
01 – Mario Ricciardi *: Il senso perduto della «guerra», e del diritto – Fallimento europeo. Tra le reazioni all’incontro di venerdì alla Casa Bianca, colpisce quella di Stathis Kalyvas, pubblicata “a caldo” su X: «Lo scambio Trump-Zelensky è la migliore illustrazione moderna del dialogo tra […]
02 – Antonio Cantaro *: C’era una volta in Germania – Sollecitata dal sudafricano Elon Musk a fornire risposte emotive e avventate e dalla velenosa provocazione britannica sul “malato d’Europa”, la Germania ha reagito con un’altissima partecipazione al voto (84%) e una indicazione di stabilità.
03 – Marina Catucci*: La porta in faccia e lo spiraglio, Usa sbigottiti come gli europei.
Crisi Ucraina: La Casa Bianca fa sapere di negoziati solo “in stallo” ma che ogni aiuto militare è a rischio.
04 – Biden denunciato per complicità con Israele alla Corte penale – Palestina: L’iniziativa della ong Da, fondata da Jamal Khashoggi: 172 pagine consegnate alla Cpi in cui si chiede di indagare la precedente amministrazione statunitense per aver sostenuto e permesso crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza(*)
05 – Luciana Cimino*: L’opposizione: «Vassalla di Trump». Tajani e Fi a disagio. Tante bugie. Cronaca politica: Le reazioni italiane all’intervento della premier da Steve Bannon.
06 – Barbara Weisz *: pensione in totalizzazione con i contributi inglesi.
(rassegna a cura di G.Z.)
01 – Mario Ricciardi *: IL SENSO PERDUTO DELLA «GUERRA», E DEL DIRITTO – FALLIMENTO EUROPEO TRA LE REAZIONI ALL’INCONTRO DI VENERDÌ ALLA CASA BIANCA, COLPISCE QUELLA DI STATHIS KALYVAS, PUBBLICATA “A CALDO” SU X: «LO SCAMBIO TRUMP-ZELENSKY È LA MIGLIORE ILLUSTRAZIONE MODERNA DEL DIALOGO TRA […]
Tra le reazioni all’incontro di venerdì alla Casa bianca, colpisce quella di Stathis Kalyvas, pubblicata “a caldo” su X: «Lo scambio Trump-Zelensky è la migliore illustrazione moderna del dialogo tra i Melii e gli Ateniesi di Tucidide. Ma non è sempre stato così. Dopo la seconda guerra mondiale il mondo aveva fatto grandi passi avanti. All’improvviso tutto è crollato». Kalyvas è greco, ma insegna nel Regno Unito, dove ricopre una prestigiosa cattedra di scienza politica a Oxford. La sua osservazione non ha soltanto l’autorevolezza che viene da una vita trascorsa a studiare i conflitti, ma anche la profondità di prospettiva storica che è frutto di una solida cultura classica.
Una delle cose che suscitano maggiore sconcerto, seguendo le reazioni all’umiliazione subita da Zelensky nel corso del suo dialogo con il presidente statunitene Trump e il suo vice Vance, è proprio l’assoluta mancanza di prospettiva storica di buona parte dei leader europei e statunitensi che si sono affrettati a consegnare ai social la propria indignazione, e solidarietà con il presidente ucraino, utilizzando lo stesso linguaggio legnoso con cui avrebbero potuto commentare una sconfitta della squadra del cuore nella finale di un torneo internazionale, o i problemi di salute di una celebrità televisiva.
A forza di abusare di termini come «guerra» (al debito pubblico, al cancro, alla disinformazione) se ne perde il senso materiale e morale, che invece è ben presente a tanti ucraini che ne fanno esperienza. A contatto con il mondo reale, con le cronache di un conflitto sanguinoso che dura da anni, le espressioni bellicose suonano vuote come le invocazioni di regole e principi del diritto internazionale. Scorrendo la lunga lista di capi di stato e di governo, di intellettuali e di opinionisti che si sono indignati per il trattamento ricevuto da Zelensky, si fatica a trovarne qualcuno che abbia espresso sentimenti simili mentre Israele faceva a pezzi regole e principi massacrando donne e bambini in Palestina. Gli inviti a «scendere in piazza» in difesa dei «nostri valori» stridono in modo insopportabile dopo Gaza. Che pochi si siano posti il problema di questo «doppio standard» giuridico e morale nelle classi dirigenti europee e occidentali è un sintomo che non lascia presagire nulla di buono per il futuro.
La messa in scena di Washington – nella quale Zelensky ha saputo comunque dar prova di dignità pari a quella degli ambasciatori di Melo nel dialogo con gli emissari di Atene, il potere imperiale egemone – sembra sia stata un brusco risveglio per una classe dirigente che si è formata all’ombra della fine della guerra fredda, imbevuta di una visione della società e della storia che rimuoveva completamente il conflitto dalla politica, e sostituiva l’amministrazione delle cose al governo delle persone. Eppure non è la prima volta che il volto brutale della forza («per legge di natura chi è più forte comanda», dicono gli ateniesi ai melii) si è mostrato negli ultimi decenni. L’architettura faticosamente messa in piedi dopo la seconda guerra mondiale, come ha ricordato Kalyvas, era motivata dall’aspirazione di sostituire il diritto alla forza. Gli aspetti migliori del processo di integrazione europea erano animati dalla stessa volontà, rafforzata dalla determinazione di chi era sopravvissuto a due guerre mondiali. Dopo il 2001 questo spirito si affievolisce, e con esso si perde la consapevolezza che, come affermava Kant, un’ingiustizia ovunque nel mondo è un torto per chiunque.
Oggi ci troviamo in una situazione in cui Tucidide appare più rilevante dei discorsi motivazionali di manager e banchieri prestati alla politica. Chi è debole non può permettersi di buttare i dadi più di una volta, dicono gli emissari di Atene ai melii, e come non pensare ai richiami alle “carte” fatti da Trump discutendo con Zelensky?
Se non hai più carte da giocare non ha senso affidarsi alla speranza (un altro motivo tucidideo echeggiato alla Casa bianca). C’è tuttavia un aspetto della situazione attuale che si distingue in modo significativo dal dialogo tra gli ateniesi e i melii come lo ricostruisce Tucidide: la pubblicità. Gli ambasciatori di Atene si incontrano soltanto con i magistrati di Melo. Proprio questa segretezza consente a entrambi di esporre le proprie ragioni in modo franco e lascia spazio alla brutalità del linguaggio degli ateniesi. La conversazione tra Zelensky, Trump e Vance era invece pensata per avere un impatto mediatico, a casa e fuori. Questa è forse la chiave di lettura su cui dovremmo concentrarci riflettendo su quanto è accaduto venerdì a Washington.
02 – Antonio Cantaro *: C’ERA UNA VOLTA IN GERMANIA – SOLLECITATA DAL SUDAFRICANO ELON MUSK A FORNIRE RISPOSTE EMOTIVE E AVVENTATE E DALLA VELENOSA PROVOCAZIONE BRITANNICA SUL “MALATO D’EUROPA”, LA GERMANIA HA REAGITO CON UN’ALTISSIMA PARTECIPAZIONE AL VOTO (84%) E UNA INDICAZIONE DI STABILITÀ.
Ma il neomercantilismo tedesco è comunque finito. A volte un sigaro è solo un sigaro, ma qualche volta è qualcos’altro, ha detto un giorno Sigmund Freud. A volte un risultato elettorale è solo un risultato elettorale, ma il voto tedesco di domenica 23 febbraio, svoltosi esattamente a distanza di tre anni dall’inizio della “operazione militare speciale” di Vladimir Putin, è molto di più. È qualcos’altro. Ed è di questo qualcos’altro che si occupano, da diversi punti di osservazione, i diversi e ricchi contributi di questo numero di fuoricollana. Della caduta di un modello politico, economico, sociale, costituzionale. Fine ancora più esemplare in quanto coincide (ma non si tratta di mera coincidenza) con il definitivo esaurimento fine dei due ordini – l’ordine del New deal e l’ordine neoliberale – che hanno retto nell’ultimo secolo gli Usa e grande parte del mondo occidentale. Il nuovo ordine sta nascendo sulle ceneri dei due precedenti ed è per questa ragione che non troviamo ancora la parola giusta per definirlo, se non quella approssimativa di “ordine del caos”. Un ordine del caos – la cui icona è Trump – che ci parla di una epocale crisi della funzione progressiva storicamente svolta dal capitalismo neoliberale. Quel mondo è finito, ma senza mettere a tema virtù e i vizi di quel vecchio mondo capiremo poco di quanto sta accadendo nel nuovo. Per questo ci riguarda non solo quanto è avvenuto con le ultime elezioni americane e subito dopo, ma ci riguarda anche quanto accade (e quanto non accade) nel Vecchio mondo europeo e, soprattutto, in Germania. In primo luogo, perché la Germania, ancora la prima potenza economica e demografica dell’Ue, è una dei principali bersagli della guerra commerciale e tecnologica tra Cina e Usa. Bye Bye Germany. In secondo luogo, perché il ruolo della Germania, da sempre decisivo per il processo di integrazione sovranazionale, era stato sino a pochi anni fa rafforzato dall’allargamento. Es war einmal in Deutschland. In terzo luogo, perché parlare della Germania significa parlare – per evidenti ragioni storiche, politiche, economiche – anche dell’Italia. C’era una volta in Germania.
Si tratta di cominciare a offrire una risposta all’interrogativo storico-esistenziale che abbiamo posto nell’ultimo numero del nostro web magazine: il Vecchio continente capirà o si disintegrerà? Non faremo sconti alla realtà e alla verità. In seguito, nei prossini numeri, ci cimenteremo più ravvicinatamene su come pensare un’Europa oltre Maastricht, un’Europa che non sia mera area di mercato e, dunque, alla fine mera “espressione geografica”. Come piace a Trump, a Musk e, non da oggi, a larga parte dell’establishment statunitense: colpire con la guerra dei dazi la competitività delle esportazioni e ridurre drasticamente i suoi spazi di mercato per mettere a rischio l’insieme della economia tedesca, sino a ieri insostituibile centro di raccordo di quella europea. Altro che isolazionismo bullista! Sono in gioco i fondamenti del processo di integrazione sovranazionale, l’autonomia tout court dell’Europa, oggi ancor più di ieri minacciata da coloro che intendono ridurre l’Unione a vassallo di un impero in declino. E che per farlo si adoperano, con guerre di tutti i tipi, per dominare la globalizzazione. Con la colpevole complicità delle “classi dirigenti” europee venuta allo scoperto con lo scoppio della guerra russo-ucraina.
Doveva questa segnare, secondo un’improvvida retorica muscolare, un “ritorno” della Germania e dell’Europa nella storia. Noi, invece, continuiamo a essere persuasi che le classi dirigenti tedesche e dell’Unione abbiano commesso una pluralità di errori strategici, compreso quello di aver sottovalutato la capacità di tenuta della Federazione russa alle sanzioni. Il blocco posto all’importazione delle tecnologie e all’esportazione dei prodotti energetici, l’esclusione dai circuiti bancari, il sequestro degli assets, la business retreat delle imprese occidentali operanti in Russia si sono risolti in un aumento del PIL del paese. Ancora una volta la cultura quantitativa di Maastricht ha ignorato le variabili storico-politiche e “antropologiche” che immettono energie “sociali” non calcolabili: la pronta reazione dell’opinione pubblica russa e l’ampiezza delle relazioni di solidarietà di cui Putin si è potuto avvalere nel grande e ignoto mondo extra occidentale. Del resto già nel settembre del 2014 (l’anno in cui con il colpo di stato Euromaidan e l’occupazione russa della Crimea le tensioni di confine tracimano in scontro militare aperto) la Federazione russa aveva adottato un piano di riconversione industriale volto a ridurre la propria dipendenza dall’occidente e ad aumentare l’interscambio con la Cina (https://eticaeconomia.it/il-rapporto-draghi-la-competitivita-la-politica seconda-parte/).
Una “trappola”, un “regalo”? Diverse sono le interpretazioni. La profonda crisi in cui versa oggi l’economia della Germania dovrebbe porre fine a ogni discussione. Ma la cultura economica tedesca ha impiegato molto tempo per realizzare la profondità del vulnus inferto al paese, reso plasticamente evidente dal sabotaggio dei due gasdotti. Si è intrattenuta, anzi, per mesi con l’idea che la guerra avesse creato nuove possibilità, mentre negli ambienti anglosassoni si è tornato a parlare, con evidente compiacimento, della Germania, come “malato d’Europa”. E invero, gli errori strategici dell’Unione e della Germania hanno portato alla luce la fragilità della progettualità su cui Berlino aveva costruito nei decenni precedenti la sua egemonia continentale. Tre anni dopo l’inizio della guerra in Ucraina ha vinto un partito (l’Afd) che contesta la rottura con la Russia, che agita la rivolta dei Länder orientali dell’ex Germania socialista colpiti dall’austerità energetica, che rinfaccia a Scholz il crollo del sistema fondato sulla tripla cifra di bassi costi energetici, deflazione salariale, austerità.
Muoviamo dall’essenziale. Con il massiccio consenso ad Afd il sincretismo che, per mezzo secolo, aveva visto coesistere le diverse anime e culture (politiche, economiche, costituzionali) della Germania mostra la corda. I presupposti politico-identitari della leadership tedesca perseguita tramite l’esternalizzazione al resto d’Europa del costo del suo modello mercantilistico orientato all’export erano già da tempo scossi. E con il voto viene anche bocciata la strategia di Scholz di porre fine all’alleanza energetica con Mosca e di subordinare le logiche economico-commerciali alle strategie di atlantizzazione della Germania. Dunque, viene bocciata anche la cesura di Scholz con la politica della Signora Merkel che aveva comunque sempre mostrato chiara consapevolezza del fatto che Washington stava, passo dopo passo, conducendo una guerra economica alla Germania (il Dieselgate, le regolamentazioni americane su banche come Deutsche Bank, i dazi della prima presidenza Trump). Una guerra perpetuata da Biden con l’Inflation Reduction Act con l’intento di tenere le redini della transizione green e digitale (https://aliseoeditoriale.it/il-lungo-biennio-di-crisi-della-germania-e-la-fine-del-sincretismo-tedesco/).
Il voto del 23 febbraio ci parla, in altri termini, delle fratture profonde che si sono prodotte in Germania a seguito del declino di una globalizzazione fondata sul primato della logica mercantilistica a vantaggio di una globalizzazione fondata sul primato della ragione geopolitica (il primato degli ‘speciali interessi’ degli Usa). Un primato che ha eroso alle fondamenta il progetto ordoliberale di una economia sociale di mercato quale programma fondamentale della rinata nazione tedesca fatto storicamente proprio, con differenti declinazioni, da cristiano-democratici, socialdemocratici, liberali, verdi. Tutti partiti, che con la parziale eccezione di una CDU-CSU trasfigurata in senso iperliberista-securitario, escono delegittimati dal voto. Assieme all’affermazione della Afd, che raggiunge risultati comparabili a quelli delle destre francesi e italiane, il dato altrettanto eclatante (e inquietante) è lo storico ridimensionamento della SPD, il principale partito socialdemocratico dell’Europa occidentale del XIX secolo che nel 1972 aveva raggiunto il 45% dei voti (ancora il 40% nel 1998) e oggi si ferma al 16% (arrancano i Verdi, non c’è la fanno ad entrare in Parlamento i liberali e il partito di Sara Wagenknecht mentre ottiene un lusinghiero 9 per cento la Linke).
Pesano le ferite mal cicatrizzate di una riunificazione incompiuta e la destabilizzazione identitaria legata a una ondata di immigrazione che ha sensibilmente mutato la “composizione demografica” della società tedesca. Un processo, quest’ultimo, ambivalente. Il grande afflusso di migranti è stato, infatti, ‘materialmente’ benefico. La Germania ha arrestato il suo declino demografico. Dal 2013 la sua popolazione è cresciuta del 4,8%, quasi il triplo della media UE (più di quella francese: 3,9%). La popolazione ha ripreso a crescere dal 2015 ed è ora superiore di 1,3 milioni rispetto al 2007. La Germania è oggi uno dei Paesi Ue con il maggior afflusso di immigrati negli ultimi dieci anni. Mentre, ad esempio, in Francia il 13,1% della popolazione è nato all’estero, in Germania la percentuale è del 19,5%, tra le più alte in Europa. La Francia ha oggi l’8,2% di stranieri nella sua popolazione, mentre la Germania ne ha il 14,6%, quasi il doppio rispetto al 2013. I benefici dal punto di vista produttivo ed economico sono stati altissimi. La maggior parte dei nuovi arrivi è costituita da giovani già formati e qualificati, il che permette di limitare la carenza di manodopera e di finanziare le pensioni della crescente quota di popolazione con più di 65 anni. La Germania, peraltro, ha tratto grandi benefici anche dalla crisi dell’Eurozona. Non sono solo cittadini extraeuropei a essere emigrati in Germania. La percentuale di persone nate altrove in Europa è quasi raddoppiata nel Paese tra il 2011 e il 2023, passando dal 3,8% al 7,4%. In Francia, ad esempio, rappresentano solo il 2,9% della popolazione. Ogni volta che la Germania accoglie un giovane italiano, greco o spagnolo che ha lasciato il suo Paese per mancanza di prospettive di lavoro, deve in teoria 200.000 euro al suo Paese d’origine, se stimiamo il costo, pubblico e privato, che non ha dovuto impiegare per la sua crescita, cura, e istruzione (https://legrandcontinent.eu/it/2024/12/17/la-germania-nella-macro-crisi-autopsia-di-un-paese-in-frantumi/).
Eppure, ecco la contraddizione, la paura per l’immigrazione incontrollata è diventata negli ultimi anni per tanti tedeschi il simbolo del declino. Sembrano passati anni luce da quando nel 2015 la Germania ha accolto un milione di rifugiati siriani quasi senza battere ciglio e la Cancelliera dichiarava con orgoglio “ce la faremo”, accompagnata da una straordinaria mobilitazione della società civile che rispondeva al suo appello per far fronte all’afflusso. Dieci anni dopo, la Germania appare a tanti una società fredda, ripiegata su sé stessa e il governo tedesco di “sinistra” (il governo “semaforo”) ha in questi anni promosso una politica migratoria europea più dura, pianificata e organizzata da Ursula von der Leyen, in stretta consultazione con l’estrema destra europea. Pesano una molteplicità di fattori. Non ultimo la serie di crimini che hanno coinvolto stranieri di fede musulmana residenti in Germania, ma anche l’oggettiva difficoltà a includere cittadini la cui fede, a differenza di protestanti e cattolici, non ha una struttura gerarchica ed è, pertanto, più difficile integrare nel contesto esistente. Il voto del 23 febbraio 2025 registra, in questo senso, la caduta dell’immagine di una Germania post 1945 e post ’68 aperta al mondo, umanista, antirazzista. Una caduta politico-identitaria che si intreccia – e qui le contraddizioni cominciano a disvelarsi – con una parallela e sopravvenuta arretratezza del modello economico.
La Germania si considera da lungo tempo il campione mondiale delle esportazioni. Ed effettivamente, in particolare nell’ultimo decennio, lo è stata. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2023 le esportazioni della Cina e dei suoi 1,4 miliardi di abitanti ammontano a 3.380 miliardi di dollari, quelle degli Usa e dei suoi 335 milioni di abitanti a 2.020 miliardi. La Germania, con 84 milioni di abitanti, appena dietro con 1.690 miliardi di dollari. Più del doppio di quelle del Giappone o della Corea e quasi il triplo di quelle di Francia, Italia e Regno Unito. Dopo il 1991, la riunificazione tedesca aveva interrotto questa dinamica, in conseguenza della priorità data agli investimenti interni per la ricostruzione della parte orientale. Per tutti gli anni Novanta Berlino importava più di quanto esportasse, una situazione che i tedeschi consideravano una tragedia nazionale. Per riconquistare lo status di “Exportweltmeister”, il cancelliere Gerhard Schröder si era affidato allora a politiche dirette a ridurre i costi del lavoro. In particolare, la c.d. riforma “Hartz IV” con l’inasprimento delle condizioni per ottenere l’assistenza sociale e i c.d. minijob, posti di lavoro senza protezione sociale che hanno contribuito a un aumento di disuguaglianze e povertà (a cui riparerà, in parte, Angela Merkel attenuando la durissima riforma delle pensioni del 2004 e introducendo nel 2015 un salario minimo).
La politica di dumping sociale nei confronti dei propri vicini europei ha consentito alla Germania di ottenere rapidamente colossali surplus commerciali. Ciò ha rafforzato la convinzione dei leader tedeschi che questa fosse la formula magica per fare uscire il Vecchio Continente dalla stagnazione, cosa che hanno fatto in modo spietato durante la crisi dell’eurozona, in particolare nei confronti della Grecia. Al prezzo di una prolungata stagnazione dell’economia europea, ulteriormente aggravata dall’aumento della penetrazione del capitale cinese anche in conseguenza dell’obbligo imposto ai governi dei Paesi dell’Europa meridionale di vendere, per ridurre il loro debito, i loro “gioielli di famiglia”. Nel ‘fondato’ presupposto – nel contesto di un mercato autoregolato che esclude preventivamente qualsiasi politica della domanda – che un alto flusso di esportazioni è l’unico modo per garantire la crescita economica.
Un vincolo costituzionalizzato a Maastricht che stabilisce un rapporto obbligato deficit e pil e tra debito e Pil e dispone che la missione fondamentale della Bce, a differenza della Fed americana, è la lotta all’inflazione, quale che sia il prezzo da pagare in termini di stagnazione e di retrocessione dei sistemi di stato sociale. Male per tanti paesi dell’Unione, meno male per la Germania che negli scorsi decenni ha potuto contare anche su altri fattori ‘esogeni’ per una ripresa delle proprie esportazioni. A partire dagli anni Duemila, la domanda cinese di grandi berline è esplosa, così come la domanda di macchinari legata alla rapida industrializzazione del Paese. Prodotti in cui la Germania godeva di un innegabile vantaggio competitivo. Inoltre, nel corso degli anni ’90, l’industria tedesca ha sfruttato appieno l’allargamento dell’UE, ampliando le proprie esportazioni e riducendo significativamente i costi di produzione grazie allo sviluppo della subfornitura nell’Europa orientale. È grazie a questa politica che la Germania ha potuto sfuggire agli effetti deleteri del massiccio aumento dell’euro rispetto al dollaro, passato da 0,9 dollari nel 2000 a 1,6 dollari nel 2008 (un quasi raddoppio che ha avuto un impatto negativo sulle industrie francesi e italiane). È vero che a causa dell’austerità imposta dal ministro delle Finanze Schäuble ai Paesi dell’Europa meridionale, la Germania ha visto diminuire le sue esportazioni verso il resto dell’UE, ma è riuscita a compensare queste perdite aumentando le sue esportazioni al di fuori dell’Ue, soprattutto verso la Cina. La Germania ha, cioè, mantenuto la sua buona salute industriale e delle esportazioni durante la tempesta europea del 2008-2013 e questo ha rafforzato la convinzione dei suoi leader in ordine alla bontà del loro ordo-liberalismo e delle politiche di austerità, tanto che durante la crisi dell’eurozona, i tedeschi si sono potuti ergere a “professori” dell’Unione (https://legrandcontinent.eu/it/2024/12/17/la-germania-nella-macro-crisi-autopsia-di-un-paese-in-frantumi/.
Cattivi maestri. Quei giorni sono, comunque, finiti. I fattori che avevano reso la Germania la potenza economica dominante dell’Unione si sono inceppatiti e la Germania sta tornando ad essere nuovamente il “malato” d’Europa. Dopo la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina, l’industria tedesca appare come un colosso dai piedi d’argilla. La produzione industriale e le esportazioni al di fuori dell’Unione sono calate rapidamente. L’industria tedesca continua a produrre, più o meno, le stesse cose di cento anni fa: automobili, prodotti chimici e macchine utensili. In assenza di una politica industriale europea, la Germania, come la Francia e il resto d’Europa, sta perdendo le sfide della microelettronica, della telefonia mobile, dei social network e dei giganti di Internet. Il fatto che Cina, Corea, Giappone e Stati Uniti si siano aggiudicati la parte del leone del mercato in questi settori, a scapito dell’Europa, è strettamente legato a politiche industriali pubbliche molto attive in tutti questi paesi (negli Stati Uniti alla politica della difesa). La rivoluzione tecnologica in atto nell’industria automobilistica mette a rischio un settore che rappresenta il motore trainante dell’intera industria tedesca. La prevista fine dei motori a combustione interna sta mettendo in discussione uno dei principali vantaggi competitivi dell’industria tedesca. Allo stesso tempo, una parte essenziale del valore aggiunto delle automobili viene trasferita fuori dell’UE ai produttori di batterie e ai giganti del software e dei dati, settori in cui i tedeschi sono in ritardo.
La caduta politico-identitaria e l’arretratezza del modello economico tedesco si intrecciano poi con il declino del sistema di relazioni industriali che conferisce ai lavoratori significativi poteri di consultazione all’interno delle aziende e attribuisce ai loro rappresentanti la metà dei posti nei consigli di sorveglianza. Una governance pragmatica che aveva a lungo frenato le richieste del management di esternalizzare e delocalizzare, che aveva permesso di raggiungere compromessi pragmatici, che aveva sviluppato un forte sentimento di appartenenza dei dipendenti nei confronti delle loro aziende. Questa forma di co-determinazione, vantaggiosa per l’industria tedesca nei periodi di innovazione incrementale è oggi – di fronte a innovazioni dirompenti che richiedono mutamenti rapidi e massicci – vissuta come disfunzionale, come un freno e una fonte di inerzia. Così, come un freno e una fonte di inerzia è oggi considerato lo Stato amministrativo tedesco, un tempo vissuto come un proverbiale modello di efficienza, l’altra faccia del Modell Deutschland. Oggi è tutt’altro che una eccezione imbattersi in tedeschi che dicono: “non è più la Germania di una volta, le cose funzionano male. Le scale mobili rotte, sei mesi per una visita specialistica, i treni inaffidabili, le scuole maltenute”. Manco fossimo nel “bel paese”. Anche da questo punto di vista, la Germania “ci riguarda”.
*(Mario Ricciardi, ha diretto questa rivista dal 2018 al 2023. Insegna Filosofia del diritto nell’Università Statale di Milano e Legal Methodology nella Luiss)
03 – Marina Catucci*: LA PORTA IN FACCIA E LO SPIRAGLIO, USA SBIGOTTITI COME GLI EUROPEI
CRISI UCRAINA LA CASA BIANCA FA SAPERE DI NEGOZIATI SOLO “IN STALLO” MA CHE OGNI AIUTO MILITARE È A RISCHIO
CI SARANNO o non ci saranno altri incontri fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky? Quando (e se) Trump annuncerà il taglio ai supporti Usa per l’Ucraina? Gli Stati Uniti si sono svegliati con molte più domande che risposte, il giorno dopo i 45 minuti di diretta TV dallo Studio Ovale, che hanno cancellato 80 anni di atlantismo Usa.
LA GIORNATA di venerdì è stata segnata da dirette televisive non stop con un’unica notizia al centro di ogni trasmissione, d’altronde The Donald è sembrato consapevole quanto meno di un aspetto di tutta la vicenda: è stato di sicuro un incredibile pezzo televisivo, come ha sottolineato a fine incontro il tycoon stesso, poco prima di chiedere al segretario di Stato Marco Rubio di mettere alla porta il presidente ucraino.
Dopo il primo comprensibile sbigottimento, negli Stati Uniti che non si riconoscono in questa Casa Bianca, e che sono la metà del Paese, sembra essere salito lo sconforto per quello che la faccenda rappresenta. David Sanger corrispondente dalla Casa Bianca per il New York Times, ha scritto che ciò che è accaduto “forse si può riparare, ma è difficile immaginare come”, e che “gli scambi velenosi hanno reso evidente che Trump considera l’Ucraina un ostacolo a un progetto molto più vitale: normalizzare i rapporti con la Russia”.
Questa consapevolezza sembra essere condivisa da molti, anche se la Msnbc come la Cnn e l’emittente radiofonica di area sinistra Npr, hanno più volte parlato della possibilità che Trump voglia mantenere uno spiraglio aperto nei rapporti con l’Ucraina, aggrappandosi a questa o quella dichiarazione rilasciata dal tycoon prima di allontanarsi dallo Studio ovale (e fonti anonime della casa Bianca in serata sembrano aver fatto il giro dei network parlando di “negoziati in stallo, non cancellati”). I commentatori si chiedono ancora se questo non sia “il brutto meeting che precede quello buono”, come è stato detto dalla Msnbc.
LA RISPOSTA ARRIVERÀ nei prossimi giorni attraverso le azioni – più che le dichiarazioni – della Casa Bianca. Secondo l’Associated Press l’amministrazione Trump starebbe valutando di tagliare tutti gli aiuti militari all’Ucraina, non solo quelli diretti, incluse le spedizioni finali di munizioni e attrezzature approvate dall’amministrazione Biden, ma anche quelli indiretti, tra cui il finanziamento militare, la condivisione dell’intelligence, l’addestramento per le truppe e i piloti ucraini, il coordinamento militare statunitense degli aiuti internazionali da una base in Germania. A rivelarlo sono stati due separati alti funzionari dell’amministrazione Trump, che hanno parlato in forma anonima al Washington Post e al New York Times in due diverse occasioni.
Secondo il Pentagono ciò che resta di quanto il Congresso aveva autorizzato sotto l’amministrazione Biden – cioè ulteriori prelievi dalle scorte del Dipartimento della Difesa da destinare all’Ucraina – ammonta a circa 3,85 miliardi di dollari. Le ultime armi che l’Ucraina aveva acquistato dalle aziende di difesa statunitensi dovrebbero essere spedite entro i prossimi sei mesi, dopodiché, spetterà a una serie di Paesi europei ed extraeuropei continuare ad aiutare l’Ucraina.
QUINDI NONOSTANTE la sua amministrazione non abbia mai stanziato aiuti per Kiev – e il vice presidente, quando era senatore dell’Ohio, abbia sempre votato contro gli aiuti all’Ucraina – Trump ha insistito sulla “ricompensa” e il ringraziamento per gli aiuti militari, che dovrebbe arrivare da Zelensky. «Non ci avete mai ringraziato» ha insistito più volte anche JD Vance riferendosi ad aiuti che ha sempre ostacolato da senatore, e mai stanziato da vice presidente.
Al momento dell’incontro tra il presidente ucraino e Donald Trump, erano passati 50 giorni da quando il Pentagono aveva annunciato l’ultimo pacchetto di armi per l’Ucraina, e dal giorno dell’insediamento di Trump non sono stati annunciati nuovi pacchetti.
Al momento non ci sono segnali di cosa accadrà da qui in poi e il campo è aperto ad ogni tipo di speculazione, dal Washington Post che ha pubblicato un lungo articolo per analizzare la comunicazione non verbale e la prossemica dei presenti all’incontro, alle nuove teorie del complotto Maga che circolano online e parlano di un fantomatico meeting di Zelensky con Kamala Harris, Joe Biden, Barack Obama e Chuck Schumer, in cui i biechi democratici gli avrebbero consigliato di fare il duro con Trump, e poi vedi che è successo.
E SE I GOVERNATORI del Gop si sono precipitati in difesa di Trump, come ha fatto dal Texas Greg Abbott, che su X ha scritto: “Il presidente Trump è il leader forte di cui abbiamo bisogno per difendere gli americani e la nazione”, quelli dem si sono schierati dalla parte opposta.
“Lo Studio Ovale dovrebbe essere un luogo in cui promuovere i valori americani, non un luogo in cui ritirarci da essi”, ha affermato in una dichiarazione il governatore della Pennsylvania Ben Shapiro. Amy Klobuchar, senatrice del Minnesota, durante la trasmissione di Rachel Maddow su Msnbc, per dare le proporzioni dell’enormità delle azioni di The Donald, ha sottolineato che addirittura «la prima ministro italiana, tanto vicina a Trump da aver presenziato al suo insediamento», non lo ha pubblicamente appoggiato in questa occasione. E Meloni è un bel parametro, per i media americani
*( Fonte: Il Manifesto. Marina Catucci. corrispondente dagli Stati Uniti per Il Manifesto, documentarista, collabora con diverse radio e televisioni italiane.)
04 – BIDEN DENUNCIATO PER COMPLICITÀ CON ISRAELE ALLA CORTE PENALE – PALESTINA L’INIZIATIVA DELLA ONG DAWN, FONDATA DA JAMAL KHASHOGGI: 172 PAGINE CONSEGNATE ALLA CPI IN CUI SI CHIEDE DI INDAGARE LA PRECEDENTE AMMINISTRAZIONE STATUNITENSE PER AVER SOSTENUTO E PERMESSO CRIMINI DI GUERRA E CONTRO L’UMANITÀ A GAZA(*)
Le 172 pagine di denuncia della ong basata negli Usa Democracy for the Arab World Now (Dawn) sono state consegnate alla Corte penale internazionale il 24 gennaio 2025. Pochi giorni fa l’iniziativa è stata resa nota dalla stessa Dawn, fondata dal giornalista saudita con cittadinanza statunitense Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel consolato di Riyadh a Istanbul nel 2018.
Il rapporto chiede all’Aja di sottoporre a indagine l’ex presidente degli Stati uniti Biden, la sua vice Harris e i suoi segretari di stato Blinken e alla difesa Austin per complicità con Israele in crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza.
«Ci sono basi solide per indagarli – dice Reed Brody, membro del board – Le bombe lanciate su ospedali, scuole e case sono americane, la campagna di omicidio e persecuzione è stata portata avanti con il sostegno americano. I funzionari Usa sanno esattamente cosa Israele sta facendo eppure il loro sostegno non è mai venuto meno», anche violando la stessa legge interna.
Usa e Israele non sono parte della Corte ma, aggiunge Dawn, vista l’incapacità del sistema legale statunitense di sospendere la consegna di armi (17,6 miliardi di dollari dal 7 ottobre 2023) e la copertura politica a Tel Aviv, «l’unica opzione era la Cpi». Non solo l’amministrazione Biden: per Dawn l’iniziativa «può essere una sveglia anche per Trump».
(Fonte: Il Manifesto. Redazione esteri)
05 – Luciana Cimino*: L’OPPOSIZIONE: «VASSALLA DI TRUMP». TAJANI E FI A DISAGIO. “TANTE BUGIE” CRONACA POLITICA LE REAZIONI ITALIANE ALL’INTERVENTO DELLA PREMIER DA STEVE BANNON.
«TANTE BUGIE, IN LINEA CON LA SUA PROPAGANDA». L’INTERVENTO DI MELONI AL SUMMIT DELLA DESTRA ORGANIZZATO DA STEVE BANNON, PER QUANTO FURBO, È STATO TRADOTTO COSÌ DALL’OPPOSIZIONE. ANGELO BONELLI, DEPUTATO AVS E LEADER DI EUROPA VERDE, È IL PRIMO A METTERE IN FILA LE INCONGRUENZE NEL DISCORSO DELLA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO.
«SICUREZZA ENERGETICA? FALSO. Ha fatto aumentare le bollette; SICUREZZA ALIMENTARE? FALSO, favorisce la crisi dell’agricoltura e il dominio delle grandi multinazionali; LIBERTÀ DI PAROLA? FALSO. Difende Vance, che diffonde bugie; DIFENDE LA DEMOCRAZIA? FALSO, vuole demolire gli organi costituzionali per diventare una e trina: Dio, Patria e Legge».
Ma al di là delle parole pronunciate in video conferenza al Cpac di Washington da Meloni è la sua stessa presenza in quel consesso a essere contestata dalla minoranza, a maggior ragione dopo il saluto nazista del consigliere di Trump. «Nessuna presa di distanze da quel gesto, evidentemente non può farlo – notano da Italia Viva – Un discorso furbesco e ambiguo con buona pace di tutte le chiacchiere sull’ambasciatrice dei due mondi».
La segretaria del Pd Elly Schlein era già stata molto dura qualche ora prima che la faccia di Meloni comparisse sui maxischermi della convention di estrema destra. «È LA VASSALLA DI TRUMP», ha chiosato la leader dem, in quanto «non è in grado di difendere gli interessi italiani e europei davanti all’attacco frontale di Trump e del suo vice». Per Avs è «indecente mettersi al servizio della deriva di Trump, un regime annunciato».
La presenza della premier al Cpac non ha convinto neanche i suoi alleati. Se Salvini tace per l’evidente rivalità con Meloni nei rapporti con il tycoon, Forza Italia mostra disappunto. «Ognuno dice ciò che pensa alla propria famiglia, la mia è un’altra famiglia, quella dei Popolari Europei», ha specificato Tajani. Più diretto Giorgio Mulè: «IL GESTO DI BANNON È GRAVISSIMO, NON PUÒ APPARTENERE ALLA NOSTRA COMUNITÀ, NON BISOGNA DARE IN NESSUN MODO ADITO A VELLICARE LA PANCIA DI PERICOLOSISSIMI ESTREMISTI». Aggiungendo di essere certo della presa di distanza della presidente del Consiglio. Che invece non c’è stata.
*(Luciana Cimino, giornalista. Ha lavorato per lunghi anni all’Unità e scritto per diversi giornali. Oggi si occupa di comunicazione e di qualità dell’informazione nella più importante agenzia italiana: HDRÀ)
06 – Barbara Weisz *: pensione in totalizzazione con i contributi inglesi.
Quesito: versando contributi volontari per la pensione inglese e contemporaneamente come lavoratore autonomo a partita IVA in Gestione Separata INPS, ho maturato altri 20 anni. Avendo già raggiunto il massimo di 35 anni di contributi inglesi e più o meno 25 anni di contributi versati in Italia potrò beneficiare della totalizzazione nel 2030, quando avrò 67 anni?
Come sarebbero calcolate questi due pensioni dall’INPS qui in Italia, dove sono residente? La procedura è diversa da quella del cumulo gratuito?
Prima di tutto le faccio una premessa: se lei ha già raggiunto (come sembra) un diritto autonomo a pensione in ciascun paese, le conviene esercitarli separatamente: il calcolo sarà più favorevole ed ogni gestione le verserà la pensione maturata.
Detto questo, in linea generale i contributi versati in Gran Bretagna sono valorizzabili anche in Italia attraverso la totalizzazione internazionale: la Brexit non ha comportato modifiche in questo senso.
Questo strumento consente di considerare ai fini del diritto solo i versamenti che non si sovrappongono temporalmente. Quindi, se lei ha versato contributi alla gestione separata INPS negli stessi anni in cui pagava anche la previdenza britannica, non può sommarli. I periodi contributivi non coincidenti invece si possono cumulare. In pratica, deve considerare il periodo totale in cui ha versato contributi, a prescindere dal paese in cui li ha pagati.
Nel suo caso, ipotizziamo che lei abbia versati i 35 anni di contributi inglese fra il 1985 e il 2020. Se anche i contributi INPS ricadono nello stesso periodo, lei conteggerà in tutto 35 anni di contributi. Se invece ci sono contributi italiani al di fuori di questo periodo (ad esempio fra il 2020 e il 2025), questi allungano il requisito per il diritto a pensione.
In ogni caso, per la pensione di vecchiaia in Italia ci vogliono 20 anni e lei li ha già raggiunti. Lo stesso criterio si applica alla pensione britannica.
Determinato il numero di anni di versamenti, si procede al calcolo. E in questo caso valgono tutti i contributi versati.
Il meccanismo è diverso rispetto a quello del cumulo, in base al quale prima si calcola una sorta di pensione virtuale, sommando tutti gli anni di versamenti. Poi si parametrano i trattamenti agli anni di effettiva contribuzione alle due gestioni. Ognuna delle quali alla fine pagherà la rispettiva pensione.
*(Fonte: PMI.it – Barbara Weisz – Giornalista professionista, esperta di questioni economiche, politiche e finanziarie, collabora da anni con numerose testate on line)
Views: 32
Lascia un commento