n°34 – 24/08/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Iain Chambers*: Le coordinate coloniali del genocidio palestinese. Passato e presente
02 – Mandati di arresto per Bibi e Sinwar, il procuratore Khan ha perso la pazienza
Corte penale internazionale. La richiesta risale a maggio. Memoria per sollecitare i giudici preliminari dell’Aja: è urgente decidere
03 – L’Oim: «Mille morti dall’inizio dell’anno» – Oltre 1.000 migranti sono morti o sono stati dichiarati dispersi nel Mediterraneo centrale dall’inizio del 2024 al 17 agosto. A renderlo noto su X è stata ieri l’Organizzazione internazionale delle migrazioni […]
04 – Alfiero Grandi*: UNA LEGGE INGIUSTA CHE NON PIACE NEANCHE ALLA DESTRA, fermare il disegno Calderoli.
05 – Filippo Ortona*, PARIGI: Mélenchon avvisa Macron: o l’incarico o l’impeachement. Francia. Il leader insoumise spinge Castets, ma gli alleati del Nuovo fronte popolare bocciano la minaccia di destituzione. Venerdì l’Eliseo riprenderà le consultazioni per formare il nuovo governo,
06 – Andrea Valdambrini*: Addio al disarmo: sono in aumento le testate atomiche «pronte all’uso»
Lo studio. L’allarme dal rapporto 2024 del Sipri di Stoccolma – Addio al disarmo: sono in aumento le testate atomiche «pronte all’uso»

 

 

01 – Iain Chambers*: LE COORDINATE COLONIALI DEL GENOCIDIO PALESTINESE PASSATO E PRESENTE. UN SECOLO FA SYKES-PICOT E LA DICHIARAZIONE BALFOUR DISEGNAVANO IL «MEDIO ORIENTE» EUROPEO. PERMANE LA NEGAZIONE DEI DIRITTI INDIGENI: DIRETTAMENTE NEL CASO DELLA PALESTINA, INDIRETTAMENTE CON AUTOCRATI SOSTENUTI DA POTENZE ESTERNE CHE PREMIANO LA «STABILITÀ»

Con il continuo sostegno delle democrazie occidentali al genocidio che Israele sta compiendo a Gaza, insieme alle persistenti violenze quotidiane in Cisgiordania, è forse il caso di tornare a una storia più profonda, molto prima del 7 ottobre dello scorso anno, o addirittura della Nakba del 1948, per cogliere l’incomprensibile fallimento dei cosiddetti valori occidentali in Medio Oriente.
Durante la Prima guerra mondiale gli inglesi decisero di aprire un fronte contro l’alleato della Germania, l’Impero ottomano, nei deserti dell’Arabia Saudita e della Siria. Allora governata da Istanbul, questa fascia di territorio che si estendeva dallo Yemen e dalla Mecca a sud fino a Damasco e Beirut a nord e dal Mediterraneo all’Iraq a est era il centro del mondo arabo. Più a ovest gli Ottomani avevano già perso l’Egitto, la Libia, la Tunisia e l’Algeria a favore di inglesi, italiani e francesi.
IL MONDO ARABO fu incoraggiato dal comando britannico in Egitto a ribellarsi con la promessa della creazione di un regno arabo dal Mar Rosso a Damasco e dal confine persiano al Mediterraneo. Questa nuova entità politica comprendeva la Palestina. Ciò che avvenne in seguito non riguardava semplicemente audaci imprese militari con incursioni di cavalleria nel deserto e Lawrence d’Arabia che cavalcava nell’immaginario occidentale. Si trattava di nazionalismo arabo.
In una serie di scambi epistolari del 1915 tra Sir Henry McMahon al Cairo e Sharif Husain alla Mecca, i termini e le condizioni della rivolta nel deserto furono esplicitamente elaborati e approvati. Il governo britannico non ha mai reso disponibile questa corrispondenza prima del 1939. È stata studiata nella sua versione araba e può essere consultata in inglese nel volume critico del 1938 raccomandato da Edward Said, The Arab Awakening dello scrittore e diplomatico libanese George Habib Antonius.
Ma a questo accordo documentato se ne aggiunse un altro che coinvolgeva gli inglesi e i francesi e le loro rivendicazioni sull’area. Se le preoccupazioni britanniche per il passaggio in India e la protezione del Canale di Suez erano brutalmente pragmatiche, quelle francesi si rifacevano a legami più antichi che risalivano ai luoghi mitici della cristianità e alle Crociate.
L’accordo Sykes-Picot per la suddivisione del «Medio Oriente» tra Gran Bretagna e Francia in territori mandatari era segreto. Poi, nel 1917, il governo britannico, rispondendo alle pressioni sioniste (e alla manipolazione dei sentimenti antisemiti nel cuore del governo britannico), produsse la Dichiarazione Balfour, promettendo una patria per gli ebrei in Palestina.
Sia l’accordo Sykes-Picot che la Dichiarazione Balfour furono elaborati ignorando e contraddicendo apertamente la promessa iniziale che portò il mondo arabo alla rivolta e al successivo smantellamento del potere turco nella regione. In parole povere, gli arabi furono traditi.
IL REGNO ARABO proposto è stato sequestrato dalla Gran Bretagna e dalla Francia e successivamente suddiviso in Stati nazionali nascenti (Iraq, Giordania, Libano, Siria… Israele) i cui confini riflettevano le preoccupazioni europee, non certo le forze e le relazioni politiche e culturali che storicamente sostenevano l’area. Quest’ultima dinamica è stata cinicamente schiacciata in un’altra mappa e in un altro ordine politico.
Cento anni dopo, l’insediamento occidentale rimane saldamente al suo posto. Il passato non è passato. E non è nemmeno un semplice fantasma del presente. Il linguaggio stesso utilizzato, sia che ci si riferisca al «Medio Oriente», agli «arabi» o allo Stato etnico suprematista di Israele come «democrazia», tradisce le coordinate coloniali della sua costituzione.
Certo, gli attori e le condizioni sono cambiati. Tuttavia, l’insistenza di questa mappa del potere politico e la sua negazione dei diritti indigeni – sia direttamente nel caso della Palestina, sia indirettamente attraverso l’esercizio di governi autocratici invariabilmente sostenuti da potenze esterne che premiano la «stabilità» – rimangono saldamente al loro posto.
Ciò che più colpisce in questo quadro politico è l’assoluto rifiuto della responsabilità occidentale. Il più evidente è il governo britannico che, fin dall’inizio, ha cercato di coprire le proprie tracce abbandonando prima gli arabi e poi lavandosi le mani della questione ebraica in Palestina. Più recentemente, sotto l’egemonia americana, sono continuati la brutalità degli interventi militari diretti dell’Occidente.
Anche in questo caso, hanno portato a disastri politici nell’area (Iran, Iraq, Libia) accompagnati dalla costante attività di polizia per procura affidata a Israele. Cosa significa tutto questo? Dobbiamo aspettarci un’altra rivolta nel deserto? Questo, ovviamente, è già avvenuto.
NEL 2014 lo Stato Islamico o Isis, affiliato ad al Qaeda, ha cercato violentemente di ridisegnare la cartografia dell’area. Un’altra vittima della mappa europea – i curdi – è stata in gran parte determinante nel fermare la loro proposta. Ma dietro intricate forme culturali e complesse forze storiche, è stato l’Occidente e la sua continua gestione coloniale del mondo arabo a produrre la violenza quotidiana, il terrorismo e il fondamentalismo che tanto pubblicamente denuncia e teme.
Continuare su questa strada, come sembra attualmente, è forse la vera espressione dei valori occidentali: coloniali nelle intenzioni e, quando necessario, genocidi nella pratica.
*(Iain Michael Chambers è un antropologo, sociologo ed esperto di studi culturali britannico. Membro del gruppo diretto da Stuart Hall all’Università di Birmingham,)

 

02 – MANDATI DI ARRESTO PER BIBI E SINWAR, IL PROCURATORE KHAN HA PERSO LA PAZIENZA
CORTE PENALE INTERNAZIONALE. LA RICHIESTA RISALE A MAGGIO. MEMORIA PER SOLLECITARE I GIUDICI PRELIMINARI DELL’AJA: È URGENTE DECIDERE(*)

«Qualsiasi ritardo ingiustificato in questi procedimenti incide negativamente sui diritti delle vittime». La strage a Gaza non si ferma e il procuratore capo della Corte penale internazionale (Icc), Karim Khan, si è stancato di aspettare un pronunciamento dei giudici preliminari sul mandato di cattura internazionale richiesto ormai lo scorso maggio per i leader di Israele e quelli di Hamas. Ora Khan ha depositato una memoria in cui sollecita il collegio “incriminato” a «rendere urgentemente note le proprie decisioni».
Per possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità relativi al conflitto esploso il 7 ottobre, il procuratore Khan aveva richiesto mandati di arresto da un lato per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, dall’altro per Yahya Sinwar, ancora irreperibile nei tunnel della Striscia. Oltre che per il comandante militare di Hamas, Mohammed Deif, che Israele ha dichiarato di aver ucciso in un attacco a Gaza. E Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, ucciso in luglio a Teheran.
A suo tempo Netanyahu aveva definito l’iniziativa di Khan «un vergognoso attacco a tutta Israele». Allo stesso modo i vertici di Hamas avevano espresso rabbia per l’equiparazione tra le parti.
*(Fonte: Il Manifesto, redazione)

 

03 – L’Oim: «MILLE MORTI DALL’INIZIO DELL’ANNO» – OLTRE 1.000 MIGRANTI SONO MORTI O SONO STATI DICHIARATI DISPERSI NEL MEDITERRANEO CENTRALE DALL’INIZIO DEL 2024 AL 17 AGOSTO. A RENDERLO NOTO SU X È STATA IERI L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DELLE MIGRAZIONI […]

Oltre 1.000 migranti sono morti o sono stati dichiarati dispersi nel Mediterraneo centrale dall’inizio del 2024 al 17 agosto. A renderlo noto su X è stata ieri l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) in Libia. Le vittime, ha precisato l’Oim, sono state 421 mentre i dispersi 603, per un totale di 1.024 persone. Nello stesso periodo i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 13.763, di cui 12.220 uomini, 947 donne, 460 minori e 136 persone per le quali non sono disponibili dati di genere.
Intanto proseguono le situazioni di emergenza nel Mediterraneo. La ong Alarm Phone ha lanciato l’allarme per un’imbarcazione con 55 persone in difficoltà tra la Libia e la Grecia. «Hanno bisogno urgentemente di aiuto», ha detto la ong.
Che poi ha spiegato: «La Guardia costiera greca ci ha detto di chiare le autorità libiche. La Libia non è un posto sicuro e la cosiddetta Guardia costiera libica non è raggiungibile».
Poi l’appello: «Non si lascino annegare. Il salvataggio è necessario ora».
*(Fonte: Il Manifesto, redazione)

 

04 – Alfiero Grandi*: UNA LEGGE INGIUSTA CHE NON PIACE NEANCHE ALLA DESTRA, fermare il disegno Calderoli.
Il Ministro Calderoli più inveisce contro il referendum abrogativo sulla sua legge sull’autonomia regionale differenziata più rivela che è sempre più solo a difenderla.
Calderoli sostiene di avere il sostegno di Giorgia Meloni, che ovviamente ha chiaro che rischia la crisi del suo governo; afferma di avere informato i colleghi Ministri ma tralascia che alcuni si stanno mettendo di traverso (Tajani ha fatto sapere che di commercio estero non se ne parla); annuncia che a fine settembre inizieranno le trattative con 4 regioni e – per darsi importanza – ci mette anche la Liguria, che voterà a novembre perché il Presidente Toti si è dimesso.

ALLA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E AL MINISTRO DELL’ECONOMIA VANNO FATTE ALCUNE DOMANDE.
Giorgia Meloni pensa di perseverare – diabolicamente – nella sottovalutazione della portata distruttiva della legge Calderoli per l’unità nazionale e per i diritti fondamentali dei cittadini italiani (tutti), che sta facendo fibrillare parte della stessa maggioranza per il rischio di perdere voti nel Sud e che apre varchi importanti anche al Nord? Non basterà la giustificazione che altrimenti potrebbe cadere il governo perché i cittadini, i Comuni (ignorati dall’autonomia di Calderoli) e molte regioni non possono accettare di perdere diritti fondamentali e il loro ruolo istituzionale per salvare la Lega dal disastro di una meritata sconfitta.
Alle regioni che hanno sollevato l’incostituzionalità della legge Calderoli davanti alla Corte il Ministro risponde che si va avanti come se nulla fosse èche sono solo turbolenze”? Occhiuto e Bardi cosa ne pensano?
Si finge di ignorare che appena il sito pubblico on line – 500.000 firme – e i banchetti per quelle cartacee hanno iniziato a lavorare il successo è stato impressionante e continua. L’obiettivo di 1 milione di firme è alla portata, anzi si può andare oltre, ed è un avvio di campagna elettorale.

Insistere su difficoltà inesistenti nella raccolta delle firme fa torto all’intelligenza di Calderoli che non trova altri argomenti e in fondo spera che un incidente tolga di mezzo il referendum sull’autonomia, che invece sarà una grande prova elettorale da cui dipenderà anche il futuro del governo.

Se la maggioranza non fosse paralizzata dal patto di potere che la tiene insieme, potrebbe apprezzare che c’è una società attiva, che non rinuncia a dire la sua e punta sul voto e sulla partecipazione come punto di forza contro l’astensione; anche l’opposizione politica sta trovando una strada comune senza farsi paralizzare da errori precedenti. Inoltre la maggioranza dovrebbe vedere che esponenti della destra, compresi Presidenti di regioni e cittadini, sono contrari alla legge Calderoli e preoccupati per l’unità nazionale dei diritti.

Calderoli insiste sul collegamento della sua legge con quella di bilancio, invocandone lo scudo. Il governo non può decidere ad libitum cosa è importante per il bilancio e cosa no. Se è una finzione la Corte costituzionale può ritenerla una furbata, come in questo caso, e ammettere il referendum. Il vero collegamento semmai è al contrario, basta leggere Stefano Fassina: questa legge è una bomba sotto il bilancio pubblico e la coesione nazionale. Non è una legge costituzionalmente necessaria ma il suo contrario. L’argomento che una precedente proposta referendaria di Calderoli sulla Fornero fu bocciata dalla Corte non ha valore, sono materie e situazioni non paragonabili. Calderoli sembra quasi chiedere clemenza alla Corte per la sua legge.
Calderoli ha il merito di disvelare uno dei punti più nefasti della sua legge, ha ricordato infatti che i Lea nella sanità vengono decisi da tutte le regioni insieme, in modo solidale, con reciproco controllo. Mentre nella sua legge sull’autonomia il governo tratta separatamente con ciascuna regione, alla faccia della solidarietà, e affida ad una commissione mista tra il governo e la regione la gestione degli accordi, del personale e dei quattrini, con l’obiettivo di arraffare altre entrate, che ovviamente mancherebbero allo stato e alle altre regioni.
Giorgetti non ha mai chiarito perché ha accettato (benevolenza infraleghista?) che il Mef abbia tempi prefissati per dire la sua come gli altri Ministeri, trascorsi i quali Calderoli potrebbe andare avanti comunque con le trattative, a partire da fine settembre? Finora Giorgetti ha fatto il pesce in barile, ora basta, deve proporre la legge di bilancio e ci mancherebbe solo che mentre prova a far quadrare i conti Penelope-Calderoli disfa la tela del bilancio pubblico. Questo giochetto deve finire.
L’Italia rischia di pagare un prezzo pesante, tanto più se si dovesse cedere alle pressioni di Zaia che vorrebbe compartecipazioni regionali fino all’80/90 % delle entrate dello stato.
Proseguire con l’attuazione della legge prima del voto dei cittadini per abrogarla sarebbe diabolico.
Proseguiamo la raccolta delle firme per ottenere il referendum e iniziare al meglio la campagna elettorale per il Si.
*(Alfiero Grandi, è un politico e sindacalista italiano.)

 

05 – Filippo Ortona*, PARIGI: MÉLENCHON AVVISA MACRON: O L’INCARICO O L’IMPEACHEMENT. FRANCIA. IL LEADER INSOUMISE SPINGE CASTETS, MA GLI ALLEATI DEL NUOVO FRONTE POPOLARE BOCCIANO LA MINACCIA DI DESTITUZIONE. VENERDÌ L’ELISEO RIPRENDERÀ LE CONSULTAZIONI PER FORMARE IL NUOVO GOVERNO

È ormai passato più di un mese dalle legislative anticipate volute da Emmanuel Macron e la Francia è ancora senza un governo. O meglio, è bloccata con quello vecchio, in teoria dimissionario, come se le urne non avessero sancito la sconfitta macronista e la vittoria, seppur parziale, della coalizione di sinistra del Nuovo Fronte Popolare.
Come ha scritto Le Monde in un editoriale, «a un mese e mezzo dalla propria disfatta, Macron si comporta come se avesse vinto e come se tutto dipendesse ancora da lui». In particolare, l’inquilino dell’Eliseo si rifiuta di incaricare la prima forza del parlamento di formare un governo, snobbando il Nfp e la loro candidata premier Lucie Castets.
Macron gioca a perdere tempo, secondo i giornali francesi, per favorire l’emergere di un accordo tra la propria compagine parlamentare e la destra gollista. Un accordo che sarebbe comunque ben al di qua della maggioranza assoluta, ma che avrebbe il beneficio di scalzare dal podio dell’Assemblée Nationale la temuta sinistra. Allo stesso tempo, au même temps, come recita uno dei motti preferiti da Macron, i suoi parlamentari cercano d’invogliare gli altri partiti a unirsi al progetto di una Grande Coalizione che escluda l’estrema destra di Marine Le Pen e La France Insoumise, che pure è il partito preponderante nel Nfp.
PER I LEADER della coalizione di sinistra, Macron cerca in questo modo di sconfessare e scongiurare, e infine di manipolare il voto delle legislative. Cercando a tutti i costi d’impedire alla sinistra di formare un governo, Macron sta effettuando «un colpo di mano contro la democrazia repubblicana», ha scritto domenica Jean-Luc Mélenchon sul proprio blog.
Secondo gli insoumis, le manovre dell’Eliseo giustificano l’avvio di una procedura di «destituzione», come ha scritto lo stato maggiore di Lfi in una lettera aperta pubblicata sabato da La Tribune du Dimanche, pubblicazione storicamente molto vicina alla presidenza della Repubblica.
«Emmanuel Macron sarebbe in procinto di nominare un capo di governo senza tenere conto» delle legislative, denunciano i leader di Lfi, per i quali una tale nomina sarebbe «senza precedenti nel mondo dei regimi parlamentari». Macron «deve ammettere il risultato delle legislative e nominare Lucie Castets, come proposto dal Nfp», si legge nel testo pubblicato su La Tribune. Qualora non lo facesse, «saranno utilizzati tutti i mezzi costituzionali per dimetterlo».
Gli insoumis fanno riferimento alla procedura di «destituzione» della più alta carica dello Stato, una specie di impeachement à la française, previsto dall’articolo 68 della Costituzione e che necessita l’approvazione dei due terzi dei deputati e dei senatori. Una soluzione del tutto «impraticabile», come ha scritto su X il segretario del Partito Socialista Olivier Faure, dissociandosi dall’iniziativa. Anche Marine Tondelier, segretaria degli Ecologisti, ha criticato la proposta destituente, notando che «nessuno l’ha sostenuta al di fuori di Lfi», ha detto ieri mattina sulla tv pubblica France Info.
LA CARICA ANTI-MACRONISTA degli insoumis, tuttavia, ha fatto infuriare l’ala conservatrice del Ps, che non ha mai smesso di militare per una rottura netta con Mélenchon e per un ritorno al Ps moderato di François Hollande. L’ala destra dei socialisti, infatti, vedrebbe di buon occhio una Grande coalizione che escluda Le Pen e gli insoumis. Un governo di unità nazionale compatibile con Macron, magari guidato da un ex-socialista conservatore come Bernard Cazeneuve, autore nel 2017 della famigerata legge sulla legittima difesa che ha provocato un’esplosione delle morti causate da agenti di polizia durante i controlli stradali.
Le minacce – o gli avvertimenti, come li ha definiti ieri il coordinatore del partito Manuel Bompard – di Lfi rischiano di compromettere tali abboccamenti, proprio alla vigilia dell’inizio delle consultazioni che Macron ha promesso di effettuare venerdì 23 agosto. Gli esponenti del Nfp si presenteranno uniti, guidati da Lucie Castets, che sperano di veder presto varcare la soglia di Matignon, la residenza ufficiale del primo ministro, o chissà, della prima ministra.
*(Filippo Ortona, è giornalista per la carta stampata e la tv in Francia e in Italia)

 

06 – Andrea Valdambrini*: ADDIO AL DISARMO: SONO IN AUMENTO LE TESTATE ATOMICHE «PRONTE ALL’USO» LO STUDIO. L’ALLARME DAL RAPPORTO 2024 DEL SIPRI DI STOCCOLMA – ADDIO AL DISARMO: SONO IN AUMENTO LE TESTATE ATOMICHE «PRONTE ALL’USO»

Altro che disarmo nucleare. Ora più che mai nel mondo aumenta il numero delle testate dispiegate. Complici i molti fronti di guerra attivati negli ultimi anni (in aggiunta a quelli da tempo aperti e non di rado dimenticati), primi tra tutti quello russo-ucraino e quello ancor più recente di Gaza. Perché, anche se il numero totale delle testate continua di anno in anno a decrescere, quelle pronte all’uso sono invece in sensibile crescita.
L’allarmante analisi è contenuta nel rapporto 2024 dello Stockholm international peace research institute (Sipri) dedicato ad armi, disarmo e sicurezza internazionale, pubblicato lo scorso 17 giugno. Nell’annuario del centro di ricerche svedese, arrivato alla sua 55esima edizione, si trovano tutti i dati relativi agli armamenti nucleari, aggiornati a gennaio 2024. L’inventario globale traccia 12.121 testate. Di queste, circa 9.600 sono classificate alla voce «scorte militari» per un potenziale utilizzo. Ma il dato più rilevate sembra essere quello che vede oltre 3900 di esse come schierate – ovvero puntate e pronte all’utilizzo immediato – con missili o aerei: circa 100 in più rispetto ai dati rilevati dallo stesso rapporto soltanto un anno prima.
«Non vedevamo le armi nucleari svolgere un ruolo così importante nelle relazioni internazionali dai tempi della guerra fredda», evidenzia allarmato Wilfred Wan, direttore del programma sulle armi di distruzione di massa del Sipri. «È difficile credere che siano passati appena due anni da quando i leader dei cinque maggiori stati dotati di armi nucleari hanno riaffermato congiuntamente che «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta».
Oltretutto, guardando i dati del rapporto, emerge come altre 2100 delle testate già schierate si trovano in uno stato di massima allerta operativo su missili balistici, quasi tutte riconducibili all’arsenale statunitense e a quello russo. La novità, sottolinea il rapporto Sipri, è che ora anche Pechino sembra avere diverse testate in posizione di allerta operativa. Senza contare che il suo arsenale è passato in un anno da 410 testate a 500.
Eppure la Cina si attesta solo in quinta posizione, mentre sono Usa e Russia a possedere circa il 90% dell’arsenale globale, seguiti a lunga distanza, in ordine decrescente, da Gran Bretagna, Francia, e poi India, Pakistan, Corea del Nord e Israele. Un capitolo a parte riguarda proprio il conflitto in corso tra Mosca e Kiev, che ha portato subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina sia Mosca che Washington a sospendere il più recente Trattato sulla limitazione delle armi di offesa strategiche (conosciuto come Start e risalente al 2010). La Russia si è inoltre ritirata dalla ratifica del Trattato sulla messa al bando degli esprimenti nucleari (noto con l’acronimo inglese Ctbt) con l’accusa che anche da Washington è mancata per anni la conferma al via libera.
Il rapporto denuncia anche come, pur a stoccaggio invariato, Mosca ha dispiegato circa 36 testate nucleari in più rispetto al gennaio 2023. Ma la guerra in corso genera anche un problema di vitale importanza per la democrazia. «La trasparenza in merito alle forze nucleari è diminuita in entrambi i paesi (Russia e Usa) in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022». Eppure «i dibattiti sugli accordi di condivisione nucleare sono diventati più importanti», conclude il rapporto.
*(Fonte: Il Manifesto. Tre anni nella capitale inglese, raccontandola per Il Fatto Quotidiano, poi a Bruxelles, dove ha seguito le elezioni europee del 2014 e del 2019.)

 

 

 

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