n° 29 – 20/07/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALE ED INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Marca (PD) – Depositata interrogazione su accordo patenti di guida con le Province dell’Ontario e B.C. e gli Stati della Florida e della California
02 – Alfredo Marsala*: Via D’Amelio, 32 anni dopo. Mattarella: «Cercare la verità» LA STRAGE. L’anniversario dell’uccisione del giudice Borsellino a Palermo.
03 – Fabio Ciabatti*: I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza
David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 60
04 – Leonardo Bianchi *: Donald Trump è il più grande pericolo per la democrazia nel mondo.
05 – Francesco Del Vecchio*: Perché si parla di nuovo di Mes? C’entrano i negoziati per le nuove nomine ai vertici dell’Ue e la posizione controversa del governo italiano sul fondo salva stati.
06 – Chiara Cruciati*: L’Aja: «Occupazione illegale e apartheid: Israele deve ritirarsi subito»
ISRAELE/PALESTINA. Storico parere della Corte internazionale: Tel Aviv ha di fatto annesso i Territori palestinesi. «Smantelli tutto e risarcisca». Il premier Netanyahu rivendica: è terra nostra. Il presidente Abu Mazen: «Vittoria della giustizia»

 

 

01 – La Marca (PD) – Depositata interrogazione su accordo patenti di guida con le Province dell’Ontario e B.C. e gli Stati della Florida e della CALIFORNIA
In questi giorni, La Sen. La Marca ha depositato un’interrogazione per sollecitare i Ministri dei Trasporti e degli Esteri ad intraprendere, al più presto, un dialogo tra lo Stato italiano e le Province canadesi dell’Ontario e la Columbia Britannica, e con gli Stati americani della Florida e della California, con l’obiettivo di stipulare degli accordi sul riconoscimento reciproco delle patenti di guida, che oltre a rappresentare la meta con la maggior concentrazioni di italiani in Nord America, sono anche le Province e gli Stati dove le iscrizioni AIRE aumentano maggiormente di anno in anno. A sottoscrivere l’interrogazione numerosi colleghi Senatori del Partito Democratico tra cui Delrio, Camusso, Furlan e Giorgis.
“Oltre la Provincia del Québec e lo Stato di New York, su cui sto spingendo da tempo, ho voluto presentare questa interrogazione per sollecitare i Ministri competenti ad un accordo anche con queste altre due Province e questi due Stati soprarichiamati. Numerose sono tutt’ora le segnalazioni che arrivano al mio ufficio sul costo oneroso e il procedimento complesso di conversione delle patenti di guida, fattori che rappresentano ancora oggi una frustrazione per molti concittadini che ogni anno trasferiscono la residenza in una di queste giurisdizioni”.
“Sono passati 7 anni dalla firma dell’Accordo Quadro tra Italia e Canada per il reciproco riconoscimento delle patenti di guida. Questa interrogazione, ribadisco, ha l’obiettivo di spronare il Governo ad aprire delle trattative dirette con le Province canadesi, caratterizzate da una numerosa presenza di italiani come quelle dell’Ontario e della British Columbia, e con gli Stati americani della Florida e della California. È assurdo pensare che, in un mondo sempre più interconnesso, non ci sia la possibilità di utilizzare la propria patente di guida in tutti i Paesi membri del G7, considerando che una tale misura ridurrebbe la burocrazia e faciliterebbe gli spostamenti. Una situazione spiacevole, ripeto, che colpisce ogni anno migliaia di persone e crea notevoli disagi a chi sceglie di trasferirsi in Nord America.
Su questo mi aspetto delle risposte concrete dai due ministeri”. Così la Senatrice La Marca, commenta la presentazione dell’interrogazione.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America – Senato della Repubblica XIX Legislatura )

 

02 – Alfredo Marsala*: VIA D’AMELIO, 32 ANNI DOPO. MATTARELLA: «CERCARE LA VERITÀ» LA STRAGE. L’ANNIVERSARIO DELL’UCCISIONE DEL GIUDICE BORSELLINO.
Trentadue anni senza verità. Trentadue anni di processi e bugie. Da quella maledetta esplosione del ’92 in via D’Amelio, il 19 luglio è una ferita aperta sanguinante e lacerante. E le parole di Sergio Mattarella danno il segno di questo profondo sconforto. Del paese, dopo che dei familiari di Paolo Borsellino e degli agenti fatti saltare in aria: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. «Il primo pensiero è rivolto ai familiari dei caduti, al loro infinito dolore, alla dignità con cui, a fronte della disumana violenza mafiosa, hanno saputo trasmettere il senso del bene comune e hanno sostenuto la ricerca di una piena verità sulle circostanze e i mandanti dell’attentato», dice Mattarella. «Ricerca» che, evidenzia il presidente della Repubblica, «è stata ostacolata da depistaggi». «Il cammino della giustizia ha subito tempi lunghi e questo rappresenta una ferita per la comunità. Il bisogno di verità è insopprimibile in una democrazia e dare ad esso una risposta positiva resta un dovere irrinunciabile», esorta Mattarella.
Per il Capo dello Stato «Paolo Borsellino, e con lui Giovanni Falcone, hanno inferto con il loro lavoro colpi decisivi alla mafia; ne hanno disvelato trame e dimostrato debolezze, lasciando un’eredità preziosa, non soltanto per indagini e processi e hanno insegnato che la mafia si batte anche nella scuola, nella cultura, nella coerenza dei comportamenti, nel rigore delle istituzioni, nella vita sociale».
Alle 16.58 il minuto di silenzio, in via D’Amelio, ha scandito l’ora esatta della strage con le agende rosse, guidate da Salvatore Borsellino, a invocare ancora una volta verità e giustizia. Centinaia le persone radunate vicino all’albero d’ulivo piantato proprio nella fossa prodotta dalla deflagrazione e che 32 anni dopo è rigoglioso e forte. La mano era quella della mafia ma sono stati altri a dare assassinare Paolo Borsellino. Le tracce di quella «partecipazione morale e materiale di altri soggetti» di «gruppi di potere interessati all’eliminazione» del magistrato si ritrovano nei tanti processi per la strage ma soprattutto nella sentenza su quello che gli stessi giudici hanno definito come «il più grande depistaggio della storia d’Italia». Questo è scritto proprio nella sentenza con la quale il 12 luglio del 2022 sono stati prescritti due investigatori della polizia, Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di favoreggiamento, e assolto un terzo poliziotto, Michele Ribaudo. Tutti e tre facevano parte della squadra che indagava sulle stragi Falcone e Borsellino. È la squadra, guidata da Arnaldo La Barbera e coordinata dal procuratore Giovanni Tinebra, che aveva creato il falso pentito Vincenzo Scarantino e lo avrebbe indotto a lanciare accuse inventate di sana pianta. Sette persone furono condannate all’ergastolo e poi scagionate e infine scarcerate quando il vero pentito Gaspare Spatuzza ricostruì un diverso scenario della strage.
*(Alfredo Marsala. La strage L’anniversario dell’uccisione del giudice … Russia Il giornalista era corrispondente per il Wall Street …)

 

03 – Fabio Ciabatti*: I GRUNDRISSE SECONDO DAVID HARVEY, TRA TOTALITÀ E DOPPIA COSCIENZA – DAVID HARVEY, LEGGERE I GRUNDRISSE. UN VIAGGIO NEGLI APPUNTI DI KARL MARX, EDIZIONI ALEGRE, ROMA 60

PARTE PRIMA
I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse. Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla fondamentalmente a sé stesso “attraverso qualsiasi strumento o idea a portata di pensiero, pronto a scatenare un flusso di coscienza in grado di proiettare su carta possibilità e interrelazioni che potevano o non potevano rilevarsi importanti per i suoi studi più ragionati”. In questo testo, scritto tra il 1857 e il 1858, troviamo dei “passaggi in cui Marx getta alle ortiche ogni cautela” dando spazio a “intuizioni geniali, drammatiche e spesso sbalorditive per le possibili implicazioni”.1
Insomma, i Grundrisse possono certamente letti come un testo preparatorio al Capitale, che vedrà la luce un decennio dopo, ma ci offrono anche di più. Perché si spingono oltre le conclusioni del Capitale, opera in cui Marx costringe sé stesso a un rigore metodologico che gli impedisce di anticipare qualsiasi risultato fino a che lo svolgimento del ragionamento non abbia ancora posto tutti gli elementi necessari per trattare l’argomento. Rigore senz’altro condivisibile. Peccato che Marx abbia realizzato solo una piccola parte del suo immane progetto di lavoro e questo ci privi di molte delle conclusioni cui voleva arrivare.
Per quanto spesso dispersivi, i Grundrisse hanno comunque un focus ben definito e cioè “l’elaborazione esatta del concetto di capitale” che risulta necessaria poiché, ci dice Marx,
questo è il concetto fondamentale dell’economia moderna, così come il capitale stesso […] è il fondamento della società borghese. Dalla comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre sé stesso.2
È attorno a questa problematica che Harvey concentra la sua lettura del testo. Una problematica che ci porta subito a un’altra questione fondamentale.
Marx intende indagare la formazione e il funzionamento del capitale in quanto “totalità”. Si tratta di un aspetto dell’approccio marxiano ampiamente ignorato nei commentari contemporanei. Ho il sospetto che su questo punto siano in parte da biasimare Foucault e il post-strutturalismo, nel loro ridurre ad anatema ogni discorso totalizzante e, di conseguenza, ogni evocazione del concetto stesso di totalità.3
Harvey sostiene che “’Totalità’ è la parola chiave. Leggere e costruire una teoria economico-politica interpretando il capitale alla stregua di una totalità in evoluzione è qualcosa di enormemente proficuo”.4 Marx riprende questo concetto da Hegel ma lo rielabora in profondità. La totalità del capitale, infatti, non è né prestabilita né predefinita, non è né fissa né determinata quanto a estensione nello spazio e nel tempo. È una rete di prassi sociali storicamente determinate e di rapporti costruiti e sviluppati nel tempo attraverso l’attività umana, costantemente assorta in un processo di crescita e trasformazione, in continuo “divenire”. La totalità del capitale è caratterizzata fondamentale dalla fluidità.
Questa fluidità di significato nello spazio e nel tempo spinge Harvey a chiedersi come poter leggere le categorie di base marxiane nel contesto del nostro presente. Dal momento che la totalità viene trasformata, anche l’apparato concettuale che usiamo per rappresentarla dovrà in qualche modo mutare. È il genere questioni che vengono al pettine quando si parla, per esempio, di finanziarizzazione dell’economia. Prendiamo, insieme a Harvey, il caso della Cina degli ultimi due decenni. Il suo rapidissimo processo di urbanizzazione ha richiesto la costruzione di un sistema finanziario che fosse adeguato al capitale fisso e alla formazione del fondo di consumo. Esattamente come ci si poteva aspettare a partire dalle categorie marxiane. Queste, però, prevedono anche un ruolo subordinato del capitale creditizio rispetto alle esigenze quello propriamente industriale. E qui emerge, secondo Harvey l’esigenza di un aggiornamento concettuale perché bisogna riconoscere che il sistema finanziario dagli anni Ottanta in avanti è emerso come il vero padrone della circolazione e dell’accumulazione del capitale, come il sistema nervoso centrale adeguato ai bisogni della circolazione e dell’accumulazione tipici della totalità costituita dal capitale contemporaneo.
Il punto di vista della totalità, secondo Harvey, ci aiuta a evitare alcuni schematismi che hanno talvolta caratterizzato la riflessione del marxismo. Qui basterà accennare, senza avere la possibilità di svilupparle, due questioni. In primo luogo, se è vero che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è ritenuta da Marx “la legge più importante della moderna economia politica”5 è altrettanto importante sottolineare che essa ha a che fare con il connesso aumento della massa del valore. “Dalla prospettiva della totalità Marx evidenzia come sia la crescita assoluta del capitale (cioè la massa del valore) a definirne l’essenza”,6 commenta Harvey. In secondo luogo, “L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione all’interno della totalità concepita in termini marxiani è una caratteristica centrale e fondamentale nella teoria del capitale”.7 Non si tratta di negare la centralità della produzione, perché questa è la sfera dove si genera il plusvalore. Ma, prosegue Harvey, valore e plusvalore esistono solo in potenza finché non vengono realizzati attraverso la vendita delle merci sul mercato.
Torniamo, dunque, al concetto di totalità che, per quanto riguarda il capitale, può essere considerata come un ecosistema isolato in funzione del suo studio, ma immerso in un ambiente più ampio, quello della formazione sociale borghese di cui costituisce il motore fondamentale, la forza trainante. Un’altra utile analogia, suggerita dallo stesso Marx, è quella con il corpo umano, costituito da diversi processi di circolazione autonomi e indipendenti, eppure compresi nella logica organica di un unico sistema. Applicare una struttura gerarchica a questi processi, sostiene Harvey, non ha senso perché il collasso di ognuno di loro minaccerebbe l’intera totalità. Allo stesso modo il capitale è costituito da differenti e interrelati processi di circolazione che riguardano lo scambio delle merci, il denaro in quanto tale, la capacità lavorativa, il denaro in quanto capitale, il capitale fisso e il capitale produttivo di interesse.
Il capitale è definito valore in movimento, ed è attraverso quest’ultimo che ogni singolo momento è collegato all’altro. Nessuno dei momenti all’interno della totalità del capitale può essere quindi compreso, nella visione marxiana, indipendentemente dai rapporti prevalenti fra loro.8
Il capitale è, per dirla direttamente con le parole dei Grundrisse, un “sistema organico” il cui “sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinarsi tutti gli elementi della società, o nel crearsi a partire da essa gli organi che ancora gli mancano”.9 Ma nel pensiero di Marx questo tipo di considerazione non mette capo a una concezione organicistica della società, se con essa intendiamo una visione che si basa sulla interrelazione armoniosa tra le parti, tipica del pensiero politicamente conservatore. Al contrario, continuando a utilizzare le parole dei Grundrisse, il capitale è “contraddizione in processo”, “contraddizione vivente” perché pone da sé stesso i suoi specifici limiti e al tempo stesso tende a superare ogni limite. L’esempio forse più significativo in questo senso è la dinamica che lo porta a ridurre il tempo di lavoro a un minimo (attraverso la meccanizzazione del processo produttivo e la conseguente diminuzione di manodopera a parità di investimento) mentre pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
La totalità del capitale non si limita a riprodurre sé stessa. Bisogna infatti considerare, come ripetutamente sottolineato da Harvey, che la circolazione del capitale non è un semplice circolo, ma, utilizzando direttamente le parole dei Grundrisse, “una spirale, una curva che si amplia”.10 Tornando a Harvey, se il capitale è denaro usato per fare altro denaro, e alla fine del giorno dovrà risultare più capitale monetario che all’inizio, è evidente che la totalità, per sopravvivere, dovrà mantenersi in uno stato ininterrotto di espansione infinita.11
Per Marx è chiaro che “quanto più alto è lo sviluppo del capitale, tanto più esso appare come ostacolo alla produzione”. Ma il capitale non si può fermare di fronte a nessun tipo di crisi dovendo “ricominciare da capo il suo tentativo, a partire da un grado superiore di sviluppo delle forze produttive ecc., con la prospettiva di un collasso sempre più grave in quanto capitale”.12 Il capitale ovviamente produce soluzioni alle sue crisi, ma anche esse si rivelano contraddittorie. Senza alcuna pretesa di sistematicità, se ne possono citate alcune di cui Harvey parla prendendo spunto dalle pagine dei Grundrisse per trattare di temi di attualità (come gli capita spesso in questo testo): l’enorme espansione del capitale finanziario, l’espansione geografica del capitale (quello che Harvey definisce “spatial fix”), il consumo improduttivo nella forma di investimenti nell’urbanizzazione e in ogni genere di infrastrutture fisiche, ma anche delle spese militari.
A dire il vero, nota Harvey, l’economia bellica è trattata da Marx solo attraverso pochissimi commenti. Il marxista britannico, però, cita una breve ma significativa digressione in cui l’autore dei Grundrisse afferma essere un’ovvietà il fatto che dedicando risorse alla guerra “dal punto di vista economico è come se la nazione buttasse a mare una parte del suo capitale”.13 Un accenno importante perché prefigura la volontà di costruire una teoria più generale su questo argomento. Una teoria, commenta Harvey, in grado di spiegare come “Ogni tendenza verso la sovraccumulazione […] può essere risolta incanalando e dissipando il capitale in investimenti inutili e in campagne militari”.14
In ogni caso l’incessante espansione del capitale generalizza e intensifica il suo dominio nella forma che propriamente gli si addice, quella dei “rapporti di dipendenza materiale in antitesi con quelli personali”15 tipici di sistemi precapitalistici. Questo significa che “Gli individui [sono] dominati da astrazioni mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri”.16 Non si tratta di un dominio delle idee, come quello che viene chiamato spesso in causa quando si vuole spiegare l’affermazione dell’ideologia thatcheriana, e più in generale neoliberista, con la sostituzione di una concezione statalista keynesiana con il pensiero filo-imprenditoriale di Hayek e Friedman. Questa è una prospettiva idealistica che ragiona come se “la dissoluzione di una determinata forma di coscienza” fosse “sufficiente a uccidere un’intera epoca”17. Dal punto di vista storico-materialistico di Marx, invece, occorre identificare quali forze di classe e quali origini sociali si nascondano dietro queste astrazioni. “Perché l’astrazione o idea non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio”18 sugli individui. Sono specifiche pratiche sociali e condizioni storico-materialistiche, per esempio, che “pongono” (per dirla alla Marx) l’esistenza del valore in qualità di astrazione capace di governare l’azione sociale. Così come accade per la gravità, il valore non lo si può vedere o misurare direttamente, ma la sua esistenza viene confermata chiaramente dai suoi effetti. Questo ha delle conseguenze politiche di importanza tutt’altro che secondaria.
Se siamo governati dalle astrazioni, come Marx insiste a dire, l’unico obiettivo dell’agire umano che abbia un senso è prendersela con quei processi che le producono in modo tale da renderli infine irrilevanti: esattamente ciò che l’ideologia e la politica capitalista si rifiutano di prendere anche solo in considerazione. D’altra parte, contemplare una lotta di classe contro le astrazioni sembra anche parecchio complicato.19

Ma delle vicissitudini della lotta di classe di fronte alla totalità capitalistica ci occuperemo nella seconda e ultima parte di questo articolo.

PARTE SECONDA
Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria. Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che
l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1
Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.
Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.
È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3
Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?
Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4
In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.
A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.

La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11

Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.

Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, e in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché a essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.

In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico. Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.

Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e ratealizzata risvegliato dai populismi fascistoidi. Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.
*( Fabio Ciabatti, Autore presso Scenari – Redattore della rivista Carmilla ha recentemente pubblicato insieme al Gruppo di studio Antongiulio Penequo “Il viaggio rivoluzionario)

 

04 – Leonardo Bianchi *: DONALD TRUMP È IL PIÙ GRANDE PERICOLO PER LA DEMOCRAZIA NEL MONDO. Parlando a Claremont (New Hampshire) durante la Giornata dei Veterani dell’11 novembre 2023, l’ex presidente Donald Trump ha giurato una terribile vendetta contro i nemici che – a suo dire – corrodono gli Stati Uniti.
“Prometto che estirperemo i comunisti, i marxisti, i fascisti e gli estremisti di sinistra che si annidano come parassiti dentro i confini della nostra nazione, mentendo e truccando le elezioni”, ha dichiarato.
“Le minacce esterne sono meno gravi e pericolose rispetto a quelle che vengono dall’interno”, ha proseguito, “perché con un leader capace, intelligente e risoluto, a paesi come la Russia, la Cina e la Corea del Nord passerà la voglia di darci fastidio”.
Come hanno fatto notare diversi osservatori, il linguaggio di Trump ricorda in maniera inquietante quello usato dagli autocrati del secolo scorso. “Disumanizzare gli avversari e negare loro il diritto costituzionale di partecipare alla democrazia in modo sicuro è proprio ciò che fanno i dittatori”, ha spiegato il ricercatore Timothy Naftali alWashington Post.
Quello dei “parassiti” non è l’unico discorso “mussoliniano” – come l’ha definito la storica Ruth Ben-Ghiat – pronunciato da Trump nelle ultime settimane. A ottobre, durante un comizio a Cedar Rapids (in Iowa), l’ex presidente ha associato i migranti all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, accusandoli di “avvelenare il sangue della nostra nazione”.
E ancora: in un’intervista alla rete televisiva in lingua spagnola Univision ha fatto intendere che, in caso di vittoria, userebbe l’FBI e il Dipartimento di giustizia per arrestare gli oppositori politici – incluso il presidente Joe Biden – e gli ex alleati che non hanno condiviso le bugie sugli inesistenti brogli delle presidenziali del 2020.
Come ha dimostrato l’assalto al Congresso del 6 gennaio del 2021, Trump è una figura politica da prendere assolutamente sul serio. E in vista delle presidenziali del 2024, che stando ai sondaggi si preannunciano combattute, un recente articolo dell’Economist l’ha definito “il più grande pericolo mondiale”.
Per la testata britannica, infatti, un secondo mandato sarebbe infinitamente peggiore del primo. Tra guerre, crisi climatica e crisi economica, questa è una fase storica molto pericolosa e complicata che non ha certamente bisogno di un personaggio come Trump.
Da un punto di vista interno, poi, l’eventuale affermazione elettorale “non farebbe altro che solleticare i suoi istinti più distruttivi”. Molto probabilmente innescherebbe una crisi costituzionale, visto che Trump potrebbe usare i poteri presidenziali per auto-graziarsi nei quattro procedimenti penali che lo vedono imputato.
Con un Partito repubblicano ridotto a un comitato elettorale trumpiano, inoltre, “i suoi piani non incontrerebbero molta resistenza”. E infine, chiosa l’Economist, rieleggere un personaggio del genere – ben sapendo di cos’è capace – non farebbe altro che compromettere “l’autorità morale degli Stati Uniti”.

IN ALTRE PAROLE: IL RITORNO DI TRUMP ALLA CASA BIANCA RISCHIA SERIAMENTE DI DEMOLIRE LA DEMOCRAZIA STATUNITENSE – E NON SOLO QUELLA.

Progetto 2025: il piano per il secondo mandato di Trump

A differenza del primo mandato, quando nessuno si aspettava che Trump vincesse davvero le elezioni (Trump compreso), un eventuale secondo mandato sarebbe preparato fin nei minimi dettagli.
Intorno all’ex presidente si è infatti radunata una vasta rete di associazioni e gruppi ultraconservatori, capeggiata dalla Heritage Foundation (uno dei più importanti think tank della destra statunitense).
Come ha riportato il Washington Post, questa rete sta stendendo un piano per la transizione presidenziale chiamato Project 2025 (“Progetto 2025”), che include proposte politiche in tutti i campi – dall’economia alla politica estera – e addirittura la selezione del personale per la nuova Casa Bianca. Naturalmente, è richiesta la massima fedeltà a Trump.
Secondo il New York Times, Trump si sta poi avvalendo di avvocati e giuristi compiacenti, in grado di tradurre in termini legali i punti programmatici più estremi e potenzialmente incostituzionali. L’ex presidente, riporta il quotidiano, ha sempre sostenuto di essere stato frenato dalla sua stessa amministrazione, composta in buona parte da repubblicani più tradizionali – o comunque non esplicitamente eversivi.
È anche per questo, ad esempio, che Trump vorrebbe arrestare il suo ex procuratore generale Bill Barr, reo di non aver sostenuto le falsità sulle elezioni rubate, e l’ex capo dello stato maggiore congiunto Mark Milley, che ha sempre cercato di limitare i danni dell’ex presidente.
Ma la persecuzione giudiziaria degli avversari e dei “traditori” non sarebbe che l’inizio. Trump, riporta sempre il New York Times, è intenzionato a sigillare i confini degli Stati Uniti e rendere praticamente impossibile migrare nel paese.
Oltre alla conclusione del famigerato muro al confine con il Messico, il piano per contrastare l’immigrazione prevede – tra le varie cose – l’utilizzo massiccio delle forze dell’ordine e della Guardia nazionale per catturare e deportare migranti irregolari; la costruzione di campi di detenzione in cui ammassare le persone prive di documenti; e restrizioni significative alla possibilità di chiedere il diritto d’asilo.
Il Project 2025 contempla poi l’occupazione pressoché totale della macchina amministrativa federale sulla base di una controversa dottrina giuridica chiamata “esecutivo unitario”.
Secondo questa teoria, il presidente degli Stati Uniti eserciterebbe un potere pressoché totale su ogni ramo della burocrazia federale. Una sua eventuale implementazione, su cui ci sono seri dubbi di incostituzionalità, permetterebbe a Trump di piazzare ovunque uomini e donne a lui fedeli.
Tra le varie proposte dei think tank, infine, ce n’è una particolarmente inquietante: l’impiego dell’esercito sul suolo americano per il mantenimento dell’ordine pubblico, cioè la repressione del dissenso.
Stando a un articolo del Washington Post, il primo atto della nuova presidenza Trump potrebbe essere l’applicazione – attraverso un ordine esecutivo – dell’Insurrection Act, una legge del 1807 (aggiornata per l’ultima volta nel 1870) che permette al presidente di mobilitare l’esercito federale in casi eccezionali.
L’ex presidente voleva utilizzarla già durante le rivolte del 2020 scatenate dall’omicidio di George Floyd, ma alla fine aveva rinunciato. In un comizio del luglio del 2021 si era lamentato di essere stato bloccato dalle resistenze interne alla sua amministrazione, e garantito che la “prossima volta” avrebbe schierato i militari per strada.

ECCO: UN EVENTUALE SECONDO MANDATO DI TRUMP SAREBBE CARATTERIZZATO DALLA TOTALE ASSENZA DI FRENI E CONTRAPPESI.
Il “cesarismo rosso” e il rischio di una dittatura negli Stati Uniti
La necessità di avere mano libera è dettata anche da una visione del mondo – e della politica interna statunitense – completamente distorta, caratterizzata da teorie del complotto violente ed estreme.
Non si tratta di una novità in assoluto; piuttosto, siamo di fronte a una progressiva e inesorabile radicalizzazione. Trump ha sempre usato strategicamente il complottismo, ma dalle elezioni del 2020 in poi l’ha messo al centro della sua azione politica.

GIUSTO PER FARE UN ESEMPIO, NELLA SUA PIATTAFORMA TRUTH SOCIAL HA RILANCIATO PIÙ DI 500 VOLTE ACCOUNT LEGATI AL MOVIMENTO COMPLOTTISTA DI QANON.

A tal proposito, molti punti chiave della propaganda qanonista – come l’esistenza di un Deep State, le accuse di pedofilia e satanismo nei confronti dei democratici, nonché il sogno di un colpo di stato purificatore – sono ormai parte integrante della propaganda repubblicana.

L’ambiente politico che gravita intorno a Trump è infatti convinto che “l’estrema sinistra” occupi praticamente tutti i gangli del potere, e lavori alacremente per disintegrare gli Stati Uniti.

Di fronte a questa minaccia esistenziale, dunque, una parte della destra statunitense ha formulato la teoria del “cesarismo rosso” – ossia una “soluzione autoritaria per evitare il collasso della repubblica”, come l’ha definita il giornalista Jason Wilson.

Secondo l’accademico di destra Kevin Slack, questo “Cesare rosso” – dove il rosso deriva dal colore del Partito repubblicano – avrebbe il compito di istituire un “ordine post-costituzionale” per “ridare il potere al popolo”.

Per il saggista Michael Anton, già consulente al Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti durante la presidenza Trump, il “cesarismo rosso” sarebbe una “forma di governo individuale” che si colloca a metà strada tra “la monarchia e la tirannia” – e non in senso negativo.
C’è pure una versione cristiana della teoria. Nel libro The case for christian nationalism, il nazionalista cristiano Stephen Wolfe propone di eleggere un “Cesare cristiano” che instauri un “cesarismo teocratico” per combattere il secolarismo. La suggestione di una dittatura, insomma, circola ampiamente nei circuiti conservatori e repubblicani.
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Non è detto che si realizzi, ovviamente; ma c’è comunque una remota possibilità che lo faccia, e questo di per sé è estremamente preoccupante.

Di sicuro lo scenario di un “Cesare rosso” non dispiace affatto a Trump, che sta già parlando come un dittatore in pectore – e soprattutto, si sta circondando di persone che lavorano per farlo diventare tale.
*( Leonardo Bianchi è laureato in Giurisprudenza all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Giornalista e blogger, è stato news editor di VICE Italia.)

 

05 – Francesco Del Vecchio*: PERCHÉ SI PARLA DI NUOVO DI MES? C’ENTRANO I NEGOZIATI PER LE NUOVE NOMINE AI VERTICI DELL’UE E LA POSIZIONE CONTROVERSA DEL GOVERNO ITALIANO SUL FONDO SALVA STATI.
L’Italia resta l’unico paese dell’area euro a non aver ratificato la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), noto anche come Fondo salva stati, che ha aggiunto all’organismo nuove funzioni oltre a quelle inizialmente previste. A più riprese, negli ultimi anni la questione riguardante questo strumento europeo è tornata nel dibattito politico: di recente è stata alimentata dalle negoziazioni in corso a livello Ue per le prossime nomine ai vertici del blocco.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti negli ultimi giorni ha espresso la sua preoccupazione per il trattamento riservato all’Italia nelle decisioni importanti dell’unione, una situazione emersa anche durante il recente Consiglio dei governatori del Mes a Lussemburgo, dove è stato adottato il rapporto annuale del Meccanismo.
LA POSIZIONE ITALIANA
La mancata adesione italiana al Meccanismo europeo di stabilità è stata sottolineata anche dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni durante una riunione dell’Eurogruppo: Gentiloni ha evidenziato si sia trattato di una presa d’atto delle difficoltà italiane nel procedere con la ratifica. La decisione dell’Italia ha conseguenze significative per l’intera Eurozona: in particolare, senza il voto favorevole di Roma, anche gli altri Stati membri non possono accedere al Mes in caso di difficoltà economiche.
Le ragioni dietro la mancata ratifica italiana sono varie: parte delle perplessità riguardano il fatto che il fondo non sarebbe direttamente controllato dall’Unione Europea e altre sono maggiormente legate a una posizione complessivamente sovranista sugli strumenti europei, ma allo stesso tempo l’Italia vorrebbe utilizzare la sua posizione come leva negoziale per ottenere vantaggi in altre aree.
Giorgetti ha evidenziato che il parlamento non ha attualmente una maggioranza favorevole alla ratifica del trattato: questo atteggiamento riflette anche una strategia del governo, che cerca di negoziare un ruolo più significativo nelle future decisioni dell’Ue, magari usando il Mes come pedina di scambio. Nonostante le tensioni, ci sono segnali di apertura per una possibile revisione del trattato: Pierre Gramegna, direttore esecutivo del fondo, ha suggerito che potrebbero essere considerate nuove finalità per questo strumento.
*)Fonte: Wired – Francesco Del Vecchio, giornalista. Ha collaborato con Business Insider Italia e le agenzie di stampa ANSA e AGI. Si occupa di esteri)

 

06 – Chiara Cruciati*: L’AJA: «OCCUPAZIONE ILLEGALE E APARTHEID: ISRAELE DEVE RITIRARSI SUBITO» ISRAELE/PALESTINA. STORICO PARERE DELLA CORTE INTERNAZIONALE: TEL AVIV HA DI FATTO ANNESSO I TERRITORI PALESTINESI. «SMANTELLI TUTTO E RISARCISCA». IL PREMIER NETANYAHU RIVENDICA: È TERRA NOSTRA. IL PRESIDENTE ABU MAZEN: «VITTORIA DELLA GIUSTIZIA»
La polizia perquisisce un giovane palestinese all’ingresso di un quartiere a Gerusalemme est
Da sei mesi a questa parte, dalla storica sentenza della Corte internazionale di Giustizia sul genocidio plausibile in corso a Gaza, lo scorso 26 gennaio, il diritto internazionale è stato scongelato. Considerazioni finora confinate al mondo degli invisibili (il popolo palestinese) e all’associazionismo internazionale (Amnesty, Human Rights Watch, B’Tselem) rimbombano dentro il tribunale più importante del pianeta. Ora far finta di non ascoltare diventa pratica complessa.
Ieri il presidente della Corte Nawaf Salam ha letto le 32 pagine di un parere consultivo che è un terremoto: l’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est è illegittima. È un’annessione di fatto che ha generato un regime di apartheid e segregazione razziale. E deve finire, subito: «Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza nei Territori occupati palestinese il prima possibile».
I GIUDICI buttano fuori una sentenza (chiesta nel dicembre 2022 dall’Assemblea generale dell’Onu) che disegna la complessa rete con cui dal 1967 Israele ingabbia e soffoca l’autodeterminazione palestinese.
Una rete che mescola – e che tenta di istituzionalizzare – militarismo, burocrazia, colonizzazione e pulizia etnica. Costruzione ad libitum di colonie e trasferimento della propria popolazione nel territorio occupato, riconoscimento degli insediamenti messi in piedi dai coloni, doppio standard legale, confische di terre e demolizioni di case palestinesi, trasferimento forzato della popolazione occupata (con «uso della forza fisica ma anche non lasciando alle persone altra scelta che andarsene»), furto di risorse naturali: tutte queste misure prese a esclusivo beneficio del paese occupante e a detrimento della popolazione palestinese devono cessare, «as rapidly as possible».
Non solo: «Israele ha anche l’obbligo di fornire una piena riparazione per i danni causati dai suoi atti illeciti a livello internazionale a tutte le persone fisiche o giuridiche interessate. La riparazione comprende la restituzione, il risarcimento e/o la soddisfazione». Ovvero la restituzione di proprietà (immobili e culturali, dunque terre e case ma anche libri e archivi), lo smantellamento del muro e delle colonie, la fine di tutte le politiche volte ad alterazioni demografiche, il ritorno dei palestinesi il cui diritto all’autodeterminazione non può essere soggetto ad alcuna condizione, perché «inalienabile». Dove la riparazione non fosse possibile, deve risarcire dei danni.
Perché, scrive la Corte, l’occupazione militare dei Territori palestinesi «è illegale» e viola il diritto internazionale da 57 anni. Un atto narrato come temporaneo è ormai agli occhi israeliani permanente, un’annessione di fatto in cui le autorità occupanti non distinguono più tra territorio occupato e Stato di Israele, quello riconosciuto 74 anni fa dalle Nazioni unite. Un’annessione di terre che non è un’annessione di cittadini e che ha tramutato l’occupazione in un regime di apartheid e segregazione razziale: la stessa autorità governa due popoli, ma solo uno ha pieni diritti di cittadinanza. L’altro di diritti non ne ha.
NON CE L’HANNO i palestinesi in Cisgiordania, né quelli residenti – da apolidi – a Gerusalemme est. E non ce l’hanno nemmeno i palestinesi di Gaza. Qui la Corte risponde indirettamente a chi dal 7 ottobre sui giornali occidentali e negli uffici di governo va dicendo che no, Gaza non è più occupata dal 2005, quando l’allora primo ministro Ariel Sharon smantellò le colonie israeliane nella Striscia: Gaza è occupata, perché – pur senza presenza militare e civile, almeno fino al 7 ottobre – Israele mantiene il controllo totale su elementi chiave per una vita libera: confini terrestri e marittimi, tasse, importazioni ed esportazioni, libertà di movimento.
I tre territori, scrive la Corte, vanno considerati «come un’entità singola le cui unità e integrità vanno preservate e rispettate».
Un messaggio che, in conclusione, la Corte internazionale rivolge a tutti gli Stati del mondo, su cui pesa l’obbligo di non riconoscere tale illegittima presenza e di non fornire alcuna assistenza che permetta a Israele di preservarla.
Le reazioni al parere dell’Aja sono state immediate. L’ambasciatore palestinese alle Nazioni unite Riyadh Mansour si è detto «grato» per una decisione che dà «nuova forza per continuare a resistere a questa occupazione illegale» e ha promesso una risoluzione da presentare all’Assemblea dell’Onu, mentre il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas ha parlato di «vittoria della giustizia».
Nel governo israeliano si è materializzato lo scudo ormai noto, un mix di contro-accuse e minacce di fare di peggio. L’ambasciatore all’Onu Erdan promette ritorsioni contro le Nazioni unite, dalla chiusura del quartier generale a Gerusalemme alla deportazione dei capi delle agenzie. La Corte è antisemita, il commento del ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir; «tutte bugie», quello del premier Netanyahu.
I due vanno oltre. Netanyahu, nel suo comunicato, afferma che «il popolo ebraico non occupa la sua stessa terra, compresa la nostra eterna capitale Gerusalemme né Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)», di fatto confermando le conclusioni della Corte: per le autorità israeliane non c’è spazio per i palestinesi, l’annessione è reale ed è giusta. Non è una novità: un paio di giorni fa la Knesset ha votato compatta per negare la legittimità presente e futura di uno Stato palestinese, con buona pace degli alleati che vanno ripetendo da anni il mantra di una soluzione a due stati (come Italia e Stati uniti che ancora blaterano di negoziati politici, fingendo di non vedere che Tel Aviv non ne ha alcun interesse).
E POI BEN GVIR, principale esponente dell’ultradestra razzista e messianica israeliana: è tempo di affermare la sovranità sui Territori, ha detto in risposta al parere consultivo. È in tale contesto che vanno letti gli ordini militari emessi il 18 luglio, come riporta l’associazione israeliana PeaceNow: alle autorità civili israeliane è trasferito il potere di amministrare le questioni civili dell’Area B della Cisgiordania (secondo gli accordi di Oslo spettanti all’Anp). Significa “legalizzare” quanto accade già: demolizioni di strutture palestinesi, divieto a costruire se non con permessi-fantasma, nuove confische di terre e nuove colonie.
È l’annessione di fatto, è l’apartheid. Come in Sudafrica, fino a trent’anni fa: allora il regime di segregazione razziale mobilitò contro di sé una rete eterogenea di forze, civili e governative. Ma il razzismo di Stato esiste ancora. chiara cruciati
*( Chiara Cruciati – Segue le pagine internazionali del manifesto, dalla scrivania di via Bargoni e dalle città del Medio Oriente. Vicedirettrice del manifesto)

 

 

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