N°47 – 23/11/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Roberto Ciccarelli*: Meloni liscia il pelo ai comuni e Giorgetti TAGLIA 8 MILIARDI – i tagli agli italiani i sindaci hanno chiesto di rivedere la legge di bilancio, il governo ribadisce: “SACRIFICI”. IL PARADOSSO: in un paese senza regole Airbnb propone una legge sugli affitti brevi.
02 – Alessandra Algostino*: La protervia del potere, il dovere di reagire. Violenza istituzionale È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta.
03 – Lorenzo Tecleme*: alla Cop di Baku: 1 a 0 per occidente e lobbisti. Oggi lo scontro finale – clima nella bozza finale della presidenza azera la fregatura per il sud del mondo. E scompare ogni riferimento ai combustibili fossili.
04 – Luciana Cimino*: Una giornata di blocco contro il ddl Sicurezza – Diritti L’assemblea A Pieno regime si allarga, manifestazione nazionale il 14 dicembre. Ferrajoli: «Contro la svolta autoritaria globale unire la protesta italiana a quella del resto del mondo
05 – Claudio De Fiores*: Il regionalismo italiano è solidale. Lo chiarisce la Corte costituzionale
Autonomia I giudici costituzionali hanno smontato la legge Calderoli. Il suo testo rimane formalmente in vigore, ma monco delle sue parti essenziali, senza le quali non può operare, né essere in […]
06 – Andrea Daniele Signorelli*: Computer quantistici, cosa sono e perché il loro mercato sta per decollare – Secondo gli analisti, il mercato basato sui qubit è pronto a decollare e i grandi player del settore si stanno già posizionando.
07 – Carlo Formenti*: I popoli africani contro l’imperialismo – 2. Kevin Ochieng Okoth
08 – Angelo Romano *: Come Meloni & Co stanno mettendo una pietra tombale sulla lotta alla crisi climaticaI primi giorni delle Conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico sono quelli che vedono protagonisti i leader internazionali.

 

 

01 – Roberto Ciccarelli*: Meloni LISCIA IL PELO AI COMUNI e Giorgetti TAGLIA 8 MILIARDI – I TAGLI AGLI ITALIANI I SINDACI HANNO CHIESTO DI RIVEDERE LA LEGGE DI BILANCIO, IL GOVERNO RIBADISCE: “SACRIFICI”. IL PARADOSSO: IN UN PAESE SENZA REGOLE AIRBNB PROPONE UNA LEGGE SUGLI AFFITTI BREVI.

Se la presidente del Consiglio Giorgia Meloni fosse conseguente ai riconoscimenti che ieri ha fatto ai Comuni in un video-messaggio nella giornata conclusiva dell’assemblea dell’Anci al Lingotto, allora la prossima settimana dovrebbe ricevere il neopresidente eletto Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli, e rivedere i tagli dei trasferimenti ai Comuni e agli altri enti locali. Si tratta di 3,5 miliardi spalmati nel quadriennio 2025-2029. E altri cinque tra il 2030 e il 2037. Totale: oltre otto miliardi di euro, secondo la stima che ha fornito Manfredi.
MELONI potrebbe suggerire anche la cancellazione dell’articolo 104 della legge di bilancio che parla di un taglio lineare di 800 milioni dei fondi «PINQuA» che, per l’istituto nazionale di urbanistica, bloccheranno i cantieri comunali per la rigenerazione urbana finanziati anche con il Pnrr. I comuni che per Meloni sono i principali soggetti per la famosa «messa a terra» dei fondi europei dovranno rinunciare ad altri 800 milioni destinati alle periferie «degradate». Totale: 1,6 miliardi di euro, secondo le stime degli urbanisti.
IL GOVERNO non ha risposto a nessuno di questi problemi posti in varie forme nei giorni dell’assemblea dell’Anci. Qualcuno tra i sindaci presenti in platea avrà avuto uno scossone quando ha Meloni ieri ha detto: «Voi sindaci fate la differenza ogni giorno: siete il volto più prossimo dello Stato, spesso con mezzi inadeguati».
In effetti, se blocchi gli investimenti e la spesa corrente, oltre che il turn-over del personale, renderai ancora più «inadeguati» i mezzi a disposizione dei sindaci. Saranno pure contenti per la problematica abolizione dell’abuso d’ufficio, rivendicata ieri dalla presidente del consiglio, ma saranno più preoccupati dell’aumento delle tasse comunali e del taglio dei servizi essenziali che dovranno fare.
Così saranno il volto dello Stato che taglia. E per i sindaci non sarà piacevole prendersi le responsabilità di Meloni. È lei ad avere sottoscritto il nuovo patto di stabilità europeo che impone alla società italiana una cura di austerità da cavallo.
LA RICHIESTA DELL’ANCI di rivedere la manovra è stata in sostanza respinta dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, intervenuto in video ieri all’Anci. I comuni dovranno rassegnarsi ai «sacrifici» ha detto Giorgetti. La retorica di quest’ultimo è diversa da quella patriottarda di Meloni. Giorgetti parla la lingua della tecnocrazia.
Giorgetti ha riproposto il concetto a lui caro di «prudenza». Prudenza significa, a suo avviso, chiedere il «contributo di tutti», sia per «il settore pubblico che per i privati». In realtà ai «privati», cioè alle banche, il governo ha chiesto un «prestito» di 2,5 miliardi che saranno restituiti. Agli enti locali, dunque ai cittadini, saranno bloccati 8 miliardi per i prossimi dieci anni. L’austerità induce a usare una lingua ipocrita.
LA SCOMMESSA del governo è che questa situazione passi inosservata alla cittadinanza ormai passiva e confusa dalla propaganda. I sindaci dovranno raccogliere i cocci. Questo è stato il tema di fondo dell’assemblea dell’Anci. Da un lato, ci sono le regole di bilancio europee come se fossero piovute dal cielo. Dall’altro lato, ci sono le «emergenze geopolitiche», l’economia di guerra che ha spinto ad aumentare le spese militari. Tredici miliardi di euro in più andranno solo alla produzione di nuove armi, stima il rapporto Mil€x. Sono i soldi tagliati complessivamente a ministeri e a enti locali dal 2025 in poi.
NON UNA PAROLA, a cominciare dalla ministra del turismo Santanché, è stata detta sull’altra emergenza denunciata dai sindaci: la regolazione nazionale degli affitti brevi su piattaforme digitali. Santanché ha detto che il turismo è una realtà irreversibile e che bisogna puntare su quello «esperienziale» per valorizzare le «eccellenze» dei «borghi». Con questo fastidioso lessico continua l’illusione per cui un’economia si possa reggere sui servizi poveri del turismo in un paese dove l’industria crolla da 20 mesi, dove si licenziano migliaia di lavoratori in quella dell’elettrodomestico e il governo taglia 4,6 miliardi al fondo per la transizione «green» dell’automotive.
AIRBNB ha proposto ieri uno schema di legge nazionale per la regolazione degli affitti brevi ai sindaci delle città strozzate dall’iper-turismo e dal caro affitto. È la conseguenza di un paradosso: visto che il governo non ha alcuna intenzione di regolare alcunché, ci pensa chi dovrebbe essere regolato a proporre le leggi che lo riguardano.
*(Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto. Ha pubblicato, tra l’altro, Il Quinto Stato, con Giuseppe Allegri).

 

02 – Alessandra Algostino*: LA PROTERVIA DEL POTERE, IL DOVERE DI REAGIRE. VIOLENZA ISTITUZIONALE È REALE L’ORIZZONTE FOSCO, NERO, IN CUI SIAMO IMMERSI, MA PROPRIO PER QUESTO È NECESSARIO AGIRE E RESISTERE IN DIREZIONE CONTRARIA: NON C’È UN’UNICA VIA E NON C’È UNA VIA GIÀ SCRITTA. LE PIAZZE LO RICORDANO. È L’INSEGNAMENTO DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, UN REALISMO EMANCIPANTE: GLI OSTACOLI ESISTONO, RIMUOVIAMOLI

Sembra di vivere in una distopia surreale, ma reale è la criminalizzazione della protesta e reali sono i poteri che «come fortilizi contrapposti» si strappano potere; cito da Mattarella, e chioso: invero, è uno, l’esecutivo, che strappa il potere agli altri e spoglia dei diritti i cittadini.
Esponenti del governo di nuovo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. È il diritto di protesta in sé ad essere stigmatizzato e delegittimato, si citano gli slogan come fossero prove di reato. Una democrazia, scriveva Passerin d’Entrèves, è improntata alla «tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile».
La violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia: non lo è quando proviene dai manifestanti (ma qui certo non c’è mancanza di reazione, tanto che si ragiona di eccesso punitivo, con utilizzo improprio delle fattispecie penali, abuso di misure cautelari …); non lo è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di polizia. E non lo è quando presenta le vesti di una legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio sociale, come è nel disegno di legge sicurezza in discussione, ultimo tassello di un processo (multipartisan) di sterilizzazione dello spazio democratico.
PER IL NO MELONI DAY GLI STUDENTI RIEMPIONO CINQUANTA PIAZZE
E, ancora, non è tollerabile la violenza di un governo che attacca frontalmente la magistratura, o la violenza esercitata contro le persone che migrano, trattate letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico.
Oggi a raccontare di uno scontro violento sono anche le parole del presidente Mattarella sugli organi dello Stato che non sono «fortilizi contrapposti per strappare potere l’uno all’altro», ma «elementi della Costituzione chiamati a collaborare, ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui». «Fortilizi», «strappare» sono parole forti, che raccontano di una non rituale preoccupazione per la democrazia. In questione è l’equilibrio dei poteri, cardine della democrazia costituzionale, che presuppone il reciproco riconoscimento.
COLPISCE LA PROTERVIA CON LA QUALE IL GOVERNO SI SCAGLIA CONTRO LA MAGISTRATURA, attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto (l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. Ad essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della sua soggezione soltanto alla legge, e il parlamento, ancora una volta piegato al compito di dare forma legislativa ai voleri del governo.

DDL SICUREZZA, LA DESTRA STRUMENTALIZZA I CORTEI
Le diverse forme di violenza hanno un comune precipitato nel fotografare in modo nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e – il ruolo riconosciuto a Musk è emblematico – il suo legame con gli interessi dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio, imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi.
Provvedimenti come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello, non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della divergenza politica.
Sembra quasi irreale, tuttavia è reale, giustificato e mistificato da menzogne, ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la «logica dell’insistenza» dei regimi autoritari) divengono la «verità».
La violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare l’altro, esercitando una ulteriore violenza. È la costruzione del nemico, da espellere, da eliminare.
È il contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della democrazia.
Se guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere. Come scriveva pochi giorni fa Andrea Fabozzi su queste pagine: «MEGLIO ACCORGESENE».
Reale è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta; reali sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici selvaggi; reale – grazie a studentesse e studenti che continuano a ricordarlo – è il genocidio in diretta dei palestinesi.
È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta. Le piazze lo ricordano. È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli.
*(Fonte: Il Manifesto – Alessandra Algostino, è docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Fra i suoi temi di ricerca: diritti, migranti, lavoro, democrazia, …)

 

03 – Lorenzo Tecleme*: ALLA COP DI BAKU: 1 A 0 PER OCCIDENTE E LOBBISTI. OGGI LO SCONTRO FINALE – CLIMA NELLA BOZZA FINALE DELLA PRESIDENZA AZERA LA FREGATURA PER IL SUD DEL MONDO. E SCOMPARE OGNI RIFERIMENTO AI COMBUSTIBILI FOSSILI.

BAKU – DOPO GIORNI DA DESERTO DEI TARTARI, IN CUI LE POSIZIONI DEGLI STATI SONO RIMASTE IMMUTATE, AL VERTICE SUL CLIMA DI BAKU È FINALMENTE ARRIVATA UNA BOZZA DI RISOLUZIONE FINALE.
Si tratta ancora di una proposta della presidenza, su cui le parti dovranno poi concordare. Ma la lettura politica è chiara: la trattativa volge a favore del fronte occidentale e dei lobbisti del fossile.
Breve riassunto delle puntate precedenti. Cop29, il nuovo round negoziale delle Nazioni Unite sul contrasto alla crisi climatica, è la Cop della finanza. Tutto il lavoro dei diplomatici ruota attorno al New Collective Quantified Goal, i flussi finanziari che dal Nord ricco dovranno andare a pagare la transizione ecologica nel cosiddetto Sud globale.
I Paesi in via di sviluppo, riuniti nel gruppo negoziale chiamato G77, puntano a ricevere 1.300 miliardi di dollari ogni anno in finanziamenti verdi. Si tratterebbe di tredici volte il vecchio obiettivo concordato nel 2009, quando ci si accordò su 100 miliardi l’anno. Il punto non è solo il quanto, ma anche la qualità della finanza.
Nel vecchio accordo si includevano nel conteggio anche i capitali privati e quelli cosiddetti mobilitati – ovvero provenienti dalle aziende ma su input degli Stati. Persino i soldi ottenuti con prestiti a tasso di mercato erano inclusi. Nel nuovo le nazioni africane, latinoamericane ed asiatiche puntano a denaro pubblico e, soprattutto, a fondo perduto.
La posizione occidentale – Unione Europea e Stati uniti in primis – è diametralmente opposta. Molti meno soldi – un leak di Politico di pochi giorni fa parlava di 200 o 300 miliardi annui come desiderata europeo – e con dentro tutto: privato e pubblico, prestiti e donazioni, con le infinite vie di mezzo possibili.
Dopo due settimane senza veri passi avanti tra le parti, ieri la presidenza – nominata dal governo ospitante, quello azero – ha licenziato una proposta di decisione finale. Nel testo, ancora non approvato dagli Stati partecipanti alla Conferenza, si legge di 250 miliardi ogni anno da far arrivare entro il 2035. Questi soldi dovrebbero provenire «da una grande varietà di fonti: pubbliche e private, bilaterali e multilaterali». Esattamente la posizione europea.
La cifra dei 1.300 miliardi è menzionata – anche il G20 di Rio de Janeiro, d’altronde, aveva invitato la Cop a passare ai «trillions», le migliaia di miliardi. Ma si parla solo di «un invito», non di una decisione, rivolto peraltro non agli Stati ma a generici «attori».
Solo due giorni fa un rappresentante del G77, rispondendo a un giornalista di Afp che lo interrogava sull’ipotesi di un accordo vicino ai 200 miliardi, aveva risposto seccamente con «è uno scherzo?». L’unico passaggio relativo alla finanza su cui europei e statunitensi hanno dovuto fare davvero un passo indietro riguarda la Cina: Bruxelles e Washington avrebbero voluto estendere anche a lei l’obbligo di contribuire economicamente, onere cui oggi non è sottoposta a differenza dei Paesi occidentali, il testo si limita ad un «invito».
E per quanto riguarda la diminuzione dei gas serra? A Baku è difficile ricordarlo, ma questo sarebbe l’obiettivo principale di ogni summit per il clima. Il tema è stato fin dall’inizio ai margini di Cop29: in questa bozza non solo non c’è nulla di nuovo, ma addirittura si evita di menzionare i combustibili fossili. Un passo indietro rispetto alla pur non esaltante Cop28 di Dubai.
«L’obiettivo dei 250 miliardi è totalmente inaccettabile e inadeguato» dice Ali Mohamed, diplomatico keniota che al negoziato rappresenta tutte le nazioni africane. «È tutto ridicolo» reagisce a caldo Juan Carlos Monterrey Gómez, inviato per il clima di Panama e tra i rappresentanti del blocco latinoamericano «a questo punto tutte le opzioni sono sul tavolo, compresa quella nucleare».
Tradotto, i Paesi in via di sviluppo minacciano di lasciare il negoziato. Stessa linea da parte della società civile: «I 250 miliardi sono una provocazione, fino a che vi si contano dentro tutte le fonti di finanziamento» spiega Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think-tank Strategic Perspectives. Per Greenpeace, la cifra proposta è «oltraggiosa».
Quanto deciso a Baku rimarrà in vigore per undici anni: i paesi africani, asiatici e latinoamericani continuano a negoziare, ma hanno una notte per migliorare un testo che vale un decennio. I paesi del Nord globale e la lobby del fossile – presente in massa a Cop29 – in queste ore sono rimasti invece silenti. Per loro, d’altronde, parla già la proposta di decisione finale.
*(Lorenzo Tecleme. Sardo trapiantato a Bologna. Scrive di politica, di clima e delle due cose assieme. Suoi articoli sono stati pubblicati su Domani, il manifesto)

 

04 – Luciana Cimino*: UNA GIORNATA DI BLOCCO CONTRO IL DDL SICUREZZA – DIRITTI L’ASSEMBLEA A PIENO REGIME SI ALLARGA, MANIFESTAZIONE NAZIONALE IL 14 DICEMBRE. FERRAJOLI: «CONTRO LA SVOLTA AUTORITARIA GLOBALE UNIRE LA PROTESTA ITALIANA A QUELLA DEL RESTO DEL MONDO»

«Se la sala fosse stata vuota, cari compagni e compagne, saremmo qua di nuovo nel regno della sfiga invece siamo qua nel regno della possibilità». Quando interviene Rolando, dei centri sociali del nord est, a circa mezz’ora dall’inizio dell’assemblea nazionale contro il ddl Sicurezza, il colpo d’occhio è notevole. Almeno 500 persone tra l’aula magna della facoltà di Lettere della Sapienza e l’atrio. La scommessa che si è data la rete A pieno regime, del resto, è poderosa: portare a Roma il 14 dicembre almeno 100mila persone per la manifestazione nazionale contro i provvedimenti del governo Meloni che «criminalizzano la marginalità sociale», inclusa la manovra che taglia sanità e istruzione. «A Padova qualche giorno fa c’erano 5mila persone in corteo – ragiona Rolando – credo che sia alla nostra portata». Anche perché prima ci sono altre manifestazioni in cui confluire.
IERI, CON L’ASSEMBLEA della Sapienza e il Climate Pride, si è aperto un mese intenso di cortei e la premier ha dimostrato, proprio in questi giorni, di non gradirne nessuno. Non è causale infatti che in apertura la rete A pieno regime porti la solidarietà agli studenti per «il vergognoso linciaggio mediatico a cui sono stati sottoposti dai partiti di governo». Oggi a Firenze è la giornata degli operai dell’ex Gkn, il 23 novembre si terranno le manifestazioni transfemministe, il 29 ci sarà lo sciopero generale dei sindacati, il 30 un corteo contro il genocidio palestinese.
La protervia del potere, il dovere di reagire
«È necessario per costruire una mobilitazione larga, plurale, con la partecipazione non solo delle reti militanti ma anche di quella parte della società civile che non ha intenzione di accettare la deriva autoritaria e liberticida messa in atto dalla destra», spiegano dall’assemblea. L’ambizione è quella di un «blocco reale nel giorno della votazione, altrimenti sembra che ci stiamo trovando per costruire la solita manifestazione nazionale».
SULLA DATA DEL 14 dicembre c’è ampia convergenza ma, avvisano, il corteo sarà anticipato nel caso di un’accelerazione al Senato. «Come opposizione abbiamo presentato 1.400 emendamenti per farla lunga, al netto di tagliole – spiega il senatore Avs Peppe De Cristofaro – alcune cose devono modificarle, come la norma che rende illegale la canapa industriale che non regge». Difatti nell’aula magna sono presenti anche l’Associazione della canapa sativa e la Federazione dei lavoratori dell’agroindustria (Flai). E poi, tra realtà locali come il Laboratorio Insurgenzia di Napoli e i Municipi solidali di Bologna, ci sono anche Arci, Anpi, Amnesty, Fiom, Flc Cgil, Cobas, Antigone, associazioni per il diritto all’abitare e quelle ambientaliste come Ultima Generazione, reti per i migranti come Mediterranea, i Giuristi Democratici.
«Se uno si va a spulciare il pacchetto Sicurezza penso che trova un reato costruito proprio su ciascuna delle persone che stanno qua dentro» commenta Michele Rech (Zerocalcare). «Questo ddl ha il chiaro fine di criminalizzare ogni forma di disobbedienza civile ovunque venga praticata, il governo Meloni è insofferente a ogni tipo di dissenso – nota anche l’avvocata e attivista Federica Borlotti -. Dietro la maschera della sicurezza si cela un progetto di repressione per colpire le fasce più deboli, emblematico è ciò che avverrà sul terreno della casa».
La torsione autoritaria della destra è più grave e più lesiva dei diritti della persona delle leggi che furono varate in piena emergenza terrorismo Luigi Manconi.
PARTONO i collegamenti video con Ilaria Salis, la vicesindaca di Bologna Emily Clancy, Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi, in sala c’è anche Nicola Fratoianni. «Dobbiamo stringere alleanze, allargare la partecipazione, superare gli steccati identitari e i particolarismi», dice un attivista ed è il messaggio su cui insistono tutti gli interventi. Per Luigi Manconi la «torsione autoritaria» della destra di governo è «più grave e più lesiva dei diritti fondamentali della persona persino rispetto alle leggi che furono varate in piena emergenza terrorismo».
Lo chiama «il decreto paura» Michele de Palma, segretario nazionale Fiom, «perché è costruito per far paura a chi pensa diversamente dalla maggioranza», mentre il giurista Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto, consiglia di «collegare il movimento di protesta italiano a quelli del resto del mondo perché ormai la svolta autoritaria è globale ed è a livello globale che si decide il futuro della democrazia».
*(Luciana Cimino – Giornalista, Consulente comunicazione politica · Giornalista professionista. Il Manifesto)

 

05 – Claudio De Fiores*: IL REGIONALISMO ITALIANO È SOLIDALE. LO CHIARISCE LA CORTE COSTITUZIONALE – AUTONOMIA I GIUDICI COSTITUZIONALI HANNO SMONTATO LA LEGGE CALDEROLI. IL SUO TESTO RIMANE FORMALMENTE IN VIGORE, MA MONCO DELLE SUE PARTI ESSENZIALI, SENZA LE QUALI NON PUÒ OPERARE, NÉ ESSERE IN […]

I giudici costituzionali hanno smontato la legge Calderoli. Il suo testo rimane formalmente in vigore, ma monco delle sue parti essenziali, senza le quali non può operare, né essere in alcun modo applicato. La parola torna pertanto al Parlamento che per assicurarne la «funzionalità» è ora tenuto a metter mano alla normativa, «nel rispetto dei principi costituzionali» e garantendo i diritti.

PRINCIPI E DIRITTI CHE LA LEGGE CALDEROLI AVEVA GRAVEMENTE VIOLATO.
DUE LE QUESTIONI DI RILIEVO POSTE DALLA SENTENZA:
• LA PRIMA DI CARATTERE PROCEDIMENTALE,
• LA SECONDA DI TIPO SOSTANZIALE.

Sul piano procedimentale, la Corte ripristina il primato delle assemblee elettive, precisando che le decisioni fondamentali in materia non possono essere rimesse «nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento». Niente più, quindi, decreti-legislativi adottati in assenza di «inidonei criteri direttivi» (cd. deleghe in bianco). E niente più decreti del capo del governo per rideterminare i livelli essenziali di prestazione dei diritti.
Il giudice costituzionale, oltre a intervenire sul corpo della legge n. 86/2024, ha anche censurato lo spirito, i principi e le ragioni di fondo che ne avevano ispirato la stesura. Dal comunicato della Corte apprendiamo, in particolare, che l’impianto costituzionale della Repubblica non ammette il trasferimento di materie o ambiti di materie, ma solo di «specifiche funzioni legislative e amministrative», in «relazione alla singola regione» e in coerenza con il principio di sussidiarietà verticale.

AUTONOMIA, LA CORTE SMONTA LO «SPACCA ITALIA» DI CALDEROLI
Ne discende che per i giudici costituzionali lo Stato non è legittimato a trasferire un’intera materia (come la sanità o l’istruzione), ma solo funzioni peculiari di questa. Né tantomeno può procedere al trasferimento delle ventitré materie contemplate all’art. 117, terzo comma, della Costituzione (una sorta di surrettizia revisione costituzionale per via legislativa). E questo perché la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo deve necessariamente «avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione».
I profili di incostituzionalità ravvisati dalla Corte sono ben sette. Su altri il giudice delle leggi ha, invece, preferito affidarsi a un’interpretazione costituzionalmente orientata. Ricorrendo a tale tecnica interpretativa la Corte ha inteso implicitamente ribadire che nella legge vi sono altre disposizioni critiche (in materia di iniziativa legislativa, potere di emendamento delle Camere, qualificazione dei “no lep”, clausola di invarianza finanziaria). E che queste disposizioni, qualora interpretate diversamente, sarebbero anch’esse illegittime.
Si tratta di questioni particolarmente delicate non solo sul piano strettamente ermeneutico e giuridico, ma anche sul piano politico. Anzitutto per i destini dell’iter referendario. Per ponderare le conseguenze e gli effetti della decisione della Corte su questo terreno non basta però un comunicato. È necessario conoscere il testo della sentenza. Come è sempre avvenuto. Ma questa volta ancor di più. Siamo in presenza di una pronuncia “complessa” che, oltre a dichiarare l’incostituzionalità di talune disposizioni contenute nella legge Calderoli, ne ridefinisce, sul piano sistematico-interpretativo, i confini e la portata. Solo una volta appreso il testo della sentenza, saremo nelle condizioni di valutare se esistono le premesse non solo giuridiche (in termini di ammissibilità), ma anche politiche (in termini di opportunità) per un referendum abrogativo.
Al momento ci basta constatare che l’asse politico della legge Calderoli è stato azzoppato dal giudice costituzionale. Sia direttamente accogliendo gran parte delle censure di incostituzionalità mosse dalle Regioni ricorrenti, sia indirettamente, in via interpretativa. Ma, soprattutto, ci piace evidenziare che la Corte ha, una volta per tutte, chiarito che il regionalismo italiano (nonostante le gravi ferite arrecategli dalla revisione del titolo V) è un regionalismo sociale e solidale. E che per l’egoismo territoriale non c’è spazio nella nostra Costituzione.
*(Claudio De Fiores è professore ordinario e titolare della cattedra di Costituzione e cinema presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.)

 

06 – Andrea Daniele Signorelli*: COMPUTER QUANTISTICI, COSA SONO E PERCHÉ IL LORO MERCATO STA PER DECOLLARE – SECONDO GLI ANALISTI, IL MERCATO BASATO SUI QUBIT È PRONTO A DECOLLARE E I GRANDI PLAYER DEL SETTORE SI STANNO GIÀ POSIZIONANDO.

Era il 2019 quando Ibm presentò il primo computer quantistico commerciale della storia: il Q System One, un prototipo effettivamente utilizzabile – anche se solo a livello sperimentale – custodito nei sotterranei di un centro di ricerca vicino a New York. Lo stesso anno, Google annunciò di aver conquistato la “supremazia quantistica”: il momento in cui un computer basato su qubit – in questo caso il Sycamore della società di Mountain View – riesce a svolgere un compito che per i tradizionali computer sarebbe stato irrisolvibile.
Al tempo, sembrava che l’avvento dei computer quantistici – che promettono di rivoluzionare numerosi settori scientifici e commerciali – fosse dietro l’angolo. Da allora sono però passati cinque anni e, nonostante i progressi compiuti, di calcolatori basati sulla fisica quantistica concretamente utilizzati nel mondo, al di là delle sperimentazioni, ancora non c’è traccia. Eppure, secondo gli analisti, ci sono parecchi segnali che la situazione potrebbe a breve cambiare.
Computer tradizionali e quantistici: le differenze
Facciamo un passo indietro. A differenza dei tradizionali computer, basati sui bit (che possono trovarsi alternativamente nella posizione spenta o accesa), i computer quantistici si basano sui qubit (quantum bit). I qubit riescono a superare i limiti dei computer tradizionali grazie a due fenomeni chiave della fisica quantistica: l’entanglement e la sovrapposizione.
Iniziamo con l’entanglement, un fenomeno grazie al quale, se viene modificato lo stato di un qubit, avviene un cambiamento immediato anche nel qubit a esso collegato, indipendentemente dalla distanza che li separa. Di conseguenza, misurando uno dei due qubit, è possibile determinare lo stato dell’altro. Le ragioni di questo fenomeno non sono ancora del tutto chiare – Albert Einstein lo definì una “spaventosa azione a distanza” – ma è grazie a questa connessione che i computer quantistici possono esprimere una potenza di calcolo senza precedenti.
La sovrapposizione, invece, consente ai qubit – a differenza dei bit classici, vincolati agli stati di acceso o spento – di assumere simultaneamente entrambi gli stati. Ciò permette ai computer quantistici di elaborare una quantità enorme di possibilità nello stesso momento: il risultato emerge solo al termine dell’elaborazione, quando i qubit vengono misurati e collassano in uno stato binario definito.
Oltre ai computer, ci sono altre tecnologie basate sulla fisica quantistica. I sensori quantistici sfruttano – come si legge in un report appena pubblicato dalla società di consulenza G.P. Bullhound – “l’estrema sensibilità degli stati quantici per individuare delle variazioni altrimenti impercettibili nei campi magnetici, nella temperatura, nella pressione, nella gravità e altro ancora con una precisione senza precedenti”. I sensori quantistici potrebbero essere impiegati nella navigazione, in astronomia, in geologia e anche in campo medico.
Altro sviluppo fondamentale è quello della comunicazione quantistica, che – si legge sempre nel report – “sfruttando le proprietà dell’entanglement, permette nuove forme estremamente sicure di comunicazione e di trasferimento di informazioni”. Al di là del campo militare e delle transazioni finanziarie, le comunicazioni quantistiche dovrebbero anche proteggere dalla futura capacità proprio dei computer quantistici di rompere la crittografia attualmente esistente.
Per quanto i computer quantistici non sostituiranno probabilmente mai quelli tradizionali, che rimangono i più adatti a un uso quotidiano, ci sono parecchi specifici settori in cui le loro potenzialità potrebbero essere sfruttate al meglio: dalla simulazione molecolare (con ricadute in campo medico e scientifico) all’ottimizzazione dei problemi in campo logistico, finanziario ed energetico; dalla già citata crittografia all’intelligenza artificiale (che può avvantaggiarsi della velocità di questi sistemi informatici).

MA QUANDO ARRIVERANNO I COMPUTER QUANTISTICI?
Considerando quanto siano state deludenti alcune delle tecnologie in cui, negli ultimi anni, sono state riposte enormi speranze (dalla blockchain alla realtà virtuale e non solo), è normale essere scettici nei confronti dell’avanzamento di una tecnologia potenzialmente rivoluzionaria, ma che sembra essere perennemente là da venire.
Secondo il report di G.P. Bullhound, ci sono invece numerosi segnali che mostrano come il momento di svolta potrebbe essere vicino. Atom Computing e Ibm hanno infatti entrambe presentato, nel 2023, dei computer quantistici sperimentali dotati di più di 1.000 qubit, un netto salto in avanti rispetto ai 433 che rappresentavano il massimo conquistato fino al 2022 (ancora nel 2016 non si era andati oltre i 5 qubit). Già a partire dal prossimo anno, gli analisti prevedono che i computer quantistici potrebbero iniziare a generare valore.
A questo punto, un’avvertenza è d’obbligo: le stime delle società di consulenza vanno sempre prese con le pinze e, in passato, hanno spesso magnificato le potenzialità di tecnologie che invece hanno deluso le aspettative. Detto ciò, si pensa che il mercato della tecnologia quantistica, che al momento vale circa un miliardo di dollari, dovrebbe arrivare fino a quota 20 miliardi entro il 2030, con un impatto sull’economia globale di 2mila miliardi entro il 2035.

UN MERCATO GIÀ IN CRESCITA
Ibm, Google, Q-Ctrl, Atom Computing, PsiQuantum sono alcuni dei nomi di aziende e startup che ricorrono più frequentemente quando si parla di tecnologie quantistiche, mostrando come il mercato si stia consolidando. Secondo G.P. Bullhound, anche questo è un segnale importante: le startup fondate ogni anno nel settore sono scese dalle 57 del 2018 (il massimo mai raggiunto) alle sole 12 dell’anno scorso.
Un dato che potrebbe essere interpretato negativamente, ma che invece sembra essere legato soprattutto alla scarsità di esperti reperibili sul mercato del lavoro. In poche parole, nel mondo delle tecnologie quantistiche c’è più richiesta che offerta di talenti. Segnali simili giungono anche dagli investimenti nel settore, che sono esplosi nel biennio 2021-2022 (durante l’euforia finanziaria del periodo Covid), quando raggiunsero 2,3 miliardi di dollari in ciascuno dei due anni. In confronto, il 2023 è stato un anno abbastanza deludente, visto che gli investimenti si sono fermati a 1,7 miliardi.
In realtà, le startup del settore quantistico hanno visto la fetta di investimenti complessivi aumentare, passando dallo 0,51% del 2022 allo 0,6% dell’anno scorso. In poche parole, i soldi sono diminuiti in generale, ma il settore delle tecnologie quantistiche ne sta conquistando una percentuale crescente (seppur ancora molto ridotta).
I progressi tecnologici, gli imponenti finanziamenti (anche a livello pubblico), le applicazioni sempre più chiare e il consolidamento dei protagonisti del settore: sarebbero questi i quattro elementi che, secondo il report, mostrano come le tecnologie quantistiche stiano per dare il via a quella rivoluzione tecnologica e scientifica da lungo attesa.
Mentre l’hype nei confronti dell’intelligenza artificiale raggiunge il suo apice – e magari si prepara a raffreddarsi – gli analisti e gli investitori di tutto il mondo sono già a caccia della “next big thing”.
*(Fonte Wired . Andrea Daniele Signorelli . giornalista freelance. Collabora con La Stampa, Wired Italia, Domani)

 

07 – Carlo Formenti*: I POPOLI AFRICANI CONTRO L’IMPERIALISMO – 2. KEVIN OCHIENG OKOTH

RITROVERETE QUI MOLTI TEMI TRATTATI NEI LAVORI DI BOUAMAMA, COME LA CRITICA DELL’APPROCCIO “CULTURALISTA” (A PARTIRE DAI MITI DELLA NEGRITUDINE) AL PROCESSO DI EMANCIPAZIONE DEI POPOLI POST COLONIALI DAL DOMINIO IMPERIALE DELL’OCCIDENTE, E COME IL RIFIUTO DEL TENTATIVO DI LIQUIDARE IL MARXISMO COME “EUROCENTRICO” E QUINDI INSERVIBILE PER GUIDARE LE NAZIONI AFRICANE SULLA VIA DELLO SVILUPPO AUTONOMO. RISPETTO A BOUAMAMA, OKOTH ANALIZZA PIÙ ESTESAMENTE E A FONDO IL RUOLO DETERMINANTE CHE LE LOTTE AFROAMERICANE HANNO SVOLTO NELLA FORMAZIONE DI UNO SPIRITO PANAFRICANISTA RIVOLUZIONARIO. INFINE, COME AVRETE MODO DI VEDERE, IL PUNTO DI VISTA DI OKOTH APPARE PIÙ SEVERO DI QUELLO DI BOUAMAMA NEI CONFRONTI DEGLI ERRORI E DELLE SCELTE OPPORTUNISTE DELLE ÉLITE CHE HANNO GUIDATO LE LOTTE DI LIBERAZIONE NAZIONALE (MA SU QUESTO TEMA TORNERÒ IN SEDE DI CONCLUSIONE DOPO AVERE PUBBLICATO LA TERZA E ULTIMA PUNTATA DI QUESTO TRITTICO, DEDICATA AL PENSIERO DI CABRAL).

RED AFRICA. IDEE PER RIPORTARE MARX IN AFRICA
Mezzo secolo fa, una feroce controffensiva dell’imperialismo occidentale, guidata dagli Stati Uniti, stroncava la speranza dei Paesi non allineati, molti dei quali pervenuti da poco all’indipendenza, di imboccare la via dello sviluppo e della transizione al socialismo.
Prima di tale sconfitta, esistevano realmente le condizioni oggettive e soggettive per liberare una gran parte dell’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento? Il libro di Kevin Ochieng Okoth tenta di rispondere al quesito, analizzando nel contempo le cause del fallimento di quel grandioso movimento. Ma soprattutto descrive il livello più avanzato – quello che nel libro viene chiamato Red Africa – che quel ciclo di lotte ha espresso sul piano politico, teorico e ideologico. Il punto di vista dell’autore non è onnicomprensivo, nel senso che non si occupa di tutte le lotte rivoluzionarie del Terzo Mondo: accenna solo episodicamente a quelle asiatiche e latinoamericane concentrandosi invece su quelle delle popolazioni africane e afroamericane (statunitensi e caraibiche) e descrivendo la nascita e il tramonto di quell’internazionalismo nero che, dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso, ha incendiato le due sponde dell’Atlantico.
L’interesse di questo lavoro, tuttavia, non è esclusivamente, e forse nemmeno prevalentemente, di tipo storico perché esiste già – anche se poco nota in Italia – un’ampia bibliografia sugli eventi che vi sono descritti; è anche e soprattutto di tipo teorico, nella misura in cui tocca quattro temi cruciali del dibattito in ambito marxista (e più in generale antimperialista): 1) le lotte dei neri contro il colonialismo, il razzismo e l’imperialismo sono assimilabili a quelle degli altri popoli oppressi, oppure coinvolgono una dimensione specifica che può essere colta solo evocando lo statuto “ontologico” dell’essere neri (Blackness nel libro)? 2) la teoria marxista è in grado di interpretare le complesse e stratificate relazioni di oppressione e sfruttamento (economico, razziale, coloniale, ecc.) che oppongono bianchi e neri, oppure incorpora una serie di elementi eurocentrici che ne inficiano la comprensione del fenomeno?; 3) i residui di comunitarismo (o comunismo primitivo) e le tradizioni culturali precapitalistiche incorporano un potenziale anticapitalistico, oppure si tratta di formazioni sociali storicamente regressive, inutilizzabili, se non dannose, ai fini di una trasformazione in senso socialista? 4) la nascita di stati-nazione formalmente indipendenti a seguito delle lotte anticoloniali è stata una tappa ineludibile del processo di emancipazione dei Paesi del Terzo Mondo, oppure si è trattato, come sostiene Antonio Negri, del “dono avvelenato” (1) dei movimenti di liberazione nazionale, che ne ha agevolato l’integrazione nel sistema neoliberista?
Nella prima parte riassumerò l’analisi storica dell’autore. Nella seconda entrerò nel merito dei quattro quesiti appena elencati, la cui importanza trascende a mio avviso i temi affrontati da Okoth, nel senso che aiuta a capire le ragioni del fallimento di quel marxismo occidentale che non solo non ha dato un contributo significativo alle lotte delle nazioni postcoloniali, ma soprattutto non ha saputo riconoscere che da quelle lotte è emersa una visione innovativa del marxismo che rappresenta un antidoto all’irrigidimento dogmatico che la teoria ha subito alle nostre latitudini.

1. Nel ventennio che va dalla conferenza di Bandung (1955) alla crisi petrolifera degli anni Settanta, si gioca una partita che vede, da una parte, il fronte unito dei popoli del Terzo Mondo, molti dei quali convergono nel movimento dei Paesi non allineati e, dall’altra, il blocco occidentale, impegnato nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Okoth definisce “spirito di Bandung” il tentativo da parte dei primi di fondare la solidarietà non sulle affinità razziali e culturali, bensì sul rifiuto comune di colonialismo e imperialismo. La denominazione di “non allineati” esprime una rivendicazione di autonomia rispetto ai due contendenti della Guerra Fredda, il che non implica la rinuncia all’obiettivo di perseguire un’inedita forma di socialismo terzomondista. Si tratta di una velleità che, per quanto non egemonizzata (anche se in varia misura sostenuta e appoggiata) dal blocco sovietico, rappresenta un’intollerabile sfida agli interessi economici e politici dell’imperialismo occidentale, soprattutto a quelli degli Stati Uniti, impegnati a instaurare un vincolo neocoloniale sulle regioni del mondo che si sono appena emancipate dal dominio delle potenze europee (è il motivo per cui l’America, dopo la sconfitta francese di Dien Bien Phu, si sostituisce all’esercito francese nella guerra contro il Vietnam).

Gli Stati Uniti hanno un’ulteriore ragione di paventare le turbolenze del Terzo Mondo. Lo spirito di Bandung, che permea i leader delle lotte di liberazione nazionale nel continente africano, ha infatti contagiato i neri d’America. Leader afroamericani radicali come Malcolm X viaggiano in Africa e tornano con la convinzione della necessità di dare vita a un internazionalismo nero. Il Black Campus Movement, che investe gli atenei nel decennio ’65-’75, secerne un miscuglio di marxismo, nazionalismo e panafricanismo, mentre i Black Studies, che nascono sotto la spinta di questo ciclo di lotte, vengono concepiti come strumento per formare gli “intellettuali organici” della rivoluzione nera. La controffensiva Usa sul fronte interno è durissima sia sul piano militare che su quello culturale e ideologico. Sul primo, si è assistito a una campagna di omicidi mirati e di incarcerazioni, che ha sistematicamente smantellato le organizzazioni delle sinistre nere radicali. Per quanto riguarda il secondo, Kevin Ochieng Okoth descrive dettagliatamente il processo di “normalizzazione” dei Black Studies che vede l’espulsione/marginalizzazione dei docenti “pericolosi” e la loro sostituzione con professori neri “moderati”.
A offrire gli strumenti ideologici di questa contropropaganda provvedono, in particolare, due scuole di pensiero: l’afropessimismo 2.0 e gli Studi Decoloniali (assieme a certe correnti del pensiero postcoloniale). L’afropessimismo 2.0 (nel libro AP 2.0) viene così definito per distinguerlo dall’afropessimismo “classico” (che attribuiva i problemi delle nazioni di recente indipendenza alla cultura politica africana, inefficiente e corrotta “per natura”). I suoi guru – fra i quali Frank Wilderson e Jared Sexton – propongono un’“ontologizzazione” della Blackness, sostenendo che la violenza contro i neri non è il prodotto del supersfruttamento economico e dell’oppressione coloniale, bensì di una presunta “necessità ontologica” inscritta negli stessi fondamenti della modernità occidentale: il mondo moderno necessita della violenza contro i neri, per cui il Nero/Schiavo viene disumanizzato ed escluso a priori dall’esercizio della politica. Ne consegue che non è impegnandosi nella politica che può ottenere riconoscimento e riscatto.
Il punto di vista degli Studi Decoloniali – che hanno il loro massimo esponente in Walter Mignolo (2) – è ancora più radicale: la questione della decolonizzazione può essere affrontata e risolta solo attraverso un approccio simbolico-culturale. Accantonata la categoria marxista di sfruttamento, l’emancipazione dei neri può arrivare solo dalla riscoperta delle proprie radici identitarie e culturali; il delinking dall’economia e dalla politica metropolitane auspicato dal marxista Samir Amin (3) viene rimpiazzato dal delinking dall’episteme occidentale. Sia queste due scuole che molti esponenti degli Studi Postcoloniali liquidano le lotte di liberazione nazionale (soprattutto se ispirate dall’ideologia marxista) in quanto “stataliste”, nella misura in cui abbracciano quel concetto di stato-nazione che è tanto consustanziale alla modernità occidentale quanto alieno alle tradizioni politico-culturali africane; il marxismo è irrimediabilmente “eurocentrico” e dunque incapace di interpretare le contraddizioni specifiche della condizione coloniale. Queste posizioni non sono egemoniche solo nelle università angloamericane (e sempre più in quelle del resto del mondo occidentale), ma si diffondono anche fra gli intellettuali neri di tutto il mondo, Africa compresa, dove, come vedremo fra poco, contribuiscono a rafforzare l’egemonia delle neoborghesie postcoloniali.
La controffensiva imperialista sul fronte africano non è meno feroce che negli Stati Uniti e, sebbene negli anni Settanta la vittoria vietnamita e le rivoluzioni delle ex colonie portoghesi riuscissero a tenere alta la bandiera della via socialista alla liberazione nazionale, già a quell’epoca il grosso del lavoro per Washington e le altre potenze neocoloniali era sostanzialmente compiuto. In primo luogo, attraverso gli assassinii mirati di molti leader africani (Patrice Lumumba in Congo, Omar Blondin Diop in Senegal, Pio Gama Pinto in Kenya, Amílcar Cabral in Guinea Bissau, fra gli altri) o golpe di destra, come quello che ha rovesciato il presidente ghanese Nkrumah. Poi, con la cooptazione di buona parte delle borghesie nazionali che avevano guidato le rivoluzioni di liberazione nazionale, comprese quelle che avevano esibito la bandiera del “socialismo africano” (Senghor in Senegal, Kenyatta in Kenya, Touré in Guinea, Nyerere in Tanzania). Infine, sfruttando la crisi del debito seguita alla crisi petrolifera, che ha messo le nazioni del Terzo Mondo nelle mani del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dei loro “aiuti”, vincolati all’adozione di politiche liberiste.
Okoth attribuisce la scarsa capacità di resistenza di questi pseudosocialismi africani nei confronti dell’offensiva occidentale, oltre che alle difficoltà oggettive associate alla costruzione di nuove entità nazionali, alla debolezza ideologica dei rispettivi leader. Occupandosi in particolare di Senghor, ne mette in luce lo stretto rapporto con il concetto di Negritudine. Questo movimento politico-culturale ha avuto il merito – soprattutto grazie ad Aimée Césaire (4) – di esaltare la bellezza, lo spirito e le forme dell’arte e della cultura africane, favorendo nel contempo lo sviluppo di un sentimento di orgoglio antirazzista nelle popolazioni di colore. Senghor lo ha però sfruttato per alimentare il mito dell’originarietà del comunitarismo africano come fondamento di una via alternativa al socialismo. In particolare, rovesciando la prospettiva di Althusser (5), Senghor ha contrapposto il Marx “umanista” delle origini al Marx “scientista” della maturità, sostenendo che il primo era più funzionale al progetto di un socialismo con caratteristiche africane.
Dal canto loro, leader come Kenyatta, Touré e Nyerere hanno formulato progetti ancora più drastici di “africanizzazione” del socialismo, respingendo in toto il marxismo in quanto ideologia eurocentrica (in sintonia con le posizioni dell’AP 2.0 e degli Studi Decoloniali, richiamate poco sopra). Okoth liquida questo approccio accusandolo senza mezzi termini di essere una mascheratura ideologica delle borghesie nazionali per giustificare la propria resa agli interessi imperialisti occidentali, come dimostra il fatto che tutti questi regimi hanno represso le opposizioni di sinistra.
Del tutto diverso il giudizio di Okoth sulle lotte di liberazione delle ex colonie portoghesi (Guinea Bissau, Capoverde, Angola e Mozambico). Questi movimenti (Red Africa nel libro) si sono sviluppati in un contesto del tutto particolare e diverso da quello di altri Paesi africani: a partire da una composizione di classe che vedeva la presenza di masse di coloni bianchi poveri emigrati dalla madrepatria in cerca di lavoro, nonché di una piccola borghesia nera progressista che, pur avendo subito un processo di assimilazione, nutriva sentimenti patriottici; nonché dalle condizioni favorevoli create dalla Rivoluzione dei Garofani, che ha rovesciato il regime fascista di Salazar nel 1974. Ma soprattutto si tratta di movimenti che hanno optato per una visione marxista del processo rivoluzionario (con diverse sfumature: mentre la base contadina e studentesca subiva l’influenza cinese, l’élite dirigenti sono rimaste perlopiù filo-russe, anche se non dogmaticamente marxiste-leniniste). In particolare, Okoth esalta la concezione del processo rivoluzionario sviluppata da Amílcar Cabral, una visione che, sempre secondo Okoth, ha favorito la sperimentazione, nelle zone liberate nel corso della guerra anticoloniale, di forme avanzate di democrazia diretta e partecipativa. Un esperimento che la concentrazione nelle mani dello stato-partito avrebbe poi liquidato. Ma di questo parlerò nella prossima parte.

2. RIPARTO DAI QUATTRO TEMI TEORICI ELENCATI NELL’INTRODUZIONE.
(1) Sulla Blackness.
Con la sua approfondita critica del concetto “monolitico” di Blackness, Okoth offre un importante contributo alla comprensione degli effetti politico-culturali della “svolta linguistica” nelle scienze sociali, smascherandone la natura funzionale al progetto di spoliticizzazione del conflitto di classe in generale e del conflitto fra popoli del Terzo Mondo e centri metropolitani in particolare, nonché la negazione dell’intimo rapporto fra lotta di classe e lotta antirazzista. L’AP 2.0 e gli Studi Decoloniali, da un lato, “ontologizzano” la condizione dei neri evocando la figura del Nero/Schiavo, che, oltre a essere un prodotto necessario della modernità in quanto tale – e non delle esigenze dell’accumulazione primitiva del capitale –, diviene così qualcosa di assolutamente diverso dagli altri soggetti razzializzati dall’oppressione coloniale; dall’altro lato, spostano il progetto dell’emancipazione dal terreno della critica dell’economia politica a quello della decolonizzazione dei linguaggi e dei saperi.
Questa operazione è non a caso un prodotto del milieu accademico anglosassone, e di una casta intellettuale priva di rapporti con i soggetti di lotta. Per smontarla, Okoth dimostra come tale approccio sia frutto di una visione che si concentra sull’esperienza afroamericana negli Stati Uniti, ignorando sia l’esistenza di differenti forme di schiavismo in America Latina, Africa e mondo islamico, sia la pluralità delle tipologie di relazione fra razzismo e sfruttamento capitalistico – una pluralità che rispecchia le differenti forme che l’oppressione imperialista assume in diversi contesti regionali. Stabilito che la Blackness, in quanto categoria ontologica, è un mero costrutto accademico, Okoth dedica un intero capitolo del libro a respingere il maldestro tentativo di arruolare il giovane Fanon di Pelle nera, maschere bianche (ETS, Roma 2015) nel campo dei teorici delle radici esclusivamente psichiche e identitarie del conflitto razziale, opponendolo al Fanon antimperialista e anticapitalista de I dannati della terra (Einaudi, Torino 2007).
2a) A PROPOSITO DELL’EUROCENTRISMO MARXISTA.
Che nel pensiero di Marx ed Engels, e più in generale nella tradizione del marxismo occidentale (in assai minor misura in Lenin, che tuttavia non può essere agevolmente inquadrato in tale tradizione), esistano elementi di eurocentrismo è un dato di fatto innegabile, come è stato ampiamente argomentato, fra gli altri, da Hosea Jaffe (6). Del resto ciò appare inevitabile ove si considerino il periodo storico e il contesto geografico in cui si è svolto il lavoro teorico dei padri fondatori del comunismo, così come è certificato dal persistere di tracce di progressismo illuminista, evoluzionismo e positivismo nella loro opera (vedasi la sopravvalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive, la visione teleologica del processo storico, ecc.) (7). Che tali elementi inficino la capacità del marxismo di offrire un contributo decisivo all’analisi delle lotte per l’emancipazione dei popoli coloniali, come sostenuto dagli autori criticati da Okoth, è tutt’altra storia.
Okoth si avvale di un’ampia bibliografia per dimostrare come Marx abbia descritto, sia pure in modo non sistematico, il peso strategico del lavoro non retribuito nell’accumulazione del capitale, oltre ad analizzare la relazione fra accumulazione primitiva, razzismo e schiavismo, nonché la persistenza di forme di sfruttamento precapitalistiche come fenomeni permanenti e strutturali del modo di produzione e non come meri residui. Ma soprattutto valorizza la svolta dell’ultimo Marx (8), riferendosi alla famosa lettera a Vera Zasulic (9) e al suo confronto critico con i populisti russi in merito alla possibilità che le comunità contadine russe fossero in grado di approdare al socialismo senza passare dalla fase capitalistica. L’approccio di Okoth, per inciso, è condiviso da diversi marxisti latinoamericani, come il peruviano Carlos Mariategui (10) e il boliviano Álvaro Linera (11). Ignoro se Okoth conosca questi contributi, quel che è certo è che considera il pensiero di Amílcar Cabral come la punta più avanzata della corrente di pensiero che chiama Red Africa, e Cabral ha espresso posizioni analoghe a quelle appena richiamate attribuendo alla “classe nazione” il ruolo di protagonista della prima fase della rivoluzione anticoloniale; fase alla quale, per transitare verso il socialismo, dovrebbero seguire una seconda fase, in cui emergono le differenze di classe nella società postcoloniale, e una terza fase, caratterizzata dal suicidio delle avanguardie piccolo borghesi in quanto classe come preludio alla rivoluzione sociale. In un passaggio illuminante del libro che avete appena letto, leggiamo che il vero problema non è cosa può fare il marxismo per queste rivoluzioni, bensì cosa possono fare queste rivoluzioni per il marxismo. Concordo pienamente, nel senso che molte rivoluzioni del Terzo Mondo, in Asia (Cina e Vietnam), in Africa (Guinea, Angola e Mozambico), in America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia), hanno stimolato profonde rielaborazioni della teoria marxista che oggi rappresentano, rispetto all’esausto marxismo occidentale, strumenti assai più affilati per una rivoluzione anticapitalista mondiale.

3) CULTURE TRADIZIONALI E TRANSIZIONE SOCIALISTA
Certe forme di comunitarismo primitivo vanno considerate come meri residui precapitalistici, oppure possono esprimere (vedi punto precedente) un potenziale anticapitalista? Su questo problema la posizione di Okoth non è del tutto chiara. Da un lato, laddove critica i “socialismi” africani che rifiutano l’eurocentrismo marxista e assumono i valori e le pratiche solidali delle formazioni sociali precoloniali come base di una via alternativa al socialismo, sembra propendere per la prima alternativa, citando gli autori che rifiutano come regressive le infatuazioni “nostalgiche” e primitiviste. Dall’altro, non può non prendere atto che anche le ideologie dei movimenti che chiama Red Africa integrano in qualche misura il marxismo con le culture tradizionali dei Paesi in cui operano (pena il distacco fra élite culturalizzate e masse popolari). In poche parole, come conferma il fatto che nel libro mancano riferimenti ai marxismi latinoamericani citati poco sopra (né, tanto meno, al socialismo “con caratteri cinesi”), si ha la sensazione che Okoth fatichi a discostarsi dal modello “canonico” di socialismo e comunismo formulato da Marx ed Engels a fine ’800. Ciò detto, la vera questione che sta dietro a tutto ciò è squisitamente filosofica: il valore universale di un’esperienza rivoluzionaria si misura in relazione alla sua approssimazione a un qualche dogma teorico, oppure anche, se non soprattutto, in relazione ai suoi risultati pratici? E più in generale: esiste un criterio universale di giudizio che non sia il prodotto “locale” della razionalità occidentale? Tuttavia, non è ovviamente questa la sede per affrontare un interrogativo così impegnativo.

4) STATO-NAZIONE E RIVOLUZIONE ANTICOLONIALE
Anche sulla questione dello stato-nazione la posizione di Okoth non è scevra di ambiguità. Da un lato, polemizza con le correnti dell’anarchismo nero che esaltano l’esperienza dei maroons (gli schiavi fuggiaschi caraibici) che fondavano comunità autosufficienti e autogestite, senza stato, e afferma a più riprese che l’aspirazione all’autodeterminazione dei popoli coloniali è necessariamente associata alla costruzione di stati-nazione, l’unico strumento che possa consentire loro di affermare la propria identità e i propri interessi in un mondo fatto di stati-nazione. Dall’altro, però, cita anche la boutade di Negri secondo cui lo stato-nazione è il “dono avvelenato” delle rivoluzioni anticoloniali (12) e, mentre esalta le forme di democrazia diretta sperimentate nelle zone liberate durante le guerre di liberazione delle ex colonie portoghesi, sembra attribuire la loro successiva sparizione all’affermarsi di un potere centrale monopolizzato da stati-partito modellati sull’esperienza dei socialismi reali. Questa concessione allo Zeitgeist postmoderno delle sinistre occidentali è in sintonia con la parte finale del settimo capitolo, laddove Okoth esalta Andrée Blouin, la femminista nera che sostiene che, se avessero comandato le donne, la rivoluzione anticoloniale avrebbe avuto tutt’altro esito (13).
Personalmente ritengo tuttora valida l’idea, formulata un secolo fa da Lenin, che il principio di autodeterminazione e la lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli coloniali (oggi post-) siano stati e siano tuttora parte integrante della rivoluzione antimperialista e anticapitalista mondiale, e che la costruzione di stati-nazione, pur con tutte le contraddizioni associate a tale processo, sia stata e resti tuttora una tappa fondamentale dell’emancipazione dei popoli e delle classi sfruttate ed oppresse. Ciò appare più che mai valido nell’attuale contesto storico, caratterizzato dalla crisi del processo di globalizzazione guidato dall’imperialismo Usa, in cui molte nazioni postcoloniali lottano per sottrarsi al dominio economico, politico e culturale che l’occidente è riuscito a ristabilire su questi popoli dopo il raggiungimento dell’indipendenza formale – una lotta che potrà avere successo solo assumendo caratteri anticapitalistici. Concludo dicendo che il libro di Okoth, malgrado alcuni limiti che ho cercato di mettere in luce in quest’ultima parte, è senza dubbio un importante contributo alla comprensione delle lotte di classe in Africa, e più in generale nei Paesi del Terzo Mondo: un’impresa strategica che le sinistre postmoderne hanno abbandonato da tempo.
*(Fonte: Sinistrainrete. Carlo Formenti -, giornalista e studioso delle mutazioni sociali e culturali indotte dal digitale e dai nuovi paradigmi scientifici)

Note
(1) Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001.
(2) Cfr. W. Mignolo, C. Walsh, Decolonialità. Concetti, analisi, prassi, Castelvecchi, Roma 2024.
(3) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.
(4) Anche se Okoth rimprovera all’autore del Discorso sul colonialismo il fatto di non essersi mai veramente emancipato dall’egemonia culturale francese, tanto da appoggiare lo status di dipartimento d’oltremare della Martinica, gli riconosce il merito di avere formulato una delle più dure e coerenti denunce del razzismo, arrivando ad assimilare i crimini del nazismo a quelli delle liberaldemocrazie occidentali. Ciò che il borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo rimprovera a Hitler “non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”. Cfr. A. Césaire, Discorso sul colonialismo, onbre corte, Verona 2020, p. 57.
(5) Cfr. L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.
(6) Cfr. H. Jaffe, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995. Chi scrive si è occupato del tema dell’eurocentrismo in Marx ed Engels nell’articolo L’eurocentrismo “funzionale” di Marx ed Engels sul blog” Per un socialismo del secolo XXI” (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html).
(7) Troviamo una delle più accurate analisi di queste tracce della cultura borghese ottocentesca nel corpus delle opere marxiane in C. Preve, La filosofia imperfetta, FrancoAngeli, Milano 1984. Ne ho a mia volta discusso nel primo capitolo, La cassetta degli attrezzi, del primo volume del mio ultimo libro, Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023.
(8) Cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009.
(9) Cfr. K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960.
(10) Cfr. J.C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.
(11) Cfr. A.G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.
(12) Si veda nota 1.
(13) Messa fra parentesi questa tesi ideologica indimostrabile, confesso di essere rimasto irritato dal fatto che la Blouin critica ferocemente Lumumba per essersi arreso ai propri carnefici perché ricattato dal fatto che la sua famiglia era nelle loro mani. Secondo Blouin ha così dimostrato di anteporre i propri sentimenti alla causa rivoluzionaria, cosa che lei, scrive, si sarebbe invece sempre rifiutata di fare. Ammesso che questa rivendicazione sia fondata, ciò dimostrerebbe solo che, per essere veramente rivoluzionaria, una donna dovrebbe allinearsi ai valori di un eroismo guerriero di stampo prettamente maschile, un punto di vista che non credo molte femministe sarebbero disposte a condividere.

 

08 – Angelo Romano *: Come Meloni & Co STANNO METTENDO UNA PIETRA TOMBALE SULLA LOTTA ALLA CRISI CLIMATICAI PRIMI GIORNI DELLE CONFERENZE DELLE NAZIONI UNITE SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO SONO QUELLI CHE VEDONO PROTAGONISTI I LEADER INTERNAZIONALI.

I loro interventi danno già un’indicazione degli umori, delle atmosfere, degli orientamenti generali. Danno una cornice di senso per poter cogliere la direzione che stanno prendendo i governi dei vari paesi. E in questi giorni è andata in scena una vera e propria ode al fossile.
Come interpretare d’altronde l’intervento della Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, le parole del presidente azero, Ilham Aliyev, gli annunci del neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e anche i silenzi e le assenze di tanti leader mondiali, a partire dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen? Come spiegare la presenza record di lobbisti dei combustibili fossili?
Sul palco di COP29 a Baku, Meloni ha esordito raccontando il mondo che vorrebbe lasciare in eredità a sua figlia: “Sono una madre e come madre niente mi dà più soddisfazione di quando lavoro per politiche che consentiranno a mia figlia e alla sua generazione di vivere in un posto migliore”. Nobili intenzioni, il problema è il come. Il percorso indicato infatti dalla nostra presidente del Consiglio per dare a sua figlia un mondo ancora abitabile è proprio la strada che sta portando alla sua invivibilità: combustibili fossili mascherati come energia pulita (gas naturale), tecnologie ancora acerbe (idrogeno), di dubbia efficacia (cattura e stoccaggio della CO2) o lungi dalla loro realizzabilità (fusione nucleare). Quasi nessuna menzione per le energie rinnovabili, su cui tanti altri paesi stanno investendo, vera architrave – al momento – della transizione ecologica.
Il discorso di Giorgia Meloni sul palco di COP29 a Baku, in Azerbaigian, è stato, in altre parole, il manifesto concentrato dell’idea di transizione energetica della destra al governo. Parole che abbiamo già sentito risuonare tante volte in questi due anni di governo: “approccio pragmatico e non ideologico”, “neutralità tecnologica”, “prospettive globali realistiche”.
E vediamolo questo approccio pragmatico e non ideologico: 1) “Al momento non c’è un’unica alternativa ai combustibili fossili, dobbiamo avere una visione realistica”; 2) Dobbiamo utilizzare “tutte le energie a nostra disposizione, non solo le rinnovabili, anche i bio-carburanti e la fusione nucleare”. E proprio riguardo alla fusione nucleare, Meloni ha detto che “intendiamo rilanciare questa tecnologia che potrebbe cambiare le carte in tavola, in quanto può trasformare l’energia da arma geopolitica a risorsa ampiamente accessibile”, ricordando che l’Italia è “all’avanguardia sulla fusione nucleare e ha organizzato il primo incontro del World Fusion Energy Group, promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica”.
Fumo negli occhi per mascherare (neanche tanto poi), tra le righe, l’intenzione del governo di continuare a puntare sul gas, anzi di fare dell’Italia l’hub europeo del gas, come sottolineato tante volte in questi ultimi anni su Valigia Blu.
È questo l’approccio pragmatico e non ideologico della destra al governo e che trova la sua più plastica manifestazione nel cosiddetto Piano Mattei, evocato da Meloni anche a Baku: un programma molto aziendale e poco ecologico, che difficilmente può allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
Poi ci sono gli accordi con l’Azerbaigian, il secondo fornitore di gas dell’Italia dopo l’Algeria, rappresentando circa il 16% dell’import totale di gas. La volontà è ampliare la cooperazione energetica raddoppiando la capacità di trasporto del gasdotto Trans Adriatic Pipeline, sebbene – spiega il rapporto del think tank ECCO ‘Lo stato del gas’ – “l’infrastruttura esistente sia già in grado di coprire i volumi di consumo richiesti”.
“La cosa forse più grave del suo intervento è il sostegno al gas, che contraddice gli impegni climatici di Dubai, fa un regalo all’industria fossile, espone consumatori e imprese ad alti costi dell’energia e mina gli obiettivi di sviluppo sostenibile”, ha scritto in un commento da Baku Luca Bergamaschi, ricercatore di Ecco. “Evocare una ‘svolta storica’ dell’energia da fusione nucleare come ha fatto la Presidente del Consiglio Meloni significa offrire false speranze, proprio in un momento in cui, come dice la stessa premier, serve un ‘approccio pragmatico’”, spiega Nicola Armaroli, direttore di ricerca al CNR e co-fondatore di Energia per l’Italia.
I tempi di realizzazione di reattori sperimentali a fusione nucleare sono incompatibili con quelli necessari per una transizione che faccia rimanere il pianeta sotto 1,5°C o 2°C di aumento della temperatura rispetto ai livelli preindustriali. Basti pensare che la data per la produzione di reazioni a fusione con ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor), il reattore sperimentale a fusione nucleare più grande al mondo che verrà realizzato a Cadarache (in Francia) e di cui l’Italia è tra i partner principali, è stata rinviata al 2039.
La transizione ecologica ha bisogno di soluzione più rapide. E questo è il motivo per cui le soluzioni prospettate dalla presidente del Consiglio sono non solo inutili, ma dannose, come fa notare Elisabetta Ambrosi in un articolo sul Fatto Quotidiano:
“Nel suo discorso Meloni tira fuori una ‘ricetta’ per la transizione fatta di svariate cose diverse, ma unite dalla stessa caratteristica: l’inutilità ai fini della transizione. Anzi, in alcuni casi la dannosità, visto che Meloni salva il gas come elemento su cui puntare. Ma poi c’è altro: i biocarburanti che tanto interessano Eni, la cattura della CO2, che non serve praticamente a nulla, l’idrogeno buttato lì un po’ a caso (il governo non mi pare se ne sia mai occupato), infine, asso nel cappello del discorso della premier, la fusione nucleare. Incredibile: perché la fusione non è assolutamente detto che verrà raggiunta ma soprattutto, se lo sarà, lo sarà solo con tempi lunghissimi che non rispondono in alcun modo alle esigenze schiaccianti di ridurre le emissioni ora. Pena, letteralmente, la distruzione progressiva e repentina della terra”.

Il problema è che l’approccio di Meloni non è isolato, ma trova risonanza nelle parole e le azioni, anche solo simboliche, di altri leader di destra ora al governo. Nel suo discorso di inaugurazione, Ilham Aliyev, il presidente dell’Azerbaigian, il paese che attualmente ospita il vertice sul clima di quest’anno, ha definito il petrolio e il gas un “dono di Dio”. Aliyev ha definito “fake news occidentali” i dati sulle emissioni dell’Azerbaigian e ha detto che le nazioni “non dovrebbero essere incolpate” di avere riserve di combustibili fossili. “Raramente i discorsi di apertura delle conferenze annuali sul clima della COP hanno riservato attacchi politici così franchi e senza mezzi termini, ne difese così aperte dei combustibili fossili – soprattutto da parte della nazione ospitante”, riflette un articolo di Politico, che ricorda come l’Azerbaigian – il terzo petrostato di fila a ospitare una COP – preveda di espandere la produzione di gas fino a un terzo nel prossimo decennio.

Ha fatto notizia, poi, la decisione del presidente argentino, Javier Milei, di ritirare i suoi 80 delegati dal vertice. È la prima volta che Milei dà seguito agli annunci fatti in campagna elettorale quando aveva parlato del riscaldamento globale come di una “bugia socialista” e aveva promesso di abbandonare l’Accordo di Parigi.
Ma questo potrebbe essere il primo segnale dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Già nel 2020, sotto la prima amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono diventati il primo paese al mondo a ritirarsi formalmente dall’Accordo di Parigi nel novembre 2020. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 2021, il neopresidente Biden, appena eletto, aveva poi aderito nuovamente all’Accordo di Parigi e gli Stati Uniti erano tornati a partecipare attivamente al processo climatico delle Nazioni Unite. Durante il suo mandato, Biden è poi riuscito faticosamente a far approvare l’“Inflation Reduction Act”, una legge su clima, salute e tasse che prevede il più significativo investimento federale della storia degli Stati Uniti per contrastare il cambiamento climatico e ridurre il costo dei farmaci da prescrizione.
Con la vittoria di Trump è concreto il rischio di tornare indietro di quattro anni con pericolose ricadute sul contrasto globale alla crisi climatica. Già in campagna elettorale, Trump ha più volte definito il cambiamento climatico una bufala, ha promesso di espandere la produzione di petrolio e gas e di eliminare i controlli sull’inquinamento, e ha minacciato di eliminare gli incentivi federali che promuovono le energie rinnovabili e i veicoli elettrici.
Tuttavia, azzerare l’Inflation Reduction Act sarà problematico, considerato che sono previsti più di 390 miliardi di dollari di investimenti in veicoli elettrici, batterie e altre tecnologie energetiche pulite, che stanno confluendo nei distretti e negli Stati, molti dei quali governati dai repubblicani, e si stanno trasformando in nuove fabbriche e in nuovi posti di lavoro. È probabile che ora gli Stati diventino un baluardo contro gli sforzi federali di annullare la politica climatica, spiega Martin Lockman, collaboratore del Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University: “La sede dell’azione per il clima si sposterà negli Stati. A meno che non ci sia un’inversione completa dell’Inflation Reduction Act, questo è un aspetto in cui le questioni climatiche, anche negli Stati rossi dove non pronunciano la parola ‘clima’, l’impatto sul territorio è innegabile”.
Più semplice, per quanto burocraticamente laborioso, ritirarsi dall’Accordo di Parigi. Il Segretario Generale, António Guterres, ha affermato che il trattato resterà in vigore anche qualora gli Stati Uniti dovessero nuovamente sfilarsi, ma ha esortato Trump a non farlo: “L’accordo di Parigi può sopravvivere, ma a volte le persone possono perdere organi importanti o perdere le gambe e sopravvivere. Ma noi non vogliamo un accordo di Parigi paralizzato. Vogliamo un vero accordo di Parigi”.
Gli effetti potrebbero essere devastanti. Altri paesi potrebbero essere incoraggiati a sfilarsi dall’Accordo di Parigi e a disimpegnarsi dagli obiettivi climatici, con le conseguenze che stiamo già vedendo in questi anni. L’elezione di Trump arriva in un momento cruciale dello sforzo globale per combattere il cambiamento climatico. Entro il 2030 le principali economie dovranno ridurre le loro emissioni di gas serra del 50% rispetto ai livelli del 2005 per evitare di precipitare in un mondo devastato da impatti molto più devastanti del riscaldamento, tra cui carestie, sfollamenti, siccità, morti per caldo estremo e tempeste.
Con le politiche di Biden, gli Stati Uniti erano sulla buona strada per tagliare circa il 40% delle loro emissioni entro quella data. Secondo uno studio del sito britannico Carbon Brief, le politiche di Trump potrebbero portare a un incremento di quattro miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra nell’atmosfera.
In questo contesto politico, hanno fatto rumore poi i silenzi e le assenze di tanti leader internazionali. Alla COP non si sono presentati il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden. Il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, ha annullato la sua partecipazione a causa di una ferita alla testa e non parteciperanno ai colloqui neanche i leader di Cina, Sudafrica, Giappone e Australia. Assente, soprattutto, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. “La Commissione si trova in una fase di transizione e la Presidente si concentrerà quindi sui suoi compiti istituzionali”, ha dichiarato un portavoce.
Gli osservatori hanno definito la defaillance di von der Leyen “un segnale fatale”. “La crisi climatica non aspetta le condizioni ideali per agire, e nemmeno noi possiamo farlo. Dopo la rielezione di [Donald] Trump, l’UE deve ora assumere un ruolo di leadership più forte, sia per sostenere lo slancio che per controbilanciare la posizione degli Stati Uniti”, ha commentato l’europarlamento olandese Mohammed Chahim, vicepresidente della delegazione del Parlamento europeo ai colloqui di Baku.
Perché le parole di Meloni, gli annunci di Trump e l’assenza di importanti leader mondiali sono dei segnali inquietanti
La COP29 arriva in un contesto di forte frammentazione e instabilità internazionale – dopo le elezioni europee e quelle statunitensi, quasi in contemporanea con il vertice dei paesi G20 a Rio de Janeiro, in Brasile, e nel bel mezzo di sanguinosi conflitti in diverse regioni del mondo. Per tutti questi motivi, la COP potrebbe rappresentare uno degli ultimi spazi internazionali in cui dimostrare che una modalità di cooperazione efficace è ancora possibile attraverso il dialogo, l’ascolto e il compromesso. Ma le parole di Meloni e Trump e il silenzio assordante di importanti leader mondiali fanno prefigurare scenari cupi sull’esito dei colloqui che si stanno svolgendo a Baku e sul ruolo del multilateralismo.
La prima ministra delle Barbados, Mia Motley, ha invitato Donald Trump a un incontro faccia a faccia, per trovare un “terreno comune” e convincerlo che l’azione per il clima è nel suo stesso interesse: “Troviamo un obiettivo comune nel salvare il pianeta. Siamo esseri umani e abbiamo la capacità di incontrarci faccia a faccia, nonostante le nostre differenze. Vogliamo che l’umanità sopravviva. E le prove [della crisi climatica] le vediamo ormai quasi ogni settimana”.
La COP29 è un passaggio importante nel percorso iniziato alla COP28 di Dubai, nel 2023, dove si è raggiunto lo storico accordo del transitioning away – o uscita progressiva – dalle fonti fossili già a partire da questo decennio, e che condurrà alla fondamentale COP30 di Belém, in Brasile, dove saranno presentati i nuovi obiettivi e piani nazionali di riduzione delle emissioni al 2035, i cosiddetti NDCs (Nationally Determined Contributions).
Ci si aspetta, in altre parole, di proseguire il percorso di abbandono delle fonti fossili e di dare seguito alle discussioni su come conseguire una transizione energetica equa
Al centro dei negoziati tecnici, infatti, c’è la questione della finanza climatica. Ovvero, quanti finanziamenti prevedere per il clima nei propri paesi? Quanti miliardi di dollari destinare agli Stati più vulnerabili per affrontare i cambiamenti climatici, quali saranno i paesi che vi contribuiranno, quali riforme e azioni mettere in atto per mobilitare la finanza per lo sviluppo, attraverso le banche multilaterali di sviluppo e la finanza privata? Di quali strumenti dotarsi per evitare che i paesi più esposti agli effetti della crisi climatica e più vulnerabili economicamente si indebitino ulteriormente per ricostruire dopo la devastazione portata da eventi meteorologici estremi?
Fino al 2024 ci si era dati l’obiettivo di destinare 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi più vulnerabili ad affrontare i cambiamenti climatici e accelerare la transizione verso le rinnovabili. COP29 dovrà darsi un nuovo ambizioso obiettivo – si parla di migliaia di milardi di dollari – e fare in modo di rendere più trasparenti e più verificabili i criteri attraverso i quali vengono definiti e individuati i finanziamenti per il clima. Come spiega un approfondito articolo del sito britannico Carbon Brief, la finanza climatica è attualmente un “selvaggio west”, perché non esiste una definizione condivisa di ciò di cosa considerare come “finanziamenti per il clima”, la contabilità dei finanziamenti per il clima non è coerente o trasparente e, di conseguenza, alcuni finanziamenti per il clima non contribuiscono ad affrontare il cambiamento climatico, a volte gli Stati dichiarano di investire denaro per clima che potrebbe non essere mai speso o è utilizzato per promuovere gli interessi economici dei paesi donatori.
Come raccogliere, dunque, mille miliardi di dollari per contrastare la crisi climatica, si chiede l’editorialista Damian Carrington, che danni si occupa di cambiamento climatico per il Guardian nella newsletter inviata alla vigilia della COP29? E come farlo in modo trasparente e utilizzare questi soldi realmente? È la grande domanda dei negoziati di Baku.
Mille miliardi di dollari sembrano un sacco di soldi, spiega Carrington, ma riflettendoci non sono poi una cifra così esorbitante. Negli ultimi 50 anni, l’industria mondiale del petrolio e del gas ha realizzato ogni anno mille miliardi di dollari di puro profitto. Nel contesto globale mille miliardi di dollari sono meno dell’1% del PIL mondiale. “Ogni giorno, ministri delle finanze, amministratori delegati, investitori e banchieri per lo sviluppo spostano migliaia di milardi di dollari”, osserva Simon Stiell, il massimo funzionario delle Nazioni Unite per il clima. Si tratta di indirizzare quelle cifre nella giusta direzione. Gli Stati Uniti hanno già impegnato un miliardo di dollari in tre anni per la propria azione a favore del clima.
Quindi, i soldi ci sono, si tratta di decidere di spenderli, e anche in fretta, considerato che, osserva ancora Stiell, sono molti meno “dei costi che ogni nazione pagherà se lasciamo che la crisi climatica continui a dilagare, devastando ogni anno sempre più vite e territori”. Tuttavia, questa verità, che ci viene sbattuta in faccia praticamente ogni giorno da tutte le latitudini, non suscita la reazione politica che sarebbe lecito attendersi. In pratica i leader mondiali fanno finta di non sapere e continuano a ritardare l’azione per il clima portandoci sempre di più in cima al precipizio.
*(Angelo Romano – Redattore – Valigia Blu – Antropologo, esperto di antropologia urbana e di antropologia delle istituzioni e delle politiche urbane.)

 

 

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