01 – Sen. Francesca La Marca La Sen. La Marca partecipa al Gala Heritage Calabria a Vaughan
02 – Sen. Francesca La Marca*: DDL La Marca sul Riacquisto della cittadinanza: grave la non cooperazione del MAIE.
03 – Claudia Fanti*: Cpac Buenos Aires, la parata autoritaria da Lara Trump a Milei.
Argentina I fedelissimi del presidente eletto Usa, il leader di Vox, l’estrema destra latinoamericana e il figlio di Bolsonaro, pronto a candidarsi
04 Guido Caldiron *: – Studs Terkel, voci dal cuore del lavoro per rinnovare la democrazia americana – Indagini Per Marietti1820, «Working» (1974) oltre cento intervistati raccontano il proprio lavoro, ma, per questa via, parlano di sé stessi, dei propri sogni, frustrazioni e sconfitte. Introduzione di Francesca Coin, premessa di Adam Cohen
05 – Federica Iezzi*: SOPPRAVIVERE AL GENOCIDIO A GAZA CITY. Reportage Bombe, carestia, distruzione totale e non solo materiale della società. La morte è ovunque nel nord della Striscia. «Siamo pieni di tutto quello che manca». Non è rimasto più nulla, questa è la vera guerra. E si muore all’improvviso. Anche di sfinimento. Di paura. Con i cuori spezzati. Dalle macerie di un palazzo appena colpito viene estratta una bambina di nove o dieci anni, coperta di polvere. Chiede in arabo: «Mi state portando al cimitero?»
06 – Sabato Angieri*: Il glaciale Lavrov agita le acque del vertice Osce a Malta. In molti lasciano la sala mentre parla il ministero degli esteri russo.
07 – Andrea Sceresini *: STANCHI DI GUERRA, DISERZIONI IN MASSA SU ENTRAMBI I FRONTI. Boom di defezioni tra i soldati russi e ucraini. E c’è chi punta le armi contro i suoi capi.
08 – Martino Mazzonis*: Mario Del Pero, le radici del trumpismo nella crisi del 2008 – Intervista Parla lo storico e docente. “C’è un discorso che fa presa nell’Occidente bianco e fa leva sulle paure e la richiesta di protezione, sulla delegittimazione di élite e istituzioni. Attraversa tutte le società dove il ceto medio è stato colpito dai processi di integrazione globale. Ci sono matrici e paure comuni. Ne consegue una richiesta di tutela, protezione, isolamento e chiusura che rifiuta l’integrazione di mezzo secolo”
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01 – Sen. Francesca La Marca*: PARTECIPA AL GALA HERITAGE CALABRIA A VAUGHAN
LO SCORSO FINE SETTIMANA, LA SEN. LA MARCA HA PARTECIPATO AL GALA ORGANIZZATO DA HERITAGE CALABRIA, UN EVENTO CHE HA RACCOLTO OLTRE 500 INVITATI A VAUGHAN, NEL SUD DELL’ONTARIO. L’INIZIATIVA, ORGANIZZATA DAL PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE, LUCIANO SCHIPANO, INSIEME AL COMITATO ESECUTIVO, HA RAPPRESENTATO UN’ULTERIORE OCCASIONE PER CELEBRARE E TRAMANDARE LE TRADIZIONI, LA CULTURA E I VALORI CALABRESI IN CANADA.
La serata è stata arricchita da un’asta benefica di opere dell’artista calabro-canadese Anthony Pullano, il cui ricavato è stato devoluto a sostegno delle attività dell’associazione. Nel corso della serata, sono stati conferiti riconoscimenti a esponenti di spicco della comunità calabrese in Ontario che si sono distinti in campo artistico, culturale e imprenditoriale. Numerose le associazioni e le realtà italiane presenti che hanno sottolineato l’importanza di momenti di condivisione come questi, fondamentali per preservare il patrimonio culturale delle comunità di origine italiana all’estero.
Nel suo saluto, la Sen. La Marca ha ricordato come questa iniziativa si inserisca nel quadro delle celebrazioni per l’Anno del Turismo delle Radici, promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e abbia il merito di rafforzare i legami tra le nuove generazioni di italo-discendenti e i territori di origine delle loro famiglie: “La Calabria è una terra di straordinaria bellezza, troppo spesso dimenticata, intrisa di storia e tradizioni, con una cultura che merita di essere conosciuta e valorizzata a livello internazionale,” ha dichiarato la Senatrice nel suo saluto. “Ringrazio il Presidente Schipano e tutta l’associazione per il loro instancabile impegno nella salvaguardia dell’arte, della cultura e delle tradizioni calabresi. Eventi come questo non solo celebrano il patrimonio culturale ma creano un ponte prezioso tra passato e futuro, unendo i calabresi all’estero alle loro radici e consolidando un’identità che travalica i confini.”
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)
02 – Sen. Francesca La Marca*: DDL LA MARCA SUL RIACQUISTO DELLA CITTADINANZA: GRAVE LA NON COOPERAZIONE DEL MAIE.
COME È STATO ANNUNCIATO TRAMITE VIDEO ORMAI QUALCHE SETTIMANA ADDIETRO (https://youtu.be/jjMDqd7MAp0?si=v8MFEhO29yA5uOuD ), la Sen. La Marca ha optato per raccogliere le firme dei Senatori in carica affinché il provvedimento venga calendarizzato dal Senato (https://www.senato.it/loc/link.asp?tipodoc=sddliter&leg=19&id=58450). Questo in seguito allo scarso interesse dimostrato dalla Maggioranza ad esaminare il testo nella Commissione Affari Costituzionali alla quale è stata assegnata.
“Nel raccogliere le firme dei colleghi Senatori come sostegno al DDL a mia prima firma sul Riacquisto della Cittadinanza, dispiace constatare che Fratelli d’Italia si sia rifiutata di sottoscriverlo per non mettere in imbarazzo il presidente della commissione Affari Costituzionali. Ecco il perché della mancata sottoscrizione del collega Senatore Roberto Menia, Segretario Generale del Comitato Tricolore con la delega per gli italiani nel mondo.
“Tutto ciò – ha perseguito la La Marca – rientra nelle dinamiche di Palazzo ed era prevedibile, seppur deludente. Meno prevedibile è stata l’opposizione del Movimento 5 Stelle, tranne alcuni esponenti, poiché profondamente contrari al riacquisto della cittadinanza da parte degli emigrati.”
“Quello che invece dispiace ancor di più e che non avevo previsto – ha continuato la Senatrice – è che il MAIE, nella persona del Senatore eletto nella Ripartizione Sud America, Mario Borghese, si sia rifiutato di aderire. È davvero deludente constatare che un Movimento fondato apparentemente per tutelare i diritti degli italiani nel mondo scelga di non sostenere un provvedimento che riguarda tanti italiani residenti soprattutto nei Paesi anglosassoni e che va a sanare una grave ingiustizia. Dispiace constatare che il MAIE preferisce occuparsi di mantenere lo ius sanguinis senza limitazioni piuttosto che riaprire i termini per il riacquisto della cittadinanza italiana per chi è nato e cresciuto in Italia perché questo non porta voti in Sud America”.
“D’altro canto, fa piacere segnalare che il gruppo del PD abbia firmato in modo compatto e che abbiano aderito anche molti esponenti di Alleanza Verde e Sinistra, Italia Viva e Azione.”
La Senatrice ha infine lanciato un appello alla responsabilità collettiva delle istituzioni – “Ora più che mai, soprattutto alla luce della riforma costituzionale e della conseguente riduzione del numero dei parlamentari, è necessario unire le forze per tutelare gli italiani all’estero, sempre e comunque, ovunque essi risiedano, e a prescindere dal colore politico. Io andrò avanti decisa nel raccogliere le firme necessarie per portare in Aula un provvedimento al quale credo e che sta a cuore di tante famiglie italiane nel mondo”.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)
03 – Claudia Fanti*: CPAC BUENOS AIRES, LA PARATA AUTORITARIA DA LARA TRUMP A MILEI.
ARGENTINA I FEDELISSIMI DEL PRESIDENTE ELETTO USA, IL LEADER DI VOX, L’ESTREMA DESTRA LATINOAMERICANA E IL FIGLIO DI BOLSONARO, PRONTO A CANDIDARSI
SI È SVOLTA NEL SEGNO DELLA «BATTAGLIA CULTURALE» LA CONFERENZA DI AZIONE POLITICA CONSERVATRICE (CPAC) DI BUENOS AIRES, LA PRIMA IN TERRA ARGENTINA. A FARE MERCOLEDÌ GLI ONORI DI CASA IN QUELLO CHE È IL PIÙ GRANDE RADUNO MONDIALE DELL’ESTREMA DESTRA È STATO NATURALMENTE LUI, IL PRESIDENTE MILEI, LA STAR INDISCUSSA – IN ASSENZA DI TRUMP – DELLE FORZE ULTRACONSERVATRICI GLOBALI.
E GLI OSPITI non sono certo mancati: se Steve Bannon ha mandato un video, dagli Usa sono venuti, tra gli altri, Lara Trump, la nuora del presidente eletto, copresidente del Rnc (Republican National Committee) e fra i nomi di punta del suo circolo familiare; Ron Paul, il padre del Tea Party, il movimento schierato sulle stesse posizioni di Milei; Ben Shapiro, l’opinionista noto per le sue posizioni ultraconservatrici («il governo Milei è l’esperimento più importante della storia moderna», ha dichiarato), l’influente dirigente repubblicana Kari Lake.
Ha mandato un video anche Jair Bolsonaro, che, se non è potuto venire di persona a causa dei suoi guai giudiziari, è stato però degnamente sostituito dal figlio Eduardo, molto corteggiato dai tanti ricchi giovani presenti in sala, tutti desiderosi di farsi un selfie con il figlio del cosiddetto “Mito” e, chissà, futuro candidato alla presidenza del Brasile. Perché, parlando alla Cpac, il terzogenito di Bolsonaro non ha nascosto le sue ambizioni: se il piano “A”, rappresentato dalla revoca dell’ineleggibilità del padre tramite legge di amnistia, dovesse fallire, lui sarebbe pronto a prenderne il posto.
SONO ACCORSI a Buenos Aires anche il proprietario del gruppo Tv Azteca Ricardo Salinas Pliego, tra gli imprenditori più influenti del Messico – con un patrimonio stimato da Forbes in oltre 10 miliardi di dollari -, il sindaco di Lima Rafael López Aliaga, il quale ha assicurato che, in Perù, Milei può contare su «milioni di simpatizzanti», soprattutto giovani; il leader del partito spagnolo Vox Santiago Abascal, sicuro di avere «la verità» dalla sua parte. Assenti gli italiani, i quali avranno comunque modo di applaudire Milei alla festa di Atreju a cui il presidente parteciperà su invito di Meloni. Ha mandato un messaggio anche la golpista venezuelana María Corina Machado, certa che il suo paese diventerà «un grande alleato delle democrazie», nonché «l’hub energetico delle Americhe».
PRESENTI anche diversi ministri del governo argentino, a cominciare da Luis Caputo, entusiasta per i dati dell’economia, che, ha detto, rispetto a quelli pre-Milei «sembrano di un altro paese», ma naturalmente muto sull’impatto che quei dati hanno avuto sulla società, spingendo sotto la soglia della povertà più della metà della popolazione.
A parlare per ultimo è stato ovviamente Milei, il quale, dopo l’ondata di insulti alla sinistra lanciati da tutti i precedenti relatori, ha presentato i 10 punti di una sorta di decalogo sulla gestione del potere contro «los zurdos de mierda», come è solito definire i suoi avversari. Ponendo però in particolare l’accento sulla «battaglia culturale» a cui è chiamata l’estrema destra, senza cui, ha detto, «non importa quanto possa essere buona la nostra amministrazione».
Ribadendo i principi non negoziabili del suo partito – la difesa incondizionata «della vita, della libertà e della proprietà privata» -, Milei ha chiarito che solo vincendo la battaglia culturale, senza mai arretrare di un centimetro, sarà possibile prendere il socialismo «a calci in culo», considerando che «la sinistra è la prova che le idee più terribili possono imporsi culturalmente con un buon marketing».
DA QUI L’IMPORTANZA di spazi come la Cpac per la difesa di quella «causa giusta e nobile» rappresentata dall’idea storica dell’Occidente, quella che, a suo giudizio, da Alessandro Magno, passando per l’impero romano, Carlo Magno, la «colonizzazione» dell’America, arriva fino al capitalismo con la sua difesa della proprietà privata, in attesa che la specie umana, libera dagli orrori della sinistra, si trasformi, grazie all’esplorazione dello spazio, in «una civiltà interplanetaria». E sono i «nuovi venti di libertà» che si respirano nel mondo con la vittoria di Trump che renderanno possibile, si è detto convinto Milei, la restaurazione di tale «linea storica».
*(Claudia Fanti: Giornalista, scrive da più di 20 anni sul settimanale Adista, collabora con “il manifesto” e con altre testate)
04 Guido Caldiron *: – STUDS TERKEL, VOCI DAL CUORE DEL LAVORO PER RINNOVARE LA DEMOCRAZIA AMERICANA – INDAGINI PER MARIETTI 1820, «WORKING» (1974) OLTRE CENTO INTERVISTATI RACCONTANO IL PROPRIO LAVORO, MA, PER QUESTA VIA, PARLANO DI SÉ STESSI, DEI PROPRI SOGNI, FRUSTRAZIONI E SCONFITTE. INTRODUZIONE DI FRANCESCA COIN, PREMESSA DI ADAM COHEN
Forse l’attenzione agli altri era legata alla sua passione per il jazz, e alla capacità di rompere gli schemi che è insita in una musica che induce ad ogni nota la sorpresa nell’ascoltatore. O era parte del retaggio famigliare che i genitori, ebrei di origine russa arrivati negli Stati Uniti alla fine dell’800 e che avrebbero gestito per decenni un’attività di affittacamere in una zona operaia di Chicago, avevano portato con sé traversando l’Atlantico.
Per l’autore ciascuno degli incontri con i protagonisti del suo libro, citati con nome e cognome e una breve scheda quanto al loro background, si traduceva in una sorta di piccolo ma insostituibile atto di democrazia: un gesto di restituzione a uomini e donne cui spesso era stato tolto quasi tutto
STA DI FATTO che del dare ascolto ai propri interlocutori, Studs Terkel avrebbe fatto qualcosa di più di una semplice professione. Al punto che la sua traiettoria, è scomparso nel 2008 a Chicago a 96 anni, non si intreccia soltanto con la storia orale del Paese, ma assume le sembianze di una delle voci, talvolta inascoltate ma non per questo meno significative d’America. Per più di quarant’anni, dal 1952 al 1997, conduttore e produttore di programmi radiofonici, dove, oltre all’amore per il jazz e il folk, era la parola degli ospiti ad emergere prepotentemente, Terkel si è fatto strumento per tutta la vita del racconto di sé che emergeva da una società spesso dimentica della propria Storia contraddittoria.
Vincitore del Pulitzer nel 1985 con un volume che attraverso centinaia di interviste riannodava il filo della memoria intorno alle vicende della Seconda guerra mondiale (The Good War), Terkel avrebbe raccontato allo stesso modo la stagione della Grande depressione, i quartieri popolari di Chicago, la questione «razziale» e il modo in cui i suoi concittadini vivevano l’esperienza del lavoro.
PROPRIO QUEST’ULTIMO LIBRO, WORKING, PUBBLICATO NEL 1974, È ORA PROPOSTO DA MARIETTI 1820 NELLA TRADUZIONE DI MICHELA SORGONI E GIORGIA VACCARI (PP. 376, EURO 25).
Il metodo scelto da Studs Terkel è sempre lo stesso, dare a voce ai protagonisti che in questo caso sono casalinghe, pompieri, cameriere, operai, insegnanti, sex workers, barbieri, poliziotti, magazzinieri: oltre cento interlocutori che raccontano il proprio lavoro, ma, per questa via, parlano prima di tutto di sé stessi, dei propri sogni, delle proprie speranze, frustrazioni e sconfitte. Si tratta per molti versi di «dispacci malinconici di un’epoca lontana», come nota Adam Cohen nella premessa, perché provenienti da un mondo nel quale i computer non avevano ancora fatto la loro invadente intrusione nel mondo del lavoro. Ma, al tempo stesso, come sottolinea Francesca Coin nella sua ricca introduzione, proprio l’approccio di Terkel che metteva l’accento sulla natura violenta del lavoro quanto sulla sua capacità di esprimere le aspirazioni degli individui, ne fanno un testo di straordinaria attualità in un’epoca, come la nostra, forse «a tal punto concentrata sulla sopravvivenza, da considerare le aspirazioni come una sorta di privilegio».
«CREDO CHE LA MAGGIOR PARTE DI NOI STIA CERCANDO UNA VOCAZIONE, NON UN LAVORO – SPIEGAVA NON A CASO A TERKEL NORA WATSON, REDATTRICE PER UN ENTE CHE PUBBLICAVA LETTERATURA MEDICA – LA MAGGIOR PARTE DI NOI, COME GLI OPERAI DELLA CATENA DI MONTAGGIO, HA UN LAVORO TROPPO PICCOLO PER IL PROPRIO SPIRITO. I LAVORI NON SONO ABBASTANZA GRANDI PER LE PERSONE»
PER UN UOMO CRESCIUTO durante il New Deal e che ancora negli anni Novanta rammentava a Barack Obama di ricordarsi dell’eredità di Roosevelt, ciascuno degli incontri con i protagonisti del suo libro, citati con nome e cognome e una breve scheda quanto al loro background, si traduceva in una sorta di piccolo ma insostituibile atto di democrazia: un gesto di restituzione a uomini e donne cui spesso era stato tolto quasi tutto. Il punto, in questo senso, non sembra riguardare tanto «l’identità» che il lavoro può concedere agli individui, quanto piuttosto ciò che loro stessi sentono di poter fare di tutto ciò. «Credo che la maggior parte di noi stia cercando una vocazione, non un lavoro – spiegava non a caso a Terkel Nora Watson, redattrice per un ente che pubblicava letteratura medica – La maggior parte di noi, come gli operai della catena di montaggio, ha un lavoro troppo piccolo per il proprio spirito. I lavori non sono abbastanza grandi per le persone».
«Working» sarà presentato domani nell’ambito di Più libri più liberi da Francesca Coin e Alessandro Portelli (ore 13, Sala Marte)
*(Fonte: Il Manifesto, Guido Caldiron: Giornalista, studia da molti anni le nuove destre e le sottoculture giovanili, temi a cui ha dedicato inchieste e saggi.)
05 – Federica Iezzi*: SOPPRAVIVERE AL GENOCIDIO A GAZA CITY. Reportage Bombe, carestia, distruzione totale e non solo materiale della società.
La morte è ovunque nel nord della Striscia. «Siamo pieni di tutto quello che manca». Non è rimasto più nulla, questa è la vera guerra. E si muore all’improvviso. Anche di sfinimento. Di paura. Con i cuori spezzati. Dalle macerie di un palazzo appena colpito viene estratta una bambina di nove o dieci anni, coperta di polvere.
Chiede in arabo: «Mi state portando al cimitero?»
Le immagini ripetitive, che appaiono sul cellulare come pugni nello stomaco, sono quelle di mappe con aree delineate da tossiche linee gialle e con icone, simboli e indicazioni relativi ad accessi o restrizioni. Significa che devi lasciare per l’ennesima volta quello che hai re-identificato e re-definito per decine di volte come casa. Che casa non è. Sono solo tende o rifugi temporanei da cui ci si sposta come atomi impazziti. La propria casa già non c’è più da tanto.
Mentre gli ordini di evacuazione da parte dell’esercito israeliano gettano migliaia di persone sulle strade, i carretti arrangiati con ferro, legno e ruote di macchine, trainati da asini, rappresentano uno dei pochi mezzi di fuga. Tutti stipati come sardine, per pochi spiccioli, ci si sposta da un posto all’altro, senza una vera meta. «Il mio asino è morto a Gaza City colpito da una scheggia – ci dice Abdel -. Oggi un asino è più prezioso dell’oro».
Affamati, stremati e costretti a spostarsi sotto i proiettili. Strade sfigurate ed edifici sventrati che rendono irriconoscibili interi villaggi. Questi i ripetuti massacri nel nord della Striscia di Gaza che non smettono di colpire i discendenti dei profughi della Nakba.
SCORRONO IMMAGINI di esseri umani che barcollano sotto shock, coperti dalla polvere di quelle che un tempo erano le loro case. E una cosa è chiara: le persone che pagano il prezzo della guerra sono i palestinesi.
A Gaza, dove non c’è distinzione tra un essere umano, un edificio o un albero, in mezzo a distruzione, massacri e completa miseria bisogna sempre rimettere in discussione tutto, bisogna sempre dubitare di tutte le cifre, dei morti, dei feriti, degli sfollati. «Non ci sono percorsi sicuri. Non ci possiamo muovere perché ci sono militari che sparano e droni che non si fermano mai», ci raccontano.
Che odore ha la paura? Nelle strade c’è odore di putrefazione e di morte, di acque reflue e di esplosivi. Ratti, scorpioni, mosche, pidocchi e zanzare vivono tra liquami e spazzatura. Alla fine anche le ceneri continuano a bruciare il fuoco della guerra.
NON ENTRANO DA SETTIMANE né acqua né cibo. La morte è ovunque, nelle bombe, nella ricerca del cibo, nella carestia. Affamare gli abitanti e allontanarli con la forza dalle proprie vite fa parte di un piano più ampio che mira ad annettere il nord di Gaza, dopo averlo svuotato della sua popolazione. È visto che gli ostaggi israeliani non sono in cima all’agenda militare di Tel Aviv, ogni luogo è un obiettivo legittimo per gli aerei da combattimento.
Gli edifici giacciono in cumuli di pietrisco contro un cielo azzurro freddo. Un gruppo di uomini emerge vicino a un palazzo che era in piedi fino a pochi istanti prima che gli attacchi aerei israeliani lo radessero al suolo come una casa giocattolo. Stanno tenendo, su una barella improvvisata, una bambina, avrà forse nove o dieci anni, coperta di polvere – i suoi capelli, i suoi pantaloni – urlando a chiunque si trovi sulla loro strada di muoversi. E la bambina chiede in arabo: «Mi state portando al cimitero?». E anche se la lingua potesse essere tradotta con successo, raccolta e trasportata intatta da un mondo all’altro, impallidirebbe, fallirebbe, appassirebbe.
NIENTE ELETTRICITÀ, niente asili, niente scuole, niente università. Non è rimasto più nulla. E questa è la vera guerra. È essere costretti a far vivere la propria famiglia in un luogo vuoto, deserto, dove non c’è assolutamente più nulla.
Ora è Bisan ad essere morto. È stato ucciso da una macchina da guerra che non fa distinzione tra obiettivi. Era al porto di Gaza City. Qui regna la carestia. Non c’è niente da mangiare, nemmeno le lattine. Un chilo di pomodori, quando si trovano, costa 400 shekel (circa 100 euro). Non c’è carne, né pollo, né aiuti alimentari. La fame è usata come arma. Molte persone quindi vanno a pescare nel porto, dove si può trovare il bouri, la triglia. È un buon pesce se pescato in mare aperto, ma nei porti mangia la terra delle fogne.
E BASSMA, QUATTRO ANNI, la figlia di Bisan, ha perso il suo sostegno. Vorrebbe solo mangiare i suoi maamoul con il papà. Si muore all’improvviso, falciati da una bomba. Ma si muore anche di sfinimento. Di paura. Con i cuori spezzati. I bambini che perdono i genitori perdono il futuro. Nessun altro può svolgere il ruolo di padre o madre. «Mio marito era il pilastro della famiglia, il pilastro di questa tenda», ci dice Nabila. Ci sono migliaia di modi per condividere la gioia, ma per il dolore no, quello è solo tuo. «Siamo pieni di tutto quello che manca». Come si attraversa l’assenza senza perdersi, senza finire con lei?
È UNA DISTRUZIONE TOTALE della società, non solo a livello materiale. A causa della guerra le emozioni passano all’ultimo posto. È difficile donare affetto quando si passa tutta la giornata a cercare una tenda, a trovare qualcosa da mangiare, a prendere l’acqua, a riportarla. L’affetto è diventato raro, perché si è sempre in questo frullatore che gira, che gira e disperde attenzione, costringendo tutti a concentrarsi su una cosa sola: la sopravvivenza.
(Fonte: Il Manifesto, di Federica Iezzi, torna a Gaza in prima linea – Chirurgo di Medici senza Frontiere )
06 – Sabato Angieri*: IL GLACIALE LAVROV AGITA LE ACQUE DEL VERTICE OSCE A MALTA
IN MOLTI LASCIANO LA SALA MENTRE PARLA IL MINISTERO DEGLI ESTERI RUSSO. UCRAINA E POLONIA FURIOSE: «MAI ALLO STESSO TAVOLO CON UN CRIMINALE DI GUERRA»
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, non è stato accolto bene nel suo primo viaggio in un Paese dell’Ue dall’inizio della guerra in Ucraina. Mentre il rappresentante del Cremlino parlava alla riunione annuale dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), che quest’anno si tiene a Malta, diversi delegati si sono alzati e hanno lasciato la sala vistosamente. Il più duro, come prevedibile, il ministro degli Esteri ucraino, Andriy Sybiga: «Il criminale di guerra russo a questo tavolo deve sapere che l’Ucraina conquisterà il suo diritto a esistere e la giustizia prevarrà». Sorriso di sufficienza e sopracciglia aggrottate in una posa che abbiamo già visto alle riunioni dell’Onu, la risposta di Lavrov.
ANCHE LA POLONIA non ha risparmiato critiche al capo della diplomazia di Putin, arrivando a boicottare il vertice. «Non siederò allo stesso tavolo con Lavrov, che è venuto qui a Malta per mentire sull’invasione e su ciò che la Russia sta facendo in Ucraina.» ha dichiarato in un video su internet il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski. Poche ore dopo i vertici di Mosca hanno informato Varsavia che il prossimo 10 gennaio il consolato polacco a San Pietroburgo sarà chiuso d’autorità e che tre dipendenti della sede diplomatica sono stati dichiarati «persona non grata». La motivazione ufficiale è una risposta alla chiusura del consolato russo a Poznan nei mesi scorsi.
Anche la Lettonia non ha fatto sconti al Cremlino: «La politica estera russa è solo e soltanto la guerra e faremmo bene a considerare quest’aspetto».
Nella grande sala allestita a Ta’Qali, vicino alla capitale La Valletta, il messo russo ha comunque tenuto il suo discorso e non ha risparmiato stoccate nel solito stile glaciale che lo contraddistingue. Il mondo assiste alla «reincarnazione della Guerra fredda – ha dichiarato Lavrov – ma con un rischio molto più alto che passi a uno stadio caldo».
TRA I MOTIVI di quest’innalzamento della “temperatura”, Lavrov ha evidenziato la decisione degli Usa di «stracciare tutti gli accordi sul controllo delle armi firmati negli anni ’80 con lo scopo di far tornare la Nato sulla scena politica». Il ministro russo ha aggiunto che «dopo la vergogna dell’Afghanistan c’era bisogno di un nuovo nemico unificante per coloro che si sono auto-proclamati in prima linea contro la “minaccia russa”, l’ideale di sicurezza sono confini avvolti nei fili spinati, trincee anti-tank e mettersi in fila per avere il diritto di accogliere truppe straniere, preferibilmente americane, sul loro territorio».
NON SI È FATTA ATTENDERE la risposta di Washington. «Il nostro collega russo è molto bravo ad annegare gli ascoltatori sotto uno tsunami di disinformazione» ha dichiarato il capo della diplomazia statunitense, Antony Blinken, dopo aver biasimato la maleducazione dell’omologo russo che dopo il suo intervento ha lasciato la sala, «senza concedermi la cortesia di ascoltarci come noi ascoltavamo lui».
Tuttavia, a metà giornata è arrivata la conferma del fatto che i rapporti tra i due stati continuano nel silenzio delle sedi ministeriali e lontano dalla stampa. Mosca ha infatti confermato che il 27 novembre si è tenuta una telefonata tra i capi di Stato Maggiore russo, Valery Gerasimov, e Usa, Charles Brown, su richiesta di Mosca che ha avvisato Washington di alcune manovre navali e missilistiche nel Mediterraneo orientale previste per il 3 dicembre scorso. L’obiettivo ufficiale era quello di «evitare possibili incidenti dovuti alla presenza di navi americane e della Nato nei pressi dell’area delle esercitazioni russe»
*(Fonte: Il Manifesto – Sabato Angieri, Redattore di articoli sul tema dei nuovi media, sull’influenza di internet sulla società.)
07 – Andrea Sceresini *: STANCHI DI GUERRA, DISERZIONI IN MASSA SU ENTRAMBI I FRONTI,
Boom di defezioni tra i soldati russi e ucraini. E c’è chi punta le armi contro i suoi capi
Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».
E POI, C’È CHI È GIÀ PASSATO dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.
PER SINCERARSENE, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.
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Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ma Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre».
ANCHE SUL FRONTE RUSSO la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20ma Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”».
Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice -. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».
È UNO SCENARIO CHE STRIDE non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.
Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ma Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ma Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il 33enne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.
Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.
*(Fonte: Il Manifesto, Andrea Sceresini giornalista)
08 – Martino Mazzonis*: Mario Del Pero, LE RADICI DEL TRUMPISMO NELLA CRISI DEL 2008 – INTERVISTA PARLA LO STORICO E DOCENTE. “C’È UN DISCORSO CHE FA PRESA NELL’OCCIDENTE BIANCO E FA LEVA SULLE PAURE E LA RICHIESTA DI PROTEZIONE, SULLA DELEGITTIMAZIONE DI ÉLITEE ISTITUZIONI. ATTRAVERSA TUTTE LE SOCIETÀ DOVE IL CETO MEDIO È STATO COLPITO DAI PROCESSI DI INTEGRAZIONE GLOBALE. CI SONO MATRICI E PAURE COMUNI. NE CONSEGUE UNA RICHIESTA DI TUTELA, PROTEZIONE, ISOLAMENTO E CHIUSURA CHE RIFIUTA L’INTEGRAZIONE DI MEZZO SECOLO”
Il trumpismo e la sua capacità di generare consenso nella società americana vengono da lontano e hanno a che fare con il modo in cui gli Stati Uniti stanno e sono stati al mondo, al ruolo che hanno svolto e alla narrazione interna che ha accompagnato questa proiezione internazionale. Con Mario Del Pero, storico e massimo esperto di politica estera Usa che insegna Storia a Science Po a Parigi, abbiamo ripreso i temi toccati durante una serie di lezioni e seminari tenuti presso l’Istituto Ciampi della Scuola Normale di Pisa dove è stato ospite in queste settimane.
“Le amministrazioni che precedono Reagan usano tutte una retorica sui limiti della proiezione internazionale in risposta al fallimento in Vietnam, al fatto che la paura dell’Urss non è più mobilitante e alla crisi del dollaro, che negli anni ’70 si svaluta del 50% contro Yen e Marco. Kissinger parla di politica realista e di delegare responsabilità agli alleati. Carter porta il discorso più in là: in un discorso TV del luglio ’79 in piena crisi petrolifera segnala la necessità di accettare limiti persino nei consumi.”
Con Reagan si torna a un discorso sull’egemonia globale…
Per Reagan “Il limite è il cielo”. Nel ’79 si pongono le condizioni per questa svolta, specie con la nomina di Paul Volcker alla Federal Reserve. I tassi crescono e con essi il dollaro torna ad essere forte e i buoni del Tesoro attrattivi. Con il dollaro forte le economie che esportano hanno un mercato pronto ad assorbire le loro merci. Poi ci sono Afghanistan e Iran, che rilanciano la Guerra Fredda e una politica estera aggressiva fondata su tre pilastri che in un saggio ho chiamato “Armi, dollari e parole”. Riparte la spesa militare e tecnologica. Il dollaro diventa uno strumento con cui importare beni e capitali. Gli Usa assorbono prestiti e investimenti e importano merci perché hanno liquidità e capitali per consumare di più. Infine, con Reagan torna il discorso dell’eccezionalismo americano, un nazionalismo solare e ottimista, non cupo come quello trumpiano. In questa fase comincia quello che mi piace chiamare “impero dei consumi”. La propensione al consumo sfrenato Usa diventa un asset egemonico e imperiale perché tutti hanno interesse a che sia così: i paesi che esportano sono lieti di prestare soldi per sussidiare i consumi americani. Questa montagna di liquidità diventa internamente credito facile al consumo.
È con la crisi 2008 che si chiude questa nuova fase egemonica?
Ognuno di questi pilastri contiene contraddizioni che esploderanno nel 2008: monumentali deficit commerciali, dipendenza dal credito estero, crollo del risparmio individuale e redditi che rimangono stabili. Le famiglie americane si indebitano grazie al credito facile e l’aumento del valore delle case diviene lo strumento che consente alla middle class di rinegoziare continuamente con le banche e indebitarsi ancora. Quando si sgonfia la bolla immobiliare la casa non vale più abbastanza da garantire il debito o farne di nuovo. La straordinaria dotazione di potenza militare si scontra con l’impossibilità di usarla: i caduti in Iraq sono poco più di 4mila, 54mila meno che in Vietnam, ma lo stesso politicamente insostenibili. Quanto alla retorica sul ruolo speciale degli Usa, questa deve confrontarsi con il consenso interno ed esterno. Il linguaggio usato dal liberalismo della Guerra Fredda poteva essere speso sul piano interno e anche su quello internazionale, l’iper-nazionalismo di Bush jr. galvanizza la società Usa ma allontana il resto del mondo. Tra Bush e la crisi dei subprime muore una narrazione benigna della globalizzazione per la quale tutti vincono, mentre cresce l’idea che gli Stati Uniti abbiano perso sovranità e quindi libertà. L’interdipendenza è una forma di dipendenza da altri, in questo caso da uno straniero come la Cina che preoccupa e che può venire usato per generare paura. Il trumpismo è molte cose, ma è anche la paura di dover dipendere da altri.
Torniamo a armi, narrazione, consumi, oggi.
Armi: dopo Bush l’opinione pubblica torna anti-interventista e la straordinaria primazia militare non è più strumento per politiche ambiziose. Parole: in modi diversi sia Obama che Trump fanno un discorso anti eccezionalismo. Trump non rivendica missioni speciali per gli Usa, il suo è un nazionalismo che dice ognuno ha un interesse nazionale da perseguire con tutti gli strumenti a disposizione – da qui l’ammirazione per Putin o Xi Jinping. Restano i consumi. La crisi del 2008, le nuove regole per le banche e l’inflazione post 2020, ridimensionano la capacità di spesa della middle class. Il risultato è la fortuna di una proposta politica che promette disimpegno dai teatri di crisi, meno regole e la fine dell’interdipendenza. Si possono costruire molte genealogie del trumpismo, ma per me il 2008 resta un passaggio cruciale. La crisi di quegli anni delegittima una narrazione benevola della globalizzazione, porta alla contestazione dell’idea di cosmopolitismo, alimenta paure comprensibili e brutti istinti che queste paure generano.
Arriviamo alle elezioni. Se la capacità egemonica planetaria Usa viene ridimensionata, l’ordine del discorso trumpiano sembra fare egemonia interna (ha vinto meglio del previsto) e anche in Occidente.
C’è un discorso che fa presa nell’Occidente bianco e fa leva sulle paure e la richiesta di protezione, sulla delegittimazione di élite (politiche, intellettuali, scientifiche) e istituzioni. Si tratta di un discorso che attraversa tutte le società dove il ceto medio è stato colpito dai processi di integrazione globale. Ci sono matrici e paure comuni. Ne consegue una richiesta di tutela, protezione, isolamento e chiusura che rifiuta l’integrazione di mezzo secolo. È egemonico questo discorso? La risposta non può che essere impressionistica, ma temo di sì. Oggi c’è un pezzo di società occidentale che vota a destra non “nonostante Trump o Salvini” ma per loro. L’umiliazione del più debole, la violenza verbale sistematica, catturano l’immaginario. Aggiungo che le istituzioni e la politica saranno delegittimate quanto si vuole ma continuano ad avere una forza pedagogica rilevante: se chi parla lo fa dal pulpito della Casa Bianca, qualsiasi cosa viene legittimata.
*(Fonte: Il Manifesto, Martino Mazzonis. giornalista, collabora con numerose testate, si occupa soprattutto di Stati Uniti)
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