
01 – L’impatto devastante di 15 mesi di guerra su Gaza (*)
UNA CARNEFICINA. L’impatto di 15 mesi di guerra su Gaza è devastante: oltre 46mila morti, secondo i dati degli operatori sanitari locali (ma potrebbero essere di più, secondo uno studio di The Lancet), centinaia di migliaia di feriti (molti con danni permanenti), abitazioni rase al suolo, scuole e ospedali distrutti, devastazioni ambientali e danni ai terreni agricoli a lungo termine
02 – Gaetano Azzariti*: Oltre il caos globale, l’orizzonte delle costituzioni – Riforme Per un costituzionalismo che tenga assieme le ragioni dei diritti con quelle dei poteri serve un popolo consapevole che fa valere il proprio progetto di società
03 – Fabrizio Geremicca*: «Non piangono nemmeno più, i bambini di Gaza hanno perso l’infanzia»
Palestina La storia della squadra di calcio Al Haddaf, gemellata con lo Spartak San Gennaro, nel racconto di Jamil Almajdalawi, fuggito dalla Striscia per la prima volta nel 2024.
04 – Marco Arvati*; Non solo Usa: cosa vuole davvero Elon Musk.
01 – L’IMPATTO DEVASTANTE DI 15 MESI DI GUERRA SU GAZA (*) UNA CARNEFICINA. L’IMPATTO DI 15 MESI DI GUERRA SU GAZA È DEVASTANTE: OLTRE 46MILA MORTI, SECONDO I DATI DEGLI OPERATORI SANITARI LOCALI (MA POTREBBERO ESSERE DI PIÙ, SECONDO UNO STUDIO DI THE LANCET), CENTINAIA DI MIGLIAIA DI FERITI (MOLTI CON DANNI PERMANENTI), ABITAZIONI RASE AL SUOLO, SCUOLE E OSPEDALI DISTRUTTI, DEVASTAZIONI AMBIENTALI E DANNI AI TERRENI AGRICOLI A LUNGO TERMINE.
Altissimo il conto pagato anche dagli operatori dei media: secondo i dati raccolti dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) sono almeno 165 i giornalisti e gli operatori dei media uccisi a Gaza, in Cisgiordania, in Israele e in Libano.
Quando Israele ha iniziato a bombardare Gaza in risposta all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, alcuni analisti avevano detto che stava iniziando qualcosa di inedito. Ma, probabilmente, in pochi pensavano che sarebbe iniziata la guerra più lunga di Israele dal conflitto del 1948 che portò alla creazione dello Stato israeliano.
L’attacco di Hamas è stato senza precedenti: circa 1.200 persone sono state uccise, in larghissima parte civili, 251 sono state prese in ostaggio a Gaza. La risposta di Israele è stata feroce. Dopo un breve cessate il fuoco e un accordo per il rilascio degli ostaggi nel novembre 2023, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha giurato di continuare a combattere fino a quando non avrebbe ottenuto una “vittoria totale” su Hamas. L’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha parlato a proposito di Israele di “un’apparente indifferenza alla morte di civili e all’impatto dei mezzi e dei metodi di guerra”.
Organizzazioni per i diritti umani, studiosi, governi stranieri hanno accusato Israele di genocidio. Il Sudafrica ha presentato un’istanza alla Corte Internazionale di Giustizia. In una lunga riflessione, pubblicata sul Guardian (qui una sintesi su Valigia Blu), Omer Bartov, ex soldato delle Forze di Difesa Israeliane e storico del genocidio, ha scritto che entro il maggio 2024 “non era più possibile negare che Israele fosse impegnato in crimini di guerra sistematici, crimini contro l’umanità e azioni genocidiarie”.
A novembre la Corte Penale Internazionale (CPI) ha convalidato le richieste di mandato di arresto internazionale presentate dal procuratore generale Karim Khan nei confronti di Netanyahu e l’ex ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, per crimini di guerra legati al conflitto. Anche per il leader militare di Hamas Mohammed Deif è stata convalidata la richiesta.
“Il sacrificio è stato così grande, la miseria così totale e il futuro di Gaza così incerto che pochi possono affermare con certezza che tutto questo sia valso la pena o che possa giovare alla sicurezza di Israele nel lungo termine”, scrive l’editorialista del Guardian Patrick Wintour. “Il danno alla reputazione di Israele potrebbe durare decenni”.
Di cosa parliamo in questo articolo:
MORTI E FERITI A GAZA
IL “DOMICIDIO” E GLI SFOLLAMENTI FORZATI
SCUOLE E ISTRUZIONE
OSPEDALI E ASSISTENZA SANITARIA
MISERIA, MALNUTRIZIONE E CARENZA DI AIUTI
GLI IMPATTI AMBIENTALI
I GIORNALISTI UCCISI SUL CAMPO
MORTI E FERITI A GAZA
Più di 46mila palestinesi sono stati uccisi a Gaza dagli attacchi israeliani, secondo i dati del ministero della Salute di Gaza. Si tratta del 2% della popolazione totale di Gaza prima della guerra, un morto ogni 50 persone, nella maggior parte si tratta di civili. Finora sono state identificate oltre 40mila salme, tra cui 13.319 bambini. I feriti sono 110mila, più di un quarto con danni permanenti.
Queste cifre, però, potrebbero sottostimare il reale bilancio delle vittime. Secondo uno studio, soggetto a peer-review, appena pubblicato su The Lancet, a cura di ricercatori della London School of Hygiene & Tropical Medicine, Yale University e altre istituzioni, i morti potrebbero essere più di 70mila. Questo perché il conteggio ufficiale comprende le persone uccise da bombe e proiettili, i cui corpi sono stati recuperati e sepolti. Non si hanno informazioni su chi è rimasto sepolto in edifici crollati, chi è morto per lesioni traumatiche, chi per fame o malattie infettive, a causa del collasso del sistema sanitario durante i bombardamenti.
Un alto funzionario israeliano, commentando lo studio, ha affermato che le forze armate israeliane hanno fatto di tutto per evitare vittime tra i civili e che “le cifre fornite in questo rapporto non riflettono la situazione sul campo”. L’IDF ha affermato di aver ucciso 17mila combattenti di Hamas al settembre 2024, senza però precisare come ha stabilito questa cifra.
I funzionari israeliani mettono in dubbio anche i dati forniti dalle autorità di Gaza, sostenendo che, poiché Hamas controlla il governo, i funzionari sanitari di Gaza non possono fornire cifre affidabili. Tuttavia, i dati forniti dalle autorità di Gaza sono stati finora affidabili. Il numero dei morti conteggiati dagli investigatori delle Nazioni Unite per i conflitti intercorsi tra il 2009 e il 2021 corrispondeva con quelli raccolti dal ministero della Salute di Gaza.
IL “DOMICIDIO” E GLI SFOLLAMENTI FORZATI
I bombardamenti israeliani hanno devastato interi quartieri di Gaza. Nove abitazioni su 10 nel territorio sono state distrutte o danneggiate, secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite. Anche scuole, ospedali, moschee, cimiteri, negozi e uffici sono stati ripetutamente colpiti. I bombardamenti sono stati così intensi e sistematici che alcuni accademici hanno proposto di inserire il “DOMICIDIO” tra i nuovi crimini di guerra.
E dove le case non sono state distrutte, chi le abitava è stato costretto ad andarsene. L’80% del territorio di Gaza è stato sottoposto a ordini di evacuazione ancora attivi a fine dicembre. Circa 1,9 milioni di persone – il 90% della popolazione – sono state sfollate, molte di loro sono state costrette a spostarsi ripetutamente.
Centinaia di migliaia di persone vivono ora in tendopoli e in rifugi sovraffollati, con scarse condizioni igieniche e accesso a poca acqua pulita. La guerra ha lasciato, inoltre, più di 40 milioni di tonnellate di detriti, gli edifici crollati potrebbero essere pieni di esplosivi e bombe inesplose. Un alto funzionario delle Nazioni Unite per lo sminamento ha avvertito in primavera che potrebbe volerci più di un decennio per rimuoverli.
L’esercito israeliano afferma che la sua lotta è contro Hamas e non contro Gaza, che i suoi bombardamenti sono proporzionali alle minacce e che fa ogni sforzo per avvertire i cittadini di attacchi imminenti.
SCUOLE E ISTRUZIONE
Quasi tutti gli edifici scolastici di Gaza sono stati danneggiati o distrutti e nessuno è in funzione. I 660mila bambini in età scolare di Gaza non hanno accesso all’istruzione formale da più di un anno.
Il 7 ottobre 2023 a Gaza c’erano 564 edifici scolastici. Di questi, 534 sono stati danneggiati o distrutti e 12 sono classificati come “probabilmente danneggiati”. Lo stato delle restanti 18 scuole “non è attualmente noto”, ha dichiarato l’Unicef in un rapporto dello scorso ottobre.
Le scuole gestite dall’agenzia Unrwa per le scuole palestinesi sono state trasformate in rifugi di emergenza. Ospitano un gran numero di sfollati e sono chiaramente indicate sulle mappe, ma molte sono state bombardate, alcune più volte.
Secondo un rapporto dell’Università di Cambridge e delle Nazioni Unite, la guerra ritarderà l’istruzione fino a cinque anni e rischia di creare una generazione perduta di giovani traumatizzati in modo permanente.
OSPEDALI E ASSISTENZA SANITARIA
L’immagine di Hussam Abu Safiya, pediatra palestinese e direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, l’ultimo rimasto nella parte settentrionale di Gaza, che si inerpica tra le macerie per entrare in un tank israeliano, è diventata un simbolo della sistematica distruzione del sistema sanitario di Gaza, bersaglio di violazioni del diritto internazionale. Secondo molti analisti, questa distruzione mira a cancellare la vita civile e costringere la popolazione alla fuga o all’annientamento.
Dall’inizio della guerra sono stati registrati 654 attacchi a strutture sanitarie, come ha dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) recentemente. Oltre 1.050 operatori sanitari, tra cui infermieri, paramedici, medici e altro personale medico, sono stati uccisi, molti sul posto di lavoro. Decine di operatori sanitari sono stati arrestati, almeno tre sono morti sotto la custodia di Israele.
Alla fine del 2024, solo 17 dei 36 ospedali di Gaza erano anche solo parzialmente funzionanti. I servizi sono stati potenziati da 11 ospedali da campo, ma i controlli israeliani sull’ingresso degli operatori umanitari hanno fatto sì che questi fossero spesso a corto di medici e di forniture mediche.
Una commissione delle Nazioni Unite ha concluso che gli “attacchi incessanti e deliberati di Israele contro il personale e le strutture mediche” costituiscono crimini di guerra. Si tratta di “una politica concertata per distruggere il sistema sanitario di Gaza come parte di un’aggressione più ampia su Gaza”, ha rilevato la Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati.
La mancanza di ospedali, di personale sanitario e di medicinali ha aggravato le sofferenze delle persone ferite durante la guerra e affette da malattie causate o aggravate dalla mancanza di riparo, cibo e acqua pulita.
MISERIA, MALNUTRIZIONE E CARENZA DI AIUTI
I controlli israeliani sugli aiuti che entrano a Gaza e la distruzione della produzione agricola hanno portato a miseria e malnutrizione diffuse.
A novembre le Nazioni Unite hanno dichiarato che gli aiuti e le spedizioni commerciali a Gaza erano ai livelli più bassi dall’ottobre 2023, mentre un ente di controllo internazionale ha parlato di carestia probabilmente “imminente” nella Striscia di Gaza settentrionale.
A gennaio, l’ONU ha dichiarato che il 96% dei bambini sotto i due anni e delle donne di Gaza non riceveva le sostanze nutritive necessarie, che 345mila persone si trovavano in una situazione di carenza alimentare catastrofica e che 876mila erano esposti a livelli di emergenza di insicurezza alimentare.
Israele ha dichiarato di non aver limitato le spedizioni di aiuti e ha attribuito la responsabilità di eventuali carenze logistiche alle agenzie umanitarie o al furto di aiuti alimentari da parte di Hamas.
GLI IMPATTI AMBIENTALI
Almeno metà della copertura di alberi di Gaza è stata rasa al suolo, il suolo e l’acqua sono stati contaminati e i danni ai terreni agricoli sono enormi. Secondo gli ecologisti e gli accademici, la distruzione avrà un impatto a lungo termine sugli ecosistemi, sulla biodiversità, sulla sicurezza alimentare e sulla salute dei residenti.
Alcuni danni sono stati causati direttamente dagli attacchi israeliani alle aziende agricole e ad altre infrastrutture. A marzo di quest’anno, circa il 40% della terra di Gaza precedentemente utilizzata per la produzione alimentare era stata distrutta, secondo un’indagine di Forensic Architecture.
L’esercito israeliano ha danneggiato o distrutto almeno 31 dei 54 serbatoi d’acqua alla fine di agosto, ha rilevato Human Rights Watch. I residui tossici delle munizioni e degli incendi hanno inquinato sia il suolo che le riserve idriche.
Poi ci sono i danni indiretti. Quando Israele ha interrotto le forniture di carburante, elettricità e prodotti chimici nella prima settimana di guerra, tutti gli impianti di trattamento delle acque reflue e la maggior parte degli impianti di pompaggio delle acque reflue sono stati costretti a chiudere, causando lo straripamento delle acque reflue in mare e nelle falde acquifere.
I GIORNALISTI UCCISI SUL CAMPO
Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), ha chiesto un “accesso incondizionato” a Gaza per indagare sui crimini contro i media. E ha esortato le autorità egiziane, palestinesi e israeliane a consentire l’accesso dei giornalisti stranieri a Gaza, al momento impedito.
*( Fonte: Valigia Blu – editorialista del Guardian Patrick Wintour )
02 – Gaetano Azzariti*: OLTRE IL CAOS GLOBALE, L’ORIZZONTE DELLE COSTITUZIONI – RIFORME PER UN COSTITUZIONALISMO CHE TENGA ASSIEME LE RAGIONI DEI DIRITTI CON QUELLE DEI POTERI SERVE UN POPOLO CONSAPEVOLE CHE FA VALERE IL PROPRIO PROGETTO DI SOCIETÀ
Il Novecento ha attraversato tre diverse globalizzazioni. La prima, definita alla conferenza di Yalta tra i futuri vincitori del conflitto mondiale, ha preteso di assoggettare gli assetti costituzionali territoriali alle logiche assorbenti del bipolarismo: da un lato l’occidente capitalistico, garante delle libertà individuali; dall’altro il comunismo, garante dei diritti dei lavoratori. Al fondo si era di fronte a due mistificazioni – libertà da un lato e diritti dei lavoratori dall’altro – che però hanno governato per anni il mondo, plasmando i rispettivi sistemi economici improntati al libero mercato ovvero alla pianificazione statalista. Credenze che hanno prodotto testi di valore costituzionale ispirati alle diverse ideologie manifestate.
Tutto questo è finito con il crollo del muro. Nel periodo successivo abbiamo assistito al tentativo di imporre un’altra regola di governo politico del mondo. Ci ha provato quella che si autorappresentava come l’unica potenza mondiale rimasta. Anche questa un’illusione, che ha cercato di produrre un sistema imperiale, con principi costituzionali piegati alle logiche politiche ed economiche dominanti. Così si sono fatte le guerre per esportare il proprio modello di democrazia – l’unico ritenuto possibile – conquistando territori e mercati, in nome dei diritti umani.
È DURATA POCO questa seconda globalizzazione. Quando infatti la retorica dell’esportazione della democrazia si è dovuta scontrare con le dure vicende della storia si è mostrata tutta la sua fragilità. La drammatica vicenda dell’Afghanistan è esemplare: la dimostrazione di come l’Occidente può imporre un suo dominio territoriale e le sue leggi con l’uso della forza, ma poi quando gli eserciti se ne vanno pure i “nostri” diritti umani svaniscono, mentre le povere donne afgane rimangono lì, lasciate sole con i talebani.
Terminati questi due tentativi di governo del mondo – il bipolarismo prima e il tentativo imperiale poi – ora la situazione sembra essere precipitata nel caos. Scomparsi i vecchi equilibri e non nati i nuovi, rimane ignota la prospettiva tanto politica quanto economica del mondo, offuscato l’orizzonte costituzionale. Sembra che gli Stati non abbiano alcuna visione se non quella bellica: l’obiettivo è la vittoria sul campo e l’annientamento del nemico. Ma chi può pensare che la vittoria militare di una delle parti (dei russi, degli ucraini, degli israeliani, dei fondamentalisti islamici) risolverebbe il problema della instabilità di quei territori, in grado di produrre un nuovo equilibrio internazionale? Nessun nuovo equilibrio si potrà raggiungere aumentando le spese militari, allargando la Nato, aggravando le tensioni internazionali, confidando sulla forza. Se è questo il progetto che la politica riesce a definire per il nostro futuro c’è da tremare per le sorti dell’umanità.
MEGLIO FERMARSI un attimo per ripensare. A che cosa? Magari alle ragioni della pace e della giustizia tra i popoli. Quei principi che sono stati scritti non soltanto nella nostra Costituzione, ma anche nella Carta dell’Onu, a lungo disattesi e che oggi vengono calpestati. Si potrebbe così giungere a ritenere che i nuovi equilibri internazionali potrebbero essere ritrovati facendo fare un passo indietro alla politica e all’economia e un passo avanti ai diritti costituzionali. Ridare un significato al ripudio della guerra, ma anche pensare a come garantire i diritti delle persone concrete ovunque esse risiedano. Tornare al costituzionalismo, dove già c’è tutto scritto.
Ma come far valere anche sul piano politico un orizzonte fondato sul rispetto dei diritti costituzionali? Dal punto di vista dell’organizzazione dei poteri globali attraverso l’accettazione di un assetto multipolare. La convivenza dei popoli diversi, senza più il dominio di uno o di pochi. È questo un futuro possibile, ma per nulla certo.
Ben consapevole delle difficoltà materiali, geopolitiche e culturali, mi limito qui a evidenziare due condizioni che a me sembrano essenziali per fare assumere una centralità al diritto costituzionale nei nuovi processi di globalizzazione. La prima è che dovremmo cominciare a prendere molto sul serio la prospettiva di un costituzionalismo multipolare, che sappia rispettare quel che Amartya Sen ha chiamato le libertà degli altri. L’universalismo dei diritti in che rapporto si pone con la localizzazione delle culture e le diverse tradizioni costituzionali? Non è una questione a cui è facile rispondere, ma forse è ormai diventata una domanda ineludibile. Anche perché è strettamente collegata alla seconda condizione che ritengo essenziale per dare una possibilità all’affermazione di un diritto costituzionale globale.
NON SI PUÒCREDERE che i diritti costituzionali si possano affermare per virtù proprie, confidare su ragioni esclusivamente etiche o sulla buona volontà dei governi e dei poteri. Un costituzionalismo globale concesso (octroyée) non è quello che si pone a garanzia dei diritti, semmai al servizio dei poteri. Per avere invece un costituzionalismo che sappia tenere assieme le ragioni dei diritti con quelle dei poteri c’è bisogno di un popolo consapevole che sappia far valere un proprio progetto di società (mondiale e multipolare). In grado di affermare quel che Stefano Rodotà ha chiamato un costituzionalismo dei bisogni, collegato strettamente alla materialità dei diritti – ma anche dei doveri di solidarietà – delle persone concrete. È questa la via per un costituzionalismo democratico sovranazionale che aspiri ad operare nelle varie parti del pianeta.
Se è vero che gli Stati stanno in marcia e ci stanno spingendo verso il grande caos, anche grandi moltitudini sono in marcia, spesso camminando tra le macerie, alla ricerca di quel diritto ad avere diritti, che dovrebbe essere garantito ad ogni individuo e che si pone a fondamento della dignità delle persone. Se queste moltitudini, sino ad ora disordinate, riuscissero a comprendere che in fondo la storia la fanno le persone e non gli Stati, essi potrebbero anche cominciare a pensare a come organizzarsi per affermare i propri diritti. In tempi di confusione è questo uno scenario non scontato, ma che pure è necessario auspicare, perché altrimenti non riusciremo a trovare alcun nuovo equilibrio e saremo costretti ad affidarci alle sole distruttive dinamiche di potenza e a quelle cieche dell’economia. Questo è il futuro difficile del costituzionalismo.
*( Gaetano Azzariti – professore ordinario di “Diritto costituzionale” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.)
03 – Fabrizio Geremicca*: «NON PIANGONO NEMMENO PIÙ, I BAMBINI DI GAZA HANNO PERSO L’INFANZIA» PALESTINA LA STORIA DELLA SQUADRA DI CALCIO AL HADDAF, GEMELLATA CON LO SPARTAK SAN GENNARO, NEL RACCONTO DI JAMIL ALMAJDALAWI, FUGGITO DALLA STRISCIA PER LA PRIMA VOLTA NEL 2024
«La cosa peggiore è che i bambini hanno perduto irrimediabilmente l’infanzia. È stata cancellata dalla guerra senza speranza e senza alcuna possibilità di recupero. A sette, otto anni sono già adulti. Li guardi in viso mentre si sforzano di aiutare i genitori e i fratelli maggiori a prendere l’acqua, mentre fanno la fila per il pane, mentre portano pesi più grandi di loro o chiedono l’elemosina. Non piangono più. Vivono e pensano come adulti, non c’è più nulla che ricordi il bambino che erano prima della invasione israeliana. Se dovessi raccontare con una immagine il dramma che sta vivendo Gaza, è quella l’immagine. Poi, certo, ci sono le sirene, i palazzi sventrati con la polvere che riempie l’aria, il tanfo dei rifiuti che nessuno porta via e delle fogne. Ci sono i funerali frequenti e innaturali dei giovani, le baraccopoli formate da centinaia di migliaia di persone accampate nelle tende senza elettricità e a volte pure senza acqua potabile e per lavarsi».
Sono parole di Jamil Almajdalawi, 36 anni, nato a Gaza, a Jabaliya. Fino a marzo dello scorso anno non aveva mai messo piede fuori dalla Striscia. Quando lo ha fatto, è stato per scappare con la pena nel cuore, l’orrore negli occhi e senza alcuna certezza di poter un giorno tornare.
IERI JAMIL era a Napoli per portare la sua testimonianza sul massacro in atto nella sua terra e per raccontare una storia straordinaria quanto semplice di resistenza, quella dei bambini e dei ragazzi dell’Al Haddaf, squadra di calcio che raccoglie giovani palestinesi, di età compresa tra i 6 e i 17 anni, provenienti dalla cittadina di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, ormai totalmente distrutta.
I bambini e i ragazzi sfollati vivono adesso a Deir al Balah, sotto le tende.
Lo Spartak San Gennaro, squadra composta da ragazzini del popolare quartiere Montesanto della città partenopea, attraverso il contatto di un educatore che in passato era stato a Gaza ha stretto un gemellaggio con l’Al Haddaf. Si sono scambiati, tra le mille difficoltà di collegamento con una zona di guerra, video degli allenamenti. Si parlano quando possono e sperano di potersi un giorno sfidare su un terreno di gioco.
La testimonianza di Jamil è quella di un palestinese che ha vissuto per cinque mesi nella Gaza prima bombardata e poi invasa dall’esercito israeliano. «A metà ottobre del 2023 – ha raccontato – pochi giorni dopo l’inizio delle incursioni aeree mi sono spostato con altre decine di migliaia di persone nel campo profughi di Deir al Balah, nel sud. A marzo dell’anno successivo sono riuscito a passare in Egitto e da lì ho raggiunto l’Oman».
I circa 150 giorni che ha trascorso nella Gaza occupata sono stati una sfida quotidiana con la morte. «Lì – ha detto – non c’è zona sicura perché Israele bombarda ovunque, anche nelle aree che sostiene siano destinate ai cosiddetti corridoi umanitari. Vivere o morire è una questione di fortuna, di circostanze più o meno favorevoli. Un caso, insomma. Su 78 persone della mia grande famiglia, tra parenti stretti e lontani, 38 sono stati già uccisi. Non militanti di Hamas, persone comuni. Ho visto bombardare un’auto su cui viaggiava una famiglia e un minibus che portava persone civili. Attraversavano un percorso che Israele aveva indicato come garantito, percorribile dalla popolazione in fuga dalle zone più coinvolte nel conflitto».
HA AGGIUNTO: «Non c’è salvezza neppure nei campi profughi perché anche lì, nel periodo in cui ero ancora a Gaza, sono state sganciate bombe e sono state compiute operazioni di guerra dall’esercito israeliano. Si muore per le bombe, per i proiettili, per le malattie e per il freddo. Quando ero a Gaza mancavano le medicine più banali ed erano introvabili quelle necessarie ai cardiopatici, ai diabetici, ai malati oncologici». Il sogno di Jamil? «Mi piacerebbe tornare un giorno qui a Napoli con i bambini e i ragazzi dell’Al Haddaf per disputare una partita vera con lo Spartak San Gennaro».
Sono 359, secondo i dati forniti dalla Federazione Calcio palestinese, aggiornati a dicembre 2024, i giocatori che sono stati uccisi dall’inizio della invasione da parte di Israele della Striscia di Gaza. Tra gli ultimi Mohamed Khalifa, che ha perso la vita con almeno sette familiari a causa di un bombardamento nel campo di Nuseirat. Ventiquattro i giocatori di calcio detenuti. Gli impianti sportivi che sono stati distrutti da ottobre 2023 a dicembre 2024 sono stati 287.
*(Fabrizio Geremicca, giornalista freelance presso Corriere del Mezzogiorno)
04 – Marco Arvati*: NON SOLO USA: COSA VUOLE DAVVERO ELON MUSK
Secondo un’indiscrezione del Washington Post, quest’anno sarebbe stato presentato a Elon Musk da parte del suo management uno dei progetti per cui ha investito anni di risorse in Tesla: si sarebbe finalmente potuta costruire una macchina elettrica al prezzo di un’utilitaria. Si tratta del sogno per cui Tesla stessa era nata, e di cui Musk aveva parlato in un documentario sulla sostenibilità girato nel 2016: l’elettrificazione di gran parte del parco auto americano tramite una forte accelerazione data dallo sviluppo tecnologico del settore privato.
Ricevuto il progetto, però, il miliardario sudafricano avrebbe deciso di tagliarlo, focalizzando invece le risorse economiche dell’azienda sull’acquisto di chip per sviluppare un’intelligenza artificiale più potente da implementare nelle sue auto di lusso.
Fin da quando si è unito a Tesla nel 2008, Elon Musk si è sempre posto come un uomo in missione prima per elettrificare il parco auto, successivamente, con la nascita di SpaceX, per portare l’uomo su Marte. Negli ultimi anni tutto questo ha lasciato spazio a una missione di portata ben più grande: da quando ha comprato per 44 miliardi di dollari Twitter all’ex-proprietario e fondatore Jack Dorsey e lo ha ribrandizzato in X, Musk si è posto come depositario del libero pensiero, l’unico che combatte apertamente la cosiddetta cultura “woke” globale, il campione del conservatorismo. Un vero e proprio ideologo della nuova destra identitaria e reazionaria che si fa sempre più strada negli Stati Uniti così come in Europa, con l’aggravante di avere una capacità di spesa praticamente infinita.
Oltre a ciò, Musk si rifà apertamente alla controversa ideologia del lungtermismo, che prende le mosse dalla branca filosofica dell’altruismo efficace ed è molto in voga tra gli imprenditori tech della Silicon Valley. I lungtermisti ritengono che debba sempre avere la precedenza la mitigazione di un rischio capace di annientare la totalità degli esseri umani, anche se statisticamente più improbabile: per questo Musk teme di più i possibili sviluppi dell’intelligenza artificiale generativa di quelli legati al cambiamento climatico, nonostante i secondi abbiano molta più possibilità di verificarsi dei primi. Colonizzare Marte, uno dei chiodi fissi di Musk sin da quando ha creato SpaceX, è proprio l’alternativa al contrasto al cambiamento climatico: se gli attivisti in piazza urlano che “non c’è
*(Fonte: Valigia Blu – Marco Arvati – scrive per Prismag, Jefferson – Lettere sull’America e Harvard Business Review Italia.)
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