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Uomo simbolo della sinistra locale, aveva 70 anni: è morto dopo una lunga malattia
Da Settimo al Parlamento, Morri è stato segretario del Pd di Torino fino al 2017
Fabrizio Morri era arrivato a Settimo dalle Marche, da Urbino. E’ morto venerdì mattina, 20 dicembre, dopo una lunga malattia. Aveva 70 anni. La sua carriera politica era iniziata quando aveva poco più di vent’anni, alla guida della sezione del partito di Unità Proletaria di Settimo Torinese. Poi il percorso politico tra Partito Comunista Italiano (Pci), Democratici di Sinistra (Ds) e Partito democratico, passando dal Consiglio comunale torinese al Parlamento. Era una colonna storica della sinistra torinese: collaboratore di Piero Fassino, Morri è stato deputato dal 2006 al 2008 e senatore dal 2008 al 2013, quando è diventato segretario del Pd torinese fino al 2017.
Il regista settimese Gabriele Vacis ha voluto ricordare così il suo amico di lunga data:
Fabrizio per me, prima di tutto, era stare a parlare fino alle due o alle tre di notte, in macchina, sotto casa, quando mi riaccompagnava da qualche assemblea a Torino. Fabrizio era la pizza dopo quelle infinite riunioni, lui era capace di mangiarsene anche due. Era quegli assurdi baffi staliniani per cui l’ho preso in giro tutta la vita. Erano gli anni settanta e Fabri era il segretario del Partito di Unità Proletaria per il comunismo. Che voleva dire un gruppo di ragazzi under trenta che si sbattevano come matti per cambiare il mondo. C’erano studenti, come me, e c’erano operai che lavoravano in grandi fabbriche o in piccole boite. Fabri veniva dalle Marche, i miei dal Veneto e da Bergamo, quasi tutti gli altri venivano del sud. Era un melting pot di una ricchezza pazzesca. Quello che volevamo cambiare erano i rapporti: tra ricchi e poveri, tra uomini e donne, tra giovani e vecchi. Avevamo buone possibilità perché eravamo tanti.
Nella storia umana non c’erano mai stati tanti giovani. E le donne cantavano: siamo in tante, siam più della metà ma non contiamo niente in questa società. A ripensarci, dopo mezzo secolo, a quel gruppo di ragazzi, salta all’occhio la capacità di unire. Allora magari credevamo che nel nome del partito fosse importante la parola “proletaria”, anche perché proletari, in questa città lo eravamo un po’ tutti, oppure “comunismo”, anche se molti di noi erano cresciuti in parrocchia tra concilio vaticano secondo e preti operai. Invece, a ripensarci dopo tanta acqua passata sotto il ponte del Po, la parola importante era “unità”. Perché tra circoli giovanili, lotte continue, avanguardie operaie e chi più ne ha più ne metta, alla fine si riusciva a mettere insieme un po’ tutti sulla voglia di cambiare i rapporti.
E Fabrizio Morri, nella forza che teneva insieme, ci ha sempre messo molto del suo. E lo strumento che usava era lo studio. Studiavamo. Fabri, facendo notte in auto, sotto casa, mi convinceva a studiare l’urbanistica con uno sguardo che all’università non mi fornivano. E così faceva con tutti gli altri e con tutte le altre, a seconda delle inclinazioni di ognuno, delle ragioni di ciascuno. Era questo il ruolo che gli riconoscevamo. Anche perché quello era un tempo in cui le ragioni contavano. E’ qualcosa che i giovani, oggi, fanno fatica a capire. Oggi si risolve tutto tirando in ballo la “narrazione”. I fatti contano sempre meno. Così la realtà rimane sospesa. In quel tempo se si dimostrava la necessità di chiudere al traffico il centro storico, alla fine si chiudeva al traffico il centro storico.
Se la Farmitalia tagliava la metà dei dipendenti, ci si interrogava sul rapporto tra fabbrica e città e si cominciava ad intuire che gli operai sarebbero stati sempre meno e che si doveva cominciare a pensare un futuro di automazione. E Fabrizio lavorava a tenere insieme tutto questo con quelli che vedevano la “difesa del posto di lavoro” come unica prospettiva. Era uno che univa realtà. In una società che galoppava verso la sospensione della realtà.
La sua storia racconta la lotta impari contro la società che trasforma tutto in intrattenimento, dal lavoro alla salute, dall’istruzione all’economia. Se si guarda bene quello che ha sempre fatto Fabrizio nel partito democratico, da senatore, da responsabile della comunicazione, è tenere fede ai principi di quel gruppo di ragazzi: studiare per dare il giro ai rapporti, alle relazioni tra le persone. Un giro che permettesse la convivenza di realtà. Mentre nel mondo la realtà non c’è più. E adesso non c’è più neanche Fabrizio. E’ stato bello, comunque, è stata una fortuna che chissà chi e chissà cosa mi abbia fatto capitare nel tuo spazio e nel tuo tempo.
Gabriele Vacis
FONTE: https://www.giornalelavoce.it/news/attualita/558892/il-regista-gabriele-vacis-ricorda-fabrizio-morri-univa-le-realta.html
Addio Fabrizio, proletario di Settimo arrivato fino in Senato
GABRIELE VACIS
Avevamo vent’anni e, Fabrizio Morri era il “capo” della sezione del Partito di Unita Proletaria di Settimo Torinese. Il partito si riuniva in due stanzette in via Roosevelt sempre sature di fumo.
La riunione era pressoché infinita, nel senso che c’era sempre qualche ragione per riunirsi. La verità, era che, oltre la politica, ci piaceva stare insieme. Parlavamo all’infinito di salari, di diritti, di equo canone, ma si finiva sempre a raccontarsi perché ti piaceva quella ragazza, quanto dovevi scazzarti con tuo padre o a che punto eri arrivato a leggere Cent’anni di solitudine. A Fabri, incredibilmente piacevano i Creedence Clearwater Revival, ma ddai… Vuoi mettere i King Crimson? E si discuteva per ore, perché intanto arrivava Gabriella che adorava Lucio Battisti, ma Aldo diceva che Lucio Battisti era fascista, però secondo Giorgio e Grazia la musica italiana si stava svegliando, c’erano gli Stormy Six e Finardi…
E cosa c’entrava tutto questo con la politica? Tutto questo era politica. Il padre di Fabri lavorava in fonderia, mio padre in Farmitalia, i padri dei ragazzi di via Roosevelt lavoravano in Fiat, non mi viene in mente uno ricco, tra noi. Proletari lo eravamo per davvero. E la musica che ascoltavamo, i libri che leggevamo, le relazioni che tessevamo erano politica perché erano il nostro riscatto. Eravamo proletari, anche un po’ tamarri, ma non coltivavamo l’orgoglio della nostra rudezza, della nostra ignoranza, per affermare le nostre origini popolari. Non ce ne vergognavamo, assolutamente, ma, gramscianamente volevamo nobilitarle.
In via Roosevelt campeggiava un manifesto con il ritratto, appunto di Gramsci, che diceva: il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. Quel posto saturo di fumo, con noi e i nostri eskimi e maglioni slabbrati, era un piccolo squarcio di eleganza nella terra desolata dove ci era capitato di vivere.
Ho scritto proprio cosi: eleganza, che vuol dire, serietà, impegno, distinzione per coltivare la differenza. Era il contrario del conformismo. Perché il personale era politico, quindi quelle due stanzette in via Roosevelt non erano un luogo fisico. Erano lo spazio della mente, e dei corpi, in cui diventavamo grandi.
Era un vero e proprio ambiente culturale. L’ambiente culturale originario che ha accompagnato un ragazzino dalla terra desolata fino al Senato della Repubblica. Fabrizio era nato in aprile. E aprile, dice Eliot, è il più crudele dei mesi, genera lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio. Fabrizio era uno di noi, uno di quelli che più si sono dati da fare per generare lillù da terra morta.
(da La Stampa, 22 dicembre 2024)
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