n° 14 – 12/04/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Eliana Riva*: Onu: Israele minaccia l’esistenza dei palestinesi. Striscia continua L’accusa dell’Alto commissariato per i diritti umani. Croce rossa e Msf.
denunciano: Gaza muore lentamente di fame e di sete. Cnn: brusca frenata nel dialogo, gli uomini di Netanyahu non vogliono negoziare
02 – L’arresto dello studente e attivista palestinese voluto da Trump è da manuale fascista
Arrestato perché “amico di Hamas”. Senza avere uno straccio di prova
03 – Alfiero Grandi*: Il governo Meloni e l’alleanza con Trump: un pericolo per l’Italia e l’Europa. Il governo Meloni è un danno per il futuro dell’Italia. La Presidente del Consiglio insegue un rapporto “speciale” con Trump che non può che portare guai
04 – Andrea Carugati*: Le opposizioni: «Governo diviso, salgano al Quirinale» – Voto alla Camera Protesta in aula contro l’escamotage delle destre. Conte: «Non avete neppure la dignità di scrivere la parola “riarmo”».
05 – Fabi Anna*: Pensioni INPS pagate all’estero: come riscuotere l’assegno – Pensioni INPS pagate all’estero ad italiani trasferitisi in oltre 160 Paesi, con nuovi trend: dopo Europa e America, emergono Asia e Africa.
06 – Lorenzo Lamperti*: USA – La ricaduta delle tariffe cinesi è già tangibile: Walmart non mette più prezzi, 145% Contro Pechino La Cina si propone come «fattore di stabilità» con i vicini asiatici e il continente europeo
07 – Luigi Pandolfi*: Aggiotaggio alla Casa bianca. Incassa anche Mr. President – La giravolta sui dazi ha premiato i suoi protagonisti Regalo miliardario alle “7 sorelle” hi tech e a tutti i ribassisti. E il Trump Media Group sale del 19%. I democratici: ora inchiesta.
08 – Geraldina Colotti *: l mondo secondo Raul Capote. Intervista all’agente cubano infiltrato nella Cia.
09 – Trump contro tutti: i suoi dazi colpiscono anche gli amici – La guerra commerciale scatenata da Donald Trump contro una sessantina di Paesi nel mondo segna un nuovo capitolo di incertezza economica globale.

(rassegna a cura di Guglielmo Zanetta)

 

01 – Eliana Riva*: Onu: Israele minaccia l’esistenza dei palestinesi. Striscia continua L’accusa dell’Alto commissariato per i diritti umani. Croce rossa e Msf denunciano: Gaza muore lentamente di fame e di sete. Cnn: brusca frenata nel dialogo, gli uomini di Netanyahu non vogliono negoziare

A Gaza dal 18 marzo al 9 aprile Israele ha attaccato 224 volte edifici residenziali e tende per sfollati. Almeno 36 bombardamenti hanno ucciso solo donne e bambini. Nell’ultima strage familiare, avvenuta all’alba di ieri a Khan Younis, su dieci vittime sette erano minori. Nello stesso lasso di tempo Tel Aviv ha emesso 21 ordini di evacuazione, spesso verso zone descritte come «sicure» ma che lo stesso esercito ha più volte attaccato.
L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani ha dichiarato che l’effetto combinato di tutte le azioni israeliane nella Striscia di Gaza minaccia l’esistenza dei palestinesi «in quanto gruppo». È uno degli atti di genocidio stabiliti dalla convenzione del 1948 e a ciò si aggiunge l’accusa di dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che, dichiara la portavoce Ravina Shamdasani, «costituisce un crimine di guerra».
DA QUANDO Tel Aviv ha ricominciato i bombardamenti, per 23 volte ha colpito la cosiddetta «zona umanitaria» di Al-Mawasi, dove ha ordinato alla popolazione sfollata di dirigersi. Gli ordini di spostamento forzato hanno riguardato 400mila persone (dati Unrwa) in un periodo di sole tre settimane. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato un nuovo allarme sulla scarsità delle scorte medicinali, che sono giunte a un livello critico tale da rendere difficile mantenere gli ospedali anche solo parzialmente operativi.
Il blocco di aiuti umanitari è il più lungo dall’inizio della guerra e il taglio dell’energia elettrica sta causando carenza idrica in più parti della Striscia. Ieri il comune di Gaza City ha parlato di una «crisi di sete» che porterà a condizioni disperate nei prossimi giorni.

SENZA ACQUA, CIBO E LUCE. ASSEDIO COMPLETO A GAZA
Anche ad Al-Mawasi l’impianto di desalinizzazione è completamente fuori uso e Medici senza Frontiere ha denunciato che la mancanza di acqua e igiene sta causando focolai di poliomielite e scabbia. La ong ha dichiarato di assistere a una «morte lenta»: la fame provoca perdita di peso e problemi medici che la sanità annientata non è in grado di gestire. Anche la Croce rossa ha fatto sapere che il suo ospedale da campo esaurirà le forniture entro due settimane, descrivendo la situazione nella Striscia come «l’inferno in terra».
L’ESERCITO ISRAELIANO, ignorando denunce, appelli, disposizioni, continua a comunicare i suoi «risultati operativi». Quaranta «obiettivi» colpiti solo tra giovedì e venerdì e quasi sempre specifica addirittura con fierezza di aver preso precauzioni per proteggere la popolazione civile, seppur abbia ucciso almeno 26 persone, tra cui bambini.
Ma le finalità della guerra, gli scopi ultimi, hanno contorni indefiniti. La volontà di occupazione permanente e la mancanza di una prospettiva negoziale riportano dubbi sulla reale volontà del governo di provare a recuperare gli ostaggi ancora presenti a Gaza. Da più parti cresce anzi la sensazione che Netanyahu e i suoi abbiano rinunciato all’idea. Dopo la lettera con cui giovedì mille riservisti dell’aeronautica israeliana hanno criticato l’attacco alla Striscia perché utile a Netanyahu e mortale per gli ostaggi, ieri 250 membri dell’unità di intelligence d’élite 8200 hanno mosso profonde critiche all’operazione militare.
L’esercito, su spinta del governo, ha licenziato i soldati dell’aeronautica ancora attivi che hanno sottoscritto l’appello. Nonostante ciò, poche ore dopo, i riservisti dell’unità di intelligence hanno dichiarato che «in questo momento, la guerra serve principalmente interessi politici e personali piuttosto che interessi di sicurezza» e che le operazioni porteranno alla morte degli ostaggi. Netanyahu ha risposto che le petizioni sarebbero «guidate da organizzazioni finanziate dall’estero» con l’obiettivo di rovesciare il governo di destra.
PER LA SECONDA volta nel giro di pochi giorni ha paragonato queste critiche alle manifestazioni di piazza del 2023 contro il tentativo di riforma giudiziaria che, a suo dire, avrebbero indebolito Israele, aprendo la strada all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Anche 150 ex ufficiali della Marina e decine di medici riservisti hanno chiesto la fine immediata della guerra per negoziare la liberazione degli ostaggi. Tutti si sono detti preoccupati anche per lo stato mentale dei soldati sul campo.

I FAMILIARI DEGLI OSTAGGI IN MARCIA CONTRO NETANYAHU
Intanto, Israele sta scambiando bozze di proposte per il cessate il fuoco con i negoziatori egiziani. Il programma presentato dal Cairo dovrebbe prevedere il rilascio di otto prigionieri vivi e otto corpi, in cambio di una tregua tra i 40 e i 70 giorni e la liberazione di prigionieri palestinesi.
Tuttavia, un rapporto pubblicato ieri dalla Cnn, che cita fonti negoziali, riporta di una brusca frenata nei colloqui. La nomina di un confidente del premier Netanyahu, il ministro per gli affari strategici Ron Dermer, a capo della squadra negoziale, ha portato a un cambio di priorità. «I negoziatori sembrano essere politicizzati», ha spiegato la fonte. E un funzionario statunitense che sostiene i parenti degli ostaggi ha confermato la sensazione: «Le famiglie [degli ostaggi, nda] capiscono che Dermer rappresenta un grosso ostacolo al ritorno dei loro cari».
*(Eliana Riva – Storica, esperta di Paesi Islamici, documentarista)

 

02 – L’ARRESTO DELLO STUDENTE E ATTIVISTA PALESTINESE VOLUTO DA TRUMP È DA MANUALE FASCISTA – ARRESTATO PERCHÉ “AMICO DI HAMAS”. SENZA AVERE UNO STRACCIO DI PROVA.

Mahmoud Khalil, studente palestinese laureato alla Columbia University tra i più attivi nelle proteste pro-Palestina iniziate lo scorso aprile nell’università statunitense, è stato arrestato sabato mattina dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) in attuazione degli “ordini esecutivi del presidente Trump che proibiscono l’antisemitismo”, per cui chi ha partecipato alle proteste ha perso il diritto di rimanere negli Stati Uniti, come affermato dalla portavoce del dipartimento per la Sicurezza Interna, Tricia McLaughlin, dopo due giorni di silenzio sulle sorti di Khalil.
Solo lunedì 10 marzo si è saputo infatti dove era detenuto, nel centro di Jena/LaSalle in Louisiana. McLaughlin ha spiegato che Khalil, cittadino algerino di origine palestinese, ha “condotto attività allineate ad Hamas, un’organizzazione terroristica designata”. Tuttavia, non ha fornito alcuna prova a sostegno delle sue affermazioni.
In un post su X la Columbia ha dichiarato che le forze dell’ordine devono presentare un mandato prima di entrare nella proprietà dell’università. Tuttavia, contattati da diversi media, i portavoce dell’università hanno rifiutato di dire se l’università avesse ricevuto un mandato per l’arresto di Khalil.
Stando a quanto dichiarato ad AP dalla sua avvocata, Amy Greer, quando sono arrivati nel campus gli agenti hanno minacciato anche di arrestare la moglie di Khalil, cittadina statunitense, incinta di otto mesi. Uno degli agenti ha detto a Greer che il visto studentesco di Khalil era stato revocato e, quando l’avvocata ha fatto notare che lo studente palestinese si trovava negli Stati Uniti non con un visto ma da residente permanente con un green card, le è stato risposto che stavano revocando anche quella.

“Si tratta di una chiara escalation – ha detto Greer ad AP – L’amministrazione ha iniziato a dare seguito alle minacce”. L’arresto di Khalil è avvenuto il giorno dopo l’annuncio dell’amministrazione Trump di avere tagliato circa 400 milioni di dollari in contratti e sovvenzioni governative alla Columbia University “per non aver protetto i suoi studenti ebrei”. E come affermato in un post su X dal Segretario di Stato Marco Rubio, d’ora in avanti l’amministrazione “revocherà i visti e/o il green card dei sostenitori di Hamas in America in modo che possano essere espulsi”. Rubio – scrive Axios – intende revocare i visti ai cittadini stranieri ritenuti sostenitori di Hamas o di altri gruppi terroristici, utilizzando l’intelligenza artificiale (IA) per individuare le persone.

Ma su quali basi? Come osserva Marina Catucci su Il Manifesto, “la legge USA ha sempre previsto che il Department of Homeland Security, per una gamma di presunte attività criminali – incluso il sostegno a gruppi terroristici – possa espellere anche i titolari di green card, ma la detenzione di un residente permanente legale, che non è stato accusato di alcun crimine, è una mossa straordinaria con un fondamento legale traballante”.

John Sandweg, ex direttore ad interim dell’ICE, ha dichiarato in una e-mail alla CNN che il ricorso a una disposizione per espellere un titolare di carta verde è raro e spesso utilizzato con altre accuse di immigrazione, “incluso il fatto che la persona abbia mentito nella domanda di carta verde e non abbia rivelato legami con l’organizzazione terroristica”. Tuttavia, come detto, non ci sono prove fondate delle connessioni tra Khalil e Hamas.

“L’amministrazione potrebbe anche fare affidamento su un’altra disposizione che presumibilmente consente all’ICE di espellere qualcuno quando il ‘Segretario di Stato ha ragionevoli motivi per ritenere’ che la presenza o le attività della persona negli Stati Uniti presentino ‘gravi conseguenze negative per la politica estera degli Stati Uniti’”, ha aggiunto Sandweg, sottolineando che il ricorso anche a questa disposizione è raro.

Intanto, un giudice federale di New York ha bloccato l’espulsione di Khalil in attesa di decidere se il caso debba rimanere a Manhattan, essere trasferito nel New Jersey, dove Khalil era stato inizialmente detenuto, o in Louisiana, dove lo studente è attualmente detenuto. Il governo ha presentato documenti in cui chiede al giudice Jesse Furman di respingere in toto l’istanza di habeas corpus di Khalil o di trasferirla nel distretto occidentale della Louisiana, dove i casi a favore dei repubblicani sono quasi sempre affidati ai giudici nominati da Trump. Per gli avvocati di Khalil è un tentativo per mettere a tacere il dissenso politico.

Se il giudice deciderà che le accuse sono fondate, Khalil potrà comunque richiedere un provvedimento di sgravio delle accuse e l’intero processo potrebbe trascinarsi per mesi, secondo Camille Mackler, fondatrice e direttrice esecutiva di Immigrant ARC, una coalizione che fornisce servizi legali a New York. “C’è da chiedersi se il giusto processo sarà garantito a noi o a chiunque altro”, ha dichiarato Mackler. ‘Stiamo vedendo l’amministrazione Trump usare il potere del governo per perseguire persone o istituzioni che non le piacciono o con cui non è d’accordo. In una società libera questo non dovrebbe accadere’.

L’arresto di Khalil è arrivato dopo una stretta da parte di una nuova commissione disciplinare universitaria – l’Office of Institutional Equity – contro studenti della Columbia che hanno espresso critiche nei confronti di Israele, secondo i documenti condivisi con AP. Nelle ultime settimane, l’ufficio ha inviato avvisi a decine di studenti per attività che vanno dalla condivisione di post sui social media a sostegno del popolo palestinese all’adesione a proteste “non autorizzate”. Uno studente attivista è indagato per aver affisso fuori dal campus adesivi che imitavano i manifesti “Wanted”, con le sembianze di amministratori dell’università. Un altro, presidente di un club letterario del campus, rischia una sanzione per aver ospitato una mostra d’arte fuori dal campus incentrata sull’occupazione di un edificio del campus la scorsa primavera.

Maryam Alwan, studentessa giordana di origine palestinese, laureata in Studi comparati palestinese-americani, è stata fermata con l’accusa di molestie per un articolo non firmato sul Columbia Spectator che esortava l’università a ridurre i legami accademici con Israele che “potrebbe aver sottoposto altri studenti a comportamenti indesiderati basati sulla loro religione, origine nazionale o servizio militare”.

Durante le proteste Khalil aveva svolto un ruolo di negoziatore tra studenti e funzionari universitari. Per la sua attività era stato sanzionato dall’università, in particolare per “aver aiutato a organizzare un corteo non autorizzato” in cui era stato “glorificato l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023” e per aver svolto un “ruolo sostanziale” nella circolazione di post sui social media in cui si criticava il sionismo. In un’intervista ad AP della scorsa settimana, Khalil aveva negato ogni coinvolgimento rispetto ai post circolati sui social.

“In base a come si sono svolti questi casi, sembra che l’università stia rispondendo alle pressioni governative per sopprimere e soffocare la libertà di parola”, spiega ancora l’avvocata Greer. “Sta operando come un’azienda, proteggendo i suoi beni prima dei suoi studenti, docenti e personale”.
Tempo fa i repubblicani della Camera avevano dato agli amministratori della Columbia tempo fino al 27 febbraio per consegnare i registri disciplinari degli studenti relativi a quasi una dozzina di manifestazioni nel campus, tra cui le proteste che, secondo i repubblicani, “promuovevano il terrorismo e vilipendevano le forze armate statunitensi”, nonché la mostra d’arte fuori dal campus. Un portavoce della Columbia ha rifiutato di specificare quali documenti siano stati consegnati al Congresso e se includano i nomi degli studenti, aggiungendo di non poter commentare le indagini in corso.
Secondo le politiche della nuova commissione della Columbia, gli studenti sono tenuti a firmare un accordo di non divulgazione prima di accedere al materiale del caso o di parlare con gli investigatori. Coloro che hanno parlato con gli investigatori dicono che è stato chiesto loro di fare i nomi di altre persone coinvolte in gruppi e proteste pro-palestinesi nel campus. Hanno detto che gli investigatori non hanno fornito indicazioni chiare sul fatto che alcuni termini – come “sionista” o “genocidio” – possano essere considerati molesti. Diversi studenti e docenti che hanno parlato con AP hanno detto che la Commissione li ha accusati di aver partecipato a manifestazioni a cui non hanno preso parte o di aver contribuito a far circolare messaggi sui social media che non hanno pubblicato. Come nel caso di Khalil che, dopo aver rifiutato di firmare l’accordo di non divulgazione, aveva subito la minaccia dall’università di bloccare il suo libretto e di impedirgli di laurearsi.
“Prendere di mira uno studente attivista è un affronto ai diritti di Mahmoud Khalil e della sua famiglia. Questo atto palesemente incostituzionale invia un messaggio deplorevole, ovvero che la libertà di parola non è più protetta in America. Inoltre, Khalil e tutte le persone che vivono negli Stati Uniti hanno diritto a un giusto processo. Una carta verde può essere revocata solo da un giudice dell’immigrazione, il che dimostra ancora una volta che l’amministrazione Trump è disposta a ignorare la legge per instillare paura e promuovere il suo programma razzista”, ha dichiarato Murad Awawdeh, presidente e amministratore delegato della New York Immigration Coalition. “Khalil va immediatamente rilasciato”.
*(Fonte: Valigia Blu valigiablu.itinfo@valigiablu.it

 

03 – Alfiero Grandi*: Il governo Meloni e l’alleanza con Trump: un pericolo per l’Italia e l’Europa. Il governo Meloni è un danno per il futuro dell’Italia. La Presidente del Consiglio insegue un rapporto “speciale” con Trump che non può che portare guai.

Se Trump decidesse di affondare il coltello per dividere l’Europa, cosa risponderebbe il governo a un trattamento privilegiato? Dividere l’Europa? Se Trump confermasse per l’Italia i dazi imposti al resto dell’Unione, emergerebbe tutta l’irrilevanza politica di questo esecutivo. I sovranismi entrano in collisione con un sistema di relazioni tra Stati basato sul reciproco interesse.
Il governo è prigioniero da due anni e mezzo di un’interpretazione sbagliata della politica, dell’economia e della società, e manifesta insofferenza per i ruoli di controllo e contrappeso istituzionale previsti dalla nostra Costituzione, come dimostra l’attacco all’indipendenza della magistratura. Non è un problema solo italiano. Non possiamo dimenticare che Trump non accettò il risultato elettorale nel 2020, incoraggiando l’assalto a Capitol Hill, e ora non solo ha amnistiato i rivoltosi, ma attacca ogni potere che possa ostacolarlo, mettendo a rischio la democrazia. Prevale nella destra al governo l’insofferenza per regole e leggi, con risposte securitarie contro ogni forma di dissenso, dai rave party all’ultimo decreto sicurezza, dove si moltiplicano reati e pene.
Nel messaggio al congresso della Lega, Giorgia Meloni ha rilanciato l’attacco alla Costituzione e agli equilibri tra i poteri, proponendo modifiche che minano l’indipendenza della magistratura, riducono il ruolo del Presidente della Repubblica a mera formalità e trasformano il Parlamento in una “guardia del pretorio” del governo. Come ha osservato Ainis, sarebbe una vera capocrazia. Parallelamente, l’autonomia regionale differenziata – malgrado le sentenze della Corte e un ampio movimento contrario – rischia di frantumare l’unità nazionale e di erodere diritti fondamentali.
Questo patto di potere tiene in piedi il governo: se una di queste tre iniziative (riforma costituzionale, autonomia, attacco alla magistratura) venisse meno, l’esecutivo cadrebbe. Intanto, anche i mercati tremano dopo le decisioni di Trump, segnale di un crollo di fiducia nel futuro. L’Italia non potrà contare neppure sullo striminzito +0,2% di crescita previsto: la recessione è dietro l’angolo. Per invertire la rotta servirebbero risorse, ma il governo non ha il coraggio di chiederle ai più ricchi.
Il futuro è allarmante: l’inflazione potrebbe riaccelerare, dopo essere stata sfruttata per aumentare la pressione fiscale su un’economia stagnante. I redditi da lavoro perdono potere d’acquisto, mentre Meloni continua a incolpare il Green Deal, senza capire che ostacolare l’auto elettrica ci consegnerà alla dipendenza dalla Cina, come già accaduto con i pannelli solari. La destra insiste sulle motorizzazioni tradizionali, ignorando l’emergenza climatica: conferma così la sua miopia sul futuro.
Una novità positiva sono le recenti manifestazioni sindacali e sociali, che hanno portato in piazza richieste come la pace. Le opposizioni devono ora tradurre questo malcontento in un’alternativa credibile, perché il governo Meloni è un peso morto per l’Italia. Lo dimostrano le reazioni della destra ai dazi di Trump: invece di unire l’Europa, la attaccano. Eppure, solo un’Europa unita può garantire autonomia in uno scenario globale turbolento.
Serve un’alternativa politica ora, non domani. Le opposizioni sembrano sottovalutare l’urgenza, ma il tempo stringe: bisogna costruire un movimento di massa, sostenere i prossimi referendum, e offrire una visione chiara. L’Europa deve cambiare, abbandonando l’obbedienza atlantica e opponendosi ai dazi con una risposta comune. Se non lo farà, rischia di sfarinarsi.
Questa destra non ce la fa. Le opposizioni devono dialogare con la società, ascoltare la richiesta di pace che viene dal paese, e costruire una proposta condivisa. I benefici del PNRR stanno evaporando, la recessione incombe: il momento di mandare la destra all’opposizione è adesso, per salvare l’Italia e l’Europa. Non c’è più tempo da perdere.
*(Fonte: Stisciarossa. Alfiero Grandi, è un politico e sindacalista italiano. Deputato della Repubblica Italiana. Durata mandato, 2001)

 

04 – Andrea Carugati*: LE OPPOSIZIONI: «GOVERNO DIVISO, SALGANO AL QUIRINALE» – VOTO ALLA CAMERA PROTESTA IN AULA CONTRO L’ESCAMOTAGE DELLE DESTRE. CONTE: «NON AVETE NEPPURE LA DIGNITÀ DI SCRIVERE LA PAROLA “RIARMO”».
Il centrosinistra si divide in tre: M5S e Avs contro il piano Ue, centristi a favore. Il Pd insiste con la «revisione radicale». E Schlein interroga l’esecutivo sul volo di Netanyahu nello spazio aereo italiano. Gli eurodeputati vicini alla leader insistono: stop all’accordo di cooperazione tra Ue e Israele
Ci provano, le opposizioni, a non far votare la mozione farlocca delle destre che non cita neppure il piano di riarmo Ue per evitare una sicura divisione. Ricordano alla presidenza della Camera che l’ordine del giorno è proprio quello, il Rearm di von der Leyen. Chiedono che il testo di Fdi, Fi e Lega non sia messo ai voti, ma non vengono accontentate.
«La maggioranza non ha neanche il coraggio e la dignità di scrivere la parola “riarmo” nella sua mozione», attacca Giuseppe Conte. Tutte le opposizioni si appellano al regolamento, chiedendo che non si proceda al voto sulla mozione delle destre (ce ne sono altre sei delle minoranze) perché è fuori tema rispetto all’oggetto del dibattito.
«Il Parlamento è stato insultato. Stiamo parlando di 800 miliardi investiti nel settore bellico. La maggioranza dica se pensa che il Parlamento non serva a nulla», attacca il capogruppo dei 5S Riccardo Ricciardi. Così anche Riccardo Magi di + Europa: «Chiediamo alla presidenza di chiarire che quella mozione non può essere abbinata alle altre perché non riguarda il punto all’ordine del giorno». Niente da fare.
Il Pd pone la questione della maggioranza divisa su un tema cruciale di politica estera. «In un’altra epoca si sarebbe andati al Quirinale per una verifica sulla tenuta della maggioranza», dice Stefano Graziano. «Non possiamo venire qui a chiedere al governo un’opinione e poi dover votare una mozione con scritto “viva la mamma”», attacca il capogruppo di Azione Matteo Richetti (il suo patito però si astine sul testo delle destre). E Avs definisce Salvini «un fanfarone».
Anche le opposizioni sono divise tra loro, ma non è una novità quando si parla di politica estera. M5S e Avs chiedono lo stop del piano di riarmo, i centristi lo approvano, mentre il Pd ne chiede una «revisione radicale». I dem si ritrovano su un testo analogo a quello votato un paio di settimane fa prima del consiglio Ue, frutto di una difficile mediazione interna tra favorevoli e contrari. Funziona anche stavolta, tutti i deputati lo votano.

L’ordine di scuderia prevede di astenersi sulle mozioni delle altre opposizione. Ma Lorenzo Guerini, Lia Quartapelle e Marianna Madia votano contro il testo dei 5S. Un modo per distinguersi e ribadire che i turbo riformisti non intendono seguire la linea pacifista della piazza dello scorso sabato. A cui il Pd ha partecipato con una delegazione guidata dal capogruppo Francesco Boccia e con molti esponenti vicini a Schlein.
Nel Pd c’è un caso anche a Bruxelles. Gli eurodeputati più pacifisti, Strada, Tarquinio, Laureti, Zan, Corrado, Ruotolo e Benifei, firmano una nota in cui si chiede alle istituzioni europee «l’immediata sospensione dell’accordo di cooperazione con Israele e l’embargo sulle armi verso» lo stato ebraico.
Una posizione analoga rispetto a quella del gruppo socialista in occasione delle votazioni del 1 aprile a Strasburgo. In quel caso tutta la delegazione dem, compresi Picierno e Gori, votò a favore dello stop all’accordo di associazione con Israele. Stavolta le firme sono solo sette. «Su questo tema bisogna insistere, la situazione a Gaza è insostenibile, è la linea del Pse e anche di Schlein», spiegano. Altri fanno notare che è inutile dividersi su un tema su cui tutti gli eurodeputati hanno votato uniti pochi giorni fa
E Schlein, con un’interrogazione, chiede al governo «con quali procedure sia stato autorizzato il sorvolo del suolo italiano da parte dell’aereo che trasportava il primo ministro israeliano Netanyahu dall’Ungheria agli Usa». Per lui infatti c’è un mandato d’arresto della Cpi. Che l’Italia è tenuta ad eseguire quando un ricercato entra sul territorio nazionale.
*(Fonte: Il Manifesto. Andrea Carugati. Giornalista professionista, fotografo, autore di libri, produttore cinema e tv. Ho lavorato per ANSA per oltre vent’anni in qualità prima di redattore.)

 

05 –Anna Fabi*: PENSIONI INPS PAGATE ALL’ESTERO: COME RISCUOTERE L’ASSEGNO – PENSIONI INPS PAGATE ALL’ESTERO AD ITALIANI TRASFERITISI IN OLTRE 160 PAESI, CON NUOVI TREND: DOPO EUROPA E AMERICA, EMERGONO ASIA E AFRICA.

Le pensioni INPS pagate all’estero sono oggi circa 300mila. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, sono cambiate le dinamiche di migrazione dei pensionati italiani, così come la distribuzione geografica dei pagamenti pensionistici.
A cadenza periodica, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale fotografa i principali trend dei trasferimenti, mettendo in risalto il ruolo della migrazione come fenomeno sociale e identitario.
Indice
1. PENSIONI INPS ALL’ESTERO: BOOM DI “NUOVI EMIGRATI”
2. DOVE SI TRASFERISCONO I PENSIONATI ITALIANI?
3. TRASFERIMENTO E CAMBIO IBAN PER LA PENSIONE
4. COME SI RISCUOTONO LE PENSIONI ITALIANE ALL’ESTERO
Pensioni INPS all’estero: boom di “nuovi emigrati”
Pensionati italiani all’estero per pagare meno tasse4 aprile 2025La mobilità internazionale, in linea con le disposizioni del Regolamento Europeo 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, assicura il diritto alle prestazioni previdenziali indipendentemente dal Paese di residenza.
Le pensioni versate all’estero dall’INPS a fine 2024 ammontavano ad oltre 310.000 unità, con un valore complessivo di circa 1,75 miliardi di euro. Una cifra che rappresentava circa il 2,3% delle pensioni totali erogate dall’Istituto, distribuite in circa 160 Paesi.
La componente delle pensioni in regime internazionale rappresenta una fetta significativa: circa un quinto, delle quali oltre il 35% pagato all’estero.
L’INPS paga all’estero anche pensioni in regime nazionale, sulla base di soli periodi assicurativi italiani.
Dove si trasferiscono i pensionati italiani?
La maggior parte dei pagamenti delle pensioni erogate dall’INPS a cittadini che risiedono all’estero si concentra in Europa seguita da America e Australia. I dati mostrano un aumento dei pagamenti anche in Asia e Africa. Al contrario, si registra un calo dei pagamenti in America settentrionale e meridionale e in Oceania, aree tradizionalmente scelte dai pensionati italiani del secolo scorso, ora in riduzione per l’avanzare dell’età media.
Questo fenomeno sottolinea il progressivo adattamento dei flussi pensionistici alle nuove realtà migratorie, con una minore concentrazione nelle tradizionali mete dell’emigrazione italiana e un aumento in Paesi emergenti.
TRASFERIMENTO E CAMBIO IBAN PER LA PENSIONE
Per comunicare all’INPS le coordinate bancarie del conto estero si può utilizzare il servizio online “Cambiare le coordinate di accredito della pensione”, che permette l’aggiornamento dell’IBAN per l’accredito pensione.
=> Verifica l’IBAN online
COME SI RISCUOTONO LE PENSIONI ITALIANE ALL’ESTERO
Si può chiedere il pagamento della pensione all’estero non solo tramite accredito su conto corrente bancario ma anche allo sportello (in genere Western Union) o con assegno di deposito non trasferibile, ma solo in rari casi (modalità di pagamento in via di eliminazione).
Per ricevere assistenza da Citibank per le pensioni INPS si può visitare la pagina web dedicata, inviare un’email all’indirizzo inps.pensionati@citi.com o telefonare al Numero verde dello Stato di residenza, indicato sul sito web Citi/INPS.
*(Anna Fabi – Autore presso PMI.it – Esperta di Economia, Fisco e Information Technology, scrive da anni di attualità legata al mondo delle piccole e medie imprese.)

 

06 – Lorenzo Lamperti*: USA – LA RICADUTA DELLE TARIFFE CINESI È GIÀ TANGIBILE: WALMART NON METTE PIÙ PREZZI, 145% CONTRO PECHINO LA CINA SI PROPONE COME «FATTORE DI STABILITÀ» CON I VICINI ASIATICI E IL CONTINENTE EUROPEO

Un paio di scarpe da uomo costava 50 dollari? Ora lo paghi almeno 130. Giocattoli? Prezzi proibitivi, quando arriveranno e non resteranno bloccati tra i carichi di merci abbandonate nei porti cinesi.
La guerra commerciale lanciata da Donald Trump inizia ad avere conseguenze molto concrete. A pagare, ovviamente, saranno soprattutto i consumatori americani e i produttori cinesi con manodopera ad alta intensità.
Gli analisti di Ubs stimano che il modello base di un iPhone 16 Pro Max da 1,.199 dollari assemblato in Cina potrebbe aumentare di 800 dollari, vale a dire del 67%. Non esattamente per tutte le tasche.
Il tutto mentre un iPhone 16 Pro assemblato in India potrebbe subire un aumento di soli 45 dollari. Per questo, secondo Reuters, Apple avrebbe già noleggiato voli cargo per trasportare 600 tonnellate di iPhone, circa 1,5 milioni di dispositivi, dall’India agli Stati uniti, nel tentativo di aggirare i dazi.
MA LO SPOSTAMENTO della produzione, quella di alta qualità ma non solo, fuori dalla Cina richiede tempo. Lo insegna quanto accaduto durante il primo mandato di Trump, con la Repubblica popolare che ha sin qui mantenuto il ruolo cruciale nelle catene di approvvigionamento.
Significativo il caso di Walmart, che starebbe continuando a chiedere ai fornitori cinesi di ridurre i prezzi delle loro merci per compensare l’impatto dei dazi. Richiesta non semplice per le piccole e medie imprese. Secondo Bloomberg, il rivenditore statunitense starebbe addirittura chiedendo di non mettere il cartellino del prezzo. Walmart prova da anni a mitigare l’impatto dei dazi, diversificando la sua catena di approvvigionamento. Tuttavia, la Cina rimane una fonte importante per i prodotti discrezionali di Walmart, come abbigliamento, elettronica e giocattoli.
La convinzione di Pechino è che la Casa bianca non possa aspettare il tempo necessario. E che sarà costretta a cercare un accordo, quando si farà davvero sentire l’inflazione.
Certo, i dazi al 145% (percentuale che la Casa bianca ha dovuto chiarire dopo l’ultimo balzello) imposti da Trump nel giro di poco più di due mesi non potranno non avere conseguenze sull’economia cinese. Per limitare l’impatto sugli esportatori cinesi, si potrebbe invece continuare a favorire la svalutazione dello yuan, che ieri ha già toccato i minimi dal 2007 sul dollaro. Nel frattempo, l’amministrazione cinematografica cinese ha annunciato la riduzione delle quote di importazione di film di Hollywood, a conferma di multiformità e flessibilità delle ritorsioni.
LA TREGUA di 90 giorni concessa a tutti gli altri paesi dà invece segnali duplici. Da una parte, sembra essere volta a coalizzare malcontento e preoccupazioni verso la sovrapproduzione cinese. Ma dall’altra, potrebbe garantire la prosecuzione di un sistema che sin qui ha funzionato talmente bene da ampliare il surplus commerciale di Pechino: il transito delle merci in paesi terzi, per poi essere rivendute negli Usa. Un ruolo giocato sin qui da Messico, Vietnam e altri paesi del Sud-est asiatico. È proprio qui che Xi Jinping si recherà in viaggio da domani, dopo aver parlato di «futuro condiviso» e valori asiatici» durante la conferenza sui paesi confinanti di mercoledì. Il presidente cinese si propone come fattore di stabilità, di fronte alle turbolenze causate da Trump. La stessa retorica viene usata con l’Europa.
Ieri, il ministro degli Esteri Wang Yi ha parlato nuovamente col commissario Ue al commercio Maros Sefcovic. Oggi, Xi riceve il premier spagnolo Pedro Sanchez, a cui garantirà nuovi investimenti a fronte di un’apertura politica di Madrid e (auspicabilmente) di Bruxelles.
IL TENTATIVO è trovare sponde nella sua battaglia contro gli Usa. Un motivo d’orgoglio, tanto che una portavoce del ministero degli Esteri ha ripescato il celebre video in cui Mao Zedong prometteva di «combattere fino al trionfo» contro «l’aggressione americana» della Corea. Sui social c’è chi scherza, proponendo la visione di un mondo in due blocchi ribaltati rispetto alla guerra fredda.
Da una parte una nuova Nato, raccolta intorno a una Pechino campione del libero commercio e dell’innovazione tecnologica. Dall’altra un rinnovato Patto di Varsavia guidato da Washington, definito da barriere commerciali e isolamento.
*(Lorenzo Lamperti – giornalista professionista, di base a Taipei. Per Wired si occupa di Asia orientale)

 

07 – Luigi Pandolfi*: AGGIOTAGGIO ALLA CASA BIANCA. INCASSA ANCHE MR. PRESIDENT – LA GIRAVOLTA SUI DAZI HA PREMIATO I SUOI PROTAGONISTI REGALO MILIARDARIO ALLE “7 SORELLE” HI TECH E A TUTTI I RIBASSISTI. E IL TRUMP MEDIA GROUP SALE DEL 19%. I DEMOCRATICI: ORA INCHIESTA

Altro che operai: i dazi hanno fatto bene finora solo a chi vive di plusvalenze sui titoli azionari. Un’operazione di manipolazione del mercato in grande stile, coerente con la stagione di gangsterismo economico inaugurata dal nuovo inquilino della Casa Bianca.
Prima il post sul «grande momento per comprare» firmato “Djt” (le iniziali di Trump ma anche la sigla della sua società in borsa), e quattro ore dopo l’annuncio di uno stop di 90 giorni per le cosiddette «tariffe reciproche» (esclusa la Cina, per la quale i dazi sono saliti addirittura al 145%), con la regia del gestore di hedge fund promosso a segretario del Tesoro Scott Bessent, sentito il segretario al Commercio Howard Lutnick, già capo della società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald, tra i 24 operatori «primari» che possono negoziare titoli di Stato con la Federal Reserve. Chi ha seguito il consiglio di The Donald, quando le quotazioni erano basse, ha realizzato così guadagni d’oro. Anche tra deputati e senatori, a quanto pare. «Qualunque membro del Congresso abbia acquistato azioni nelle ultime 48 ore – ha affermato al riguardo la deputata Alexandria Ocasio-Cortez – dovrebbe renderlo noto ora. Ho sentito delle cose interessanti in aula. È ora di vietare l’insider trading al Congresso». I democratici sembrano essersi svegliati e chiedono una vera indagine.
IL RIMBALZO di mercoledì è stato, in ogni caso, una pasqua di resurrezione per banchieri e tecnologici, dopo lo tsunami dei giorni precedenti, quando sono andati in fumo quasi 10 trilioni di dollari. Un rialzo guidato soprattutto dai «Magnifici 7», i gioielli dell’hi tech che più di altri hanno investito nella rielezione del tycoon. I numeri sono davvero notevoli: +20% Tesla, +18% Nvidia, +15% Meta, +15% Apple, +12% Amazon, +10% Microsoft, +10% Alphabet. Elon Musk, il fustigatore dei dipendenti pubblici, ha raccolto in poche ore ben 6 miliardi di dollari per la sua nuova impresa xAI. Parliamo, comunque, di titoli già molto sopravvalutati rispetto ai fondamentali delle aziende, a proposito dei quali molti analisti hanno evocato la bolla speculativa dei Dot-com degli anni Novanta, legata non a caso alle nuove tecnologie informatiche.
FESTA ANCHE per i titoli del settore dei semiconduttori, come Broadcom, Amd, Micron e Applied Materials, con l’indice Phlx Semiconductor che è salito addirittura del 19%. Per non parlare di banche e fondi speculativi: +9% Citigroup, +8% JP Morgan, +6% Bank of America, +7% Wells Fargo. Tra questi, non tutti hanno recuperato ancora quanto hanno perso negli ultimi giorni, ma il rimbalzo ha premiato gli investitori scaltri, quelli che sanno approfittare dei crolli borsistici momentanei. Come chi ha comprato titoli di BlackRock, saliti in un solo giorno del 9,97%. Tra i miliardari che hanno beneficiato di questo rimbalzo, spicca Warren Buffett, ceo di Berkshire Hathaway, una delle holding più grandi del mondo, con un fatturato di oltre 250 miliardi di dollari. Le azioni di classe A di questa società hanno raggiunto il massimo storico due giorni fa, dopo aver guadagnato perfino nella tempesta dei giorni precedenti.
MA IL NOME che fa più rumore è proprio quello di The Donald. Le azioni di Trump Media & Technology Group hanno registrato un incremento del 19,3% dopo l’annuncio sulla sospensione dei dazi fatto non a caso su Truth Social, che dello stesso gruppo fa parte.
Cosa insegna questa vicenda? Che il problema della classe operaia e dell’industria americana non sono il vino italiano o la lana cinese, ma l’ipertrofia della «sovrastruttura finanziaria» rispetto all’economia reale. La capitalizzazione del principale indice di Wall Street, lo S&P 500, è pari al doppio del Pil del paese: sono le oligarchie finanziarie che tengono in pugno gli Stati Uniti d’America. Quelle che Trump mai e poi mai metterà in discussione, essendo egli stesso espressione di quel mondo.
IERI TUTTE le borse del mondo sono andate bene, tranne Wall Street, per i dati sull’inflazione. Ma non è un problema, per ora. La bolla è ancora molto grossa e per tanti, ancora una volta, sarà un’occasione per speculare. Resta il monito di Jeffrey Sachs: «Quella dei dazi è una guerra che tutti perderanno, miliardari compresi». Chissà.
*(Luigi Pandolfi – Giornalista economico e saggista, scrive di economia e politica su vari giornali, riviste e web magazine. Collabora con Il Manifesto)

 

08 – Geraldina Colotti *: L MONDO SECONDO RAUL CAPOTE. INTERVISTA ALL’AGENTE CUBANO INFILTRATO NELLA CIA.
ALL’UNIVERSITÀ DELL’AVANA SI FESTEGGIANO I VENT’ANNI DI TELESUR, IL CANALE DI NOTIZIE MULTISTATALE, CREATO DA FIDEL CASTRO E HUGO CHAVEZ NELL’AMBITO DELL’ALBA (L’ALLEANZA BOLIVARIANA PER I POPOLI DELLA NOSTRA AMERICA), CON L’INTENTO DI CONTRASTARE IL “LATIFONDO MEDIATICO” ESISTENTE IN AMERICA LATINA. SONO STATI ALLESTITI STAND DEDICATI ALLA PALESTINA, E UN GRANDE PALCO PER CONCERTI E ESIBIZIONI CULTURALI, PRONTO AD ACCOGLIERE LA SERATA CONCLUSIVA DEL IV COLOQUIO INTERNACIONAL PATRIA, CON IL MOTTO “SIAMO POPOLI CHE TESSONO RETI”. IL CANALE È RAPPRESENTATO DA UNA NUTRITA DELEGAZIONE DI GIORNALISTI E OPERATORI, GUIDATA DALLA SUA DIRETTRICE, PATRICIA VILLEGAS.

Tre giorni di incontri seminariali, conferenze e dibattiti animati da prestigiosi ospiti nazionali e internazionali (oltre 400) – giornalisti, intellettuali, editori e comunità organizzate sul terreno della comunicazione alternativa – provenienti da 47 paesi. Per l’occasione, si festeggiano anche i 133 anni dalla creazione di Patria, il giornale fondato da José Marti, che concepiva la patria come “umanità”. Un concetto declinato nel presente contro le “piccole patrie” xenofobe, le chiusure e le frontiere che va imponendo il “tecno-feudalesimo” trumpista.

La Habana non sembra aver risentito dell’ennesima tornata di black out che si è appena risolta, e che non ha intaccato il buon umore dei cubani: “Quando c’è il sole, approfittiamo della spiaggia, quando non c’è, stiamo a casa a fare l’amore”, ci ha detto un lavoratore addetto alla pulizia del giardino. Al centro di un piccolo capannello di giovanissimi con piercing e treccine, troviamo Raul Capote, che ci concede questa intervista. Giornalista del quotidiano Granma, analista politico ed ex agente della sicurezza dello Stato cubano, Capote ha raccontato la sua esperienza in vari libri, anche tradotti in italiano, nei quali ha analizzato in prospettiva storica le varie fasi dell’aggressione a Cuba.

Avendo infiltrato la CIA e conosciuto dall’interno i piani di destabilizzazione contro Cuba, la sua è una prospettiva privilegiata per comprendere cosa sta accadendo oggi con l’arrivo di Trump. Cosa è cambiato da quando ha smesso di essere un agente operativo? Come vede la situazione attuale e il ruolo di Marco Rubio?

Stiamo vivendo una situazione molto complessa, davvero molto difficile, perché con la rinascita del fascismo in tutte le sue forme, nel mondo, con un governo di estrema destra negli Stati Uniti, con una visione peraltro totalmente diversa da quella a cui eravamo abituati, perfino da parte dell’impero nordamericano stesso, le cose sono alquanto peggiorate sotto molti aspetti: ci troviamo di fronte a una destra organizzata, ramificata, con uno scopo definito, e la risposta che abbiamo dato da sinistra, a livello internazionale, è stata una risposta debole, frammentata. Sebbene ci siamo incontrati molte volte, abbiamo parlato e abbiamo cercato di organizzare un programma antifascista internazionale, non abbiamo avuto l’opportunità, forse per ragioni che andrebbero analizzate molto più a fondo, di creare veramente un fronte antifascista con tutto ciò che ciò comporterebbe nelle circostanze attuali: giacché siamo di fronte a un fascismo che, come la sua natura ha sempre indicato, non ha scrupoli di alcun genere. Viviamo in un mondo in cui un popolo come quello della Palestina può essere massacrato senza che accada assolutamente nulla; in cui possono verificarsi fatti come quelli promossi in Siria e tutti restano in silenzio, semplicemente perché non sono del tutto in linea con il proprio pensiero o le proprie convinzioni. E così ci sono gli omicidi buoni, gli omicidi cattivi, i criminali buoni, i criminali cattivi, ci sono crimini che molte persone ignorano perché sono considerati “minimi”. Naturalmente, ogni crimine ha sempre un significato, ma “Israele” (l’entità sionista, per dirla correttamente) uccide migliaia di bambini e donne, e il mondo si è abituato, diciamolo francamente, a vedere immagini orribili, senza che ciò abbia risvegliato nulla. Oggi abbiamo un vicino qui a Cuba, a nord del nostro paese, che con estrema tranquillità dice che prenderà il controllo della Groenlandia, che dovrebbe essere un suo alleato. Oppure che afferma: Voglio prendere il controllo del Canada, affinché diventi un altro pezzo degli Stati Uniti, o minaccia di prendere il controllo del Canale di Panama. Se gli Stati Uniti fanno così con i loroli alleati, che sono addirittura membri della NATO, e non succede assolutamente nulla, non c’è una risposta, immaginate cosa potrebbe succedere a noi.

E LA RISPOSTA DELL’EUROPA, ANCHE DA PARTE DEI PARTITI DI “CENTRO-SINISTRA” CHE PARLANO DI PACIFISMO, È QUELLA DI CONTINUARE AD ARMARE ZELENSKY. COSA NE PENSA?
Penso che ci sia una confusione enorme, che ha anche a che fare con il grande declino dell’Europa, non solo del pensiero politico, ma anche della leadership politica della sinistra, e del grande vuoto di radicalità che esiste. L’estrema destra europea, il fascismo europeo, si è appropriato del nostro discorso di sinistra. La destra si è presentata alle masse come risolutrice dei problemi creati dalla sinistra, da quella parte della nuova sinistra costruita nel corso di molti anni in base a un globalismo funzionale agli interessi neoliberisti. Quindi, la difesa del nazionalismo, la difesa degli interessi nazionali, oggi sembra appannaggio della destra. E, addirittura, la destra sta sostenendo con forza di non volere la guerra, sta parlando di pace, mentre i governi di centro e di sinistra parlano di guerra, parlano di una guerra le cui conseguenze sono incalcolabili. Non sono di certo un fan di Donald Trump, ma le domande che ha posto al ministro britannico sono pertinenti. Trump gli ha chiesto: Stai parlando di guerra con la Russia. Ma pensi di poter battere la Russia? Hai davvero le carte in regola per battere la Russia? Non avete i mezzi. Stanno portando l’Europa verso una guerra che non possono vincere, una guerra che nessuno può vincere, e questa è la parte più triste. È una guerra che non porta a nulla e che nessuno vincerà. Pertanto, stanno succedendo molte cose in questo mondo. È evidente che c’è un cambiamento, sta avvenendo un profondo cambiamento, soprattutto nel campo dell’egemonia, e questo prelude a due possibili sbocchi: potrebbe darsi un atterraggio morbido, un atterraggio consensuale, in cui tutti partecipano a quella nuova visione del mondo che molte persone difendono, oppure un atterraggio verso il fascismo, l’estrema destra, che governerebbe i destini del mondo, lo dividerebbe in base a nuove sfere di influenza, e subordinerebbe il resto che non è d’accordo. Il cambiamento è necessario al sistema, a causa dello stesso sviluppo tecnologico. E lì dovremmo andare a Marx per capirlo. Il fatto è che abbiamo dimenticato Marx, e anche quelli di noi che parlano di Marx non usano gli strumenti che Marx ci ha dato per analizzare la storia e gli eventi, che è la cosa più importante. Vale a dire che non utilizziamo la metodologia che il marxismo ci ha dato per analizzare la storia e per chiederci nel modo giusto: cosa sta succedendo? Dove stiamo andando ora? Se non abbiamo una risposta, se non abbiamo un’analisi corretta di ciò che sta accadendo, dove andremo con un così elevato sviluppo tecnologico, che richiede la divisione del mondo, e il potere reale del mondo capitalista? Cosa faranno domani delle migliaia di persone che rimarranno senza lavoro, quando il progresso tecnologico e l’intelligenza artificiale lasceranno disoccupati milioni di cittadini in questo mondo?
A proposito dell’Intelligenza Artificiale e del suo impiego nel sabotaggio del sistema elettrico e dei servizi pubblici, uno dei temi dibattuti al Colloquio Patria. Come ha valutato questo dibattito?
Sapete che Cuba è fortunatamente un baluardo. Patria è un’idea geniale, fin da quando è stata lanciata e si è sviluppata negli anni. Penso che anche l’idea di organizzare l’incontro all’università sia estremamente interessante, non solo per gli spazi, ma per quello che significa l’Università dell’Avana, e perché dedicare l’incontro a un giornale come Patria è tremendamente attuale oggi. Patria è il giornale di Martí, creato non solo come organo di un partito rivoluzionario per fare la guerra, ma come l’organo di un partito rivoluzionario per fare la rivoluzione, che è ciò che Martí voleva fare a Cuba.

UN’INTERPRETAZIONE MOLTO DIVERSA DAL CONCETTO FASCISTA DI PATRIA XENOFOBA…
Esatto, perché è il concetto di patria di Martí, un concetto che Martí definisce chiaramente e che ha difeso, è che la patria è l’umanità intera. Ma Patria è anche un giornale che Martí creò in un periodo in cui stava emergendo l’imperialismo statunitense. Martí stava conducendo una guerra contro l’imperialismo nascente. Non dimentichiamo che l’imperialismo statunitense divenne quello che è oggi dopo la guerra ispano-cubano-americana, scoppiata a Cuba per l’indipendenza, in cui gli Stati uniti intervennero e si appropriarono della vittoria delle truppe cubane insorte. E Cuba è attualmente vittima di una dura guerra culturale, la prima nella storia moderna, che ha portato a una campagna di discredito da parte degli Stati uniti, in cui per la prima volta la stampa è stata utilizzata (c’era già Pulitzer e i principali media statunitensi erano già al potere) per influenzare il modo di pensare della gente e garantire la negazione di Cuba. Stiamo parlando di un giornale che si è trovato ad affrontare questa sfida per la prima volta. Oggi ci troviamo di fronte a una sfida diversa, è vero, i tempi sono diversi, ma abbiamo di fronte lo stesso progetto imperialista. Martí lo affrontò quand’era nascente, e ora ci troviamo di fronte a un impero in declino. Ecco perché la creazione di un incontro internazionale intitolato al giornale di Martí è di grande importanza simbolica ed è così importante per riflettere. Perché ci troviamo di fronte a un nuovo mondo che sta emergendo, un imperialismo che promuove il fascismo, un mondo che promuove l’estrema destra a livello internazionale. Non è certo il mondo che vogliamo, questo è il mondo contro cui abbiamo combattuto per tutta la vita, è il mondo dell’esclusione, è il mondo del razzismo, è il mondo in cui si può agire con assoluta liberalità e allo stesso tempo assassinare, uccidere e invadere, senza che accada assolutamente nulla. Il sistema internazionale creato dopo la Seconda guerra mondiale, praticamente non esiste più, perché questa nuova potenza che sta emergendo con tanta forza sta distruggendo il sistema multilaterale, sta distruggendo il sistema che ha creato le Nazioni Unite. Sebbene non sia mai stato perfetto, sappiamo tutti cosa abbia significato, era l’unico che avevamo. Era l’unico spazio in cui si potevano porre determinati problemi, in cui a volte si svolgeva un dibattito interessante e che serviva, almeno, a far sfogare le persone e a discutere di argomenti. Oggi si avvia verso la distruzione e non sappiamo cosa accadrà.

Cuba è stata un laboratorio anche per gli attacchi che utilizzano l’intelligenza artificiale alfine di ottenere il famoso “cambio di regime”. Nel 2010, la CIA ha creato Zunzuneo, un tipo di account Twitter che operava in segreto per raccogliere informazioni sugli utenti cubani e poi utilizzare tali informazioni per diffondere messaggi politici volti a creare destabilizzazione, e soprattutto confondere i giovani. Possiamo considerare questo programma un precursore della strategia di guerra digitale a cui stiamo assistendo ora, con l’uso di bot e troll sui social media per diffondere in modo anonimo propaganda e disinformazione?
Sì, ma ora ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo, anche se molte persone non capiscono cosa sta succedendo nel mondo oggi, tanto che ho sentito alcuni, anche a sinistra, parlare della “rivoluzione di Trump”. No, Trump non sta facendo una rivoluzione, sta guidando una regressione, e non possiamo perderlo di vista, perché sta cambiando le regole del gioco, le sta facendo saltare dall’interno.

LA SOVVERSIONE DELLA CLASSE DOMINANTE, DI CUI PARLAVA GRAMSCI?
Sì, e ora l’imperialismo non ha bisogno di organizzazioni come l’USAID, non ne ha bisogno, non ha più bisogno di spendere 68 miliardi di euro. A cosa servirebbe quando li può impiegare nella vasta esperienza acquisita nell’uso delle imprese digitali? Un esempio è l’industria dell’intrattenimento statunitense: per la maggior parte, ha imposto la guerra culturale al mondo, ha vinto la guerra culturale nel mondo e mantiene l’egemonia culturale nel mondo, usando la sua grande industria dell’intrattenimento, la sua grande industria culturale. Allora perché avere una ONG? A cosa serve questo genere di organizzazione quando si può contare su un’industria, sulle grandi aziende tecnologiche? Perché Trump è apparso attorniato da tutti i principali proprietari di piattaforme digitali? Perché la guerra parte da lì, non c’è più bisogno di quel che c’è stato prima: sarebbero soldi sprecati. Oggi saranno proprio queste aziende a gestire il consenso, proprio come fece Hollywood ai suoi tempi, come fece l’intera industria dell’intrattenimento ai suoi tempi. Oggi abbiamo Internet e l’intelligenza artificiale. Oggi puoi promuovere uno specifico influencer sui social media, digitalizzare la tua attività curando i contenuti, premiando i contenuti che vuoi che vengano visti e condannando all’oblio totale i contenuti che non vuoi vengano visti sui social media. La dittatura dell’algoritmo. Questo è l’enorme potere dell’Intelligenza artificiale e il suo interesse. Il capitalismo non ha mai avuto l’enorme potere che hanno oggi queste grandi aziende. Hanno la capacità di scatenare una guerra e di farti risparmiare milioni di dollari. In ogni senso.
*(Geraldine Colotti, giornalista de “Il Manifesto”, responsabile dell’edizione italiana di “Le Monde Diplomatiche”.)

 

09 – TRUMP CONTRO TUTTI: I SUOI DAZI COLPISCONO ANCHE GLI AMICI – LA GUERRA COMMERCIALE SCATENATA DA DONALD TRUMP CONTRO UNA SESSANTINA DI PAESI NEL MONDO SEGNA UN NUOVO CAPITOLO DI INCERTEZZA ECONOMICA GLOBALE.
L’annunci si inserisce in una narrativa populista e aggressiva che il tycoon ha alimentato sin dall’inizio della sua avventura politica. “Oggi è il giorno della liberazione. L’America sarà grande di nuovo”, ha dichiarato il presidente, ignorando apertamente le preoccupazioni per le ripercussioni che le sue mosse avranno sulle stesse aziende american
L’imposizione di tariffe draconiane, con un 25% che colpisce il settore automobilistico, sembra più un gesto simbolico che una strategia economica ponderata. Trump stesso, in un’intervista rilasciata nei giorni precedenti, aveva ammesso di non curarsi dell’aumento dei prezzi delle auto, mostrando ancora una volta la sua propensione a decisioni politiche impulsive piuttosto che basate su un’analisi approfondita delle conseguenze.
Le cifre snocciolate dal presidente rivelano la portata del piano: 34% di dazi sulla Cina, 20% sull’Unione Europea, 10% sul Regno Unito, 25% sulla Corea del Sud, 24% sul Giappone e 32% su Taiwan. Persino alleati stretti come Israele (17%) non sfuggono alle nuove tariffe. Un atteggiamento che tradisce la retorica trumpiana secondo cui gli Stati Uniti avrebbero subito decenni di soprusi commerciali e che ora pretendono una riparazione drastica. “Se volete dazi zero, venite e producete in America”, ha ripetuto Trump, rilanciando un protezionismo che rischia di isolare economicamente il Paese invece di rafforzarlo.
Quello che Trump definisce “giorno della liberazione” potrebbe rivelarsi un boomerang politico ed economico. La sua amministrazione scommette sul fatto che l’elettorato americano premierà questa svolta protezionista, ma se le previsioni degli economisti si riveleranno corrette, gli effetti negativi sui prezzi e sui consumi potrebbero erodere rapidamente il consenso. La guerra commerciale lanciata da Trump rischia di trasformarsi in un assedio economico autoinflitto, con conseguenze difficilmente prevedibili sul lungo termine.
Il piano tariffario si basa su un concetto di reciprocità che appare arbitrario, con l’imposizione di una tariffa pari al 50% delle tasse che, secondo Washington, ogni Paese impone ai prodotti statunitensi. Tuttavia, le tariffe unilaterali non sono mai state uno strumento efficace per riequilibrare i rapporti commerciali: rischiano invece di innescare una spirale di ritorsioni che potrebbe minare la competitività delle stesse aziende americane.
Nonostante gli allarmi degli analisti economici e la contrarietà di alcuni settori industriali, Trump ha voluto ribadire la sua linea dura con un tono trionfalistico. Di fronte a lavoratori dell’industria automobilistica e dell’acciaio, ha dichiarato: “Make America Wealthy Again, è il giorno in cui reclamiamo il nostro futuro, uno dei più importanti della storia”. Ma i mercati finanziari non hanno reagito con altrettanto entusiasmo: il dollaro si è indebolito, i titoli di Stato americani hanno registrato un rialzo dei rendimenti e Wall Street ha subito un brusco calo, con l’S&P 500 a -1,9% e il Nasdaq a -2,7%.
Il vero impatto della politica tariffaria di Trump si vedrà nei prossimi mesi. Gli economisti avvertono che l’aumento dei costi di importazione finirà per gravare sulle famiglie americane, con un incremento annuo delle spese che, secondo il Budget Lab dell’Università di Yale, potrebbe oscillare tra i 3.400 e i 4.200 dollari. L’idea che la produzione nazionale possa rimpiazzare rapidamente le importazioni appare irrealistica, soprattutto in settori in cui la catena di approvvigionamento è ormai globalizzata.
L’imposizione di dazi non si ferma ai beni di consumo. Trump ha colpito anche il petrolio importato dal Venezuela e ha annunciato nuove tariffe su farmaci, legname, rame e componenti tecnologiche come i chip per computer. Una strategia che sembra ignorare il ruolo cruciale di queste materie prime per l’industria americana stessa. Nessuna delle preoccupazioni sollevate dagli esperti o dai mercati ha però indotto la Casa Bianca a un ripensamento.
Il piano tariffario è stato accompagnato da una narrazione bellica e nazionalista. Trump ha descritto gli Stati Uniti come vittime di uno sfruttamento pluridecennale: “Il nostro Paese è stato saccheggiato, violentato, depredato da altre nazioni. I contribuenti sono stati fregati per più di 50 anni. Ma non succederà più”. Il messaggio è chiaro: chiunque si opponga alla sua politica commerciale viene dipinto come un nemico dell’America. Il presidente ha firmato un ordine esecutivo che gli permette di rispondere immediatamente a qualsiasi ritorsione con ulteriori tariffe, e l’amministrazione ha già avvertito che gli Stati Uniti non negozieranno con nessuno. “È un’emergenza nazionale”, ha dichiarato un funzionario della Casa Bianca, confermando la volontà di procedere senza compromessi. Ma il rischio è che questa strategia trasformi l’America in un Paese economicamente isolato.
(redazione)

 

 

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