01 – Pierluigi Ciocca*: Bilancio economico di fine anno: è andata male, andrà peggio – Economia Il Prodotto interno lordo cresce di uno zero virgola, il calo dell’attività manifatturiera conferma il rischio che l’economia del Paese si risolva in un terziario scadente.
02 – Filippo Barbera*: Il conflitto necessario e la svolta autoritaria – Diritti Al Forum Diseguaglianza e Diversità un intenso lavoro di analisi sul 2024 immaginando le linee d’azione per il 2025 con l’obiettivo di ricostruire le forme della politica.
03 – Germania, Musk insiste: sostegno all’estrema destra – Verso le elezioni A meno di due mesi dal voto il nuovo endorsement all’AfD dell’imprenditore tech, questa volta sul domenicale del quotidiano tedesco «Die Welt
04 – Roberto Della Seta*: Genocidio o no, Israele è un paese criminale – I fatti e le parole Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere.
05 – Roberto Livi*: Trump fa rotta su Panama – Usa/America Latina Il diktat del prossimo presidente Usa sul canale – «tariffe meno care per noi o ce lo riprendiamo» – è pura “dottrina Monroe”
06 – Marco Santopadre*La motosega liberista di Milei devasta l’Argentina – Durante la campagna elettorale che il 19 novembre 2023 lo avrebbe condotto alla vittoria, il candidato presidente dell’estrema destra liberista aveva promesso di risolvere i problemi del paese a colpi di motosega.
01 – Pierluigi Ciocca*: BILANCIO ECONOMICO DI FINE ANNO: È ANDATA MALE, ANDRÀ PEGGIO – ECONOMIA IL PRODOTTO INTERNO LORDO CRESCE DI UNO ZERO VIRGOLA, IL CALO DELL’ATTIVITÀ MANIFATTURIERA CONFERMA IL RISCHIO CHE L’ECONOMIA DEL PAESE SI RISOLVA IN UN TERZIARIO SCADENTE
Il dibattito sull’economia italiana vede il governo vantare successi, l’opposizione denunciare insuccessi, i media dare eco a contrasti tanto urlati quanto sterili. Per una valutazione obiettiva non resta che affidarsi alla statistica e documentare come rispetto al 2023 l’economia potrà aver chiuso il 2024.
Il prodotto reale risulterà in solo lieve aumento. Se verrà fissato dall’Istat sullo 0,5% il dato si unirebbe a quello del 2023 e alla previsione per il 2025 nel certificare che la crescita di trend resta condannata allo «zero virgola per cento», come prima del 2020. Il calo dell’attività manifatturiera (-3,5%) conferma il rischio che l’economia del Paese si risolva in un terziario scadente sia nel pubblico (la sanità è il caso più grave per carenza di mezzi) sia nel privato (turismo povero, bed and breakfast, bar all’angolo, fast food). Il Sud non riduce il divario perché accelera, è il Centro-Nord a frenare.
Alla dinamica mediocre del Pil hanno corrisposto consumi in termini reali anch’essi in solo lieve incremento. Vi hanno corrisposto altresì un reddito reale pro capite invariato rispetto all’anno precedente (per l’apporto degli immigrati alla popolazione), inchiodato sui livelli del 2000, sceso da allora al disotto del 20% rispetto alla media europea; salari reali infimi nonostante il modesto recupero dovuto alla raffreddata ascesa dei prezzi; ineguale distribuzione degli averi; un tasso di povertà non lontano dal 10% della popolazione (quasi sei milioni di persone, di cui 1,3 milioni in età minore).
GLI INVESTIMENTI in macchinari e impianti, sempre in termini reali, sono scemati del 2,5% e così le importazioni, mentre le esportazioni sono rimaste ferme. Il calo del 2024 fa sì che rispetto al Pil gli impieghi in beni strumentali (10%) non abbiano ritrovato neppure il livello del 2000 (11%), da cui erano crollati fino al minimo (8%) seguito nel 2013 alla restrizione di bilancio del governo Monti dopo l’irresponsabile gestione finanziaria Berlusconi-Tremonti.
Il calo è avvenuto anche per la lentezza d’attuazione dei progetti finanziati dall’Europa attraverso il Pnrr. Dei 200 miliardi disponibili ne sono stati spesi in un quadriennio appena una sessantina, nel 2024 non più che nei singoli anni precedenti. Mancano un resoconto della loro composizione e una stima dei loro effetti sull’economia. Rispetto al Pil il totale degli investimenti pubblici non supera il livello del 2009.
La competitività di prezzo del made in Italy non è migliorata, ma la debolezza della domanda interna e le minori importazioni hanno perpetuato l’avanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente con ulteriore deflusso di capitali, altri trenta miliardi investiti all’estero e non nel Paese.
L’OCCUPAZIONE è notevolmente aumentata, del 2% (420mila unità). Ma il prodotto ha progredito molto meno, con le imprese indotte dai bassi salari ad assumere anziché investire e innovare. Quindi la produttività, statica da vent’anni, è scesa almeno dell’1% e il costo del lavoro per unità di prodotto è salito (del 6% nel settore privato), con rischio di inflazione futura. La difficoltà dell’industria, non solo dell’automobile, prelude a disoccupati e cassaintegrati in diversi settori e luoghi.
L’indebitamento netto della Pubblica amministrazione ha solo in parte annullato la dilatazione degli anni precedenti. Resta pur sempre sul 4% del Pil, con l’avanzo al netto degli interessi forse raggiunto, certo non consolidato. Le entrate correnti di bilancio hanno superato di 25 miliardi (1% del Pil) le uscite correnti. Ciò è altamente positivo sebbene, diversamente da quanto il governo favoleggia, la pressione fiscale sia stata inasprita dal 41,5 al 42,5% del Pil. Ma il prezioso risparmio è stato assorbito nel conto capitale delle pubbliche amministrazioni dalle uscite meno produttive (circa 50 miliardi, fra cui quelli legati alla coda del famigerato bonus edilizio).
IL DEBITO PUBBLICO è quindi asceso a tre trilioni, arrivando a sfiorare il 140% del Pil. La legge di bilancio varata ieri stenterà a contenerlo. Le misure progettate non incidono né sulle spese non-sociali né sull’evasione dei tributi. I tassi dell’interesse, lungi dal diminuire ancora, potrebbero risalire gravando sul debito. Risaliranno se l’inflazione verrà innescata dagli Stati uniti, dove Trump vuole una spesa pubblica ingente e il blocco dell’immigrazione in una economia già in pieno impiego e con un lancinante, crescente, debito estero. Inoltre maggiori costi deriveranno dal grumo di negatività che i conflitti e le tensioni geopolitiche generano nel mondo: spese militari, protezionismo, autarchia, distorsioni produttive, frattura nei rapporti commerciali e nella cooperazione fra paesi.
Con le sue ombre e alcune luci il 2024 non risulterà l’anno economico peggiore vissuto dagli italiani negli ultimi decenni. Ma la condizione complessiva attuale e tendenziale, seppure migliorata rispetto al pesante lascito del precedente ventennio, non giustifica compiacimento. Al di là dei dati nazionali non esaltanti e di un contesto mondiale fitto di eventi sfavorevoli sul futuro dell’economia italiana pesano due elementi risalenti nel tempo.
La politica economica permane impari al rilancio dell’economia. Non è imperniata, in modo coordinato, sul risanamento del bilancio; sugli investimenti pubblici nella sanità, nella tutela del territorio e dell’ambiente, nell’istruzione; su un’azione specifica per il Sud; sulla correzione delle iniquità e della povertà assoluta; sulla modernizzazione del diritto dell’economia e della giustizia civile; sull’imporre alle imprese la concorrenza; sul rifiuto spinto sino a opporre il veto dell’Italia all’assurda equiparazione fra spesa corrente e spesa in conto capitale imposta alle pubbliche amministrazioni europee dal mercantilismo tedesco.
L’ALTRO ELEMENTO riguarda il sistema delle imprese. L’improduttività di oltre quattro milioni di unità con meno di due addetti (45% degli occupati nelle imprese) stenta a essere compensata dai pochi grandi gruppi rimasti e dal nucleo delle aziende che sono, sì, efficienti ma restano familiari, non si aprono a dirigenti esterni, non si quotano in Borsa, ripiegano addirittura sul delisting. Lo stesso distretto industriale non brilla. Ancor più grave sarebbe se le imprese italiane piuttosto che sull’accumulazione di capitale e sul progresso tecnico continuassero a puntare su danaro pubblico, evasione delle imposte, acquiescenza sindacale e salariale, cambio sottovalutato, bassa concorrenza.
Sia nello Stato sia nell’impresa occorre un radicale cambio di paradigma. Gli economisti lo hanno sollecitato. La Banca d’Italia, l’Accademia dei Lincei, altre istituzioni lo auspicano da anni. Non se ne vedono le premesse.
*( Economista e storico dell’economia.)
02 – Filippo Barbera*: IL CONFLITTO NECESSARIO E LA SVOLTA AUTORITARIA – DIRITTI AL FORUM DISEGUAGLIANZA E DIVERSITÀ UN INTENSO LAVORO DI ANALISI SUL 2024 IMMAGINANDO LE LINEE D’AZIONE PER IL 2025 CON L’OBIETTIVO DI RICOSTRUIRE LE FORME DELLA POLITICA.
Sei ore di intenso lavoro, più di cinquanta interventi: organizzazioni, persone, corpi intermedi, filiere della conoscenza radicate nei luoghi, cittadinanza attiva, cooperative e associazioni, mondo della ricerca economica e sociale. L’assemblea del 18 dicembre del Forum Diseguaglianza e Diversità è stata questo e molto altro, con 69 partecipanti che hanno analizzato l’anno che volge al termine e immaginato le linee d’azione per il 2025.
Un lavoro di elaborazione che dovrebbe essere la ragion d’essere dei partiti politici e delle forme organizzate di intermediazione. Forme che il modello neo-liberale ha cancellato all’insegna dell’idea che tutto ciò che “intralcia” i meccanismi di accumulazione del capitale (in primis le pressioni democratiche) deve essere azzerato, depotenziato, distrutto. I luoghi fisici e organizzativi della politica richiedono cura, tempo, risorse e metodo; rendono possibile e concreta la capacità di anticipare le linee del cambiamento sociale, mettono in squadra le questioni di rilevanza collettiva, individuano le missioni collettive utili per migliorare il modello di società e di convivenza.
PROVA CONCRETA di tutto ciò è la prescienza con cui nel maggio 2020 il ForumDD coglie in un documento pubblico il rischio che il modello liberale di economia e quello autoritario di politica possano: “mescolarsi in una soluzione unificata, dove lo Stato è supino (alle decisioni di pochi) e di tasca larga sul terreno dell’economia e pro-attivo e punitivo sul terreno delle libertà e dei diritti”.
I poveri bersagli della passione punitiva
È impressionante leggere ora, quattro anni dopo, quanto questa previsione si sia rivelata azzeccata. Infatti, già dal 2021 si manifesta una crescente resistenza del sistema politico-istituzionale alle proposte di riformismo radicale avanzate dal ForumDD, per esempio con la chiusura a ogni diagnosi circa gli evidenti errori di impostazione del PNRR, che poi diverranno manifesti e che oggi sono l’elefante nella stanza. Una sorta di “sindrome di Cassandra”, amplificata da un sistema mediatico occupato da opinionisti generalisti o schierati a favore degli interessi che “sanno farsi ascoltare”, mentre l’elaborazione progettuale anticipatoria rimane inascoltata e non “buca” la coltre della rappresentanza istituzionale.
Oggi siamo a cambio di fase. In gioco non c’è più solo o tanto la lotta alle diseguaglianze, la “missione” originaria del ForumDD. Oggi non è sufficiente accontentarsi della robustezza della diagnosi che, ancorché inascoltata, ha visto in anticipo la direzione del cambiamento politico con il mostruoso connubio tra autoritarismo, centralismo, disintermedazione economica e politiche reazionarie sul terreno dei diritti che è al governo del Paese. Oggi deve essere chiaro che al governo si combinano tratti di mera incapacità tecnica, che minacciano ogni possibilità di sviluppo economico, e tratti di autoritarismo corporativo, che premia la distribuzione a pioggia di risorse pubbliche, con l’indebolimento di quel che resta dell’azione pubblica universalistica su sanità, scuola, Università, trasporti. Il tutto supportato dall’ulteriore spaccatura dell’equilibrio fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
QUI UN PUNTO CRUCIALE sottolineato dall’assemblea del ForumDD: l’attuale politica economica del Governo crea le condizioni per la maturazione nel Paese di nuove aree di potenziale “contro-potere” che sono danneggiate dalle scelte dell’esecutivo. Si pensi alle libere professioni, a quelle parti del terzo settore non “catturate” dalla distribuzione di fondi pubblici, ai livelli intermedi del governo e dei territori, alla parte più innovativa delle imprese private, a tutte quelle esperienze che ricercano nuove forme di relazione tra partecipazione, tecnologia e produzione di beni e servizi. Si tratta di aree molto eterogenee e che non costituiscono “naturalmente” un insieme di interessi facilmente aggregabili in una domanda politica univoca. Una possibilità, per farlo, è quella di lavorare alla costruzione di rapporti di forza che permettano di alzare il livello del conflitto politico.
SI TRATTA QUINDI di aprire vertenze nazionali per la promozione e l’adozione di specifiche proposte; di promuovere iniziative nazionali di tipo giudiziale per contestare la mancata applicazione di norme o promuoverne l’uso; di sostenere azioni di disobbedienza civile per attivare un impegno diffuso nel contrastare norme ingiuste.
Il tutto evitando la sindrome dei cento fronti, dispersiva di energie; il collateralismo, ossia partecipare ad alleanze dove il valore aggiunto dell’azione-in-comune si perde; la passività, ossia essere costretti sui terreni decisi dagli avversari; il “retismo” dove ogni soggetto fa rete con tutti gli altri, mettendo sé stesso al centro e accrescendo la frammentazione. Di nuovo, rischi facilmente evitabili se l’organizzazione e l’intermediazione politica non fossero state depotenziate e distorte con la connivenza di tutta la classe politica post-89. Un buon proposito per il 2025 potrebbe quindi essere la ricostruzione delle forme della politica, in modi adeguati ai tempi nuovi.
*(Filippo Barbera è professore di Sociologia economica e del lavoro all’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto. Si occupa di economia fondamentale, sviluppo delle aree marginali e innovazione sociale.)
03 – Germania, MUSK INSISTE: SOSTEGNO ALL’ESTREMA DESTRA – VERSO LE ELEZIONI A MENO DI DUE MESI DAL VOTO IL NUOVO ENDORSEMENT ALL’AFD DELL’IMPRENDITORE TECH, QUESTA VOLTA SUL DOMENICALE DEL QUOTIDIANO TEDESCO «DIE WELT»
Uscirà oggi su Welt Am Sonntag, edizione domenicale del quotidiano berlinese Die Welt (del gruppo Axel Springer, che possiede anche il sito Politico), un editoriale infarcito di populismo scritto da Elon Musk che rilancia il suo sostegno all’estrema destra tedesca di Alternative fur Deutschland.
A meno di due mesi dal voto, la polemica con l’imprenditore tech proprietario della piattaforma X, in Germania è ormai alle stelle, dopo che venerdì il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier ha aperto la campagna elettorale con un affondo contro Musk: «L’influenza esterna è un pericolo per la democrazia: sia quando è nascosta, come di recente nelle elezioni in Romania, sia quando è aperta e palese, come avviene attualmente in modo intenso sulla piattaforma X», ha detto il presidente confermando la data elettorale del 23 febbraio 2025.
Il contenuto del pezzo ha inoltre spinto la caporedattrice della sezione opinioni, Eva Marie Kogel, a dare le dimissioni, annunciate su X.
04 – Roberto Della Seta*: GENOCIDIO O NO, ISRAELE È UN PAESE CRIMINALE – I FATTI E LE PAROLE OGGI ISRAELE NON È «SIONISTA», È MOLTO PEGGIO: È UNO STATO LE CUI ÉLITE POLITICHE CONDIVIDONO CON RARE ECCEZIONI L’IDEA DI UN NAZIONALISMO AGGRESSIVO ED ESCLUSIVISTA CHE, COME DIMOSTRA PLASTICAMENTE LA FIGURA DI NETANYAHU, HA BISOGNO DI GUERRA PER SOPRAVVIVERE.
Ho cambiato idea, credo di essermi “radicalizzato”. Circa un anno fa ho scritto su queste pagine dei miei dubbi sull’opportunità di definire come «genocidio» la guerra condotta da Israele a Gaza. Dubbi, soprattutto, sul rischio che usare estensivamente un concetto così drammaticamente estremo, applicandolo a comportamenti che certo configurano crimini di guerra ma che sul piano giuridico sfuggono almeno in parte alla categoria canonica del genocidio, finisca per annacquare il senso, la percezione, la «sacralità» di una parola coniata per dare un nome al male più «indicibile»: alla Shoah.
Capisco le ragioni di chi rimane affezionato a questa disputa terminologica – crimini di guerra sì, genocidio no – ma oggi la trovo «distraente». I nomi, le parole sono importanti, però i fatti, le cose contano di più. I fatti sono che da più di un anno Israele – chi la governa, il suo esercito, le sue forze di sicurezza, senza una significativa opposizione politica e sociale nel mondo ebraico-israeliano – procede nella distruzione sistematica e indiscriminata dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, tollera e spesso spalleggia le persecuzioni continue contro civili palestinesi in Cisgiordania a opera di bande di coloni ebrei israeliani, rifiuta sistematicamente ogni richiamo di organismi sovranazionali alla palese illegittimità dei suoi metodi guerra.
ECCO, io penso che oggi dividersi tra quanti giudicano inaccettabili questi fatti, su come vadano nominati – genocidio? crimini di guerra? crimini contro l’umanità? – ne metta in ombra la gravità con pochi eguali nella storia recente e oscuri un fatto ulteriore che da essi consegue: Israele è ormai a tutti gli effetti un Paese «illegale», «criminale», altrettanto sprezzante del diritto internazionale e di quello umanitario dei Paesi e gruppi suoi nemici.
A Gaza le prove evidenti di un genocidio
Lo è non più soltanto come governo, ma come entità giuridica che rivendica, con le sue istituzioni, il diritto di massacrare decine di migliaia di civili palestinesi per neutralizzare Hamas, di occupare per un tempo indefinito territori non suoi dominandone gli abitanti come sudditi di un potere assoluto, di trattare da cittadini di serie b milioni di arabi israeliani (è apartheid? Anche in questo caso preferisco concentrarmi sulla cosa più che sul nome).
Distraente da questa evidenza, particolarmente dolorosa per chi come me sente un legame profondo con le radici ebraiche dello Stato d’Israele, considero anche il dibattito su sionismo e antisionismo. Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento per dare speranza a milioni di ebrei d’Europa perseguitati e discriminati.
Indicando l’obiettivo concreto di costruire uno Stato ebraico in Palestina, fondava la sua visione su un valore – il diritto dei popoli ad autodeterminarsi – che ha conosciuto nella storia due declinazioni tra loro opposte: patriottismo democratico e nazionalismo esclusivista. Declinazioni, per guardare all’Italia, che si combatteranno ferocemente nella guerra civile tra Resistenza e fascismo.
IL SIONISMO è sempre stato abitato da entrambe queste «anime», e in più ha recato fino dai suoi inizi i segni di un «peccato» originale: disinteresse per i diritti nazionali di quanti, non europei, vivevano da secoli nella «terra promessa». Il movimento sionista vedeva il mondo con occhi «colonialisti»: ma almeno fino a tutta la prima metà del Novecento così lo vedevano anche pensieri e movimenti squisitamente progressisti.
Basti pensare a tanti socialisti rivoluzionari italiani che nel 1911 si entusiasmarono per la guerra coloniale in Libia, o alla sinistra socialista e comunista francese che alla fine degli anni ’50 sostenne con forza la repressione contro l’indipendentismo algerino.
Sarebbe bene, allora, lasciare il sionismo alle analisi e ai giudizi degli storici. Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche – fortunatamente non quelle intellettuali – condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere. È qui la prima e più micidiale minaccia esistenziale per Israele: è in quello che Anna Foa in un libro recente molto bello e molto sofferto ha chiamato il suo «suicidio».
*(Roberto Della Seta, è un giornalista, storico e politico italiano. Dal 2003 al 2007 è stato presidente nazionale di Legambiente)
05 – Roberto Livi*: TRUMP FA ROTTA SU PANAMA – USA/AMERICA LATINA. IL DIKTAT DEL PROSSIMO PRESIDENTE USA SUL CANALE – «TARIFFE MENO CARE PER NOI O CE LO RIPRENDIAMO» – È PURA “DOTTRINA MONROE”
È uno spettacolo indimenticabile assistere a come una nave portacontainer che assomiglia a un palazzo di venti e più piani attraversa le chiuse del canale di Panama. Anche se negli ultimi anni, dal 2023, una grave siccità ha colpito il paese e ha rallentato il flusso di transito del canale dalle precedenti 36 navi al giorno alle attuali 22. Naturalmente le tariffe sono aumentate, così come le liste di attesa.
PER IL PROSSIMO PRESIDENTE Usa è però intollerabile che le navi con bandiera a stelle e strisce facciano la coda o paghino per la precedenza. «Questo furto deve finire», ha tuonato Donald Trump. Le cifre imposte al transito delle navi Usa dall’amministrazione del canale di Panama sono «esorbitanti» per il prossimo capo della Casa Bianca. Dunque? «O le abbassano a ci riprenderemo il canale» è stata la sentenza di The Donald una decina di giorni fa.
A Panama le reazioni sono state immediate, sia a livello istituzionale – il presidente José Raúl Mulino, uno dei leader latinoamericani più filo-Usa, ha ribadito che «il canale è di Panama e continuerà a esserlo» – sia a livello popolare con continue manifestazioni di fronte all’ambasciata degli Stati uniti. Il trattato firmato nel 1977 tra l’allora presidente Usa Jimmy Carter e il leader di Panama, Omar Torrijos, prevedeva che il controllo e l’amministrazione del canale dal 1999 passasse dagli Usa a Panama. Per il piccolo stato centramericano è stato un salto politico ed economico irrinunciabile. Si calcola che oggi i proventi del canale, sia diretti che con gli indotti, contribuiscano al 16% del Pil di Panama.
Ancora più del denaro, conta il fatto che dal canale passi il 3% del volume mondiale del commercio marittimo, ma soprattutto il 46% del traffico commerciale navale tra l’Asia del Nord e l’Est degli Usa, ovvero la zona più industrializzata degli States.
Probabilmente, a detta di vari analisti, anche Trump si rende conto che vi sono trattati internazionali da rispettare.
MA CON LA SUA SPARATA «da bullo di quartiere» ha comunque lanciato una minaccia che lascia il segno. Soprattutto per il nocciolo politico di quella che non può essere presa come, appunto, una sparata. Innanzi tutto per Trump – come asseriva nella prima metà dell’800 il presidente Monroe – «l’America deve appartenere agli americani» ovvero agli Usa. In secondo luogo – è sempre una derivazione da questa “dottrina Monroe”- «è intollerabile la presenza e l’influenza cinese sul canale».
Negli ultimi anni col progredire della “nuova via della seta” la presenza cinese nel subcontinente americano è cresciuta esponenzialmente. Soprattutto nelle infrastrutture del commercio internazionale. L’ultima “pugnalata” gli Stati uniti l’hanno ricevuta dal “fidato” Perù con la firma di un accordo con la Cina per la costruzione di un mega porto hub a sud di Lima. Anche a Panama, specie nelle infrastrutture portuali, la presenza cinese è diventata importante.
Il presidente Mulino ha però ribadito con fermezza che Panama rispetta con rigore la neutralità del canale – garantita dagli accordi Carter-Torrijos – e che non vi è presenza militare cinese né nel canale né a Panama. Per quanto riguarda gli investimenti, «quelli Usa sono assolutamente i benvenuti».
LA FERMEZZA DI MULINO ha trovato l’appoggio di vari leader latinoamericani. In primis del presidente colombiano, Gustavo Petro, e della collega messicana, Claudia Sheinbaum. Ovvero dei paesi più importanti della regione centramericana. E dei più attenti a garantire una sovranità nazionale apertamente minacciata dal futuro boss della Casa bianca. Ne sa qualcosa il Messico che quest’anno ha contribuito in modo essenziale a mantenere a galla Cuba con l’invio di grosse quantità di petrolio prodotto dalla Pemex – e probabilmente a condizioni privilegiate, tra le quali l’invio di medici cubani in Messico. Il Wall Street Journal di recente ha messo in risalto come questa linea politica di sostegno a Cuba sia vista come un atto di ostilità nei confronti degli Usa ègetti seri dubbi sugli investimenti Usa in Messico».
Il grande giornale dei conservatori nordamericani non fa che confermare quale sarà la politica di Trump nei confronti del “cortile di casa” a sud degli Usa. I segnali sono chiari. Mentre continua la tensione diplomatica, The Donald ha annunciato la nomina a prossimo ambasciatore a Panama di Kevin Marino Cabrera politico cubano-americano di Miami-Dade e superfalco anticubano (come del resto il prossimo segretario di Stato, Marco Rubio). «In prima linea Kevin mette gli interessi degli Usa», ha precisato Trump.
COME INVIATO SPECIALE del Dipartimento di Stato per l’America latina, Trump ha designato il cubano-americano Mauricio Claver-Carone che negli anni passati si è distinto (anche nell’Organizzazione degli stati americani, Oea) per la linea dura nei confronti di Cuba. Infine, un altro falco di origine cubana, Peter Lamelas, sarà il prossimo ambasciatore alla corte dell’«anarco capitalista» presidente argentino Javier Milei.
Pura “dottrina Monroe” ad uso degli elettori di Trump .
*(Roberto LIVI: Professore Onorario titolare di contratto di insegnamento)
06 – Marco Santopadre*LA MOTOSEGA LIBERISTA DI MILEI DEVASTA L’ARGENTINA – DURANTE LA CAMPAGNA ELETTORALE CHE IL 19 NOVEMBRE 2023 LO AVREBBE CONDOTTO ALLA VITTORIA, IL CANDIDATO PRESIDENTE DELL’ESTREMA DESTRA LIBERISTA AVEVA PROMESSO DI RISOLVERE I PROBLEMI DEL PAESE A COLPI DI MOTOSEGA.
Effettivamente, nel primo anno di governo Javier Milei non si è risparmiato ed è intervenuto pesantemente sull’economia e il quadro normativo argentino.
I nemici giurati del “loco” (il pazzo), contro i quali si è accanito nei suoi primi dodici mesi da presidente, sono la spesa pubblica, i poveri, i pensionati, i disoccupati, i lavoratori dipendenti in generale. Manifestando immediatamente i propri intenti, in sede di formazione del governo Milei ha eliminato 12 ministeri su 20, tra i quali quelli dell’Uguaglianza, dello Sviluppo Sociale, dell’Ambiente, della Cultura e dei Lavori Pubblici, e poi ha realizzato il più grande taglio di bilancio nella storia dell’Argentina. In più, ha inventato il Ministero della Deregolamentazione Statale, affidato a Federico Sturzenegger, un economista pupillo di Elon Musk.
Tra i risultati che il leader del movimento populista reazionario “La libertad avanza” può rivendicare di aver centrato, diventando l’orgoglio dell’alt right di tutto il pianeta, c’è sicuramente il contenimento dell’inflazione, che quando Milei prese possesso della Casa Rosada era pari al 25,5% (mensile). A novembre l’aumento – sempre mensile – dei prezzi era crollato al 2,4%, al termine di un anno che ha comunque visto un’inflazione pari al 112%. Inoltre è riuscito a stabilizzare il cambio tra il Peso e il Dollaro, ad ottenere per la prima volta dopo anni un avanza primario e a ridurre il deficit.
“El loco”, sorretto da una popolarità che oscilla tra il 52 e il 54%, festeggia le mete conseguite, mentre accusa le opposizioni e i massimi organismi giudiziari di sabotare l’approvazione di alcune delle misure legislative ed economiche neoliberiste da lui promosse. Comunque Milei è riuscito a farsi approvare un pacchetto “lacrime e sangue” ricorrendo anche ai “Decreti di necessità e urgenza” che gli hanno permesso di bypassare il parlamento dove il suo partito ha una rappresentanza inferiore al 15%.
Ovviamente, la propaganda della destra argentina e dei suoi alleati – in prima fila c’è l’italiana Giorgia Meloni – nasconde le terribili conseguenze sociali prodotte dalle politiche di aggiustamento del presidente. Ad esempio sul fronte dell’occupazione: Milei ha licenziato 34 mila impiegati statali, ha bloccato gli scatti automatici in busta paga a quelli superstiti ed ha mandato in fumo circa 260 mila posti di lavoro, soprattutto nell’edilizia, nell’industria e nel commercio.
Meglio sono andate solo le attività del settore primario – agricoltura, allevamento, miniere e pesca – in un paese che esporta materie prime destinate ad imprese e multinazionali straniere.
Nel frattempo il tessuto produttivo soffre sempre più, stroncato dalla liberalizzazione delle importazioni, le attività di trasformazione chiudono e la povertà avanza a passi da gigante. Nell’ultimo anno nel paese sudamericano si contano addirittura cinque milioni di nuovi poveri, su un totale che ha raggiunto quota 25 milioni.
Secondo un rapporto dell’Università Cattolica Argentina (UCA) la povertà interessa ormai più del 50% degli argentini.
Sono soprattutto i bambini e i minori a subire le conseguenze del massiccio taglio di sussidi e aiuti sociali. Secondo i dati dell’Istituto di Statistica e Censimento di Buenos Aires, ben il 66% dei bambini con meno di 14 anni – 7,2 milioni in totale – vive sotto la soglia di povertà. Anche gli anziani – colpiti dai tagli o dalle mancate rivalutazioni delle pensioni – soffrono la motosega di Milei, con un tasso di povertà del 29,7% tra chi ha superato i 65 anni.
Le rilevazioni del Centro di Economia Politica Argentino (Cepa) dicono che il consumo medio di carne bovina è sceso ad ottobre dell’11,2% rispetto ad un anno prima, mentre quella dell’erba mate del 9,2.
I consumi si sono fortemente contratti e il paese soffre ora la recessione. D’altronde, mentre una piccola percentuale della popolazione si arricchisce, la stragrande maggioranza perde potere d’acquisto. Se è vero che l’inflazione è stata stroncata, è anche vero che salari e pensioni non sono stati rivalutati mentre la sfilza di privatizzazioni di numerosi servizi prima pubblici, del gigante petrolifero YPF e della compagnia di bandiera, ha causato un netto aumento delle tariffe. Ad esempio, i biglietti degli autobus sono decuplicati e la bolletta del gas è aumentata improvvisamente di sette volte.
I lavoratori del settore privato in genere riescono a stare al passo, ma non i dipendenti del martoriato settore pubblico, i lavoratori autonomi e i pensionati.
Le misure decise da Milei e dai suoi hanno generato una forte risposta politica, sociale e sindacale. Le piazze si sono riempite in occasione di due scioperi generali, grazie alle mobilitazioni studentesche contro i tagli all’istruzione pubblica e dei lavoratori in pensione. Il governo ha fatto ampio ricorso ad una repressione spesso indiscriminata che è riuscita a circoscrivere l’opposizione, mentre una parte importante dell’opinione pubblica si fida ancora del “presidente antisistema” o sospende quantomeno il giudizio, in attesa di vedere un miglioramento delle proprie condizioni di vita dopo i risultati vantati dalla destra nel campo della macroeconomia.
Molti argentini, soprattutto maschi, non vedono la macelleria sociale causata dalla motosega di Milei, e anzi apprezzano i toni esagitati ed esagerati dell’economista di origini italiane che non ha mancato di negare i crimini della dittatura militare responsabile di decine di migliaia di morti e desaparecidos, o di manifestare un odio etnico e di classe nei confronti dei popoli indigeni – in primis i Mapuche – e degli immigrati.
Intanto, però, il degrado della vita economia e sociale è arrivato al punto che gli ospedali non riescono neanche a trovare i medicinali essenziali da somministrare ai propri degenti. Ma l’inquilino della Casa Rosada non se ne cura. In un anno “el loco” ha fortemente avvicinato l’Argentina a Israele, agli Usa e alla Nato, ha schierato il paese nel novero dei paesi che sostengono il negazionismo climatico ed ha abbassato a 18 anni l’età per ottenere il porto d’armi.
«Quest’anno avete già conosciuto la motosega, ma ora arriverà una motosega profonda» ha promesso Milei in un discorso al paese nel primo anniversario del suo insediamento, avvenuto il 10 dicembre 2023, mentre il Fondo Monetario Internazionale celebra il nuovo beniamino dell’austerità. Pagine Esteri
*(Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria)
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