01 – La Senatrice La Marca (PD) partecipa all’inaugurazione annuale delle celebrazioni di “Festitalia” a Hamilton
02 – Lucia Tedesco*: No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne. In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI
03 – Irene Doda*: Internet cambia a seconda della lingua che usi.
04 – FINALMENTE. (ndr)
Matteo Pascoletti*: Il ministro Gennaro Sangiuliano si è dimesso – Aggiornamento del 7 settembre 2024: Venerdì pomeriggio Gennaro Sangiuliano ha rassegnato le sue dimissioni “irrevocabili”.
05 – Emiliano Brancaccio*: Pupari e marionette di guerra – Economia a Cernobbio. Oggi Cernobbio, ieri Jackson Hole, domani Davos. Un tempo questi informali incontri al vertice del potere internazionale riuscivano a mantenere i toni glamour tipici delle leggiadre passerelle, delle armoniche serate […]
01 – La Senatrice La Marca (PD) PARTECIPA ALL’INAUGURAZIONE ANNUALE DELLE CELEBRAZIONI DI “FESTITALIA” A HAMILTON
Mercoledì 4 settembre, La Sen. La Marca ha partecipato all’inaugurazione della 49ª edizione di “Festitalia” a Hamilton, un evento che rappresenta oramai un’istituzione per la comunità italiana in quella area del sud-ovest Ontario e che celebra la gastronomia regionale, la cultura e le tradizioni italiane e che dura tutto il mese di settembre.
In una sala stracolma, numerose le istituzioni presenti come la Sindaca della città di Hamilton, Andrea Horwarth, consiglieri comunali, la Presidente dell’Associazione “Festitalia”, Vita Maria Fortunato, la Console Onoraria di Hamilton, Susanna Fortino-Bozzo, e un cospicuo numero di associazioni regionali che operano in quell’area.
“Sono molto contenta – esordisce la Senatrice – di essere nuovamente con voi qui a “Festitalia”, come lo sono ogni anno in questo periodo, per l’inaugurazione di quella che è una celebrazione della nostra italianità – della nostra musica, gastronomia e tradizioni regionali.
“Come rappresentante dei cittadini italiani nel Senato della Repubblica, sono sempre alla ricerca di nuovi modi per rafforzare il legame tra i nostri due Paesi. Sono molto orgogliosa della longevità e del successo di “Festitalia” e apprezzo la sua importanza nel mantenere vivo il patrimonio italiano, soprattutto per le giovani generazioni, in quanto il festival trasmette loro la cultura dei genitori e dei nonni, e sviluppa un senso di appartenenza e di orgoglio.”
“Questa iniziativa – conclude la Senatrice – rappresenta ormai un momento imprescindibile di tutela e valorizzazione dell’italianità nella città di Hamilton. Vi faccio i migliori auguri di un sereno svolgimento del festival e attendo con ansia l’edizione del prossimo anno, quando tutti insieme festeggeremo i 50 anni di “Festitalia”.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)
02 – Lucia Tedesco*: NO, LA TECNOLOGIA NON È NEUTRALE ED ECCO COME HA CONDIZIONATO LA VITA DELLE DONNE. IN TECNOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE DILETTA HUYSKES APRE UNA RIFLESSIONE SULLE RESPONSABILITÀ SOCIALI DI CHI INNOVA. DAL FORNO A MICROONDE ALL’AI
L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.
Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.
UNA TECNOLOGIA A SFAVORE DELLE MINORANZE
Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: “Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati”.
La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.
L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.
Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: “La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni”.
IL CONTROLLO DEI CORPI
Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: “Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate”.
Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: “Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?”. L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.
Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: “Gli artefatti hanno un genere?”.
AI E STEREOTIPI SOCIALI
Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: “La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta”.
Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti: “Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza”. Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama “la matrice del dominio”, un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’etero patriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.
Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: “Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come «arresto» per misurare il «crimine» o qualche nozione di «rischiosità» sottostante.”
RIPENSARE LA TECNOLOGIA: GIUSTIZIA E INCLUSIONE
Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.
Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.
Come asserisce l’autrice, “L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo”. La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.
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03 – Irene Doda*: INTERNET CAMBIA A SECONDA DELLA LINGUA CHE USI
NONOSTANTE LA STRAGRANDE MAGGIORANZA DEGLI UTENTI DI INTERNET SI TROVI NEL SUD GLOBALE, QUASI TUTTE LE RISORSE DELLE PIATTAFORME DEDICATE ALLA CONTENT MODERATION SONO MODELLATE SU ESIGENZE OCCIDENTALI.
Vi è in primis una questione linguistica: gli strumenti automatici di contrasto all’hate speech e alla violenza online funzionano bene in inglese. Sono assai meno efficaci nell’ individuare contenuti pericolosi in altre lingue. Diversi ricercatori provenienti da paesi in via di sviluppo si stanno scontrando con questo problema: come creare strumenti che rendano davvero la rete un posto sicuro e accessibile per tutti?
Un’indagine del Center for Democracy and Technology (CDT) rivela “una tendenza preoccupante: le aziende tecnologiche nascondono ai ricercatori dati cruciali, ostacolando lo sviluppo di tecnologie di moderazione automatizzata dei contenuti per le lingue a cui sono dedicate meno risorse”. Se pensiamo ai modelli NPL (natural language processing, quelli che permettono alle macchine di comprendere e replicare il linguaggio umano), osserviamo che questi sono allenati su dati in inglese e progettati per un pubblico anglofono – o al massimo parlante spagnolo, francese, tedesco e altri idiomi di origine europea. Tale bias alla fonte influenza l’intera catena del dato, dalla gestione, all’annotazione, all’addestramento di modelli di intelligenza artificiale in grado di comprendere i dialetti locali.
I ricercatori intervistati dal CDT (che lavorano in tre lingue: Tamil, Kiswahili e Quechua) hanno individuato come problema principale la mancanza di dati di qualità in lingue diverse dall’inglese. Spesso la sola fonte è lo user generated content sui social media. Le aziende tecnologiche chiedono costi esorbitanti per l’accesso ai dati e bloccano l’uso di strumenti open source per lo scraping. I ricercatori con meno risorse sono quindi tagliati fuori dalla possibilità di lavorare su strumenti di moderazione efficaci. Alcuni di loro hanno concepito delle soluzioni ad hoc. In India è stata lanciata una raccolta dati dal basso, via WhatsApp, per studiare la disinformazione. In America Latina un progetto ha visto coinvolte le comunità di parlanti Quechua, per la creazione di un database linguistico.
Permane tuttavia il problema di fondo: la mancanza di accesso a risorse computazionali sufficienti e a modelli di intelligenza artificiale che funzionino in lingue diverse da quelle europee. Il problema si estende anche oltre la moderazione dei contenuti: è molto più ampio e riguarda il diritto di accesso a Internet. “Alcune popolazioni possono accedere a Internet in modo molto più significativo di altre, anche in spazi digitali molto noti”, si legge nel report State of The Internet Language “Per esempio, anche se la maggior parte di chi è online proviene dal Sud globale. Non siamo in grado di accedere a Internet come creatori e produttori di conoscenza, ma solo come consumatori. La maggior parte delle modifiche di Wikipedia, la maggior parte degli account su Github e la maggioranza degli utenti di Tor provengono dall’Europa e dal Nord America”.
Può internet diventare davvero uno spazio multilingua? Si tratta senza dubbio di una sfida complessa. Ma le compagnie tecnologiche possono fare dei passi avanti, grazie alla collaborazione con ricercatori e attivisti locali. Secondo le autrici del report State of the Internet Language, si può attuare un cambio di paradigma. Le studiose suggeriscono di “mettere al centro delle strategie di diffusione e localizzazione le lingue più marginali, anziché considerarle a posteriori. Si può utilizzare un approccio che coinvolga la comunità, piuttosto che un approccio top -down e che non tiene conto del contesto”.
*(cura di: Irene Doda, vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Ha scritto per Wired, Singola, Il Tascabile e altre riviste online e cartacee.)
04 – FINALMENTE. (ndr)
Matteo Pascoletti*: IL MINISTRO GENNARO SANGIULIANO SI È DIMESSO – AGGIORNAMENTO DEL 7 SETTEMBRE 2024: VENERDÌ POMERIGGIO GENNARO SANGIULIANO HA RASSEGNATO LE SUE DIMISSIONI “IRREVOCABILI”.
Nella lettera che accompagna la decisione, Sangiuliano ha parlato di giornate “dolorose e cariche di odio nei suoi confronti”, specificando che andrà fino in fondo per dimostrare la sua “assoluta trasparenza e correttezza”. Sempre nella lettera annuncia che presenterà un esposto alla Procura, avendo ora “le mani libere per agire in tutte le sedi legali contro chi mi ha procurato questo danno”.
Nella giornata di ieri ha giurato il nuovo ministro della Cultura, Alessandro Giuli. Prima della nomina Giuli è stato presidente della Fondazione MAXXI, incarico che aveva ricevuto nel dicembre 2022 proprio da Sangiuliano.
La vicenda che ha visto protagonista Gennaro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia, intanto, potrebbe approdare alla Corte dei Conti. La magistratura contabile sta infatti procedendo a verificare le dichiarazioni di questi giorni.
Il quotidano Domani ha invece riportato il parere di fonti vicine al caso, secondo cui “l’entourage di Boccia avrebbe fatto sapere al Mic che la pompeiana avrebbe scaricato sul computer tutta la cronologia delle chat whatsapp del cellulare del ministro, tramite il qr code”. Se così fosse, osservano, i giornalisti Stefano Iannaccone e Stefano Vergine, vorrebbe dire che Boccia è in possesso di tutti i messaggi dell’ex ministro.
Intervistata ieri da Marianna Aprile e Luca Telese per la trasmissione In onda, Maria Rosaria Boccia ha smentito di essere “una spia”, come alluso da alcuni giornali. Boccia ha lasciato intendere che ci sia altro che potrebbe emergere “In questa verità sono coinvolte tante donne che ancora non sto menzionando”.
Possiamo guardare da diversi punti di vista la vicenda che sta vedendo coinvolti il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, la moglie del ministro, la cicatrice sulla fronte del ministro, Maria Rosaria Boccia, i rapporti tra il ministro e Maria Rosaria Boccia, l’account Instagram di Maria Rosaria Boccia, un incarico da consigliere del ministero della Cultura, Dagospia, Pompei, il G7, il governo italiano, Giorgia Meloni, tre quarti di stampa italiana appresso, la stampa internazionale, il revival della Commedia sexy all’italiana e financo la buonanima di Benedetto Croce da Pescasseroli.
Tra questi molteplici punti di vista, scegliamo il seguente: vedi che il fact-checking è importante? Da quando, lo scorso 26 agosto, Maria Rosaria Boccia ha pubblicato su Instagram un post in cui festeggiava “la nomina a Consigliere del Ministro per i Grandi Eventi 🤩”, è iniziato un botta e risposta tra il ministro stesso e Boccia. Il primo a smentire, la seconda a sbugiardare la smentita, a mezzo post o stories, causando non pochi imbarazzi e interrogativi di natura politica. Così il caso si è ingrossato, creando non pochi imbarazzi e aspettative di dimissioni.
In mezzo a questa corrispondenza di non più amorosi sensi, abbiamo avuto il governo e la stampa appesi a un account Instagram. In particolare Dagospia, che ha pubblicato una mail ministeriale dove tra i destinatari c’è anche Boccia, e che conteneva informazioni per un sopralluogo a Pompei durante il G7. L’Italia è paese ospitante, e il 20 settembre ci vedrà accogliere i più importanti leader del mondo in un clima da telenovela e da solita italietta. “Stiamo facendo la storia, e dobbiamo esserne tutti consapevoli. E questo non prevede né pause né soste, ma tanto meno può consentire errori e passi falsi” ha detto Meloni, provando a serrare i ranghi in vista dell’importante appuntamento. Il problema è che ha ragione: stanno facendo la storia, ma delle figuracce. A ottobre, per dirne una, ci aspetta la figuraccia del padiglione italiano alla Fiera di Francoforte dove è stato escluso per ripicche politiche Roberto Saviano, con conseguenti proteste di autori e autrici italiani.
Ma Dagospia è semplicemente il contraltare fecale del retroscenismo, l’aruspice che ispeziona il cadavere del decoro istituzionale e vomita il suo responso con le mani affondate nelle interiora. Lo possiamo chiamare “assioma Amenduni” (dal cognome della persona che per primo me lo fece notare): all’aumentare di una crisi politica, aumenta la rilevanza di Dagospia nell’ecosistema dell’informazione. Così, per una decina di giorni a questa parte, il rimpallo Sangiuliano-Boccia è stato tutto un collateralismo di voci, indiscrezioni, virgolettati attribuiti, ipotesi, fino a sfociare nelle interviste. Ne è emersa una cultura istituzionale dove il privato si mescola col pubblico e il pubblico si mescola col privato, e tutti e due se ne sbattono allegramente dell’opinione pubblica.
Lo abbiamo visto in particolare durante l’intervista di mercoledì al Tg1, diciassette minuti su trenta del direttore Gian Marco Chiocci con Sangiuliano pagati dal canone. Un penoso gioco delle parti con i due che si imbeccano a vicenda: “Prima di iniziare questa conversazione, io l’ho fatta accedere al dispositivo del mio telefono cellulare con la mia banca”, dice a un certo punto Sangiuliano. “Lei è ricattabile?”, domanda Chiocci, come se fosse una domanda che ammette tra le risposte un “sì”; allo stesso tempo, quando gli viene chiesto se può uscire qualcosa di compromettente, ammette che potrebbero uscire le chat (sì, abbiamo tutti pensato a quel tipo di foto).
Le prove esibite hanno solo peggiorato la situazione di Sangiuliano. Quando pesca tra i vari fogli la mail con cui vorrebbe dimostrare di aver interrotto la collaborazione di Boccia al ministero poiché il legame con la donna è diventato nel frattempo di natura sentimentale, Sangiuliano mostra anche la data della mail 26 agosto, la stessa data del post di Boccia. Mentre è vago sulle date che vengono prima, sulle settimane in cui “l’amicizia” sarebbe diventata qualcos’altro, con in mezzo la decisione di affidare un incarico.
I “cuoricini” in chat, le consultazioni per farsi spiegare da pazienti funzionari che esisteva un conflitto di interessi in caso di nomina quando ci sono state? La nomina è stata decisa a voce o ci sono anche lì delle mail? Ci sono troppe lacune nel racconto, un buco di circa venti giorni secondo Repubblica. Su tutto emerge una gestione tutta informale e privatistica di una carica pubblica, tra un viaggio e l’altro. E, a posteriori, emerge il racconto di un mediocre romanziere che non sa tenere assieme i fatti finora emersi, né anticipare i colpi a sorpresa che potrebbero ancora arrivare. Sangiuliano dà troppi dettagli e fogli stampati sui punti che ritiene inattaccabili, mentre resta vago o si contraddice in tutti gli altri. Così per comparazione emerge la mole della magagna. Sarebbe stato poi il caso di sentire l’altra campana, ma il copione del Tg1 era per due maschi. Boccia, in ogni caso, ha replicato a mezzo Instagram il giorno dopo.
Che l’opinione pubblica conti solo quando impedisce alla classe politica di lavare i panni sporchi in famiglia (o tra sodali) lo si evince anche dalle scuse di Sangiuliano. Il quale ha sentito di doverle porgere alla sua personale versione della triade Dio-Patria-Famiglia: ovvero sua moglie, Giorgia Meloni e i collaboratori del ministero. Mai che gli fosse venuto in mente di chiedere scusa agli italiani, visto anche che a poche settimane dal G7 la storia è arrivata sulla stampa estera, e almeno due paesi hanno chiesto delucidazioni affinché siano garantite la sicurezza e il corretto svolgimento del summit.
Insomma, la vera telenovela italiana non è Un posto al sole, ma Un posto al ministero. Più delle risatine pruriginose, delle gomitate d’intesa e del vergognoso lessico sessista (“la pompeiana esperta” di Paolo Mieli), preoccupa la facilità con cui è bucabile o aggirabile la riservatezza delle comunicazioni, di come sembri mancare una elementare e necessaria cultura in tal senso; la percezione di binari da seguire e la contestuale consapevolezza di quando ci si allontana troppo. Ricordiamo per esempio lo scherzo telefonico a Giorgia Meloni, con dei comici russi che impersonano un finto leader africano e parlano con lei della guerra in Ucraina, o il caso Delmastro, rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio.
E, a proposito di Delmastro, è evidente che se Sangiuliano è ancora lì è per debolezza di Meloni, che tra fedelissimi da difendere a ogni costo e giochi di equilibri nella coalizione non può liberarsi dell’anello debole tanto facilmente. Perché se si dimette Sangiuliano, a maggior ragione diventano indifendibili il già citato Delmastro, ma anche Santanché e Salvini: la prima è rinviata a giudizio per truffa ai danni dello Stato e falso il bilancio, il secondo è imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Lo stesso Sangiuliano rischia un’indagine per peculato. Inoltre, a voler credere a tutto ciò che dice per difendersi, resta da capire perché siano state condivise mail e comunicazioni istituzionali con una semplice cittadina senza alcun incarico.
C’è quindi un incredibile effetto domino che, partendo da un post su Instagram e passando per una patta ministeriale, ha messo il governo al centro di un uragano sotto gli sguardi attoniti dei più importanti leader mondiali. Non è che se ti indagano il ministro della Cultura alla vigilia del G7 puoi dire “e allora Caravaggio che ammazzava la gente?”. Al Tg1 Sangiuliano ha anche detto che si dimetterebbe, se Meloni lo chiedesse. Prima però aveva detto alla Stampa di non aver fatto nulla di male; del resto, visto l’andazzo generale, ci manca solo debba andarsene lui. Abbiamo pur sempre un governo dove fa il ministro il cognato della sorella della presidente del Consiglio, ora fresco di separazione. Così, a dispetto dei virgolettati circolati su molte testate, traducendo dal sangiulianese all’italiano si ottiene questo: “Nessuno mi ha chiesto di dimettermi, né io ho rassegnato le dimissioni”.
Queste non sono persone serie, sono persone che vanno prese necessariamente sul serio perché occupano posizioni di potere. Tanto più sembrano ridicoli, tanto più questa risata dovrebbe risuonare amara al pensiero che, alla fin fine, se stanno lì è perché sono i migliori che hanno trovato. Così ora pur di difenderlo, dagli ambienti governativi si prova a far passare Boccia per una specie di femme fatale, di arrampicatrice; una che filma e registra a mo’ di infiltrata, per intendersi.
*(Matteo Pascoletti, relatore di WeSchool, lavora principalmente come web editor e social media editor.)
05 – Emiliano Brancaccio*: PUPARI E MARIONETTE DI GUERRA – ECONOMIA A CERNOBBIO. OGGI CERNOBBIO, IERI JACKSON HOLE, DOMANI DAVOS. UN TEMPO QUESTI INFORMALI INCONTRI AL VERTICE DEL POTERE INTERNAZIONALE RIUSCIVANO A MANTENERE I TONI GLAMOUR TIPICI DELLE LEGGIADRE PASSERELLE, DELLE ARMONICHE SERATE […]
Oggi Cernobbio, ieri Jackson Hole, domani Davos. Un tempo questi informali incontri al vertice del potere internazionale riuscivano a mantenere i toni glamour tipici delle leggiadre passerelle, delle armoniche serate di gala. Tra una foto in posa e un dinner ufficiale c’era anche da concordare qualche rilevante decisione politica, beninteso. Ma il tutto avveniva in piena serenità, dietro le quinte, lontani dal fastidioso vocìo dei parlamenti.
E SEMPRE IN UN CLIMA DI SINTONICA ALLEGREZZA. OSEREMMO DIRE, DI AMORE CAPITALISTICO TRA POTENTI.
Insomma, mostrare il bel volto di un potere unito, solo invidiabile e mai attaccabile: questa era un tempo la funzione dei cosiddetti incontri informali al vertice.
Da qualche anno, tuttavia, lo scenario è profondamente mutato. I sorrisi si fanno tesi, le strette di mano appaiono insicure. La vecchia dolcezza del bel mondo in posa appare sempre più inquinata da dissidi, controversie, nuove lotte materiali tra i potenti. Che pure cambiano postura e passo: sui delicatissimi prati delle ville ospitanti oggi è il tempo dei talloni di ferro.
Accade anche a Cernobbio, che inaugura il suo celebre forum dando la ribalta a Zelenskyj e a Orbán, due esemplari perfetti della nuova, feroce epoca di lotte al vertice. Gli ospiti del meeting si vedono costretti, più o meno esplicitamente, ad allinearsi alle fazioni che questi due nuovi “mostri” di diplomazia oggi rappresentano. Da un lato ci sono gli atlantisti a oltranza, capitalisti convinti che dalla guerra si può ancora guadagnare. Dall’altro lato troviamo gli imprenditori putinisti, o più prosaicamente i proprietari che vogliono farla finita con una guerra che non li aiuta a macinare profitti.
A ben vedere, però, Zelenskyj e Orbán non rappresentano le incarnazioni più nitide della lotta al vertice di questi mesi. In realtà, esiste una linea di faglia più profonda, che disegna uno scontro ancor più decisivo tra poteri internazionali. In questo conflitto capitale troviamo per un verso i sostenitori di una “normalizzazione” delle politiche economiche, al fine di rilanciare i tassi d’interesse e le rendite finanziarie dei creditori. Sono i nostalgici del periodo glorioso che precede la grande recessione internazionale del 2008. Era l’epoca in cui i tassi d’interesse medi al netto dell’inflazione ancora veleggiavano al di sopra del tre percento. Grazie a quelle cifre, in gran parte del globo, i capitalisti finanziari mangiavano quote enormi di prodotto interno lordo. Se tornare a quella fase vorrà dire scatenare nuove crisi del debito e nuova disoccupazione, poco importa. L’essenziale è che i creditori tornino a respirare e a godersela. Il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, è la maschera perfetta di questi normalizzatori.
Dall’altro versante della grande contesa ci sono gli apologeti di un nuovo keynesismo protezionista e militare, seguaci della guerra e dell’inflazione come fattori di rinnovamento del profitto capitalista. Sono gli esponenti della nuova coscienza infelice del capitale, ormai rassegnati all’idea che nel declinante ovest del mondo sia difficile tirar su i guadagni dal lato delle rendite finanziarie e che si debba pertanto agire da un altro lato. La tesi di questi è che il tempo in cui si poteva guadagnare concedendo prestiti e girandosi i pollici è finito. Siamo ormai in piena fase imperialista, in cui la competizione tra capitali scivola inesorabilmente nello scontro militare. Bisogna quindi chiudere le frontiere dei commerci e spostare risorse pubbliche verso l’investimento nelle tecnologie belliche. E se l’effetto finale è inflazionistico e i tassi d’interesse netti tornano a scendere, ben venga. I capitalisti che fanno i prezzi avranno solo da guadagnarci. Basterà stringere ancor più il guinzaglio attorno alle rivendicazioni salariali. Il capitano ideale di questa truppa di potenti visionari è Mario Draghi.
Tra questi grandi ospiti dei vari vertici informali esiste una precisa gerarchia strutturale. Per intenderci, la contesa tra Nagheliani e Draghiani, se così si può dire, è quella che sta tirando realmente i fili della politica internazionale. Comparativamente parlando, Orban, Zelenskyj e gli altri ospiti di Cernobbio sono soltanto marionette in scena.
*( Fonte: Il Manifesto. Emiliano Brancaccio è un economista e saggista italiano.)
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