N°46 – 16/11/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Sen. La Marca*: presenta una interrogazione sul riconoscimento delle patenti di guida Italia-Ontario al MIT e al MAECI
02 – Aldo Torchiaro*: “Serve più concretezza sulla classe media” – La Marca (Pd): “La sinistra deve usare un linguaggio più popolare, che è il contrario dell’essere populista”
03 – Trefiletti Rosario *: perché l’inflazione frena ma i prezzi aumentano. Il carrello della spesa costa sempre di più: rincarano soprattutto i prodotti agro alimentare
04 – Antonio Piemontese*: Baku. La conferenza del clima – A Cop29 ci sono più lobbysti del petrolio che dei Paesi più colpiti dalla crisi climatica – Sono 1.773 quelli a Baku, secondo un censimento da parte di un gruppo di Ong che ogni anno monitora la loro attività alle conferenze sul clima dell’Onu
05 – Roberto Ciccarelli*: Tutte le domande non fatte a Fitto sul fallimento del Pnrr – Poveri ma bellici L’audizione lacunosa e surreale al parlamento Ue di Raffaele Fitto, già ministro delegato alla rogna del Pnrr in Italia, a partire dai dati della fondazione Openpolis. Un candidato a gestire fondi europei che lascia in Italia una montagna irrisolta di problemi
06 – Juan Carlos De Martin*: Elon Musk e l’attacco al cuore della democrazia – Piattaforme Sommare potere economico e potere mediatico non può che distorcere, anche molto seriamente, il processo democratico
07 – Leonardo Mazzei *; Trump, la guerra e le illusioni – Un voto figlio del caos. Dunque, Trump è stato rieletto. La portata dell’evento è chiara. Meno, molto meno, le sue effettive conseguenze.
08 – Alfiero Grandi*: L’autonomia differenziata, gli attacchi alla Costituzione e la via dei referendum.

 

 

01 – Sen. La Marca*: PRESENTA UNA INTERROGAZIONE SUL RICONOSCIMENTO DELLE PATENTI DI GUIDA ITALIA-ONTARIO AL MIT E AL MAECI

In questi giorni, la Sen. La Marca ha presentato un’interrogazione parlamentare [link] ai Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti e degli Affari Esteri, sollecitando una risposta sulle trattative riguardo al riconoscimento reciproco delle patenti di guida tra l’Italia e la Provincia canadese dell’Ontario.
Nel suo recente incontro con il Premier dell’Ontario, Doug Ford, e il Ministro dei Trasporti di quella Provincia, Prabmeet Singh Sarkaria, la Senatrice La Marca ha avuto un confronto diretto sulla questione, evidenziando le criticità che penalizzano i cittadini italiani residenti in Ontario.
La Senatrice ha sottolineato come un accordo di riconoscimento reciproco sia ormai indispensabile per agevolare la vita dei tanti italiani che trasferiscono la residenza in quel Paese. Il Premier Ford e il Ministro Sarkaria hanno informato la Senatrice di aver inviato al Ministero dei Trasporti italiano una bozza di trattativa alla quale però il MIT non ha dato riscontro.

AD OGGI, INFATTI, NON È POSSIBILE PROCEDERE CON IL RICONOSCIMENTO RECIPROCO DELLE PATENTI DI GUIDA TRA L’ITALIA E L’ONTARIO, NONOSTANTE L’ACCORDO QUADRO TRA I DUE STATI FEDERALI SIA STATO SIGLATO NEL LONTANO 2017.

“Non è accettabile che, in un’epoca in cui la mobilità e l’interconnessione sono essenziali, i nostri connazionali debbano subire disagi che potrebbero essere facilmente risolti con un accordo mirato. L’Italia e il Canada, entrambi membri del G7, dovrebbero facilitare tali intese, in nome di una collaborazione che agevoli i cittadini e rafforzi le relazioni bilaterali”, ha dichiarato la Senatrice.
A margine della presentazione dell’interrogazione, La Marca ha ribadito la necessità che il Governo italiano risponda concretamente alle esigenze della comunità italiana in Ontario e dia seguito alla trattativa con le autorità locali, arrivando quanto prima a un accordo. “Mi aspetto risposte chiare dai Ministri interrogati, perché questo è un diritto fondamentale per chi risiede e lavora all’estero. Serve una risposta rapida alle osservazioni già trasmesse dal Ministero dei Trasporti dell’Ontario e ancora in attesa di riscontro.”
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

02 – Aldo Torchiaro*: “SERVE PIÙ CONCRETEZZA SULLA CLASSE MEDIA” – LA MARCA (PD): “LA SINISTRA DEVE USARE UN LINGUAGGIO PIÙ POPOLARE, CHE È IL CONTRARIO DELL’ESSERE POPULISTA”

FRANCESCA LA MARCA, SENATRICE PD ELETTA NEL COLLEGIO ESTERO DELL’AMERICA SETTENTRIONALE E CENTRALE, HA SEGUITO DA VICINO – COINVOLGENDO ANCHE I SUOI ELETTORI – LA CAMPAGNA ELETTORALE DI KAMALA HARRIS.
LA SCONFITTA DELLA HARRIS DEVE INDURRE A RIFLETTERE ANCHE I DEM ITALIANI…

«A posteriori è facile criticare. La realtà è che ha svolto un’ottima campagna elettorale in soli 101 giorni. L’America ormai da molto tempo è del tutto divisa. Ho percepito molta speranza da parte dell’America progressista, non per la continuità con Biden ma per la svolta rappresentata da Harris: una donna, una donna di colore sarebbe stata una novità importante. Ma ha prevalso un sentimento di rabbia. Di chiusura. L’ho visto e percepito, ed era inaspettato a questi livelli».

QUANDO HA CAPITO COME SAREBBE ANDATA?
«Quando ho parlato con la comunità italo-americana e ho capito che avrebbe preso molto consenso anche da loro. Avevo la sensazione che Trump fosse in vantaggio, avevo capito che tanti che avevano votato dem stavano diventando trumpisti, ma questi numeri hanno sbalordito tutti. E insisto su un punto: il voto di Trump non è necessariamente un voto di destra, ma un voto che unisce e recupera delusioni diverse».

PROGRESSISTI IN CADUTA LIBERA ALLE ELEZIONI, SENZA IDEE SU WELFARE, TASSE E SICUREZZA
TORNIAMO SULLE RAGIONI DELLA DIVISIONE ? COSA CONTRIBUISCE A SPACCARE COSÌ IN DUE FAZIONI OPPOSTE GLI AMERICANI ?
«Va detta una cosa: la mentalità, la filosofia di vita dello statunitense medio è agli antipodi dell’europeo medio. Sa cosa lo muove in primis? Le esigenze primordiali, all’affitto, il prezzo della benzina. Quasi esclusivamente, e molto più delle tematiche ambientali, del clima, della geopolitica. Queste cose in America non appassionano nessuno, salvo una netta minoranza. Si sono create perciò due Americhe, una colta, globalizzata, filoeuropea che stava con Obama, Biden, Harris. Un’altra America profonda che si vede poco, all’estero, ma in patria incide eccome».

E NON LO SAPEVA, KAMALA HARRIS?
«Lei ha fatto quello che poteva anche nel comunicare ai più lontani dalla politica, ma la presa di Trump sull’americano medio è stata prevalente, come dimostrano i numeri».

IL TEMA DELLE GUERRE HA PESATO?
«L’americano medio non capisce la guerra in Ucraina. Vede i suoi soldi che finiscono in un buco nero di spese militari sulle quali non ha contezza. Non ne capisce l’urgenza, non ne vede il bisogno. Bisogna ripensare alla politica come luogo della mediazione, non si può chiedere a chi non lo è di diventare appassionato di geopolitica, bisogna parlare con un linguaggio più semplice e misurarsi sul terreno che è reale oggetto di contesa elettorale. Tasse, lavoro, sicurezza sono gli argomenti che incidono, parlare di altro può essere più coerente, più identitario, ma non è premiante».

E ADESSO QUALI SARANNO LE CONSEGUENZE SULLE NOSTRE RELAZIONI ITALIA-USA?
«Difficile fare previsioni con un personaggio imprevedibile come Trump, lo scopriremo solo vivendo».

C’E’ UNA LEZIONE CHE I DEMOCRATICI ITALIANI POSSONO TRARRE DA QUESTA LEZIONE AMERICANA ?
«C’è una grande crisi della sinistra in tutto il mondo, ma qualcosa bisogna fare, a partire da un ritorno al dialogo diretto con chi lavora, per misurarsi più da vicino con le questioni che stanno a cuore (e nelle tasche) degli elettori. La lezione è che in primis quando la gente si sente depauperata, non riesce più a rispondere ai suoi bisogni primari, diventa individualista, egoista. È un tratto umano. E allora bisogna scendere dal piedistallo, dare risposte concrete a problemi concreti. La sinistra è vista come élite, come establishment. Deve mostrarsi più pragmatica. Popolare in senso dialettico, che forse è il contrario dell’essere populista».

E ALLORA RISPETTO AI TEMI DI NICCHIA, I NUOVI DIRITTI, LA CRISI CLIMATICA, CHE COSA DEVONO FARE I DEMOCRATICI?
«Sono temi importanti e che riguardano tutti noi, ma non possono sintetizzare certo tutti i bisogni della classe media. Bisogna lavorare sul potere d’acquisto, sul diritto ad abitare, sulla precarietà del lavoro».

COSA PREVEDE, PER IL FUTURO?
«Vedremo la crisi anche in Canada: Justin Trudeau è nel momento più basso della sua popolarità, l’anno prossimo si vota in Canada e a quanto dicono i sondaggi ha alte probabilità di vincere un esponente della destra ultranazionalista, Pierre Poilievre. Il Trump canadese. L’effetto-domino di Trump non si ferma».
*(Aldo Torchiaro – Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.)

 

03 – Trefiletti Rosario *: PERCHÉ L’INFLAZIONE FRENA MA I PREZZI AUMENTANO. IL CARRELLO DELLA SPESA COSTA SEMPRE DI PIÙ: RINCARANO SOPRATTUTTO I PRODOTTI AGRO ALIMENTARI

DOPO I CONSISTENTI AUMENTI DEL 2022 E DEL 2023, CONTINUA PURTROPPO, E IN MANIERA INESORABILE, L’ASCESA DEI PREZZI, SOPRATTUTTO QUELLI AGROALIMENTARI.
CIÒ È CONFERMATO DALLE ULTIME RILEVAZIONI DEL NOSTRO.

Osservatorio Nazionale. Altro che affermarne il calo poiché frena il tasso d’inflazione! Ancora una volta si rende necessario ribadire che quello che si va configurando è il rallentamento della cosiddetta curva ascensionale dell’inflazione, la sua aggressività, ma non la diminuzione dei prezzi, che anzi continuano ad aumentare. E comunque anche si fossero stabilizzati, si mantengono su cifre molto elevate. Inoltre, i prezzi c prodotti della spesa alimentare quotidiana non sono aumentati, come la media dell’inflazione codificata dall’lstat nel triennio, di circa il 16%, bensì con percentuali medie del 70-80%, ormai insopportabile e insostenibili da parte delle famiglie italiane; DAI CALCOLI SI EVINCE CHE CIÒ INCIDE PER UN AUMENTO DELLA SPESA DELLE FAMIGLIA CIRCA 2.500 EURO ALL’ANNO, O SE PREFERITE AUMENTO DI 208 EURO AL MESE, PORTANDO LA SPESA COMPLESSIVA MEDIA A FAMIGLIA A 748 EURO MENSILI DALLA PRECEDENTE DI 540 EURO.
Tutto ciò ha conseguenze nefaste sia sulla qualità della vita dei cittadini, soprattutto a basso reddito, sia sui consumi che si contraggono, a danno della stessa economia del Paese che registra una riduzione della produzione industriale del -3,4% e a chiusure di punti vendita del mercato. Quindi alti prezzi, stipendi al palo, pensioni con una perequazione bistrattata e inadeguati strumenti di aiuto alle famiglie fragili e a basso reddito sono le cause di un calo del potere di acquisto e un relativo indebolimento del mercato. Insomma famiglie e Paese stanno decisamente peggio e necessitano, da parte di chi ha responsabilità istituzionali di una netta inversione di tendenza nella politica economica: si lavori e si persegua un aumento di occupazione qualificata, non povera e precaria, si incrementino gli stipendi attraverso i rinnovi contrattuali e si adeguino correttamente le pensioni. Non solo: si aumentino gli investimenti qualificati, anche e soprattutto accelerando quelli relativi al Pnrr — oltre 200 miliardi – nonché si mettano in campo interventi di sostegno al reddito delle famiglie indigenti e povere che hanno raggiunto una cifra terrificante, al cui interno sono coinvolti, ahimè, circa un milione e mezzo di bambini.
E questo non lo possiamo né lo dobbiamo permettere.
*(Trafiletti Rosario – Presidente Centro Consumatori Italia)

 

04 – Antonio Piemontese*: BAKU. LA CONFERENZA DEL CLIMA – A COP29 CI SONO PIÙ LOBBYSTI DEL PETROLIO CHE DEI PAESI PIÙ COLPITI DALLA CRISI CLIMATICA – SONO 1.773 QUELLI A BAKU, SECONDO UN CENSIMENTO DA PARTE DI UN GRUPPO DI ONG CHE OGNI ANNO MONITORA LA LORO ATTIVITÀ ALLE CONFERENZE SUL CLIMA DELL’ONU

Baku – Si mimetizzano tra i delegati al bar, nelle hall della sede di Cop29, la conferenza dell’Onu sul clima. Qualcuno riesce a infilarsi nelle sale negoziali. Stringono mani, supportano i negoziatori nell’immane lavoro di semplificazione dei testi, proponendo sintesi, compromessi, suggerimenti interessati. La coalizione Kick big polluters out (Kbpo, Fuori i grandi inquinatori), che raccoglie 450 organizzazioni non governative a livello mondiale, ha fatto i conti. Sarebbero almeno 1773 i lobbysti dell’OIL and gas, tra i principali settori economici indiziati per il surriscaldamento globale, presenti a Cop29. Un numero stimato per difetto. Poche delegazioni hanno più personale in Azerbaijan: quella locale, come è ovvio (2.229 membri), quella del Brasile, dove si svolgerà la Cop30 dell’anno prossimo, (1.914 elementi) e quella turca (1.862). Wired ha potuto vedere la lista in anteprima.

IL RAPPORTO DELLE ONG
Nelle conferenze del clima, progressivamente allargate nel corso degli anni, ogni Paese dispone di un seggio e un microfono. Dopo l’edizione monstre di Dubai, quest’anno le tessere rilasciate sono diminuite: solo 52mila partecipanti, rispetto ai 97mila di dodici mesi fa. I lobbysti, però, non sono calati in proporzione: negli Emirati erano 2.450. Tutti assieme, accusano le organizzazioni, hanno ricevuto ben 1.033 badge, cifra che supera quella delle dieci nazioni più vulnerabili al cambiamento climatico: Ciad, Isole Solomon, Niger, Micronesia, Guinea-Bissau, Somalia, Tonga, Eritrea, Sudan e Mali.

Molti di questi colletti bianchi delle pubbliche relazioni, dirigenti e consulenti sono riusciti a superare il complicato processo di accreditamento e a entrare al centro congressi di fronte all’Olympiastadion di Baku, la capitale azera, grazie all’aiuto di alcune organizzazioni nazionali per il commercio: le più rappresentate (otto su dieci) sono occidentali. Davanti a tutti, la International Emission Trading Association, che, secondo il rapporto di Kbpo, avrebbe veicolato 43 persone, inclusi i rappresentanti di alcune aziende del settore petrolifero, come Total, e Glencore, multinazionale anglo-svizzera attiva nel settore minerario. Segue il World Business Council for Sustainable Development, con ventisette persone.

Dal Giappone sarebbe arrivato personale riconducibile al gigante del carbone Sumitomo. Dal Canada, a Suncor Energy e Tourmaline. Quest’ultima si autodefinisce “il più grande produttore di gas del Paese”. In questo caso l’effetto è addirittura comico. Navigando la pagina web, la società si dichiara “focalizzata sulla crescita a lungo termine da ottenere tramite un programma aggressivo [sic] di esplorazione, sviluppo, produzione e acquisizione nei bacini sedimentari del Canada Occidentale”. C’è di più. Viene sottolineato senza tema persino l’ovvio: per esempio, come l’obiettivo della compagine sia quello di “ottimizzare i ritorni per gli investitori focalizzandosi su efficienze operative e di costo”.
L’Azerbaijan, il cui presidente, Ilham Aliyev, nell’assemblea plenaria di Cop29 ha definito il petrolio “un dono di Dio”, anche in omaggio alla lunga tradizione zoroastriana di adorazione del prezioso liquido, evidentemente non è l’unico luogo del Pianeta a pensarla così. Pare funzionare: negli ultimi cinque anni il valore delle azioni di Tourmaline si è impennato. Segno che i risultati non sono mancati. Per l’Italia ci sarebbero persone riconducibili a Edison, Italgas e ai giganti energetici Enel ed Eni. Al Cane a sei zampe, assieme alle società oil and gas Chevron, ExxonMobil, BP e Shell, secondo Kobp sarebbero riconducibili 39 accrediti. C’è naturalmente anche Socar, la compagnia di stato azera per gli idrocarburi: un elemento legato all’azienda avrebbe al collo un badge italiano.
Non c’è solo l’industria delle fonti fossili tra i corridoi. Tra i 52mila delegati ci sono anche figure legate all’agri-business (fertilizzanti e pesticidi vengono prodotti anche col petrolio), alla finanza, alla lobby dei trasporti, anche se non sono conteggiate nel rapporto. Non poteva mancare Big Tech, con molti dei nomi più grandi tra le multinazionali del digitale: sempre utile conoscere di persona chi conta nei Paesi del globo, soprattutto quando i consumi energetici dell’intelligenza artificiale stanno andando alle stelle, rappresentando una frazione non indifferente di quelli mondiali. E il tema non è stato ancora affrontato come sarebbe necessario. Le Cop servono anche a questo.

LA METODOLOGIA
La metodologia è quella di altri rapporti simili. I dati sono stati ottenuti sulla base di quelli forniti l’11 novembre dalla Unfcc, la Convenzione Onu sul cambiamento climatico, che sovrintende le conferenze sul clima, ed elaborati utilizzando tool di machine learning e intelligenza artificiale. I nomi in lista sono stati confrontati con quelli delle precedenti edizioni della Cop.
“Conteggiamo organizzazioni o delegazioni come lobbysti se può essere ragionevolmente supposto che abbiano l’obiettivo di influenzare la formulazione o l’implementazione di politiche o legislazione spostandole verso l’interesse di una compagnia fossile e dei suoi azionisti”, scrive la coalizione nello studio. Le connessioni sono state ipotizzate cercando tra siti web, profili social, articoli di giornale e altre fonti pubbliche.
Grazie alla pressione delle Ong e della stampa, a Cop28 si cominciò a richiedere dettagli sulle affiliazioni. Da quest’anno, inoltre, durante il processo di accreditamento alla conferenza del clima è necessario dichiarare l’organizzazione per cui si lavora o la natura della propria relazione con questa, il proprio ruolo e la delegazione cui si afferisce.

“Questi numeri sono gli unici che siamo riusciti a vedere, basandoci sulle informazioni disponibili” ha detto Brice Böhmer, responsabile clima per la ong Transparency International. E ha aggiunto: “Ma la rete di influenze di questi gruppi potenti e in molti casi corrotti arriva molto oltre. Bisogna migliorare la chiarezza su chi partecipa alle Cop: c’è ancora un 20% di aggregati alle delegazioni nazionali a cui è stato consentito di non dichiarare la propria affiliazione. Non possiamo lasciare che interessi sporchi tengano in scacco le conferenze se vogliamo ripristinare la fiducia nel processo decisionale globale sul clima”. Ben Goloff, del Center for Biological Diversity degli Stati Uniti, punta il dito: “Le stesse società che hanno finanziato la campagna di Donald Trump stanno facendo stalking nelle hall della Cop29, con l’obiettivo di distruggere l’azione climatica”.
*(Fonte: Wired – Antonio Piemontese. giornalista professionista. Laureato in Scienze Politiche. Dopo gli inizi in cronaca, si occupa prevalentemente di economia)

 

05 – Roberto Ciccarelli*: TUTTE LE DOMANDE NON FATTE A FITTO SUL FALLIMENTO DEL PNRR – POVERI MA BELLICI L’AUDIZIONE LACUNOSA E SURREALE AL PARLAMENTO UE DI RAFFAELE FITTO, GIÀ MINISTRO DELEGATO ALLA ROGNA DEL PNRR IN ITALIA, A PARTIRE DAI DATI DELLA FONDAZIONE OPENPOLIS. UN CANDIDATO A GESTIRE FONDI EUROPEI CHE LASCIA IN ITALIA UNA MONTAGNA IRRISOLTA DI PROBLEMI

La domanda non è stata fatta a Raffaele Fitto durante la sua audizione al parlamento europeo da candidato vicepresidente della Commissione Ue. Se il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non sarà pienamente realizzato cosa può accadere all’economia italiana e in generale al primo esperimento di fondo europeo comune sul quale quasi tutti i partiti, anche in Italia, hanno messo le mani?

FITTO L’EQUILIBRISTA RACCOGLIE APPLAUSI MA RESTA SUL FILO
Il problema è che ci siamo avviati verso l’ennesima occasione persa. E non sono stati previsti investimenti per il dopo-Pnrr. È un problema noto dall’inizio e ignorato da tutti. «Se non si prevede come fare vivere opere come le case di comunità nella sanità o gli asili nidi con assunzioni di personale che non sono previste o sono precarie di fatto si stanno costruendo cattedrali nel deserto. È sempre stato questo il problema: la mancanza di una visione strategica» osserva Luca Del Poggetto, analista della Fondazione Openpolis che in questi anni ha accumulato una grande esperienza sullo stato del Pnrr.

CAOS STUDENTATI: ALLARME BERNINI, A RISCHIO I FONDI PNRR
Fitto ieri ha celebrato in maniera surreale il «successo» del «suo» Pnrr. Tale «successo» è stato desunto dall’attività della Guardia di Finanza che bracca i crescenti casi di corruzione e di malversazione legati al Pnrr. In realtà questo è uno degli effetti di una decisione presa dal governo con la revisione del Pnrr. La necessità di velocizzare la spesa e di recuperare i ritardi che sono sotto gli occhi di tutti ha portato ad allentare i «lacci e i lacciuoli», cioè i controlli della Corte dei Conti, con l’obiettivo di arrivare alla scadenza del giugno 2026 entro la quale dovrebbero essere spesi tutti i 194 miliardi di euro destinati all’Italia tra prestiti e sovvenzioni.

NON GARANTITI GLI ASILI NIDO AL SUD NONOSTANTE IL PNRR
Si sta correndo il rischio dell’infiltrazione della criminalità organizzata pur di impiegare fondi che sono difficili da spendere. E non si bada troppo alla qualità degli interventi e all’utilità delle opere. In questo quadro sono stati tagliati gli interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei comuni: sei miliardi di euro sono stati spostati altrove. Troppo piccoli e complicati da spendere in 18 mesi.

A tale proposito è rivelatrice l’elaborazione di Openpolis sui pochi dati messi a disposizione dal governo. Si conoscono parzialmente quelli sulle spese sostenute per singolo progetto. Quelli conosciuti sono solo i dati aggregati a livello di misura. Ciò significa che Meloni & Co. non intendono fare sapere a che punto è il Pnrr perché emergerebbero i ritardi con il rischio concreto di far fare una brutta figura a Fitto che si candida a gestire il Pmrr a livello europeo. Avendo posto le premesse per il suo fallimento in Italia.

PUGLIA, LA FINZIONE DEI FONDI PNRR PER SUPERARE I GHETTI DEI BRACCIANTI
Quello che Fitto ha detto ieri sul «45 o 48% degli obiettivi raggiunti» lascia il tempo che trova. Per Openpolis è sui dati sulla spesa che bisogna ragionare. E questi sono preoccupanti. A giugno 2024 è stato speso il 26% delle risorse, cioè 51 miliardi di euro. In un anno e mezzo si dovrebbe spendere il triplo. Una missione in salita, a quanto pare. Alle ripetute richieste di trasparenza sui dati inviate da decine di associazioni è stata data una risposta interlocutoria. «A noi sembra evidente che si mira a guadagnare tempo» osserva Del Poggetto di Openpolis.

CNR, 4MILA RICERCATORI A RISCHIO
Ha tenuto banco nell’audizione di Fitto l’ipotesi di destinare, in parte o in toto, i fondi europei per la coesione sociale all’industria delle armi. L’ipotesi ventilata da un articolo del Financial Times è stata sottoposta a Fitto che, giustamente, ha detto che oggi è vietato. Salvo che la Commissione Von Der Leyen non decida, con la complicità suicida degli Stati membri, di proporre dal 2027 in poi una riforma complessiva del programma quadro nell’ambito del progetto di transizione a un’economia di guerra dopo l’elezione di Trump. In tal caso all’Italia sarebbe sottratto un fondo pari a quello attuale di 75 miliardi di euro, cofinanziamenti inclusi. Opzioni poco plausibili a parte, forse si andrà verso la definizione di un «Pnrr numero 2» destinato solo alle armi, sull’onda del rapporto Draghi.

Ma il problema dei fondi di coesione è un altro. Non solo non si riescono a spendere questi soldi, ma una volta stanziati vanno ad arricchire chi li ha già. Nell’audizione nessuno ha chiesto a Fitto la ragione per cui una parte dei fondi per la coesione sociale sono già oggi destinati alle imprese, e non alla transizione verde o alle infrastrutture sociali. E non è stato chiesto perché sta avvenendo la stessa cosa nel Pnrr.
Sulla base dei dati della Corte dei Conti Openpolis ha sostenuto che la revisione del Pnrr voluta da Meloni e Fitto ha comportato la riduzione di 11,5 miliardi di euro inizialmente destinati alle opere pubbliche a vantaggio degli sgravi e degli incentivi per le imprese. Ciò ha comportato il dirottamento di risorse cospicue dai territori in difficoltà, e dai piccoli comuni, soprattutto del Sud, verso le imprese più organizzate che al Sud non ci sono.
«Questa decisione velocizza e gonfia il dato sulla spesa – osserva Del Poggetto – ma pone un problema: si tolgono i fondi dalle opere pubbliche e, come dice l’Ufficio parlamentare di bilancio, rende più difficile controllare alcuni obiettivi del Pnrr. Ad esempio il rispetto della quota del 40% dei fondi al Sud. Con questo tipo di investimenti chi prima arriva, prima alloggia».
*(Fonte Il Manifesto. Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto. Ha pubblicato, tra l’altro, Il Quinto Stato)

 

06 – Juan Carlos De Martin*: ELON MUSK E L’ATTACCO AL CUORE DELLA DEMOCRAZIA – PIATTAFORME: SOMMARE POTERE ECONOMICO E POTERE MEDIATICO NON PUÒ CHE DISTORCERE, ANCHE MOLTO SERIAMENTE, IL PROCESSO DEMOCRATICO.

Per quasi un decennio i social media sono stati capri espiatori così comodi che, se non fossero esistiti, qualcuno li avrebbe probabilmente inventati. Che cosa c’è, infatti, di più comodo del dare la colpa a Facebook, a Twitter o a TikTok per un voto andato storto, come per esempio quello del referendum sulla Brexit o l’elezione di Trump nel 2016? (Quando il voto, invece, va come si desidera, tutto in ordine sotto il cielo). Per completare l’operazione politica bastava poi aggiungere l’interferenza straniera (tipicamente russa): chi aveva perso non aveva comunque nulla di sostanziale da rimproverarsi, era tutta colpa dei social media e dei mestatori stranieri. Tutto, insomma, pur di non dedicarsi al difficile lavoro di comprendere la realtà sociale, e al pesante, ma essenziale, esercizio dell’autocritica.

Non che i social media, i motori di ricerca, e ora anche i servizi di «intelligenza artificiale» come ChatGPT non possano influenzare gli elettori: certo che li influenzano, anche se in genere in maniera meno diretta di quanto pensino alcuni (che peraltro in genere tendono a sminuire il ruolo, ancora molto importante, dei media tradizionali). E diamo anche per acquisito, per quanto contrario al principio di non interferenza nelle vicende interne altrui, che alcuni Stati stranieri cerchino di influenzare le vicende politiche, incluse quelle elettorali, di altri Paesi: dal momento che l’hanno fatto, e non di rado, non pochi Paesi occidentali (anche tra di loro), sarebbe strano che il gioco non funzionasse anche in senso inverso. In questi casi andrebbe contrastato con gli strumenti previsti dalla legge, e non usato con troppa leggerezza per giustificare i propri insuccessi politici.

Oggi con la seconda elezione di Trump la fase dei social media come capri espiatori si è forse conclusa. Complice l’entità del suo successo, si è tornati a un grande classico della democrazia: dare la colpa agli elettori. Questo si è letto su molti commenti, negli Stati uniti e anche in Italia: sono gli elettori colpevoli di essere retrogradi, ignoranti, zotici, se non semplicemente vecchi e rimbambiti. Qualcosa del genere si era già sentito ai tempi di Brexit e Trump 1, ma allora erano stati, appunto, i social media a ricevere la maggior parte delle critiche, forse perché erano fenomeni ancora relativamente recenti. L’effetto di questo ritorno al passato è comunque quello di evitare analisi e autocritiche, indispensabili. Con in più il rischio, opposto, di non prestare abbastanza attenzione – questa volta – ai social media, e in generale, al ruolo delle tecnologie digitali nei processi politici democratici. Dove la maggior parte dell’attenzione dovrebbe concentrarsi su due aspetti.

Il primo, ben noto, è il rapporto tra potere economico e media: non solo chi detiene rilevanti interessi economici non dovrebbe poter possedere media (tradizionali, nuovi o social che siano), ma neanche avere il potere di influenzarli, per esempio con l’acquisto di pubblicità oltre una determinata soglia o con altri contributi. Vale per Jeff Bezos col Washington Post, per Elon Musk con Twitter, ma anche in tanti altri casi, anche in Italia e in Europa. Sommare potere economico e potere mediatico, infatti, non può che distorcere, anche molto seriamente, il processo democratico. Il secondo aspetto riguarda specificamente le piattaforme social come Twitter, Facebook, Instagram e Tik Tok. In questo caso parliamo non di uno specifico giornale o di un determinato canale Tv, ma di qualcosa che assomiglia a una piazza, dove in teoria chiunque ha diritto di parola, ma col proprietario della piazza che si riserva il diritto non solo di toglierla a chi vuole, ma anche e soprattutto di decidere – da dietro le quinte, senza dare dell’occhio – a chi dare un megafono e a chi no, chi rendere sostanzialmente invisibile e chi mettere su un piedistallo, quali temi enfatizzare e quali smorzare (o, addirittura, proibire). Insomma, si tratta apparentemente di piazze, luoghi pubblici per eccellenza, dove in linea di principio siamo tutti siamo uguali, ma in realtà sono piazze dove ciò che capita è fortemente influenzato da chi le possiede. Elon Musk, mettendosi al centro della piazza che si è comprato a così caro prezzo si è procurato un podio da cui può raggiungere tutto il mondo.
Ma il problema non è solo Musk, questa persona che, come un Berlusconi al quadrato, è arrivato a sommare potere economico (Tesla, SpaceX, ecc.), potere mediatico (Twitter/X) e, grazie alla sua vicinanza al presidente Trump, potere politico. Il problema di fondo è che le piazze del XXI secolo sono private, ovvero, non sono più veramente piazze. E senza piazze è difficile concepire la democrazia.
*(Fonte Il Manifesto – Juan Carlos De Martin. Professore ordinario presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino ha cofondato e co-dirige il Centro Nexa su Internet e Società presso il Politecnico di Torino)

 

07 – Leonardo Mazzei *; TRUMP, LA GUERRA E LE ILLUSIONI – UN VOTO FIGLIO DEL CAOS. DUNQUE, TRUMP È STATO RIELETTO. LA PORTATA DELL’EVENTO È CHIARA. MENO, MOLTO MENO, LE SUE EFFETTIVE CONSEGUENZE.

L’INEVITABILE PROFLUVIO DI ARTICOLI E COMMENTI CHE NE È SEGUITO A CALDO POCO AIUTA.
Se banalità, recriminazioni, speranze e delusioni sono la norma in questi casi, più complesso stavolta trovare il bandolo della matassa sulla svolta che verrà impressa alla politica americana. La difficoltà non nasce solo dal personaggio Trump, ma dal vero caos che attraversando il mondo arriva al cuore di un impero americano che non ha più la certezza del suo dominio illimitato.
È questo caos che ha prodotto Trump, non il contrario, come invece vorrebbero le autistiche anime belle del progressismo europeista. L’ha prodotto per riportare l’ordine, ma come il suo predecessore ben difficilmente ci riuscirà.

Il caos è figlio di una crisi che non è solo economica. Più esattamente, esso è figlio dell’incapacità di dare risposta a quella crisi. Un’incapacità che unisce sia la cupola globalista (in genere intricata con le sinistre transgeniche), che il populismo liberista di destra. Quest’ultimo si presenta come “populista” quand’è all’opposizione, rivelando immancabilmente la sua natura ultra-liberista (dunque antipopolare e sistemica) quando arriva al governo. Meloni docet!
La crisi che attanaglia l’Occidente ha infatti un nome: neoliberismo. Quel sistema non è solo ingiusto, esso semplicemente non funziona. Ma, per una maledetta congiuntura storica, la sua crisi si è prodotta nel punto più basso della lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Da qui l’accanimento terapeutico nel riproporre, ogni volta a dosi maggiori, tutte le mostruosità sociali dell’ultimo quarantennio. Il neoliberismo ha fatto cilecca? Diamoci dentro con un neoliberismo rafforzato, concettualmente senza limiti (alla Milei, per intenderci), meglio se inserito in una cornice fortemente autoritaria. Questo riflesso tipico dei dominanti ben lo conosciamo dalle nostre parti. Un esempio: l’Unione Europea è un fallimento? Niente paura, quel che occorre è semplicemente “più Europa”. E via di seguito.

Ovviamente Trump non è una Meloni qualsiasi. Egli prenderà la residenza alla Casa Bianca, non a Palazzo Chigi. Più esattamente, la riprenderà dopo 4 anni di vacanza, secondo caso nella storia degli Usa dopo quello di Grover Cleveland che fu eletto nel 1885 e rieletto nel 1893. La rarità di un simile ritorno ci parla della forza e della profondità del trumpismo. La qual cosa non dev’essere però scambiata per una irresistibile avanzata, come ci dicono i dati ufficiali sul voto.

Stavolta Trump ha vinto con 72,7 milioni di voti, contro i 68,1 della Harris. Smentendo ogni previsione, il candidato repubblicano ha dunque avuto una netta affermazione anche nel voto popolare, oltre che nel numero di “grandi elettori” conquistati. Ma il suo risultato in voti è stato addirittura inferiore a quello da lui ottenuto nelle elezioni perse del 2020 (74,2 milioni). Il fatto è che questa volta la candidata democratica ha perso ben 13,1 milioni di voti rispetto a quelli presi da Biden nel 2020. Alla fine le cose non cambiano, ma è più corretto parlare di un tracollo della Harris, piuttosto che di uno sfondamento di Trump. E, d’altra parte, lo scarto in termini percentuali (50,9% contro 47,6%) non è certo travolgente.

Trump controllerà sicuramente il Senato e quasi certamente la Camera dei rappresentanti. La residua incertezza sta nel fatto che a cinque giorni dal voto non tutti i seggi della Camera sono stati assegnati: misteri della straordinaria efficienza della macchina burocratica a stelle e strisce! Nei numeri sarà quindi un presidente forte, almeno nei primi due anni del suo mandato. Lo sarà anche nel realizzare il suo programma? Questo ce lo diranno solo i fatti, ma la memoria del precedente quadriennio (2017-2021) ci parla soprattutto di un gran casino interno alla sua amministrazione. Probabilmente stavolta sarà diverso, ma chissà. Se il caos che colpisce l’impero è frutto anche dello scontro interno ai dominanti, difficile pensare che i gruppi perdenti tardino ad agire. Vedremo.

La sconfitta della cosca globalista… e quel che verrà

Che la cosca globalista sia stata sconfitta è certamente un fatto positivo. Doppiamente positivo, perché quella cosca è la prima responsabile della guerra in corso. Ma l’affermazione di Trump non è stata certo la vittoria dei pacifisti contro i guerrafondai. Essa è stata piuttosto il frutto di un giudizio di merito sull’incapacità dell’amministrazione Biden di vincere la guerra. In altre parole, i democratici non avrebbero perso se Putin fosse stato sbaragliato. Ma così non è andata, e il conto è stato depositato nelle urne.

L’impasse in Ucraina ha contribuito a portare sul banco degli imputati il globalismo. Quella americana è una storia di guerre, ma mai come questa volta la scelta bellicista è apparsa collegata a una visione ideologica. Putin è stato sì presentato come un aggressivo dittatore, ma pure come un omofobo e un alfiere dei combustibili fossili, sordo al richiamo ossessivo alla questione climatica. Questi temi, così come quello dei flussi migratori, spaccano gli Stati Uniti in due. Una frattura nella quale si è inserito con successo Trump, il quale però non avrebbe comunque vinto senza la crescente spaccatura sociale tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione. La carta a colori degli Usa, con il blu dei democratici a colorare gli stati della East e della West Coast, e il rosso dei repubblicani a riempire lo spazio degli stati più interni, ne è la più evidente rappresentazione.

Ovviamente, i commentatori anti-trumpiani fanno notare come appaia assurdo questo sostegno degli strati popolari a un multimiliardario, per giunta accompagnatosi nell’occasione con l’uomo più ricco del mondo, quell’Elon Musk che con la sua Tesla è il simbolo stesso dell’odiata transizione energetica pensata su misura per i ricchi. Questi commentatori avrebbero ragione, se non fossero gli stessi che nulla hanno da dire sui soldi di Bill Gates, George Soros e altri “benefattori” della loro setta. E avrebbero ragione se segnalassero almeno di sfuggita lo stato effettivo della cosiddetta “democrazia” liberale – cosa che si guardano bene dal fare – dove a competere nelle campagne elettorali a suon di miliardi sono ormai solo i pochi Paperoni che possono permetterselo.

Quello in corso da anni negli Usa è il più classico degli scontri tra dominanti. La lotta tra un’oligarchia col “bollino blu”, progressista e politicamente corretta, e l’outsider di turno che si fa largo con l’astuzia e la spregiudicatezza, nasconde in realtà il conflitto tra le diverse bande e gli opposti interessi di un sistema che è per sua natura conflittuale al suo interno. Almeno a noi italiani, il caso di Silvio Berlusconi dovrebbe averci insegnato qualcosa.

Tornando agli Usa, se le ragioni che hanno portato alla crisi di egemonia del blocco globalista sono piuttosto evidenti, meno chiaro è quel che seguirà. Il trumpismo è infatti un impasto assai eterogeneo, abbastanza coeso nell’opporsi al progressismo cosmopolita, ma denso di contraddizioni sul piano sociale. Ecco perché, man mano che la politica della nuova amministrazione si dipanerà, la crisi americana potrebbe in realtà aggravarsi. Esattamente quello che ci auguriamo.

La Guerra Grande a una svolta?

Fin qui la politica “interna”, con l’ovvia avvertenza che l’interno di una grande potenza come gli Usa si proietta sempre all’esterno, intrecciandosi inevitabilmente con la stessa politica estera di Washington. Se al globalismo si sostituisce la rinazionalizzazione dell’economia americana, sebbene sempre in forma privatistica e mercatista, ovvie le conseguenze sui tanti paesi che con gli Usa commerciano in maniera massiccia. Il caso degli annunciati dazi, e delle preventive convulsioni politiche tedesche, ce ne offre una dimostrazione evidente. Questa spinta alla rinazionalizzazione non è tuttavia una novità, né un’esclusiva repubblicana, basti pensare all’enorme sostegno all’economia nazionale (2.000 miliardi) varato da Biden nel 2021. Con Trump, però, questo processo subirà un’accelerazione. In quale misura e in quali forme ce lo diranno i prossimi mesi.

Ma il tema che più interessa, quello che più intriga e alimenta illusioni, è certamente quello della guerra. Trump non ha l’obbligo della continuità con l’amministrazione Biden, dunque può permettersi – almeno in teoria – un’ampia libertà di manovra. Come la eserciterà? Il “nuovo” presidente ama parlare di pace, ed è qui che ogni abbaglio è possibile. Abbagli pericolosi, fuorvianti, da contrastare con decisione e da subito.

Per molti l’arrivo di Trump segnerà la fine della guerra in Ucraina, dunque il riconoscimento della sconfitta occidentale. A parere di chi scrive un errore gravissimo. Trump non solo non metterà fine alla Guerra Grande (copyright Limes), ma finirà probabilmente per aggiungere nuova benzina all’incendio in corso. Mi rendo conto che si tratta di una lettura decisamente controcorrente, ma che ritengo realista e ben fondata. Vediamo il perché.

Dovrebbe essere chiaro a tutti come la guerra d’Ucraina sia stata decisa a suo tempo a Washington per disintegrare la Federazione Russa, come premessa al decisivo confronto con la Cina. Ora la guerra non sta andando come nei disegni americani, ma questo non significa certo la rinuncia ai suoi obiettivi strategici. Obiettivi necessariamente bipartisan, che nessun capo dell’impero a stelle e strisce potrebbe mai contrastare neppure se lo volesse.

Quello che un presidente può fare – e che Trump sicuramente farà – è invece la rimodulazione dei piani di guerra. Il che non è poca cosa, ma è l’esatto contrario della fine della guerra. Sbaglia quindi sia chi pensa che nulla cambierà, sia chi pensa che il cambiamento consista nella pace.

Per capire in cosa consisterà questo tentativo di rimodulazione (tentativo, perché molto dipenderà da chi sta dall’altra parte della barricata) bisogna fare un passo indietro. Quando si parla di Terza Guerra Mondiale non si intende un conflitto immediatamente generalizzato e istantaneamente alla magnitudo più elevata. Si intende invece un conflitto esteso, esistenziale per le parti in lotta, che potrà concludersi solo con la ridefinizione di nuovi equilibri globali. Come si è visto fin qui, un simile conflitto può svolgersi con l’uso di armi avanzatissime, ma stando al di sotto della soglia nucleare, sebbene il rischio di arrivarvi sia sempre elevato. Un conflitto di questo tipo può prevedere anche periodi di tregua armata, di scaramucce non decisive, come pure momenti in cui la guerra economica prevale sul confronto militare.

FATTA QUESTA PREMESSA, VENIAMO AL NODO DECISIVO DELLA QUESTIONE.

Mentre aumenterà la pressione sulla Cina, Trump pare orientato a dare via libera a un attacco più deciso di Israele nei confronti dell’Iran. Sappiamo tutti come per l’entità sionista siano decisive le armi che arrivano da oltreoceano, nonché le portaerei dispiegate nel Mediterraneo e nel Golfo Persico. Una copertura mai messa in discussione da Biden alla faccia del genocidio a Gaza, ma che sarà ancora più forte con Trump nel ruolo di comandante in capo. Se alle dichiarazioni seguiranno i fatti, la situazione in Medio Oriente non potrà che peggiorare. Altro che svolta di pace!

A QUESTO INDURIMENTO SUL FRONTE MEDIORIENTALE SEGUIRÀ UN ALLENTAMENTO SU QUELLO UCRAINO? QUESTA È L’IPOTESI CHE FANNO IN MOLTI, MA QUANTO È REALISTICA?

Attenzione a un Minsk III
La domanda è: cosa intende Trump quando parla di pace? C’è davvero l’idea di riconoscere un posto diverso alla Russia negli equilibri internazionali, accettando quindi un passo indietro nelle pretese della Nato, o si sta solo preparando l’ennesimo tranello? In tutta evidenza – almeno a me così pare – la “seconda che hai detto”, come direbbe il comico.
Da qui l’estranea prudenza di Putin, la cui circospezione non risponde solo a evidenti esigenze diplomatiche. Dieci anni fa a Mosca sono rimasti scottati con i protocolli di Minsk I (5 settembre 2014) e Minsk II (12 febbraio 2015), accordi truffa completamente disattesi sia da Kiev che dai suoi protettori occidentali. E grande è il timore di finire intrappolati in una sorta di Minsk III, che servirebbe solo alla Nato per guadagnare tempo e riorganizzarsi, per poi riprendere la guerra al momento opportuno.

A oggi Trump non ha ancora presentato il suo piano. Ma da quello che trapela (cioè, che viene lasciato trapelare) l’idea sarebbe quella di: (1) congelare il fronte sulle linee attuali, (2) istituire una fascia demilitarizzata, (3) rimandare sì per 20 anni l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, garantendogli però una copertura militare quantomeno equivalente. Sono accettabili per la Russia questi tre punti? La risposta è no.

Il cessate il fuoco avverrebbe infatti sul modello coreano, senza alcun accordo di pace. Un riconoscimento de facto, ma non de jure, della realtà sul campo. Chiaro come una simile “soluzione” terrebbe sotto pressione la Russia per i prossimi anni. Per Mosca una prospettiva inaccettabile.
Ancora più improponibile il punto (3). L’idea di Trump, evidentemente già elaborata da tempo negli ambienti Nato, è semplice. Fare finta che l’Ucraina non entri nel Patto Atlantico, assicurandogli però lo stesso sostegno che gli è stato fornito per preparare e condurre la guerra in corso. Questo obiettivo verrebbe raggiunto con la firma di un gran numero di accordi bilaterali tra gli stati della Nato e Kiev, sul modello di quello sottoscritto tra Meloni e Zelensky nel febbraio scorso. Se finisse così la futura Ucraina, pur formalmente esterna, finirebbe per essere non un semplice membro ordinario, ma addirittura un super-membro di fatto della stessa Nato. Altro che la neutralità chiesta da Putin!

Ovvio come questo punto della mancata neutralità se ne porti dietro un altro, quello della “denazificazione” chiesta dal Cremlino. “Denazificare” significa cambiare radicalmente l’attuale gruppo al potere a Kiev, non passare semplicemente da Zelensky (comunque ormai bollito) a un qualsiasi uomo dell’entourage di Porošenko (il presidente dei crimini del 2014) come sembra si voglia fare.

È naturale che Trump voglia imporre una svolta. La situazione attuale è infatti insostenibile per la Nato. Fallite le sanzioni, la Russia potrebbe essere sconfitta solo con l’invio di un nutrito contingente militare, operazione per la quale al momento i bellicosi europei non sembrano ancora pronti. Di fronte all’alternativa tra la sconfitta e l’invio delle truppe, quella di Trump è una mossa astuta quanto infida: prendere tempo senza nulla concedere a Putin.

Chi scrive non crede che Mosca cadrà nel tranello, anche se le pressioni di altri paesi dei Brics potrebbero spingere in quella direzione. Certo, l’idea della trattativa verrà sicuramente accolta. Ma discutere dei preliminari di una trattativa è cosa ben diversa dal concluderla. E iniziarla – questo è il punto decisivo (vedi le vicende del Vietnam e della Corea) – non significa necessariamente un cessate il fuoco.

Chi vivrà vedrà. Ma non ci stupiremmo se dovesse essere proprio questo il primo punto di inciampo di una trattativa che è difficile in sé, ma soprattutto per il contesto generale in cui eventualmente si svolgerà. A Mosca sanno perfettamente che l’intenzione di Trump non è certo quella di arretrare nel conflitto globale col quale gli Usa vogliono ribadire la propria supremazia. MAGA – Make America Great Again (rendere l’America di nuovo grande) –, è stato il motto col quale Trump ha vinto il 5 novembre. Che lo possa realizzare ne dubitiamo fortemente, ma che lo voglia perseguire con tutti gli strumenti è certo.
In quanto a tempi, mezzi, tattiche e priorità la guerra di Trump non sarà identica a quella di Biden, ma guerra sarà. Meglio saperlo.

PS – In questo articolo, già fin troppo lungo, non ci siamo occupati delle ricadute della vittoria di Trump in Europa. Qui ne vedremo delle belle, e non solo per le contorsioni dei commentatori da talk show e dei tanti burattini che popolano il teatrino della politica continentale. Serio sarà l’impatto sulla tenuta di tanti paesi e della stessa Ue. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo.
*(Fonte: Sinistrainrete. Leonardo Mazzei, giornalista)

 

08 – Alfiero Grandi*: L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA, GLI ATTACCHI ALLA COSTITUZIONE E LA VIA DEI REFERENDUM.

SULL’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA (LEGGE CALDEROLI 86/2024) C’È ATTESA PER IL PRONUNCIAMENTO DELLA CORTE SUI RICORSI PRESENTATI DA 4 REGIONI SULLA SUA INCOSTITUZIONALITÀ CHE ARRIVERÀ NELLE PROSSIME SETTIMANE, MA NON TUTTO È FERMO, COME DOVREBBE ESSERE, IN ATTESA DELLA SENTENZA.

Anzi, Calderoli sta puntando a creare fatti compiuti, insieme ai sodali leghisti Zaia e Fontana, per frenare l’impatto delle decisioni della Corte sulla legge e in vista del referendum abrogativo la cui l’ammissibilità verrà decisa a gennaio. Non a caso Giorgia Meloni ha fatto due tentativi, per fare eleggere un suo candidato nella Corte costituzionale per influire direttamente sulle sue decisioni. Tentativi falliti ma che hanno reso evidente il disegno di mettere sotto controllo anche gli organi di garanzia costituzionale coe la Corte e il CSM, stravolgendo l’equilibrio costituzionale del 1948.

Perfino Tajani, Ministro degli Esteri e leader di Foraza Italia, ha risposto picche, parlando in Veneto, alle pretese di Zaia chiarendo che commercio e rapporti con l’estero debbono restare allo stato, come ha chiesto il Presidente della Calabria Occhiuto, FI.

Il governo non ha voluto chiarire preventivamente quali materie e funzioni era disponibile a cedere alle regioni, rinviando le decisioni alla Presidente del Consiglio e questo rende oggi inevitabili crepe nella maggioranza.

La talpa Calderoli lavora anche sulla Protezione civile. Zaia e Fontana ne pretendono i poteri per lo stato di calamità, per i soccorsi, per i fondi (guarda caso) dimenticando che la Protezione civile in Italia si è consolidata come struttura tecnica nazionale con tutti gli apporti necessari.

Abbiamo visto cosa è accaduto nella tragedia di Valencia dove il Presidente del Pais ha dichiarato l’emergenza quando il territorio era già allagato, ritardando la mobilitazione delle strutture di soccorso, aggravando i danni e il numero delle vittime.

La Protezione civile italiana funziona, è imitata da altri paesi, come struttura tecnica pronta ad affrontare emergenze che difficilmente seguono i confini regionali. La Protezione civile semmai andrebbe rafforzata come struttura nazionale, risolvendo il problema di garantire che i soccorsi abbiano tutte le risorse necessarie durante l’emergenza e dopo, mentre sappiamo che le popolazioni colpite sono tuttora in attesa dei ristori. Nella legge di bilancio le risorse per i danni delle alluvioni non ci sono, malgrado le promesse di Giorgia Meloni.

Anche Musumeci sembra avere detto no a Zaia e Fontana, ottenendo reazioni non amichevoli. Altri Ministri sono più abbottonati. Non si sa se Valditara (Lega) avrà il coraggio di resistere a tutela del sistema nazionale di istruzione pubblica, oppure cosa risponderà la Ministra del lavoro o quello dell’Ambiente. Troppi traffici silenziosi inquietano.

Nel tentativo di afferrare qualche potere ad ogni costo si è distinto il Presidente del Piemonte che ha chiesto per le Regioni i passaporti. Proposta estemporanea visto che l’anagrafe è dei Comuni, che i documenti vengono forniti dal Ministero degli Interni il quale sta sperimentando con le Poste l’emissione più rapida dei documenti. In questo che c’entrano le regioni?

E’ sperabile che la Corte costituzionale tolga Zaia, Fontana, Calderoli e c. dall’imbarazzo di arraffare qualche potere ad ogni costo dichiarando la legge 86/24 incostituzionale, o in subordine dando via libera al referendum abrogativo per rimettere le cose a posto, visto che Giorgia Meloni continua a proteggere il patto di potere che è alla base della tenuta del governo, che prevede per la Lega l’autonomia regionale differenziata, per Forza Italia la separazione delle carriere dei magistrati (è in corso alla Camera una forzatura sui tempi) e per Fratelli d’Italia il Presidente del Consiglio eletto direttamente che ridurrebbe il parlamento ad un organo subalterno al Capo eletto e toglierebbe poteri e ruolo di garanzia al Presidente della Repubblica.

È un attacco alla Costituzione, all’equilibrio dei poteri che essa prevede, alla loro indipendenza, da parte di chi non si riconosce nel carattere democratico ed antifascista della nostra Repubblica parlamentare, nata dalla Resistenza.

Con il 44% dei voti la destra ha ottenuto il 59% dei parlamentari, malgrado questo enorme potere pretende di influire sull’orientamento degli organi costituzionali di controllo per tacitarli e per blindare gli stravolgimenti istituzionali che vuole introdurre. La conferma viene dal tentativo di La Russa di reclutare parlamentari dell’opposizione per arrivare al quorum necessario per le nomine nella Corte senza l’opposizione.

I 6 referendum: (Autonomia differenziata, cittadinanza, 4 per i diritti di chi lavora) sono la via per unire chi non accetta questo stravolgimento della Costituzione, ma bisogna avere consapevolezza che convincere ad andare a votare almeno 25 milioni di elettrici ed elettori è un compito oggi molto impegnativo ed è anzitutto sulle spalle delle forze della società, delle persone che vanno convinte. L’opposizione politica non basta da sola, come si vede dall’aumento delle astensioni. Per questo la campagna per i referendum deve continuare e crescere fino al voto nella prossima primavera.
*(Alfiero Grandi, è un politico e sindacalista italiano. Deputato della Repubblica Italiana. Durata mandato, 2001)

 

 

 

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