01 – Andrea Carugati*: Mattarella: «Chi governa non alimenti divisioni» – Quirinale Il Capo dello Stato durante gli auguri alle alte cariche: «Democrazie insidiate dalle grandi società che concentrano capitali e sfuggono alle regole». «Chi opera nelle istituzioni deve rispettare i limiti del proprio ruolo, senza invasioni di campo e contrapposizioni. La Repubblica vive di questo ordine». «Sostenere il pluralismo nell’informazione non affidandosi soltanto alle logiche di mercato»
02 – Andrea Colombo*: Corti di giustizia e asilo. Da Mattarella lezione di diritto – Quirinale Il presidente alla Farnesina per gli stati generali della diplomazia: senza voler polemizzare sconfessa il comizio di Meloni ad Atreju.
03 – Sebastiano Canetta*: Così Washington affondò la pace svizzera: le rivelazioni scomode di Ruch
Guerra in Ucraina Il fallimento di Berna raccontato nelle memorie del diplomatico. Sullo sfondo la spy-story partita da Tel Aviv che gli è costata il posto alla segreteria di Stato
04 – Andrea Colombo*: Meloni apre spiragli per il confronto con toni da rissa
Al senato La premier prova a raccogliere il messaggio del capo dello stato. Ma ne ha per tutti. Scontro con Monti su Musk.
05 – Andrea Cagioni*: la grande rapina: capitalismo contro il lavoro – l’impoverimento e la precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita provocate dal capitalismo finanziario e digitale impongono un cambio di paradigma, una vera e propria transizione sistemica
06 – Marina Catucci*: Dall’Ohio alla California, si organizza la “resistenza” alla deportazione di massa Stati uniti Famiglie che sono in Usa da più di dieci anni rischiano di essere separate. Si lavora alle strategie legali, e le chiese aprono le loro porte
07 – Andrea Del Monaco*: La rivolta sociale invocata da Maurizio Landini è contro le due destre descritte da Marco Revelli.
08 – Dante Barontini “Terrorista” è sempre e solo “il nemico”. Da “terrorista” super-ricercato ad alleato fedele o leader con cui comunque discutere… è un attimo.
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01 – Andrea Carugati*: MATTARELLA: «CHI GOVERNA NON ALIMENTI DIVISIONI» – QUIRINALE IL CAPO DELLO STATO DURANTE GLI AUGURI ALLE ALTE CARICHE: «DEMOCRAZIE INSIDIATE DALLE GRANDI SOCIETÀ CHE CONCENTRANO CAPITALI E SFUGGONO ALLE REGOLE». «CHI OPERA NELLE ISTITUZIONI DEVE RISPETTARE I LIMITI DEL PROPRIO RUOLO, SENZA INVASIONI DI CAMPO E CONTRAPPOSIZIONI. LA REPUBBLICA VIVE DI QUESTO ORDINE». «SOSTENERE IL PLURALISMO NELL’INFORMAZIONE NON AFFIDANDOSI SOLTANTO ALLE LOGICHE DI MERCATO»
Di fronte alla tante «faglie» che minano il tessuto politico e sociale delle nostre democrazie, Sergio Mattarella lancia un messaggio ai chi ricopre cariche istituzionali. Richiama il «senso del dovere che richiede a tutti coloro che operano in ogni istituzione, di rispettare i limiti del proprio ruolo. Senza invasioni di campo, senza sovrapposizioni, senza contrapposizioni». E «a prescindere dalle appartenenze politiche». «La Repubblica vive di questo ordine. Ha bisogno della fiducia delle persone che devono poter vedere, nei comportamenti e negli atti di chi ha responsabilità, armonia tra le istituzioni».
MATTARELLA PARLA DAVANTI alle più alte cariche dello Stato per i tradizionali auguri di fine anno nel salone dei corazzieri. E, senza allarmismi che non sono nel suo dna, descrive un’Italia esposta a molti rischi, che derivano dalle guerre che «seminano in profondità paura, divisione e odio» (per questo occorre «riaffermare con forza e convinzione le ragioni della pace»), ma anche dalle polarizzazioni e dalle divisioni che limitano lo spazio «del dialogo e della mediazione», portano a una «radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico».
«Si rischia che non esistano ambiti tenuti al riparo da questa tendenza alla divaricazione incomponibile delle opinioni», avverte il Capo dello Stato, che cita i conflitti sui vaccini e sui cambiamenti climatici come esempi di temi su cui lo scontro non riesce ad approdare ad una «serena riflessione comune». Di qui l’invito a chi esercita le maggiori responsabilità in campo istituzionale, ai governanti che devono tenere conto di come il tasso di astensionismo stia indebolendo la democrazia, fino al rischio di «una democrazia senza popolo e di fantasmi».
PER IL PRESIDENTE L’ANTIDOTO a questi rischi non è solo la «stabilità» dei governi e neppure la crescita dell’occupazione. Ma ritrovare «spirito di servizio. passione civile, senso del dovere». Una «miniera di valori» che il Capo dello Stato non si limita ad evocare in senso astratto. Ma che richiama citando esempi, dai sindaci ai militari dell’Unifil in Libano, a tante espressioni della società civile. Il monito alle alte cariche è di «poter essere all’altezza delle nostre responsabilità. Di riuscire a farvi fronte con lo stesso impegno e la stessa fiduciosa determinazione con la quale tantissimi nostri concittadini, affrontando difficoltà, mandano avanti, ogni giorno, le loro famiglie e le nostre comunità».
IN PRIMA FILA GIORGIA MELONI ascolta: nel discorso del presidente, come ovvio, non ci sono riferimenti al comiziaccio di domenica ad Atreju, in cui la premier ha attaccato con veemenza molti avversari, compresi il leader della Cgil Landini e l’ex presidente della commissione Ue Romano Prodi. Ma è difficile dire che le orecchie non le siano fischiate quando il capo dello Stato ha esortato ad evitare la «costante ricerca di contrapposizioni» ricordando che «le istituzioni sono di tutti» e chiedendo «comportamenti» adeguati.
IL CAPO DELLO STATO, come già aveva fatto nel dicembre scorso, analizza anche altri gravi rischi che incombono sulle democrazie: quelli rappresentati dalla «concentrazione in pochissime mani di enormi capitali e del potere tecnologico, così come il controllo accentrato dei dati». Nel mirino non c’è solo Elon Musk «come ci si azzarda a interpretare», chiarisce. Ma tutti quei soggetti, pochi, «con immense disponibilità finanziarie, che guadagnano ben più di 500 volte la retribuzione di un operaio o di un impiegato. Grandi società che dettano le loro condizioni ai mercati e – al di sopra dei confini e della autorità degli Stati e delle organizzazioni internazionali – tendono a sottrarsi a qualsiasi regolamentazione, a cominciare dagli obblighi fiscali».
Mattarella torna a denunciare i rischi di questi soggetti che perseguono la ricchezza come «strumento di potere che consente di essere svincolati da qualunque effettiva autorità pubblica». Fino a sfidare il monopolio della forza e della moneta, architravi dello stato moderno che rischia di essere svuotato. L’unica «garanzia» rispetto alla crescita di questi poteri extrastatali è «la tenuta e il consolidamento delle istituzioni democratiche, unico argine agli usurpatori di sovranità». E se dentro le democrazie si insinua il dubbio su una loro presunta lentezza o inadeguatezza rispetto ai mutamenti della tecnologia e dell’economia, per Mattarella la riposta è una sola: «Bisogna amare la democrazia, prendersene cura».
Come? Evitando «CONFLITTI E RADICALIZZAZIONI» CHE PRODUCONO «UNA DESERTIFICAZIONE DEL TESSUTO CIVILE» CHE PUÒ LASCIARE «CAMPO LIBERO AD AVVENTURE DI OGNI TIPO». E anche «sostenendo il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione», non affidandosi soltanto «alle logiche di mercato». Tutti i possibili destinatari delle sue parole erano presenti ieri sera al Quirinale. A partire da Meloni
*(Fonte: Il Manifesto – Giornalista professionista, fotografo, autore di libri, produttore cinema e tv. Ho lavorato per ANSA per oltre vent’anni in qualità prima di redattore.)
02 – Andrea Colombo*: CORTI DI GIUSTIZIA E ASILO. DA MATTARELLA LEZIONE DI DIRITTO – QUIRINALE IL PRESIDENTE ALLA FARNESINA PER GLI STATI GENERALI DELLA DIPLOMAZIA: SENZA VOLER POLEMIZZARE SCONFESSA IL COMIZIO DI MELONI AD ATREJU
QUANDO IL CAPO DELLO STATO, NEL CORSO DEL SUO DISCORSO AGLI AMBASCIATORI, ARRIVA AL PASSAGGIO SUL «DIRITTO D’ASILO PER LO STRANIERO CUI VENGA IMPEDITO NEL SUO PAESE L’ESERCIZIO DELLE LIBERTÀ DEMOCRATICHE» È INEVITABILE RAPPORTARLO ALLA FRASE STRILLATA IL GIORNO PRIMA DA GIORGIA MELONI NEL CORSO DEL COMIZIO CONCLUSIVO DI ATREJU, TANTO VIRULENTO DA FARE IL PAIO CON QUELLO FAMIGERATO TENUTO ANNI FA IN SPAGNA: «I CENTRI IN ALBANIA FUNZIONERANNO DOVESSI PASSARCI OGNI NOTTE DI QUI ALLA FINE DEL GOVERNO ITALIANO». PERCHÉ QUELLA DETERMINAZIONE FURIBONDA E CAPARBIA PROPRIO NON SI CONIUGA CON «LA STABILITÀ DI UN POSIZIONAMENTO NEI PRINCÌPI DEFINITI DALLA COSTITUZIONE» A CUI FA RIFERIMENTO IL PRESIDENTE.
Subito dopo, Mattarella esalta «le Convenzioni internazionali» e «le Corti di giustizia che ne sono derivate, a tutela dell’applicazione degli ordinamenti». E come si fa a non ricordare che proprio una sentenza della Corte di giustizia europea è lo scoglio che costringe la premier a fare le nottate per aggirarlo e far decollare quei centri in Albania che per ora sono solo un monumento alla propaganda e allo spreco?
IN REALTÀ LE INTENZIONI critiche del presidente erano meno pronunciate di quanto non appaia. Voleva, sì, segnalare in punto di diritto che non si può fare di tutta l’immigrazione un calderone unico e che bisogna pertanto sempre ricordare il diritto d’asilo garantito dalla Carta, però senza infierire e per vari motivi. Mattarella ha già in programma due discorsi che sul Colle definiscono «importanti»: il primo oggi stesso, rivolto alle principali cariche istituzionali, l’altro a fine anno, destinato a tutto il Paese. Si sa quanto l’uomo sia cauto nel dosare i suoi messaggi. Inoltre era “ospite” del ministro degli Esteri, perché la politica internazionale non è pertinenza del presidente e nel lontano passato ci fu anche il caso di un messaggio del presidente Gronchi bloccato proprio dal governo. Sono particolari a cui il presidente è più che attento.
L’obiettivo, nel discorso di ieri, era ricondurre la politica estera del governo in carica nel solco di quella storicamente propria della Repubblica. Solo che in qualche caso ciò comporta inevitabilmente forzature che a tratti diventano stridenti, soprattutto se il discorso viene pronunciato a ridosso di un comiziaccio nel quale la presidente del consiglio, dismessi i panni istituzionali per rivestire quelli della capopartito, ha sparato a zero un po’ su tutti.
COSÌ QUANDO L’INQUILINO del Quirinale lancia un a grido d’allarme per gli «operatori internazionali svincolati da ogni patria, la cui potenza finanziaria supera oggi quella di Stati di media dimensione, e la cui gestione di servizi essenziali sfiora, sovente, una condizione monopolistica» la correlazione con il nuovo amico del cuore di Meloni, Elon Musk, appare a torto o a ragione evidente.
In realtà, trattandosi di un discorso sulla diplomazia, sulla importanza e anche sull’offuscamento della stessa, i passaggi principali per l’oratore erano quelli inerenti alle crisi internazionali in corso, alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina. Sulla Palestina Mattarella ripete quanto già affermato dopo l’incontro con Abu Mazen ed è un sostegno alla nascita dello Stato palestinese drastico, scevro da ambiguità. «Per la Repubblica italiana, l’autentica prospettiva di futuro risiede nella soluzione a due Stati. È un obiettivo privo di alternative», afferma forte e chiaro e prosegue con parole altrettanto nette ma calibrate in modo da non destare dubbi sull’amicizia per Israele: «Perseguire l’obiettivo, ravvicinato, della statualità palestinese significa offrire al popolo della Cisgiordania e di Gaza un traguardo di giustizia e una convincente prospettiva di speranza per il futuro, condizione irrinunziabile anche per una finalmente solida garanzia di sicurezza per Israele».
SULLA CARTA È LA STESSA posizione assunta dal governo, che però in materia ha sempre parlato solo sottovoce. La differenza sembra solo faccenda di accenti ed enfatizzazione. Se non fosse che a volte accentuare o meno un elemento, come l’obbligo di rispettare il diritto d’asilo o la necessità di adoperarsi per lo Stato palestinese, è precisamente quel che fa la differenza.
*(Fonte Il Manifesto. Andrea Colombo, scrittore e commentatore politico italiano.)
03 – Sebastiano Canetta*: COSÌ WASHINGTON AFFONDÒ LA PACE SVIZZERA: LE RIVELAZIONI SCOMODE DI RUCH – GUERRA IN UCRAINA IL FALLIMENTO DI BERNA RACCONTATO NELLE MEMORIE DEL DIPLOMATICO. SULLO SFONDO LA SPY-STORY PARTITA DA TEL AVIV CHE GLI È COSTATA IL POSTO ALLA SEGRETERIA DI STATO
BERLINO La sua voce è tornata on-air sei giorni fa con l’intervista alla radio svizzera Rts sull’apertura del Centro per la Neutralità a Ginevra, ma a fine novembre si era ricordato di lui anche Diplomat Magazine, rivista fondata all’Aja 12 anni fa da un gruppo di feluche interessate alla «libera circolazione delle opinioni», recensendo il suo libro di memorie Crimes, Hate and Tremors – Da una Guerra Fredda all’altra, al servizio di Pace e Giustizia.
Jan-Daniel Ruch, classe 1963, diplomatico tra i più esperti a livello internazionale, già consigliere giuridico del tribunale per i crimini di guerra in Jugoslavia ed ex ambasciatore svizzero in Israele, non smette di raccontare la vera storia del braccio di ferro tra falchi e colombe sulla guerra in Ucraina.
TESTIMONE diretto del tavolo di trattative tra russi e ucraini messo in piedi dal presidente turco Erdogan nelle settimane immediatamente successive all’invasione di Putin, Ruch venne chiamato a marzo 2022 da Ankara per la sua autorevolezza in materia di neutralità («di cui noi non abbiamo alcuna esperienza mentre lei rappresenta il modello riconosciuto», puntualizzò testualmente il viceministro di Erdogan) e di conseguenza venne tenuto costantemente informato su ogni singolo sviluppo del tentativo di spegnere sul nascere il focolaio ucraino allora ancora circoscritto fra Kiev e il Donbass.
«Il negoziatore turco mi premise che diverse potenze perseguivano un’agenda globale. E mi venne detto che Zelensky non avrebbe avuto alcuna obiezione a un rapido cessate del fuoco», ricorda il diplomatico nelle sue memorie. Finché «il 26 aprile 2022 il segretario Usa alla difesa, Lloyd Austin, dichiarò che l’obiettivo di Washington era indebolire la Russia: ciò rappresentò la fine delle speranze per una mediazione svizzera nel nascente negoziato».
Un fallimento clamoroso soprattutto per Berna: «Il ruolo della Svizzera come risolutore dei conflitti internazionali, purtroppo, non è più richiesto», sottolinea Ruch. Ma anche un enorme problema per tutta l’Europa che «svolge solo la funzione dello spettatore pagante sostenendo la maggior parte del peso finanziario del conflitto e ospitando i profughi di guerra». Opinioni urticanti, tutt’altro che diplomatiche; e anche parole che in Svizzera si pagano di persona.
A settembre 2023 Ruch avrebbe dovuto essere nominato a capo della nuova Segreteria di Stato sulla sicurezza istituita da Berna, ma si è dovuto dimettere prima di entrare in carica alla luce dello «scandalo» rivelato dai media locali.
UN’INFAMANTE dirty story partita da Israele, dove Ruch ha svolto l’incarico di ambasciatore dal 2016 al 2021 dopo essersi distinto come rappresentante speciale per il Medio Oriente a partire dal 2008. «Circolano voci che all’epoca l’ambasciatore della Svizzera avesse rapporti sessuali con prostitute-spie, è la prova che è inadatto a ricoprire una carica nevralgica per sicurezza», è la versione partita da Tel Aviv in ambienti che Ruch definisce senza fare nomi: «Di certo dietro c’è un’organizzazione professionale. Gente specializzata nello spionaggio. Chiamiamo il bambino con il suo nome».
All’ombra della guerra d’Ucraina si consuma anche la lotta sempre meno sotterranea per spostare nella sfera dell’Occidente la multipolare Svizzera. Proprio la rivendicazione della neutralità da parte del diplomatico più esperto sul tema rimanda allo scontro frontale che attualmente si sta consumando nel suo paese tra chi prova tenere il punto sul valore fondativo della Confederazione elvetica e chi invece vorrebbe aggiornare lo status alla nuova guerra fredda. Se Ginevra resta «la Capitale della Pace», Berna non è già più equidistante dalla guerra.
*(Fonte: Il Manifesto – Sebastiano Canetta è un giornalista free-lance che ha svolto inchieste nel Nord-Est e in Medio Oriente.)
04 – Andrea Colombo*: MELONI APRE SPIRAGLI PER IL CONFRONTO CON TONI DA RISSA – AL SENATO LA PREMIER PROVA A RACCOGLIERE IL MESSAGGIO DEL CAPO DELLO STATO. MA NE HA PER TUTTI. SCONTRO CON MONTI SU MUSK.
I toni sono quelli di sempre, se possibile più rissosi e a tratti striduli del solito. L’intento di Giorgia Meloni, nella replica al Senato dopo il dibattito sulle sue comunicazioni in merito al prossimo Consiglio europeo, invece è diverso da quello di 24 ore prima alla Camera. È arrivato a destinazione il messaggio del capo dello Stato: un invito perentorio rivolto a tutte le parti politiche ma anche ai media perché abbandonino l’uso smodato della categoria amico/nemico e della contrapposizione insanabile. Dunque qualche apertura al dialogo stavolta Meloni la cerca, anche se è difficile accorgersene nel fragore della rissa da strada in cui trasforma il suo intervento.
LA PREMIER COME al solito ne ha per tutti. Il caso Fitto se lo è legato al dito: «La Lega ha contestato la Commissione ma non il commissario italiano. Invece c’è chi ha difende la Comissione ma contesta il commissario italiano. C’è una bella differenza». Quando esalta l’aver sloggiato i camorristi da Caivano e qualcuno dall’aula rumoreggia perde quasi la testa. Gli fa il verso. Strilla e sbraita. Sbotta: «Voi non lo avete fatto e questi versi anche no». La rissa minaccia di non restare confinata nella sfera verbale. La presidente insiste: «Quando vengo accusata posso rispondervi o devo restare in silenzio?».
Ma la premier non ha alcuna intenzione di creare frizioni eccessive con il presidente della Repubblica e cerca spiragli d’apertura. Visto che Alfieri, Pd, riconosce l’importanza del piano Mettei, ci si potrebbe lavorare insieme. E se l’opposizione si accordasse per garantire l’approvazione della legge di bilancio entro il termine obbligatorio del 31 dicembre lei sarebbe prontissima a non mettere la fiducia. Sono segnali inviati all’opposizione ma con lo sguardo rivolto al Colle.
SOLO CHE L’ALLARME di Mattarella non riguardava solo la degenerazione del confronto politico in una specie di guerra civile mimata. Anche più marcata era la preoccupazione per il potere che stanno assumendo le corporation, sottratte «a ogni controllo pubblico», quasi in grado ormai di sfidare lo Stato quanto a monopolio della forza e sulla moneta. Ogni riferimento a Elon Musk era puramente intenzionale e quell’amicizia imbarazzante viene puntualmente rinfacciata alla premier in particolare da Mario Monti. «Non so che film abbiate visto. Io posso essere amica di Elon Musk e nello stesso tempo presidente del primo governo che in Italia ha fatto una legge per regolamentare l’attività dei privati nello spazio». Incrocia la lama con la Pd Malpezzi ancora sul tycoon: «Il miracolo di Musk è avervi fatto diventare sovranisti ma quando stava con i democratici non avevate niente da dire su di lui».
Altra amicizia pericolosa, quanto a quarti di democrazia, è quella con il presidente argentino Javier Milei. Se la cava con una battuta, duettando a suon di colpi bassi con Matteo Renzi: «Era lei a mettersi il cappotto come Obama. Io sono amica di Milei ma non mi faccio crescere le basette». Replica facile: «Obama non lo ho mai visto col cappotto. A vestirsi come il suo leader Trump è stato Salvini: ha sbagliato Matteo».
Ma le battute non bastano. La premier italiana è decisa a dar vita con Trump e con Milei a quella «internazionale di destra» che l’argentino ha proposto, non per la prima volta, proprio ad Atreju. Allo stesso tempo però intende difendere e rinsaldare quei rapporti con il Ppe che le hanno garantito quella centralità europea che le stesse opposizioni le hanno riconosciuto in questi giorni, sia pur per accusarla di non saperne trarre nulla di buono. È un esercizio di equilibrismo che potrebbe rivelarsi molto difficile.
SULL’UCRAINA la premier italiana, come del resto l’Unione europea, non ha modificato di un millimetro la posizione assunta quasi tre anni fa. Come se la situazione fosse la stessa di allora. Peraltro il compito di cercare una mediazione e un accordo con i nuovi Usa ricadrà in parte importante proprio su di lei, la «leader più influente in Europa». Forse il nervosismo che neppure più i suoi provano a negare, quello dimostrato ad Atreju ma ancor più in questa due giorni parlamentare perché qui a parlare e urlare non era la capopartito ma la presidente del consiglio, deriva proprio dalla consapevolezza di cosa la aspetta nei prossimi mesi.
*(Andrea Colombo, è un giornalista, scrittore e commentatore politico)
05 – Andrea Cagioni*: LA GRANDE RAPINA: CAPITALISMO CONTRO IL LAVORO – L’IMPOVERIMENTO E LA PRECARIZZAZIONE DELLE CONDIZIONI LAVORATIVE E DI VITA PROVOCATE DAL CAPITALISMO FINANZIARIO E DIGITALE IMPONGONO UN CAMBIO DI PARADIGMA, UNA VERA E PROPRIA TRANSIZIONE SISTEMICA.
Transizione sistemica che in Occidente assuma come obiettivi di fondo la proprietà e l’uso comune dei mezzi di produzione e riproduzione, una distribuzione egualitaria della ricchezza sociale, differenti finalità cui ispirare le attività produttive e riproduttive, la cura di sé, degli altri e della natura, una nuova ripartizione dei tempi di vita e di lavoro. Una transizione sistemica immaginabile a partire dalla centralità della pianificazione, intesa come strumento di politica economica in grado di controllare il mercato ed esprimere al massimo grado la supervisione politica e pubblica sui fattori di produzione e riproduzione. Attorno alla pianificazione, si delineano quattro temi: redistribuzione della ricchezza e del tempo di lavoro, proprietà e uso collettivo dei Big data, reddito di base, socializzazione del lavoro riproduttivo.
Nel saggio vengono discussi quattro temi: la finanziarizzazione, la sua variante digitale, la svalorizzazione del lavoro e il tempo della cura.
Il principale filo rosso de La grande rapina è l’imponente trasformazione operata dal capitale collettivo negli ultimi decenni in Occidente, e i suoi effetti sulle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Più precisamente, si è cercato di ricostruire le logiche che caratterizzano la genesi e lo sviluppo della finanziarizzazione e del capitalismo digitale.
L’egemonia della finanza e l’uso capitalistico delle tecnologie digitali fondano i nuovi regimi di accumulazione del capitale, che si caratterizzano per la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro e per la privatizzazione dei Big data. Questa metamorfosi del capitale è analizzata a partire dai presupposti teorici e dai concetti fondamentali che la qualificano.
Il problema centrale analizzato riguarda gli sviluppi e gli effetti della finanziarizzazione e della sua variante digitale, a partire dai mutamenti che investono il campo socio-economico, i rapporti di potere e le condizioni di vita. Fra i più importanti, l’aumento di centralizzazione e di concentrazione dei capitali, l’aumento delle disuguaglianze sociali, la diminuzione della quota salari sulla distribuzione del reddito, la crisi del lavoro riproduttivo e della cura.
I – Nella finanziarizzazione, il primato dei rendimenti finanziari sulla realtà produttiva materializza, al massimo livello di astrazione possibile, il dominio del capitale sulla forza-lavoro e sulla società.
In prima istanza, la specificità del regime di accumulazione di tipo finanziario può essere colta secondo la definizione di Christian Marazzi di “un dispositivo per accrescere la redditività del capitale all’esterno dei processi direttamente produttivi”. Ciò significa un allargamento dei processi di accumulazione del capitale attraverso la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro.
I contenuti linguistici, comunicativo-relazionali, affettivi che da sempre distinguono il lavoro riproduttivo delle donne, sono fondamentali negli attuali processi di accumulazione. Siamo in presenza di un salto qualitativo della finanziarizzazione nel campo della riproduzione, che sembra potenziare l’appropriazione della soggettività da parte del capitale, o meglio di ciò che per Romano Alquati rappresenta la “capacità lavorativa umana vivente”.
Mentre il lavoro produttivo è scambiato con un salario sempre più basso, il valore economico del lavoro riproduttivo – sia esso salariato o meno – continua in larga misura a non essere quantificato, nonostante il suo contributo sia essenziale tanto per l’accumulazione di capitale che per la riproduzione quotidiana della forza-lavoro.
Contro le conquiste delle lotte operaie e dei movimenti femministi, capaci di imporre al capitale collettivo lo sviluppo di servizi riproduttivi pubblici gratuiti, la logica finanziaria sta imponendo la mercificazione integrale della cura, attraverso la drastica riduzione della spesa pubblica, i tagli ai servizi socio-assistenziali e la privatizzazione dei beni comuni.
È quanto avviene (in modo paradigmatico negli USA, e con minore intensità in Europa) a tutti i livelli e in tutte le tappe biologiche della vita sociale, dall’istruzione alla salute, dall’assistenza alla disabilità alla gestione della sessualità, dalla cura dell’infanzia a quella dell’invecchiamento. Nel capitalismo contemporaneo la cura è sottoposta a una crisi permanente, che si approfondisce tanto più si espande la logica della finanziarizzazione.
In prospettiva storico-politica, due eventi – la crisi sistemica del 2008 e la pandemia –, segnalano una situazione di crisi strutturale di questo regime di accumulazione, da cui l’egemonia delle oligarchie finanziarie e digitali è tuttavia uscita rafforzata.
Da un lato, la governance europea affermatasi negli anni ‘10 ha contribuito a espandere gli interessi dei blocchi di potere espressioni del capitale finanziario, del digitale e della rendita, anche attraverso la cessione di quote crescenti di democrazia e sovranità popolare a organismi sovranazionali. Dall’altro, è proseguito il processo di spostamento della ricchezza dal lavoro alla rendita e si è ampliata l’area del lavoro povero e precario.
La grande rapina rappresenta l’esito e il punto di caduta di quarant’anni di contro-rivoluzione neoliberista, che all’interno dello spazio europeo ha assunto, nei Paesi periferici incluso l’Italia, il volto feroce dell’austerità fiscale, monetaria e industriale.
Un’altra componente chiave dell’articolazione contemporanea del potere, la zona grigia del capitale – costituita dagli enormi flussi di ricchezza detenuti nei paradisi fiscali e dalle pratiche di evasione ed elusione fiscale – ha continuato ad allargarsi senza limiti e ostacoli. Si tratta di mercati, prodotti e strumenti finanziari che, anche grazie a politiche fiscali di tipo regressivo e a misure ad hoc per favorire le multinazionali e la rendita, formano un’immensa massa di capitali non tassati o soggetti ad aliquote ridottissime rispetto a ricavi e fatturati.
Dentro le profonde trasformazioni operate dal capitalismo finanziario e digitale, i grandi operatori finanziari si sono affermati come intermediari universali del capitale, rafforzando in maniera decisiva il processo di centralizzazione e di concentrazione dei capitali. Negli ultimi anni, secondo le stime di Alessandro Volpi, i primi dieci fondi sono arrivati a gestire 44.000 mld di dollari (pari a circa un quinto del PIL mondiale) e a detenere una quota compresa fra il 30 e il 40% delle prime 500 società mondiali.
Le solide conferme empiriche alla legge di tendenza di centralizzazione dei capitali di Marx, raccolte su scala globale e nazionale dal gruppo di ricerca coordinato da Emiliano Brancaccio, pongono sfide e interrogativi cruciali. Questa dinamica, infatti, è una delle ragioni principali della politica di disallineamento strategico, del neoprotezionismo e dell’uso di strumenti non convenzionali di guerra commerciale e finanziaria promossi dagli USA contro i Paesi considerati ostili.
Il tentativo degli USA è teso a rallentare la crisi della loro posizione egemonica, bloccando le acquisizioni estere – in particolare cinesi – di imprese statunitensi, rese possibili proprio dalla espansione su scala globale della centralizzazione del capitale.
II – L’altro grande tema che caratterizza la metamorfosi del capitale è l’uso capitalistico della tecnologia digitale, e l’emergere di un regime di accumulazione fondato sulla privatizzazione e sulla mercificazione dei Big data.
La variante digitale della finanziarizzazione indica il nuovo regime di accumulazione dei grandi oligopoli del capitalismo digitale occidentale, la cui genesi è data dall’«accumulazione originaria» realizzata da Big Tech sui dati prodotti dagli utenti.
La digitalizzazione e l’automazione contribuiscono in modo decisivo a ridisegnare la divisione internazionale del lavoro, esternalizzando su scala globale una vasta gamma di prestazioni. Ne consegue, come effetti principali, l’aumento della concorrenza fra lavoratori digitali, il livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro e delle renumerazioni.
Per mezzo dell’applicazione dell’IA e degli algoritmi nei processi lavorativi e nell’organizzazione del ciclo produttivo, si produce un aumento dei ritmi e dell’intensità del lavoro vivo. Al tempo stesso, l’innovazione è usata dalle piattaforme digitali per aumentare all’estremo la precarizzazione della forza-lavoro.
Più in generale, l’uso capitalistico della tecnologia digitale determina una metamorfosi del rapporto di lavoro e delle forme di sfruttamento. Infatti, la digitalizzazione del lavoro provoca la trasformazione della natura della prestazione lavorativa, che viene parcellizzata in tante micro-operazioni sottopagate, e accentua la invisibilizzazione del lavoro stesso, sempre più concepito dalle piattaforme come mera appendice dell’IA. Gli obiettivi strategici perseguiti dalle piattaforme digitali sono la disintermediazione della prestazione lavorativa e la negazione della natura salariale del rapporto di lavoro.
Come è avvenuto in tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, il capitale collettivo si avvale dell’innovazione per ridurre la quota di lavoro pagato, ma lo realizza in maniera più radicale e distruttiva. Più delle grandi innovazioni tecnologiche del passato, l’applicazione del digitale, della robotica e dell’IA rischia di determinare una generale svalorizzazione del lavoro.
La tendenza dominante che si è affermata nell’uso capitalistico della tecnologia digitale può essere così descritta: lungi dal favorire autonomia lavorativa e forme intelligenti di cooperazione, le tecnologie digitali producono in generale un’estensione della quantità di lavoro sociale necessario e una parcellizzazione delle fasi lavorative. L’uso capitalistico delle tecnologie digitali, invece di risolversi in un aumento del tempo libero e della ricchezza sociale a disposizione di tutti e tutte, si rovescia per lo più sotto la forma di lavoro cognitivo povero, ripetitivo e alienato.
III – La svalorizzazione del lavoro va colta a partire dal legame fra i processi di accumulazione del capitale di tipo finanziario e digitale con l’impoverimento e la precarizzazione della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Le logiche del capitalismo finanziario e digitale hanno riconfigurato in profondità e con violenza, materiale e simbolica, i rapporti di forza fra classi nel sistema-mondo, contribuendo in maniera decisiva alla riduzione delle tutele contrattuali, all’aumento del grado di sfruttamento lavorativo e alla diminuzione della quota salari.
Il contesto di riferimento scelto per analizzare queste tendenze è quello italiano, caso paradigmatico anche per la rapidità e l’estensione con la quale si è realizzato il processo di trasferimento della ricchezza. L’impoverimento della classe lavoratrice in Italia, senza eguali fra i paesi OCSE, è comprovato da una serie di indagini e rilevazioni statistiche ed è databile dai primi anni ‘90.
Oltre all’aumento della precarizzazione, sulle condizioni salariali e sulle tutele della classe lavoratrice hanno influito in negativo numerosi fattori. Fra queste, spiccano l’offensiva anti-sindacale e la crisi del sistema di contrattazione.
Dai ritardi strutturali dei rinnovi contrattuali nazionali alla mancata applicazione dei minimi salariali, dall’aumento dei contratti pirata e concorrenti alla crescente incidenza di contratti nazionali leader in cui i minimi tabellari sono inferiori alla soglia di povertà, sono diverse le criticità e i limiti con cui si confronta l’azione sindacale.
Queste difficoltà vanno contestualizzate dentro il trentennale declino produttivo italiano, con l’affermazione di un paradigma economico sempre più spostato verso la rendita e i servizi alle imprese.
Nel suo insieme, dopo la crisi sistemica del 2008, il capitalismo italiano si è sempre più collocato nella cosiddetta via bassa dello sviluppo capitalistico. Nel sistema di imprese e di distretti industriali e manifatturieri ha prevalso una competizione al ribasso sui mercati, basata sulla compressione del costo del lavoro e sull’estrazione di plusvalore assoluto, più che sull’innovazione dei processi e dei prodotti.
Lato lavoro, fra le peculiarità che caratterizzano la condizione della classe lavoratrice in Italia, rientrano da una parte l’ampia quota di forza-lavoro occupata nell’economia sommersa e criminale, dall’altra la diffusione di forme di grave sfruttamento lavorativo e di caporalato.
Dal confronto fra dinamica salariale e redditività del capitale, l’elemento di fondo che emerge – ancor di più dopo la pandemia e l’inflazione da profitti del 2021-2022 – è un differenziale molto ampio, tale da legittimarne la definizione nei termini di una vera e propria rapina di classe.
IV – L’impoverimento e la precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita provocate dal capitalismo finanziario e digitale impongono un cambio di paradigma, una vera e propria transizione sistemica.
Transizione sistemica che in Occidente assuma come obiettivi di fondo la proprietà e l’uso comune dei mezzi di produzione e riproduzione, una distribuzione egualitaria della ricchezza sociale, differenti finalità cui ispirare le attività produttive e riproduttive, la cura di sé, degli altri e della natura, una nuova ripartizione dei tempi di vita e di lavoro.
Una transizione sistemica immaginabile a partire dalla centralità della pianificazione, intesa come strumento di politica economica in grado di controllare il mercato ed esprimere al massimo grado la supervisione politica e pubblica sui fattori di produzione e riproduzione.
Attorno alla pianificazione, si delineano quattro temi: redistribuzione della ricchezza e del tempo di lavoro, proprietà e uso collettivo dei Big data, reddito di base, socializzazione del lavoro riproduttivo.
Per contrastare la svalorizzazione del lavoro e l’impoverimento della classe lavoratrice, è urgente sviluppare pratiche e campagne che assumano come centrale la questione salariale. Le proposte potrebbero orientarsi su tre assi rivendicativi: introduzione di meccanismi analoghi alla scala mobile, riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, salario minimo legale.
Tuttavia, poiché tipologie essenziali del lavoro contemporaneo sfuggono alla forma salariale e a una regolazione contrattuale standard, è necessario prevedere anche strumenti di altro tipo, a partire dalla rivendicazione di un reddito individuale sganciato dall’attività lavorativa. Solo nella misura in cui sia l’esito di un processo di convergenza di diversi fronti di lotta, il reddito di base può però davvero sostenere un modello alternativo di distribuzione della ricchezza sociale.
Parte del finanziamento per un reddito di base incondizionato potrebbe essere prelevato da due fonti: una incisiva tassazione sui profitti di Big Tech e/o una tassazione di tipo progressivo sul valore dei Big data, e un altrettanto radicale contenimento del capitale offshore.
Reddito di base da intendersi, sulla base delle rivendicazioni e delle pratiche dei movimenti femministi, come reddito di autodeterminazione per il lavoro riproduttivo, come riconoscimento del valore economico delle attività che generano, assistono e sostengono la vita, che ricostituiscono la forza-lavoro su base quotidiana.
Infine, lo smantellamento del Welfare state segnala un limite immanente di tipo sistemico. Come suggerisce una consistente letteratura femminista – a partire dai contributi pionieristici di Silvia Federici e Mariarosa Della Costa –, la crisi della cura deriva dalla tendenza del capitale a disporre di quanto più lavoro riproduttivo gratuito possibile, senza però garantire le condizioni per rigenerarlo, per renderlo sostenibile né da un punto di vista del reddito che di senso.
Ecco perché è urgente sviluppare un diverso paradigma della cura, che non rappresenti però il ritorno al Welfare state novecentesco fondato sulla divisione sessuata del lavoro. In questo senso, occorre sviluppare alleanze, legami e convergenze fra esperienze mutualistiche, pratiche cooperative e politiche pubbliche di cura.
La pianificazione potrebbe aprire spazi e fornire opportunità materiali per ripensare la dimensione qualitativa del tempo di vita, rendendo concretamente fattibile una riorganizzazione della vita quotidiana al servizio dei bisogni e degli interessi non solo dei produttori e delle produttrici, ma anche dei fruitori dei servizi e di chi svolge attività riproduttive.
Contro e oltre il dominio del capitale, solo una prospettiva di pianificazione, guidata da una nuova intelligenza collettiva, può porre le condizioni necessarie per affermare il libero sviluppo dell’individuo sociale e far crescere un nuovo tempo della cura.
*( Autore: Andrea Cagioni, laureato in sociologia, si occupa di ricerca sociale. Ha maturato una vasta esperienza in ambito cooperativo e sindacale, dedicandosi a progetti e indagini sul campo riguardanti lo sfruttamento lavorativo e sessuale, l’immigrazione, il digitale, il lavoro. Negli ultimi anni, ha approfondito la ricerca teorica ed empirica sui processi di trasformazione del capitalismo e delle condizioni lavorative.)
06 – Marina Catucci*: DALL’OHIO ALLA CALIFORNIA, SI ORGANIZZA LA “RESISTENZA” ALLA DEPORTAZIONE DI MASSA STATI UNITI FAMIGLIE CHE SONO IN USA DA PIÙ DI DIECI ANNI RISCHIANO DI ESSERE SEPARATE. SI LAVORA ALLE STRATEGIE LEGALI, E LE CHIESE APRONO LE LORO PORTE.
Negli Stati uniti gli immigrati che sono nel Paese senza documenti in regola si stanno preparando per fare fronte alle minacce di deportazione di massa di Donald Trump.
IL PERICOLO NON RIGUARDA SOLO CHI VIVE VICINO AL CONFINE MERIDIONALE, E UNA DELLE CITTÀ PIÙ ATTIVE IN QUESTO SENSO È PAINESVILLE, IN OHIO, STATO MOLTO PIÙ VICINO AL CANADA CHE AL MESSICO MA IN CUI RISIEDONO CIRCA 130.000 IMMIGRATI CHE SI STANNO MOBILITANDO.
Durante il primo mandato di Trump, le sue politiche sull’immigrazione avevano portato alla separazione di migliaia di bambini dalle loro famiglie, e molti migranti temono che questo possa ripetersi. Durante tutta la campagna elettorale il tycoon ha affermato di voler espellere da 15 a 20 milioni di persone, da quando è stato eletto ha modificato un po’ il tiro, e recentemente ha posto maggiore enfasi sull’espulsione dei criminali piuttosto che sull’esecuzione di un esodo forzato di massa.
Nonostante questo piccolo “ammorbidimento” delle sue posizioni nessuno fra i migranti ha dimenticato le dichiarazioni roboanti di Trump sulla costruzione di campi di detenzione e l’utilizzo dell’esercito per eseguire le espulsioni. Tom Homan, il cosiddetto “zar della frontiera” entrante, ha affermato che è impossibile fornire il numero esatto di espulsioni, perché dipenderà dalla quantità di risorse disponibili.
A Painesville, come in tutto il Paese, risiedono migliaia di immigrati che sono lì da più di 10 anni, molti hanno famiglie a status misto, con bambini legali perché nati negli Stati uniti, con cittadini naturalizzati o immigrati legalmente, ed altri componenti che non hanno nessuno status legale. Applicando quanto promesso da Trump, metà famiglia dovrebbe essere espulsa e metà restare in Usa, poco importa se il più delle volte ad essere legali sono i figli minorenni che si ritroverebbero da soli.
Per questo i residenti che per la legge Usa sono “illegali” si stanno rivolgendo agli avvocati per l’immigrazione, partecipano a riunioni informative organizzate da associazioni no profit, e cercano di prendere tutte le misure possibili per proteggersi.
Il Washington Post ha pubblicato un reportage raccogliendo le testimonianze di chi a Painesville sta cercando di mettere se stesso e la propria famiglia in sicurezza, e di chi sta aiutando questa comunità a fare fronte a un pericolo che da teorico sta per diventare molto reale e molto pratico.
Gli avvocati di questa cittadina dell’Ohio si sono definiti “inondati” dalle telefonate di clienti nel panico che chiedono di comprendere concretamente i rischi a cui vanno incontro. Il reportage raccoglie una sfilza di testimonianze di famiglie e cittadini modello, che pagano le tasse, hanno un lavoro, una casa, figli a scuola, hanno tutto ma non i documenti in regola. La logica vorrebbe che la mossa da fare sia quella di regolarizzarli, ma ciò che si prefigura è l’opposto. Molti dei cittadini statunitensi di Painesville hanno legami diretti con i concittadini “irregolari”, perché sono i genitori degli amici dei figli, vicini di casa, baby sitter, e si stanno offrendo volontari per aiutarli attraverso le associazioni che si occupano di diritti dei migranti, anche se aiutarli vuol dire nasconderli a casa propria.
Ma non è solo l’Ohio a prepararsi alle nuove politiche sull’immigrazione: la stessa cosa sta accadendo un po’ ovunque, come in California e in Florida, due stati che più che diversi si può dire siano all’opposto. In tutto il Paese, i sostenitori dei diritti degli immigrati stanno lavorando ininterrottamente alla risposta a un giro di vite che potrebbe essere diverso da qualsiasi cosa la nazione abbia visto negli ultimi decenni.
Per evitare di essere espulsi, alcuni migranti stanno cercando rifugio nelle chiese, dove gli agenti federali dell’immigrazione non entrano quasi mai per motivi di politica estera, e per questo molti preti stanno autonomamente decidendo di aprire le proprie porte agli immigrati.
*(Marina Cantucci – Giornalista e documentarista, corrispondente dagli Usa per Il Manifesto. Ha girato 11 documentari e scritto un’infinità di articoli. Racconta NY, gli Usa e quello che vede.)
07 – Andrea Del Monaco*: LANDINI CONTRO LE DUE DESTRE DESCRITTE DA REVELLI. LA RIVOLTA SOCIALE INVOCATA DA MAURIZIO LANDINI È CONTRO LE DUE DESTRE DESCRITTE DA MARCO REVELLI.
QUELLE DUE DESTRE CI HANNO CONDOTTO ALLA SITUAZIONE ATTUALE. LO HA SINTETIZZATO BENE MELENCHON: “QUESTA PROPAGANDA SECONDO CUI LA SINISTRA DEVE SCENDERE A PATTI CON LA DESTRA È PERICOLOSA. IL RISULTATO LO CONOSCIAMO TUTTI: MELONI.
Noi rifiutiamo di tradire i nostri elettori in cambio di poltrone.”1. Occorrerebbe definire Destra chi vara politiche di Destra. Il segretario della CGIL2 ha giustamente osservato come “Non si è liberi quando c’è la guerra, quando si è precari, se non arrivi a fine mese, se non sei in grado di curarti o se addirittura muori sul lavoro. Quindi lo sciopero, la rivolta sociale e la lotta per la pace sono la stessa cosa”. Landini ha aggiunto: “… se non ti rivolti di fronte alle ingiustizie, che persona sei? Che vita fai?”. Marco Revelli, intervistato sulle parole di Landini su La Stampa3, ricorda come “la rivolta, oggi, e non solo oggi, sia un gesto salvifico. Una società priva di segnali di rivolta è bloccata, morente…Se non ci fosse quel vento di rivolta ciò vorrebbe dire che la nostra società è non solo sorda, ma morta”. Citando Albert Camus, nel mondo dell’assurdo, l’unica possibilità di restare vivi è rivoltarsi. La rivolta ha l’effetto di generare solidarietà. La rivolta “è tutta nel presente dove dall’io si diventa noi, un gesto istintivo che implica al più una forma di contagio: mi rivolto dunque siamo.”. L’Italia non è la Francia: perchè contro la riforma Fornero o il Jobs Act nessun io è diventato noi? Perché Giorgia Meloni vince le elezioni nel 2022 e nel 2024? Perché un italiano su due non vota?
Perché dal 1996, come scrisse Marco Revelli nel saggio “Le due destre”4, non si confrontano una destra e una sinistra. Al contrario si confrontano due destre: una destra populista e plebiscitaria, ‘fascistoide’ (l’allora centrodestra di Berlusconi) e una destra tecnocratica ed elitaria, liberale (allora l’Ulivo di Prodi). Lo ha ricordato lo stesso Marco Revelli in un convegno al CNR5 il 26 gennaio 2024. Le due destre, pur confliggenti apparentemente, hanno governato la dissoluzione del compromesso socialdemocratico che aveva contrassegnato la prima repubblica. Le due destre, al di là dei differenti toni, negli ultimi trent’anni hanno perseguito eguali obiettivi: la svalorizzazione del lavoro, l’autonomia differenziata, la fine dell’intervento pubblico e la privatizzazione dei servizi pubblici, in primis la sanità. E così, quanto più lo stato sociale è stato smantellato, tanto più i non garantiti si sono astenuti poiché non sono stati tutelati da nessuno. Entrambe le due destre non vogliono cambiare le condizioni materiali dei seguenti soggetti sociali: i lavoratori poveri, i pensionati minimi, i lavoratori in nero, i disoccupati, coloro che non hanno 400 Euro per pagare una colonscopia in intramoenia in un ospedale pubblico, i meridionali che emigrano o devono curarsi al Nord. Per i non garantiti è indifferente chi governi: quindi si astengono oppure, se votano, votano Meloni. Analogamente, in USA, come ricorda Bernie Sanders6, gli operai hanno abbandonato i democrats perché il PD americano ha abbandonato gli operai. Ma quando inizia tutto ciò? In Italia (e nella CEE) il compromesso socialdemocratico vede le prime incrinature quando muta la cornice economica con l’istituzione dello SME e la separazione Banca d’Italia-Tesoro che sottrae allo Stato italiano il controllo del debito pubblico lasciandolo al Mercato. Il lavoro subisce in un decennio solo sconfitte: il 1980 alla FIAT, il referendum sul taglio di 3 punti di contingenza della scala mobile nel 1985, l’abrogazione della scala mobile con l’accordo del 31 luglio 1992, il protocollo sulla concertazione del 23 luglio 1993. Con il crollo dell’URSS finisce il fattore k: le élites liberali europee abbandonano politiche sostanzialmente socialdemocratiche prima imposte dalla Guerra fredda. E non casualmente nel 1992 il Trattato di Maastricht fissa i parametri del 3% per il deficit e del 60% per il debito; è la vittoria di Von Hajek: il suo ordo liberismo informa i Trattati Europei, sottomette lo Stato al Mercato e il Lavoro al Capitale. Come ricorda Clara Mattei7 inizia una fase di austerità fiscale, monetaria e industriale che impedisce l’attuazione della Costituzione. Lo Stato privatizza, precarizza il mercato del lavoro e indebolisce i sindacati. La destra liberale guidata da PDS-DS-PD ha promosso la precarietà con misure diverse dal pacchetto Treu al Jobs Act. E così la destra populista, quando è arrivata al Governo nel 2001, nel 2008 e nel 2022, ha trovato i lavoratori sempre più indeboliti. Il Governo Amato ha inserito in Costituzione l’autonomia con la “riforma” costituzionale del 2001. E oggi Calderoli può aggravare il divario Nord-Sud con l’autonomia differenziata in nome della Costituzione deformata. Il decreto 56/2000 definanzia la spesa sanitaria delle regioni povere (per Piero Giarda la più grande manovra anti-poveri compiuta da un Governo di centrosinistra). E le regioni ricche del Nord beneficiano del turismo sanitario dal Sud. Chi da sinistra ha criticato la destra liberale e tecnocratica ha alternato deficit cognitivo e primitivismo politico: gli intellettuali organici del socialismo sono scomparsi o sono diventati organici al liberismo. Servirebbe la lotta sociale più della rivolta come giustamente ricorda Giuliano Garavini8. E servirebbe una Sinistra capace di battere le due Destre.
*( Andrea Del Monaco è un esperto di Fondi Europei. Scrive sulla Gazzetta del Mezzogiorno e su Huffington Post.)
08 – Dante BARONTINI “TERRORISTA” È SEMPRE E SOLO “IL NEMICO”. DA “TERRORISTA” SUPER-RICERCATO AD ALLEATO FEDELE O LEADER CON CUI COMUNQUE DISCUTERE… È UN ATTIMO.
La lista, nella storia, è praticamente infinita. Ma ogni volta riesce a sorprendere la massa altrettanto sterminata di servi o semplici cretini che per anni hanno bevuto fideisticamente la favoletta sui “mostri” indicati dal padrone politico (nel nostro caso il governo degli Stati Uniti, seguito da tutti gli “alleati” scodinzolanti).
Vale per gli “opinionisti” e i semplici cronisti, costretti ad aggiornare nell’arco di 24 ore sia i nomi delle organizzazioni che quello dei singoli “mostri”. Vale a maggior ragione per i telespettatori passivi che fanno da vasca di raccolta del liquame mediatico trasmesso dagli schermi e dai giornali.
“Al Joulani” – al secolo Ahmed al-Shareh – e la sua Hay’at Tahrir al Sham stanno ricevendo il trattamento di “demo-washing” più rapido che si ricordi. La filiale di Al Qaeda per la Siria era già stata ribattezzata “i ribelli” al tempo della prima conquista di Aleppo, nel 2011, ma gli schedari e le definizioni erano rimasti molto più prudenti. In fondo, come facevi a fidarti di chi aveva buttato giù le Torri Gemelle facendo 3.000 morti?
Ma il tempo e il nemico cambiano spesso. Così il fatto di combattere Assad, e poi abbattere il suo regime, ha pian piano “sbiancato” e “angelicato” l’immagine di questo signore della guerra.
Gli Stati Uniti erano rimasti comunque sul chi vive (Al Julani si era distinto anche in Iraq, finendo per cinque anni in prigioni Usa), lasciando sempre ben visibile il “wanted” nei suoi confronti, e soprattutto la taglia da 10 milioni di dollari sulla sua testa.
CHE È ANCORA VALIDA, IN QUESTI GIORNI.
Poi, certo, ai piani alti stanno cercando di rimediare… L’emittente “Nbc News”, rende noto infatti che sono in corso discussioni nell’amministrazione Biden per “creare un percorso che possa consentire al mondo di interagire con il nuovo governo” in Siria. Insomma per rimuovere velocemente il suo nome e quello di Hts dalla “lista nera”.
Niente di nuovo, si diceva. Era accaduto anche con Menachem Begin, leader dell’Irgun (organizzazione terroristica sionista), mente e braccio dell’attentato che distrusse l’ambasciata britannica a Roma (1946), nonché il King David Hotel di Gerusalemme (90 morti, nel 1946).
Era accaduto anche con personaggi decisamente migliori, come Nelson Mandela e Yasser Arafat, Pepe Mujica (ex dirigente dei Tupamaros poi presidente dell’Uruguay) e Dilma Roussef (ex guerrigliera poi presidente del Brasile), Patrick McGuinness (capo militare dell’Ira e poi parlamentare irlandese protagonista della trattativa con la Gran Bretagna insieme al “capo politico”, Gerry Adams).
QUINDI QUALE LEZIONE DOBBIAMO OBBLIGATORIAMENTE TRARRE DA QUESTE E ALTRE CENTINAIA DI RISCRITTURE DELL’IDENTITÀ POLITICA?
Intanto che il termine “terrorismo” non ha alcun significato condiviso. Ogni combattente, di una qualsiasi causa, è “terrorista” per qualcuno e un “santo liberatore” per qualcun altro. Detto in termini generali: “terrorista” è sempre e solo “il nemico”. E’ un sinonimo, non una definizione…
E lo resta finché non vince. Allora diventa un soggetto con cui bisogna fare necessariamente i conti e passa perciò dalla lista dei “terroristi” a quella degli “statisti”.
Se perde, invece, resta per sempre nella lista nera e viene inseguito in giro per il mondo anche a distanza di 50 anni…
Come diceva Franklyn Delano Roosevelt di Anastasio Somoza (dittatore del Nicaragua, poi rovesciato dai Sandinisti): “E’ un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Dunque va bene se ci serve e fin quando ci serve, poi si vede e casomai se ne trova un altro…
E’ il principio della realpolitik, non c’è da meravigliarsi. In politica e in guerra la morale entra soltanto nella formazione delle ragioni per cui si combatte. Combattere per sterminare un popolo è genocidio, combattere per liberarsi da un occupante o dagli sfruttatori è sacrosanto e rivoluzionario, comunque positivo.
Ma in entrambi i casi si combatte. Le distinzioni si fanno allora sui metodi e sugli obiettivi. E la casistica su cosa è vietato fare anche in guerra è diventata la base su cui provare a creare un diritto internazionale credibile. Ossia non disegnato sugli interessi mutevoli della potenza temporaneamente egemone sul mondo.
Il resto, sembra chiaro, è solo retorica ipocrita e parecchio infame. Semplice giustificazione delle scelte fatte per interessi inconfessabili, ma di solare evidenza.
Al Julani e gli ex Al Qaeda tornano come i freedom fighters esaltati nella serie Rambo poi perseguiti e combattuti in tutto il mondo dopo l’11 settembre, ma che oggi possono di nuovo tornare utili agli interessi occidentali.
Basta ricordarsene, quando si legge un giornale o si ascolta la tv…
*(Fonte: Contropiano. Dante Barontini. Editorialista del periodico digital italiano Contropiano Remeron en línea)
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