interno della Chiesa, il pontificato di papa Francesco solleva interrogativi. Intanto, il fatto che venga spesso osannato da ambienti laici, a volte perfino da militanti anticlericali, pone qualche problema. È curioso, e per certi versi significativo, che piaccia così tanto a chi non crede, o addirittura a chi si sente estraneo — se non ostile — al cristianesimo.
Questo fatto non può non sollevare dubbi in quel mondo credente che, pur mettendo al centro la dimensione religiosa e spirituale, si chiede perché proprio questo Papa incontri tanto consenso in contesti che, tradizionalmente, non amano il cristianesimo o lo considerano irrilevante.
Ora, io non intendo semplificare. Diciamo che provengo da un mondo nei confronti del quale mantengo una certa dialettica critica, sia verso l’esterno che all’interno della Chiesa stessa. Tuttavia, credo che questa questione sia rilevante anche da un punto di vista laico, e andrebbe affrontata senza pregiudizi.
Ricordo che Gian Enrico Rusconi, alcuni anni fa, colse subito questa ambivalenza e le diede una forma interessante in un piccolo libro pubblicato per Laterza, dedicato a quella che definiva la “teologia narrativa” di papa Francesco. Un’interpretazione suggestiva, che merita di essere riletta oggi con attenzione.
L’unità — davvero un concetto chiave, anche se spesso maltrattato o svilito — meriterebbe di essere rivalutata con più coraggio, anche da parte del mondo cattolico. Lo dico da persona che, per gran parte della vita, si è riconosciuta in un orizzonte agnostico, totalmente esterno sia alla tradizione religiosa in generale sia al cristianesimo in particolare. Eppure, anche da quella posizione, riuscivo a cogliere con chiarezza una serie di problemi.
CAMBIO DI LINGUAGGIO
Uno dei grandi meriti di Papa Francesco, secondo me, non è stato quello di innovare la dottrina, ma di cambiare profondamente il linguaggio. È un passaggio enorme, di portata culturale e simbolica straordinaria. Alcune delle frasi che ha pronunciato — apparentemente casuali, magari dette a braccio durante un volo, e certo non ex cathedra, hanno avuto un impatto potentissimo, contribuendo a modificare mentalità consolidate, soprattutto su certe categorie di persone colpite in passato da stigma e giudizi morali.
Non ha sovvertito la dottrina, ma ha spostato l’accento. Ha riportato al centro le persone in carne e ossa, e con esse la dimensione della giustizia sociale, il richiamo agli ultimi, ai poveri, agli esclusi. Anche qui, è innegabile che Francesco abbia riannodato i fili con quella corrente fortemente ispirata al Concilio Vaticano II che in parte era stata interrotta o, quantomeno, neutralizzata negli ultimi decenni.
UN PAPA “ALTER-GLOBALISTA”?
Naturalmente, restano anche delle domande, dei dubbi legittimi, che riguardano piani diversi: culturale, politico, spirituale. Ad esempio, ci si può chiedere: Papa Francesco piace tanto perché rappresenta un’istanza “alter-globalista”? Probabilmente sì, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un Papa che viene dal Sud del mondo, dal Sud America.
Chi conosce quei luoghi sa che è quasi inevitabile, lì, sviluppare una sensibilità “altra”, rispetto alle logiche occidentali dominanti. Eppure, bisogna anche dire che quella stagione alter-globalista si è in parte esaurita nei primi anni Duemila: con Genova, con l’11 settembre, si è chiuso un ciclo. E oggi dobbiamo domandarci quali nuove forme può assumere quella visione nel mondo globale di oggi.
L’idea di una globalizzazione dal volto umano, fondata sul presupposto che la globalizzazione sia in sé un fatto positivo da “raddrizzare dall’interno”, si è rivelata, purtroppo, un progetto fallimentare. È un’ipotesi che oggi non è più davvero all’ordine del giorno. È fallita anche perché è stata sabotata: penso, ad esempio, a quella sorta di stato d’eccezione a Genova durato tre giorni, un atto sì simbolico, ma significativo. Tuttavia, è fallita anche per limiti interni: limiti intellettuali, di cultura politica, dell’idea stessa che bastasse cambiare il segno della globalizzazione per redimerla.
Ma la globalizzazione e l’“alterglobalismo” non sono entità neutre. Sono figlie del neoliberismo, del capitalismo finanziarizzato, del Washington Consensus. Non è così semplice piegarle ad altro. Forse, allora, è il caso di uscire da certi equivoci retorici, da una visione un po’ di maniera, per riconoscere che il mondo è multipolare, è un multiverso. È fatto di differenze, anche urticanti, che però esistono e con cui dobbiamo misurarci.
Un vero internazionalismo non può nascere da una pretesa omologante, ma dal riconoscimento dell’esistenza e della legittimità di soggettività politico-culturali differenti. Non si tratta di dire “tu devi diventare come me”, ma di dire: “Tu esisti, ed è legittimo che tu esista”. Poi ci confronteremo, collaboreremo, magari divergeremo. È questa una visione critica ma realista, che potrebbe aiutarci a superare anche le caricature interne alla Chiesa, tra tradizionalisti e innovatori “a prescindere”, o tra chi rifiuta in blocco il concetto di sovranità e chi lo difende in modo integralista.
La sovranità è una cosa seria. Giuristi e filosofi del diritto – da Bodin in poi – lo sanno bene. Certo, oggi è una nozione dislocata, usata spesso in modo polemico, per rivendicare o per attaccare. Ma il tema rimane: se vogliamo un vero internazionalismo, dobbiamo riconoscere soggettività autonome e formalmente paritarie, anche se nei fatti qualcuno sarà sempre più forte di qualcun altro.
E quando si ripropone la logica dello scontro di civiltà torna in gioco anche questa questione. Perché oggi si tende a stigmatizzare una parte del mondo non occidentale come autoritaria, retrograda, pericolosa. Ma così facendo, si costruisce una realtà fittizia, che però diventa performativa, cioè finisce per produrre effetti reali.
DA BENEDETTO XVI A FRANCESCO. L’EUROPA RIDOTTA A PROVINCIA?
E qui si apre un tema profondo: quello dell’identità dell’Europa e della modernità. Anche la Chiesa è sfidata da questa questione. Io stesso, lo confesso, in passato ero più critico verso Benedetto XVI. Ma rileggendolo oggi, riconosco che su alcuni punti aveva ragione, soprattutto sul piano dell’Europa. È stato frainteso. Aveva una consapevolezza profonda dell’importanza del dialogo tra religioni, e rifiutava tanto il sincretismo quanto l’esclusivismo.
Sull’Europa diceva una cosa fondamentale: le sue radici sono molteplici, ma sono anche potentemente cristiane. La modernità, la secolarizzazione, non sarebbero esistite senza il cristianesimo. È paradossale, ma vero. Il cristianesimo ha generato – anche nel conflitto con sé stesso – la religione dell’uscita dalla religione. Il libro di Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo, lo mostra in modo straordinario.
Anche quando difendiamo lo Stato costituzionale, dobbiamo ricordare che i nostri costituenti ne erano consapevoli. Scriveva Norberto Bobbio che la libertà moderna è anche figlia del cristianesimo, non solo dei pensatori laici, da Locke a Kant. Se si fa una genealogia profonda della modernità, non si può ignorare questo legame.
Ecco perché oggi, di fronte alla crisi dell’Europa, alla sua difficoltà di dire qualcosa di nuovo, è importante che anche gli intellettuali laici tornino a interrogarsi sulle risorse di senso che fondano lo Stato costituzionale. Io di questo sono convinto, e non ho paura di dirlo.
Papa Francesco, in questo quadro, appare profondamente consapevole di questa complessità. Ma allo stesso tempo – e lo dico come provocazione – a volte sembra che, provenendo dal Sud del mondo, tenda a vedere l’Europa come una provincia. Eppure, proprio l’Europa ha una matrice culturale e spirituale da cui non si può prescindere, se vogliamo costruire un internazionalismo che non sia solo astratto o moralistico, ma radicato nella realtà storica e culturale.
*(Fonte: Sinistrainrete. Geminello Preterossi (Grosseto, 20 aprile 1966) è un filosofo italiano del diritto e della politica. Studioso di Hobbes, Hegel, Carl Schmitt e altri).
05 – Paolo Rodari*: CONCLAVE INCERTO, MA LA CHIESA NON PUÒ CHIUDERSI-VATICANO IL CONCLAVE CHE SI APRIRÀ FRA QUALCHE GIORNO RESTA UNO DEI PIÙ INCERTI DELL’EPOCA CONTEMPORANEA
«VOLEVA UNA CHIESA CHE FOSSE UNA CASA PER TUTTI, PER TUTTI, PER TUTTI». LE PAROLE DEL CARDINALE GIOVANNI BATTISTA RE, DURANTE IL FUNERALE DI FRANCESCO, SEGNANO IL PASSO PER IL FUTURO.
Il successore di Bergoglio, qualunque sarà, non potrà tradire questa profonda convinzione: la Chiesa cattolica deve essere una casa per tutti, senza ponti levatoi alle sue entrate, senza che nessuno chieda particolari carte d’identità a chi bussa.
Questo il suo messaggio più profondo. Come Gesù mangiava con i «peccatori», così alla mensa della Chiesa possono sedersi tutti.
Non è secondario il momento del funerale del Papa in vista di quanto accade dopo, i giorni delle congregazioni generali che precedono il conclave.
Joseph Ratzinger nel 2005 tenne un’omelia durante le esequie di Giovanni Paolo II che di fatto lo lanciò verso l’elezione. Non è il caso di Re, ovviamente, ma le parole da lui pronunciate durante l’omelia di ieri tracciano il percorso verso un conclave incerto sui nomi ma non sui temi.
Sinodalità, maggiore collegialità, aperture al mondo, uno sguardo propositivo sui temi della morale sessuale e sui temi eticamente sensibili, nessuna rottura con la tradizione ma aperture alle sfide che il mondo già ha fatto sue, la discussione sull’obbligo del celibato dei preti, la riforma del papato, l’accoglienza verso tutti, la pace nel mondo, sono queste alcune delle sfide che chi siederà al soglio di Pietro non potrà in nessun modo eludere.
Ma su tutte lo stile di governo. Francesco non ha cambiato la dottrina della Chiesa, certo. Su di essa è rimasto di fatto un conservatore. Ma lo stile della prossimità e della normalità, fin da quel «buonasera» pronunciato la sera del 13 aprile 2013 affacciandosi vestito di bianco alla loggia centrale della basilica vaticana, segna un passo nuovo.
Il muro di separazione fra il pontefice e il popolo è stato definitivamente abbattuto. E indietro non sarà più possibile tornare.
«Nonostante la sua finale fragilità e sofferenza, papa Francesco ha scelto di percorrere questa via di donazione fino all’ultimo giorno della sua vita terrena», ha ricordato ieri Re che ha definito Bergoglio «papa tra la gente». È questa donazione non potrà non essere fatta propria anche da chi prenderà il suo posto.
Il conclave che si aprirà fra qualche giorno resta uno dei più incerti dell’epoca contemporanea. Se nel 2005 Ratzinger e Martini erano le figure di spicco e se nel 2013 Bergoglio e Scola hanno di fatto catalizzato da subito i voti dei cardinali, oggi tutto è meno decifrabile.
Parolin e Tagle sono certamente due nomi papabili. Ma con loro tanti altri. Conterà valutare l’età, il futuro papa non potrà essere troppo giovane, ma anche dovrà essere ponderata la propensione a incarnare la Chiesa nelle sfide del tempo senza smarrire la propria identità. Sia Tagle sia Parolin hanno queste caratteristiche, più carismatico il primo, più posato e moderato il secondo.
Anche Pizzaballa e Zuppi sono figure amate e insieme autorevoli, anche per aver lavorato in scenari difficili, a Gerusalemme il primo, in Mozambico ai tempi dell’accordo di pace il secondo.
Francesco non ha mai dichiarato di avere favoriti. Il futuro l’ha sempre affidato, come diceva spesso, allo Spirito Santo ma anche a porporati che lui ha voluto creare “pescandoli” da ogni parte del mondo. La maggior parte non si conosce fra loro. Iniziano ora i giorni decisivi per confrontarsi, conoscersi, guardarsi e decidere il futuro.
In questa fase un peso decisivo lo avranno anche gli ultraottantenni. I cardinali Bagnasco, Bertone, Ruini, Re e tanti altri proveranno ad aiutare gli elettori a creare consenso verso la giusta personalità.
Nel 2013 furono anzitutto Maradiaga e Kasper e spingere per Bergoglio, la loro azione anche durante il conclave, nelle pause dedicate al pranzo e alla cena.
Poi, certo, ci mise del suo Bergoglio che stupì il collegio dei cardinali durante una congregazione generale che precedette il conclave stesso. Raccontò che vedeva Gesù come in prigione, e chi lo teneva in catene era la Chiesa stessa. Occorreva liberarlo. Fu quel discorso la chiave che lo portò all’elezione. Anche in queste ore non potrà che accadere così. Dai discorsi dei papabili tutto si farà più chiaro.
Cammina. Ascolta. Sostieni.
“Sul carro del manifesto” non è solo uno slogan, è un invito a esserci, a resistere. Celebriamo l’80° della Liberazione scendendo in piazza, con il lancio di un nuovo podcast giornaliero e con un inserto speciale in edicola il 25 aprile.
*(Paolo Rodari – Giornalista della Radiotelevisione della Svizzera italiana, ha iniziato al Riformista, poi al Foglio, quindi inviato a Repubblica)
06 – IL ROGITO DI PAPA FRANCESCO – IL TESTO UFFICIALE LA TRADUZIONE ITALIANA DEL DOCUMENTO IN LATINO DEPOSTO NELLA BARA DI PAPA FRANCESCO PRIMA DELLA SEPOLTURA.
Con noi pellegrino di speranza, guida e compagno di cammino verso la grande meta alla quale siamo chiamati, il Cielo, il 21 aprile dell’Anno Santo 2025, alle ore 7,35 del mattino, mentre la luce della Pasqua illuminava il secondo giorno dell’Ottava, Lunedì dell’Angelo, l’amato Pastore della Chiesa Francesco è passato da questo mondo al Padre. Tutta la Comunità cristiana, specialmente i poveri, rendeva lode a Dio per il dono del suo servizio reso con coraggio e fedeltà al Vangelo e alla mistica Sposa di Cristo.
FRANCESCO È STATO IL 266° PAPA. LA SUA MEMORIA RIMANE NEL CUORE DELLA CHIESA E DELL’INTERA UMANITÀ.
Jorge Mario Bergoglio, eletto Papa il 13 marzo 2013, nacque a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, da emigranti piemontesi: suo padre Mario era ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupava della casa e dell’educazione dei cinque figli.
Diplomatosi come tecnico chimico, scelse poi la strada del sacerdozio entrando inizialmente nel seminario diocesano e, l’11 marzo 1958, passando al noviziato della Compagnia di Gesù.
Fece gli studi umanistici in Cile e, tornato nel 1963 in Argentina, si laureò in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fu professore di letteratura e psicologia nei collegi dell’Immacolata di Santa Fé e in quello del Salvatore a Buenos Aires. Ricevette l’ordinazione sacerdotale il 13 dicembre 1969 dall’Arcivescovo Ramón José Castellano, mentre il 22 aprile 1973 emise la professione perpetua nei gesuiti.
Dopo essere stato maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio, il 31 luglio 1973 fu nominato provinciale dei gesuiti dell’Argentina.
Dopo il 1986 trascorse alcuni anni in Germania per ultimare la tesi dottorale e, una volta tornato in Argentina, il cardinale Antonio Quarracino lo volle suo stretto collaboratore.
Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nominò Vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires.
Scelse come motto episcopale Miserando atque eligendo e nello stemma inserì il cristogramma IHS, simbolo della Compagnia di Gesù.
Il 3 giugno 1997, fu promosso Arcivescovo coadiutore di Buenos Aires e alla morte del cardinale Quarracino gli succedette, il 28 febbraio 1998, come Arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.
Giovanni Paolo II lo creò cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nel successivo ottobre fu relatore generale aggiunto alla decima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Fu un pastore semplice e molto amato nella sua Arcidiocesi, che girava in lungo e in largo, anche in metropolitana e con gli autobus. Abitava in un appartamento e si preparava la cena da solo, perché si sentiva uno della gente.
Dai Cardinali riuniti in Conclave dopo la rinuncia di Benedetto XVI fu eletto Papa il 13 marzo 2013 e prese il nome di Francesco, perché sull’esempio del santo di Assisi volle avere a cuore innanzitutto i più poveri del mondo.
Dalla loggia delle benedizioni si presentò con le parole «Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi».
E, dopo aver chinato il capo, disse: «Vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo». Il 19 marzo, Solennità di San Giuseppe, iniziò ufficialmente il suo ministero Petrino.
Sempre attento agli ultimi e agli scartati dalla società, Francesco appena eletto scelse di abitare nella Domus Sanctae Marthae, perché non poteva fare a meno del contatto con le persone, e sin dal primo giovedì Santo volle celebrare la Messa in Coena Domini fuori dal Vaticano, recandosi ogni volta nelle carceri, in centri di accoglienza per i disabili o tossicodipendenti.
Ai sacerdoti raccomandava di essere sempre pronti ad amministrare il sacramento della misericordia, ad avere il coraggio di uscire dalle sacrestie per andare in cerca della pecorella smarrita e di tenere aperte le porte della chiesa per accogliere quanti desiderosi dell’incontro con il Volto di Dio Padre.
Ha esercitato il ministero Petrino con instancabile dedizione a favore del dialogo con i musulmani e con i rappresentanti delle altre religioni, convocandoli talvolta in incontri di preghiera e firmando Dichiarazioni congiunte a favore della concordia tra gli appartenenti alle diverse fedi, come il Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb.
Il suo amore per gli ultimi, gli anziani e i piccoli lo spinse ad iniziare le Giornate Mondiali dei Poveri, dei Nonni e dei Bambini. Istituì anche la Domenica della Parola di Dio.
Più di ogni Predecessore ha allargato il Collegio dei Cardinali, convocando dieci Concistori nei quali ha creato 163 porporati, dei quali 133 elettori e 30 non elettori, provenienti da 73 nazioni, di cui 23 non avevano mai avuto prima un cardinale. Ha convocato 5 Assemblee del Sinodo dei Vescovi, 3 generali ordinarie, dedicate alla famiglia, ai giovani e alla sinodalità, una straordinaria ancora sulla famiglia, e una speciale per la Regione Panamazzonica.
Più volte la sua voce si è levata in difesa degli innocenti. Alla diffusione della pandemia da Covid-19, la sera del 27 marzo 2020 volle pregare da solo in piazza San Pietro, il cui colonnato simbolicamente abbracciava Roma e il mondo, per l’umanità impaurita e piagata dal morbo sconosciuto.
Papa Francesco celebra i riti della Pasqua in una piazza San Pietro deserta durante la pandemia di covid19 nel marzo 2020
Papa Francesco celebra i riti della Pasqua in una piazza San Pietro deserta durante la pandemia di Covid19 nel marzo 2020, foto Vatican Media
Gli ultimi anni di pontificato sono stati costellati da numerosi appelli per la pace, contro la Terza guerra mondiale a pezzi in atto in vari Paesi, soprattutto in Ucraina, come pure in Palestina, Israele, Libano e Myanmar.
Dopo il ricovero del 4 luglio 2021, durato dieci giorni, per un intervento chirurgico presso il Policlinico Agostino Gemelli, Francesco il 14 febbraio 2025 si è recato nuovamente nello stesso ospedale per una degenza di 38 giorni, a causa di una polmonite bilaterale.
Rientrato in Vaticano ha trascorso le ultime settimane di vita a Casa Santa Marta, dedicandosi fino alla fine e con la stessa passione al suo ministero petrino, seppure ancora non ristabilito del tutto.
Nel giorno di Pasqua, il 20 aprile del 2025, per un’ultima volta si è affacciato dalla loggia della Basilica di San Pietro per impartire la solenne benedizione Urbi et Orbi.
Il magistero dottrinale di Papa Francesco è stato molto ricco. Testimone di uno stile sobrio e umile, fondato sull’apertura alla missionarietà, sul coraggio apostolico e sulla misericordia, attento nell’evitare il pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa, il Pontefice propose il suo programma apostolico nell’esortazione Evangelii gaudium (24 novembre 2013).
Tra i documenti principali si annoverano 4 Encicliche: Lumen fidei (29 giugno 2013) che affronta il tema della fede in Dio, Laudato si’ (24 maggio 2015) che tocca il problema dell’ecologia e la responsabilità del genere umano nella crisi climatica, Fratelli tutti (3 ottobre 2020) sulla fraternità umana e l’amicizia sociale, Dilexit nos (24 ottobre 2024) sulla devozione al Sacratissimo Cuore di Gesù.
Ha promulgato 7 Esortazioni apostoliche, 39 Costituzioni apostoliche, numerosissime Lettere apostoliche delle quali la maggioranza in forma di Motu Proprio, 2 Bolle di indizione degli Anni Santi, oltre alle Catechesi proposte nelle Udienze generali ed alle allocuzioni pronunciate in diverse parti del mondo.
Dopo aver istituito le Segreterie per la Comunicazione e per l’Economia, e i Dicasteri per i Laici, la Famiglia e la Vita e per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Egli ha riformato la Curia romana emanando la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium (19 marzo 2022). Ha modificato il processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità matrimoniale nel CCEO e nel CIC (M.P. Mitis et misericors Iesus e Mitis Iudex Dominus Iesus) e ha reso più severa la legislazione riguardo i crimini commessi da rappresentanti del clero contro minori o persone vulnerabili (M.P. Vos estis lux mundi).
Francesco ha lasciato a tutti una testimonianza mirabile di umanità, di vita santa e di paternità universale.
07 – Francesco Cappello*: DOLLARIZZAZIONE DIGITALE. IL PIANO DEGLI STATI UNITI PER MANTENERE LA SUPREMAZIA DEL DOLLARO, SI OPPONE ALL’ABBANDONO PROGRESSIVO DALL’USO DEL DOLLARO SU SCALA GLOBALE GRAZIE ALL’IMPLEMENTAZIONE DI UN “DOLLARO DIGITALE” CHE NON AVRÀ LA FORMA DI UNA VALUTA DIGITALE EMESSA DIRETTAMENTE DALLA BANCA CENTRALE (CBDC), MA PIUTTOSTO DI UN PIANO PER PROMUOVERE E REGOLAMENTARE LE STABLECOIN ANCORATE AL DOLLARO.
I Paesi BRICS+ stanno utilizzando valute alternative, e Cina ed Unione europea stanno sviluppando valute digitali controllate dalle banche centrali (CBDC) che potrebbero aggirare il sistema finanziario controllato dagli Stati Uniti. In questo scenario, le stablecoin sono un’arma digitale atta a sostenere la circolazione dei dollari in tutto il mondo (malgradi dazi e sanzioni) e preservare la supremazia finanziaria degli Stati Uniti nell’era delle criptovalute.
Ogni transazione in Yuan Digitale (e-CNY) riduce gradualmente la dipendenza dal dollaro, tracciando la strada verso una multipolarità valutaria, dove diverse valute forti coesisteranno e si contenderanno il ruolo di riferimento. Questo è anche l’obiettivo dei BRICS plus: rendere il commercio globale più equo e meno esposto ai rischi legati a una singola moneta. La piattaforma di pagamenti cinese è pensata per rafforzare l’Asia, rendendo le economie locali più resilienti e consolidando la leadership economica della Cina nella sua regione. La Cina, promuovendo attivamente l’uso dello Yuan digitale negli scambi internazionali con oltre 20 paesi in via di sviluppo, più che una guerra commerciale sta facendo una guerra di sistema.
Il vecchio mondo fatto di dazi e dollari comincia a essere sostituito da un nuovo ordine economico multivalutario basato su app, criptovalute statali e pagamenti digitali. L’affermazione della Cina nel promuovere il suo sistema di pagamento digitale pare rappresentare una sfida diretta all’ordine economico globale in cui il dollaro ha tradizionalmente avuto un ruolo centrale (vedi Gli squilibri economici ristrutturano il mondo Rimettere in primo piano l’economia interna). Il piano dell’Unione ha obiettivi analoghi (vedi Euro digitale. Obiettivi e tentazioni).
Il piano USA mira, da un lato, ad abbattere il valore del dollaro per rendere le esportazioni americane più competitive e riportare la produzione negli Stati Uniti, riducendo la dipendenza da altri Paesi. Dall’altro, l’obiettivo è mantenere il primato del dollaro come valuta di riserva globale.
La strategia prevede di creare una fuga fittizia di capitali dal dollaro, ma non verso altre valute come l’euro o lo yuan cinese, bensì verso Bitcoin e stablecoin controllate dagli Stati Uniti.
A questo scopo è finalizzata la creazione di una Riserva Strategica di Bitcoin attraverso un ordine esecutivo. Il governo americano entra nel mondo delle criptovalute per dirigere i flussi di capitale globale verso asset controllati dagli Stati Uniti, cercando di rallentare la loro emorragia verso i sistemi economici europei o cinesi.
WALL STREET, DI CONSEGUENZA, HA GIÀ INIZIATO AD ABBRACCIARE BITCOIN, E LA PRESENZA DI UNA RISERVA STRATEGICA UFFICIALE NEGLI STATI UNITI È DESTINATA AD AUMENTARNE LA DOMANDA.
Un altro elemento cruciale della strategia consiste nella promozione e regolamentazione delle Stablecoin emesse da Banche Americane. Le stablecoin sono valute digitali il cui valore è ancorato a una valuta stabile come il dollaro, a differenza delle criptovalute più volatili. L’obiettivo dichiarato è mantenere il dollaro come valuta di riserva dominante nel mondo anche attraverso le stablecoin. Attualmente, circa il 95% delle stablecoin esistenti sono ancorate al dollaro, ma sono emesse principalmente da aziende private e spesso offshore (come Tether e Circle). Trump mira a cambiare questo scenario, facendo sì che siano le banche americane a emettere stablecoin con riserve regolamentate e integrate nel sistema finanziario tradizionale. Ciò richiede la revisione delle norme bancarie e fiscali per favorire le stablecoin e aprire le porte alle banche per emettere dollari digitali regolamentati. Questa strategia trasforma le stablecoin in un’arma digitale per far circolare i dollari a livello globale, preservando la supremazia finanziaria degli Stati Uniti nell’era delle criptovalute.
Sono state introdotte proposte di legge fondamentali, come lo Stable Act [1] e il Genius Act [1], per creare una struttura federale per le stablecoin.
Lo Stable Act obbligherà gli emittenti a mantenere riserve 1:1 in titoli di Stato americani o depositi in contanti, mentre il Genius Act autorizzerà le banche a emettere stablecoin sotto la supervisione dell’OCC. L’OCC [2] aveva già dato il via libera alle banche nazionali per emettere stablecoin. L’IRS sta rivedendo le norme fiscali [3], e il Tesoro sta rimuovendo vecchie restrizioni per incentivare l’uso degli asset digitali. Le grandi banche americane si stanno già preparando e prendendo posizione, con esempi come la JPM Coin di JP Morgan (una versione tokenizzata del dollaro per transazioni istituzionali) o Wells Fargo che esplora depositi tokenizzati.
Questo scenario potrebbe riportare a una versione digitale del Free banking del XIX secolo [4], dove le banche competono emettendo le proprie versioni regolamentate del dollaro digitale sulla blockchain. Queste stablecoin regolamentate sarebbero percepite come più sicure di quelle offshore, e il dollaro digitale emesso dalle banche americane potrebbe diventare lo strumento di pagamento globale più utilizzato, soppiantando altre valute. Sebbene le stablecoin creino un ponte tra il mondo crypto e il sistema finanziario tradizionale, ancorando teoricamente il loro valore al dollaro o a titoli di Stato, sussiste il rischio che non abbiano riserve sufficienti a sostenere il loro valore. Un crollo delle stablecoin potrebbe minare l’intero ecosistema delle criptovalute e diffondere una crisi che in qualche misura potrebbe estendersi ai mercati finanziari più tradizionali.
*(Francesco Cappello – Giornalista. educatore all’arte della maieutica reciproca di Danilo Dolci, Ricercatore indipendente (educazione, economia, politica della scienza.)
08 – Andrea Meccia*: Giuseppe De Santis, Portella della Ginestra e un film mai fatto – Cinema politico In un trattamento il progetto mai portato a termine sulla strage politica e mafiosa: il soggetto decostruisce la figura di Giuliano come bandito sociale e romantico.
Tra i diversi film non realizzati da Peppe De Santis, c’era un progetto sulla strage proletario-contadina di Portella della Ginestra. Quell’eccidio terroristico-mafioso datato Primo Maggio 1947 non poteva non colpire l’immaginazione di un uomo «cresciuto nell’alveo della società contadina», un «poeta del realismo sociale» (così lo definì Costa-Gavras), autore in pieno Neorealismo di una celebre Trilogia della terra (Caccia Tragica, 1947; Riso Amaro, 1949; Non c’è pace tra gli ulivi, 1950). Eravamo nel bel mezzo degli anni ’50 quando il regista nato nel 1917 a Fondi, nella sua «Ciociaria della costa», aveva deciso di guardare al «cuore della tragica e gloriosa terra di Sicilia» del dopoguerra. Una stagione «di fame, di sete, di disperazione», in cui i «proprietari di mulini e grossisti di grano e di farina» erano «immischiati nella onorata società e talvolta capi della mafia» ed in cui «un giovane (…) di nome Salvatore Giuliano, faceva borsa nera». Era la Sicilia dei decreti Gullo e delle lotte bracciantili, della violenza mafiosa contro sindacalisti ed esponenti Pci-Psi, delle elezioni regionali dell’aprile 1947 che videro il «Blocco del popolo» (l’alleanza tra i partiti di sinistra) ottenere il 30% dei voti e una Dc staccata di dieci punti. Un contesto poi segnato dai fatti del Primo Maggio, pochi mesi prima che la Costituzione repubblicana entrasse in vigore.
Su quel massacro che vide la morte di undici persone (tra loro giovanissimi e bambini), De Santis voleva dunque fare luce. In nome della sua visione di arte militante, contrapposta allo spirito di epoca fascista, di cinema come strumento di conflitto e di intervento, di comprensione e trasformazione della dimensione politica contingente. Un punto di vista sempre attento inoltre alla condizione femminile, ai ceti popolari e, come ci dice Steve della Casa, «alle lotte contadine di quegli anni, osservate da De Santis come il punto più alto di lotta della sinistra nel Mezzogiorno». La sua idea di film – da svolgersi «in assoluta unità di tempo, nel corso della giornata della strage, mostrata peraltro dal punto di vista dei banditi» come ricorda Emiliano Morreale – si trasformò in un «racconto cinematografico» in cui presero vita «lamenti dei feriti», «pianti di donne» ègrida di bambini». Tra le scene più toccanti, il dialogo di un figlio con il padre «inginocchiato accanto al corpo ormai esamine della sua sposa». In fase di scrittura, De Santis scelse di collaborare con Felice Chilanti, un irregolare del giornalismo italiano che in quegli anni Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano L’Ora (1954-1975), aveva voluto nel suo pool di cronisti di inchiesta. «Chilanti era un ex fascista radicale ed antisemita, nato nel Polesine e di origine contadine.
Scampò alle Fosse Ardeatine e dopo la guerra si avvicinò al Partito comunista», racconta Ciro Dovizio che a quella stagione de L’Ora ha dedicato un volume (L’alba dell’antimafia, Donzelli, 2024). «In un’epoca in cui il discorso pubblico e politico su mafia-e-antimafia faticava ad affermarsi, Chilanti aveva volto il suo sguardo al rapporto mafia-classi dirigenti. Nel 1958, inoltre, avrebbe coordinato, celebre il suo articolo Dà pane e morte, la prima grande inchiesta sulla mafia che costò a L’Ora un attentato». De Santis aveva voluto con sé un cronista di primo livello che «aveva seguito il processo di Viterbo sui fatti di Portella a cui Giuliano, il bandito di Montelepre che con una mitragliatrice aveva sparato sui contadini, non partecipò perché ucciso nel 1950 dal cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta. Una esperienza da cui trasse nel 1952 un libro intitolato, non a caso, Da Montelepre a Viterbo». La loro collaborazione generò un trattamento di una cinquantina di pagine battute a macchina dal titolo Portella delle Ginestre (1955). Il documento testimonia con forza la scomodità della figura di De Santis per il sistema partitico e produttivo nel contesto del centrismo democristiano e dell’irrigidimento del sistema politico provocato dalla Guerra Fredda.
Sul rapporto mafia-Stato, Salvatore Lupo definirà poi gli anni 1946-1960 il periodo del «lungo armistizio» in cui la mafia non è vista come «un’organizzazione criminale», ma come «un comportamento» e «il residuo di un’arcaica cultura anti-statalista». Al centro delle cronache di allora vi è Giuliano, il guerrigliero mediatico e fotografo delle proprie gesta. Nel soggetto, De Santis e Chilanti decostruiscono la sua figura di bandito sociale-e-romantico sottraendogli l’appellativo di «re di Montelepre» e descrivendolo, prima di sparare, «livido, nervoso, agitato». Nelle ore successive alla strage lo immagineranno dialogare così con la sua banda: «Ma poi chi erano quelli là che sono morti? Prendevano troppo piede, invadevano le terre, volevano una buona vita senza rischiare niente. Volevano le terre degli altri e dove arrivavano tutti insieme come cavallette non c’era più posto per noi. Avevano alzato troppo la testa e noi gliela abbiamo fatta abbassare». L’eccidio di Portella che un convegno del Centro di documentazione sulla mafia fondato da Umberto Santino e Anna Puglisi definirà nel 1977 «una strage per il centrismo», è un momento chiave della storia repubblicana che fin da subito si offre come un oggetto di complessa messa a fuoco su cui il cinema italiano non ha mai però rinunciato ad interrogarsi.
Anton Giulio Mancino, ne Il processo della verità (Kaplan, 2008), scriverà di ben «nove film fatti, da fare o da non fare su Portella», ricostruendo come il primo ad interessarsi allo strazio di quei corpi colpiti a morte sotto un cielo di bandiere rosse accarezzate dal vento fosse stato Luchino Visconti per un mai realizzato «film di propaganda e controinformazione» del Pci in vista delle elezioni del 1948 e che si trasformò poi nel verghiano La terra trema (1948). Attraverso gli appunti del regista e le testimonianze di Franco Zeffirelli, sappiamo come il film mosse i primi passi come un documentario in cui far emergere il carattere terroristico di quella carneficina raccontando una «mafia padronale» che aveva dato «una sanguinosa, tremenda lezione intimidatoria per il futuro» al movimento contadino. Interpretazioni che ben si legano alla ricostruzione di quella giornata immaginata da Chilanti e De Santis, già collaboratore di Visconti. Ma per far entrare nel nostro immaginario politico, sindacale e antimafia quella strage che non smetterà di tormentare la nostra democrazia, dovremo attendere il 1962 e le scene di massa del Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, allievo viscontiano per definizione. Fotogrammi che continuiamo a guardare e ad utilizzare – in virtù del loro grado di «verità raggiunta» (Sciascia dixit) – con la forza, la fiducia e lo status di immagini di repertorio raccolte in presa diretta. Perché capaci di restituirci le emozioni di quei momenti su cui sarebbe tornato su input di Danilo Dolci – (in)direttamente e rifiutando logiche spettacolari – Paolo Benvenuti nel suo Segreti di Stato del 2003.
*(Andrea Meccia. Giornalista, insegnante di Italiano L2 e operatore culturale. Ha pubblicato “Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e Tv)
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