n°23 – 14/06/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

01 – Rebecca De Bortoli *: Censura globale: dai palchi europei alle sale di Hollywood – Lo scenario di libertà cambia e impone nuove regole alla cultura pop internazionale. Quest’anno l’Eurovision ha vietato qualsiasi tema politico o di attualità.
02 – Toscano Salvatore*: Il sondaggio rivela che solo il 6% degli italiani è dalla parte di Israele -L’immagine di Israele in Europa sta crollando. A metterlo nero su bianco, dopo un anno e mezzo di genocidio a Gaza, è un sondaggio che l’agenzia YouGov ha condotto per misurare “il sostegno pubblico e la simpatia per Israele”.
03 – Luciana Cimino*: Le opposizioni: «Governo senza linea, supino a Trump e Netanyahu» A tutto spiano L’audizione del ministro degli Esteri Antonio Tajani.
04 – Alberto Negri*: La tigre della guerra è uscita dalla gabbia – Scenari cupi L’hanno voluto gli stessi domatori, Stati uniti in prima fila, insieme a una leadership europea disinformata, ininfluente e ormai piegata alle destre sovraniste e populiste
05 – Fulvio Grimaldi *: Disturbo Delirante Condiviso si chiama la sindrome che hanno in comune i dirigenti massimi della cosiddetta “Comunità Internazionale”.
06 – Alfio Mastropaolo*: Sinistra sconfitta, ma i neoliberisti non vinceranno mai- Referendum Il tema del lavoro è tornato all’ordine del giorno e il Pd l’ha alfine fatto suo. Tredici milioni di sì raccolti non sono bruscolini.
07 – Luca Illetterati*: Luigi Pintor, alla fantasia il potere di far quadrare i conti con la realtà – Nel centenario dalla nascita Segnati da quel culto della brevità che è insieme cifra stilistica e antidoto alla retorica, i racconti del grande editorialista del «manifesto» – «Servabo», «La signora Kirchgessner», «Il nespolo», «I luoghi del delitto» – vengono ora riuniti da Bollati Boringhieri un unico volume, «La vita indocile»

 

 

01 – Rebecca De Bortoli *: CENSURA GLOBALE: DAI PALCHI EUROPEI ALLE SALE DI HOLLYWOOD – LO SCENARIO DI LIBERTÀ CAMBIA E IMPONE NUOVE REGOLE ALLA CULTURA POP INTERNAZIONALE. QUEST’ANNO L’EUROVISION HA VIETATO QUALSIASI TEMA POLITICO O DI ATTUALITÀ.

Tutti gli artisti in gara hanno dovuto firmare un documento ufficiale in cui si sono impegnati a rispettare una serie di comportamenti, tra cui la neutralità politica. “Occorre tutelare gli artisti. Gli strumenti adottati non sono punitivi, ma di responsabilizzazione”, ha spiegato il Direttore Relazioni Internazionali della Rai Simona Martorelli.
L’evento musicale aveva già subito non poche critiche per la partecipazione di Israele al contest, critiche che con questa notizia sono aumentate. La decisione è figlia della scorsa edizione, in cui alcune esibizioni avevano toccato temi delicati come la guerra, che suscitò sgomento in alcune fasce della società. In concomitanza Il presidente americano Donald Trump ha annunciato l’intenzione di imporre dazi del 100% sui film distribuiti negli Stati Uniti, ma prodotti all’estero. “L’industria cinematografica americana sta morendo molto velocemente”, ha sostenuto Trump, dichiarando anche che secondo lui si tratta di “uno sforzo concertato da parte di altre nazioni e, quindi, di una minaccia per la sicurezza nazionale”.
Molti credono che il presidente Donald Trump non abbia l’autorità di imporre dazi, poiché non sono elencati come rimedio di legge. Intanto la California è il primo Stato ad aver fatto causa alla Casa Bianca proprio contro i dazi, e l’idea di imporli su Hollywood potrebbe dare il via a una nuova azione legale. L’obiettivo di Washington non sembra essere il cinema estero in sé, ma piuttosto l’esternalizzazione della produzione da parte degli studios di Hollywood che da decenni utilizzano case di produzione e location di altri Paesi. Si tratta da un lato di una non volontà di riconoscere i propri problemi interni e le proprie responsabilità. Basti ricordare che due anni fa il mondo di Hollywood andò in tilt per un vasto e lungo sciopero iniziato dagli sceneggiatori e poi esteso anche agli attori solidali, che paralizzò la produzione di moltissime serie tv e film e si estese anche ad altre parti del mondo, tra cui l’Italia. Le richieste erano: maggiori tutele all’immagine, maggiori tutele economiche e maggiori garanzie, sicuramente non legate “all’estero”.
Anche oggi parte l’allarme da parte del mondo del cinema, anche statunitense, per tutela della libertà artistica. Si distingue la dichiarazione dell’attore Robert De Niro al festival di Cannes: “L’arte cerca la libertà. Unisce le persone, include la diversità. Ecco perché rappresentiamo una minaccia per gli autocrati e i fascisti del mondo, ma la creatività non ha prezzo”, e definisce Trump “il presidente ignorante che ha tagliato i fondi per le discipline umanistiche, per l’istruzione superiore, e ora annuncia dazi doganali sul cinema semplicemente inaccettabili”. “Dobbiamo agire oggi, immediatamente, senza violenza, ma con passione, con determinazione! È giunto il momento: tutti coloro che amano la libertà devono organizzarsi, protestare, ed è giunto anche il momento di votare, quando ci saranno le elezioni. In ballo c’è la democrazia e la difesa della libertà”, aggiunge al festival di Cannes che si è svolto, al contrario di altri grandi eventi, nel segno dell’impegno politico. Anche la presidente di giuria Juliette Binoche ha “politicizzato” il festival raccogliendo l’appello di oltre 400 personalità del cinema mondiale, chiedendo di rompere il silenzio di fronte al “genocidio” a Gaza.
Viene quindi riconosciuto, da chi crea intrattenimento, che ogni tipo di canale genera informazione e messaggi, più o meno espliciti, e spesso sono veri e propri canali pedagogici che non possono ignorare la realtà. Soprattutto nei paesi in cui le leve del potere sono nelle mani di una burocrazia statale: il controllo monopolistico dei mass media, spesso integrato da una censura ufficiale, dimostra come i media siano messi a disposizione di una élite dominante, come spiegano il filosofo Noam Chosmy e l’economiasta Edward Herman. Con lo scopo di marginalizzare il dissenso dirottando l’attenzione del pubblico su altro. Il risultato è che non saranno nè i creatori di un prodotto televisivo nè i fruitori a decidere cosa si può o non si può trasmettere. Gli stessi metodi stringenti che stanno emergendo in modo più visibile in questi mesi sono usati in posti che sono considerati stretti regimi. Il cinema cinese infatti funge da potente strumento per estendere la propaganda del PCC, promuovendo narrazioni che si allineano con la visione del partito, con gli schemi simili a quelli che possiamo trovare nella produzione hollywoodiana, ad esempio film di rappresentanti della giustizia governativa che combattono i cattivi spesso incarnati dagli stranieri che minacciano la sovranità del paese. Tutti i contenuti televisivi cinesi devono essere in linea col PCC, e son per questo sottoposti ad un forte controllo. Il 26 aprile 2022, la Federazione cinese delle organizzazioni sociali di radio e televisione e la China Network Audiovisual Program Service Association hanno introdotto un insieme di regolamenti che racchiudono la rigorosa supervisione della cultura popolare da parte del partito, regolamenti che enfatizzano un corretto orientamento politico, imponendo che tutte le serie TV promuovano i valori fondamentali: patriottismo e unità nazionale.Le linee guida impongono anche agli attori, ai registi e a tutti i membri della troupe di produzione di possedere un’alfabetizzazione politica di Partito.
Questa censura pervasiva sottolinea la determinazione dei governi ad usare la televisione come strumento per promuoversi e sopprimere qualsiasi narrativa che possa sfidare la sua autorità o interrompere il tessuto sociale. Questo tipo di privazione di libertà non è combattuta neanche dai paesi che dichiarano di difendere i diritti di parola. Infatti sono la stessa Hollywood e altre industrie cinematografiche globali ad adattarsi alla propaganda estera, in questo caso cinese, in particolare attraverso la censura e la manipolazione dei contenuti, questo per star dietro all’enorme potenziale di mercato della Cina, che è troppo redditizio da ignorare per gli studi globali. Vi è quindi un’autocensura da parte degli studi di Hollywood che modificano volontariamente i loro film prima dell’uscita, con la rimozione di contenuti che potrebbero essere considerati politicamente sensibili o offensivi per il governo cinese. Argomenti come l’indipendenza di Taiwan, la rappresentazione del Tibet e la rappresentazione delle autorità cinesi sono comunemente adattati. Ad esempio, il film “Top Gun: Maverick” ha rimosso una toppa che mostra la bandiera taiwanese dalla giacca di Tom Cruise. Inoltre, la Cina impone una quota rigorosa sul numero di film stranieri che possono essere proiettati nelle sale ogni anno, che entrano con regolamenti che assicurano che venga mostrato solo il contenuto favorevole o neutrale per il governo cinese.
Allo stesso tempo, in molte zone d’Europa risuona la richiesta di media liberi e indipendenti dal controllo del governo del momento. È quello che han rivendicato, tra le altre cose, gli studenti e i manifestanti serbi nelle mobilitazioni degli ultimi mesi, che accusano di il presidente Vucic e il governo serbo di propaganda. I manifestanti vengono liquidati sui media come agenti stranieri, sostenitori di un futuro colpo di stato e di una rivoluzione colorata, che terrorizzano quotidianamente Belgrado e il resto della Serbia. Pagine Esteri
*(Fonte: Pagine Estere – Rebecca De Bortoli. Giornalista)

 

02 – Toscano Salvatore*: IL SONDAGGIO RIVELA CHE SOLO IL 6% DEGLI ITALIANI È DALLA PARTE DI ISRAELE -L’IMMAGINE DI ISRAELE IN EUROPA STA CROLLANDO. A METTERLO NERO SU BIANCO, DOPO UN ANNO E MEZZO DI GENOCIDIO A GAZA, È UN SONDAGGIO CHE L’AGENZIA YOUGOV HA CONDOTTO PER MISURARE “IL SOSTEGNO PUBBLICO E LA SIMPATIA PER ISRAELE”.
Nel sondaggio condotto l’Italia è risultato essere il Paese con la maggiore disapprovazione nei confronti di Tel Aviv. Alla domanda: «Israele aveva il diritto di inviare truppe a Gaza dopo il 7 ottobre 2023?», solo il 6% degli intervistati ha risposto positivamente (a fronte di una media tra gli altri 5 Paese pari a 13,4%), giudicando proporzionata la risposta all’attacco della resistenza palestinese. Per il 29% degli italiani (35,6% degli europei) Israele aveva il diritto di attaccare la Striscia ma «è andato oltre e ha causato troppe vittime civili». Un 24% sostiene invece che lo Stato ebraico non avrebbe dovuto intervenire militarmente in Palestina, a fronte di una media del 16,8% rilevata negli altri intervistati europei. Il restante 41% degli italiani interpellati non sa o preferisce non rispondere alla domanda principale del sondaggio.
Il principale indicatore utilizzato è stato quello del “consenso netto”, che si ottiene sottraendo la percentuale di opinioni negative da quella delle opinioni positive verso un soggetto. In base al segno, positivo o negativo, si capisce il sentimento dominante, che diventa via via più intenso al crescere della cifra rilevata, espressa come numero senza il simbolo della percentuale. Nei 6 Paesi analizzati dominano le opinioni negative: in Germania (-44), Francia (-48) e Danimarca (-54) si è registrato il consenso netto più basso dall’inizio delle rilevazioni, risalente al 2016. Nel Regno Unito il consenso netto è pari a -46, mentre in Spagna e in Italia cresce rispettivamente fino a -55 e -52. Nel complesso, solo tra il 13% e il 21% degli intervistati aveva una visione favorevole di Israele, rispetto al range tra 63% e 70% le cui opinioni erano sfavorevoli.
All’interno della rilevazione è stato poi chiesto alle persone intervistate di schierarsi, dal lato palestinese o israeliano. Uno su due l’ha fatto, scegliendo principalmente lo schieramento palestinese (un range tra il 18% e il 33% nei 6 Paesi coinvolti a fronte di un range tra il 7% e il 18% che preferisce la parte israeliana) — per un dato in crescita rispetto al 2023. In aumento è anche la percentuale di persone che considerano giustificato l’attacco di Hamas, in termini di reazione al regime israeliano di apartheid e colonialismo: nei sei Paesi europei oscilla tra il 5% e il 9%, toccando quota 8% in Italia (+2 punti percentuali rispetto al 2023). Il crollo — non scontato vista la comunicazione non proprio obiettiva di media e governi occidentali — dei consensi verso Israele trova una certa corrispondenza nel fermento della società civile a sostegno del popolo palestinese.
Ad esempio, nelle stesse ore in cui la Freedom Flottilla che viaggiava via mare per rompere l’assedio di Gaza è stata sequestrata in acque internazionali dalle autorità israeliane; via terra sta per partire la marcia che dal Cairo vuole raggiungere il valico di Rafah, in protesta contro il genocidio in corso e per chiedere l’apertura della frontiera e il passaggio degli aiuti umanitari. Nel frattempo i portuali di Marsiglia e Genova hanno impedito a un container con 14 tonnellate di componenti per mitragliatrici di arrivare all’esercito israeliano, inviando un messaggio di sostenibilità del boicottaggio a tutti i solidali col popolo palestinese.
*( Salvatore Toscano- Laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, per L’Indipendente si occupa di politica, diritti e movimenti. Si dedica al giornalismo dopo aver compreso l’importanza della penna come strumento di denuncia sociale. )

 

03 – Luciana Cimino*: LE OPPOSIZIONI: «GOVERNO SENZA LINEA, SUPINO A TRUMP E NETANYAHU» A TUTTO SPIANO L’AUDIZIONE DEL MINISTRO DEGLI ESTERI ANTONIO TAJANI
«RINGRAZIAMO IL MINISTRO ANTONIO TAJANI PER LA TEMPESTIVITÀ DELLA SUA PRESENZA». COSÌ COMINCIANO GLI INTERVENTI DELLE OPPOSIZIONI DURANTE L’AUDIZIONE DEL TITOLARE DEGLI ESTERI ALLE COMMISSIONI CONGIUNTE DI CAMERA E SENATO. MA I RINGRAZIAMENTI SI FERMANO QUI. NON C’È ALTRO RICONOSCIMENTO PER L’OPERATO DEL GOVERNO CHE, ANCHE DURANTE L’ULTIMA CRISI INTERNAZIONALE DOVUTA ALL’ATTACCO DI ISRAELE ALL’IRAN, È SEMBRATO CONFUSO E DISORGANIZZATO.

Difatti già nel primo intervento dopo le dichiarazioni del ministro, un po’ da manuale di geopolitica di base, viene sottolineata l’incongruenza tra la sua dichiarazione improvvida («Israele non attaccherà l’Iran», aveva sentenziato solo poche ore prima del bombardamento) e quella del titolare della Difesa, Guido Crosetto, che invece parlava di scenario prevedibile. «Inviterei il ministro a una maggiore cautela», chiosa il senatore di Italia Viva, Ivan Scalfarotto. Il trascurabile peso che il governo Meloni ha nella scena internazionale e l’inazione dovuta al suo legame con l’amministrazione americana, hanno, di fatto, compattato un campo larghissimo che ha materia per incalzare il ministro degli Esteri. A partire dalla mancanza di raccordo con Macron, Merz e Starmer e gli altri paesi europei fino all’ostilità verso gli organismi internazionali. «Il suo governo ha lavorato per la delegittimazione degli organismi internazionali, Onu, Cpi – attacca il verde Angelo Bonelli – e adesso la politica in Medio Oriente la fa solo Netanyahu e lei è il ministro degli Esteri della presa d’atto».

Le domande degli iscritti a parlare si fanno pressanti e sono riassumibili in una: il governo ha una linea in politica estera o è supino al presidente degli Usa che ha glorificato l’azione di Netanyahu? È il punto più faticoso per Tajani che, seduto tra la ministra alle Riforme Elisabetta Casellati e quello alla Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, nella sua replica si ritrova a esclamare più volte (oltre alla frase di routine «Israele ha diritto di difendersi»): «Abbiamo una linea politica!», sembrando stupito lui per primo. Anche se poi non chiarisce qual è.
Ammette però che l’attacco israeliano l’ha colto impreparato: pensava sarebbe avvenuto dopo l’incontro negoziale tra Iran e Stati Uniti previsto oggi in Oman. «Forse Tajani non si è reso conto della gravità di quello che gli è scappato in chiusura della sua informativa: per il ministro degli Esteri è normale che prima si negozi e poi si attacchi? Siamo senza parole», affermano i capigruppo M5S delle Commissioni Esteri di Camera e Senato, Francesco Silvestri e Bruno Marton.
«Una lista di frasi fatte, rimane l’imbarazzo di un ministro che dice: a me non dice nulla nessuno», è il giudizio di Maria Elena Boschi di Iv. Una «rassegna stampa qualsiasi: valutazioni politiche inesistenti e solo l’arte del barcamenarsi senza mai irritare Netanyahu», è la critica della dem Laura Boldrini che ha avuto un batibecco con il ministro durante l’informativa. Anche da Avs si dicono «esterrefatti, parole pericolose e irresponsabili»: «Come fa Tajani a dire di sostenere la de-escalation se poi dichiara il sostegno incondizionato del governo a quel criminale di Netanyahu? – chiede il senatore Beppe De Cristoforo – Niente sul dramma dei palestinesi e la solita tesi, smentita dalla storia, della democrazia che si esporta con le bombe». Tiene il punto sul massacro nella Striscia anche Elly Schlein nel suo intervento: «Non permetteremo che l’attacco all’Iran faccia dimenticare Gaza». «Va fermato Netanyahu – insiste la segretaria del Pd – che con questo attacco unilaterale avvia un’escalation che può dar vita a un conflitto globale». Per poi chiedere al ministro e alla presidente del Consiglio «di non schiacciare il Paese sugli umori di Trump e di riportarlo sui binari della nostra tradizione diplomatica».
La performance di Tajani non deve essere sembrata così solida neanche alla sua maggioranza che più che rivendicare le parole del ministro si è accordata per mandare dichiarazioni tutte uguali: «Opposizione inopportuna, polemica sterile e propaganda», le parole d’ordine per Forza Italia mentre Fratelli d’Italia ha preferito attaccare Conte e Renzi per l’assenza: «Erano al mare?».

 

04 – Alberto Negri*: La Tigre Della Guerra È Uscita Dalla Gabbia – Scenari Cupi L’hanno Voluto Gli Stessi Domatori, Stati Uniti In Prima Fila, Insieme A Una Leadership Europea Disinformata, Ininfluente E Ormai Piegata Alle Destre Sovraniste E Populiste.

Una foto distribuita dalle Forze di Difesa Israeliane mostra il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Israeliano, Eyal Zamir (al centro), mentre supervisiona gli attacchi dell’Esercito Israeliano contro l’Iran dalla sala operativa dell’Aeronautica Militare a Gerusalemme, Israele, il 13 giugno 2025
Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Israeliano, Eyal Zamir (al centro), mentre supervisiona gli attacchi dell’Esercito Israeliano contro l’Iran dalla sala operativa dell’Aeronautica Militare a Gerusalemme, Israele, il 13 giugno 2025 – EPA/Forze di Difesa Israeliane
La tigre della guerra è uscita dalla gabbia e farla rientrare sarà assai difficile. Peraltro sono i domatori stessi, in prima fila gli Stati uniti, che l’hanno scatenata con il voluto fallimento diplomatico di Trump. Lui e ora anche gli europei, con una leadership disinformata e ininfluente e il contributo delle destre sovraniste-populiste. Che hanno accettato di fatto l’agenda bellica di Netanyahu.
Un’altra picconata al diritto internazionale e alla diplomazia, di cui un tempo l’Occidente si faceva portabandiera e che invece ha completamente abbandonato ogni barlume umanitario e di legalità come dimostra la tragedia disumana di Gaza: la cosiddetta “Europa dei valori” ha accettato il genocidio palestinese e ora, mentre parla di de-escalation, approva l’attacco israeliano all’Iran degli ayatollah che serve a tenere politicamente in piedi Netanyahu e a distrarre il mondo dalla tragedia inarrestabile della Striscia. Primo risultato negativo la guerra ha affossato per il momento la conferenza sulla Palestina e i due stati in programma in settimana a New York.
STIAMO AVALLANDO una logica bellica e di sterminio che non porterà a un nuovo ordine in Medio Oriente ma a un’altra stagione di destabilizzazione, lo stesso caos che abbiamo provocato per quasi due decenni nella regione con la guerra in Iraq nel 2003, scatenata sulla scorta di armi di distruzione di massa mai trovate. Il caos ha un solo scopo: fare di Israele, come vogliono gli Stati uniti non da oggi, l’unica superpotenza della regione, per annichilire un mondo arabo già inerte e inerme, frantumando, se possibile, pure l’Iran e spartire la Siria tenendo a bada la Turchia di Erdogan, membro riluttante della Nato.

Qui non siamo spettatori ma volenterosi partecipanti di questo disgraziato progetto di distruggere le nazioni del Medio Oriente. Un piano che naturalmente può sfuggire di mano, come dimostra il recente passato.
Con il contro-attacco dell’Iran sulle città israeliane gli Usa sono già scesi in campo a difesa di Israele mobilitando navi e aerei non solo a salvaguardia delle basi nel Golfo ma appoggiando le operazioni di Tel Aviv. Per lo stesso motivo si è mosso sul piede di guerra anche Macron e verrà seguito, con modi e sfumature diverse, dagli altri Paesi europei: Teheran minaccia di metterli nel mirino della rappresaglia. L’Italia rischia perché ha un forte contingente militare nell’Unifil in Libano, dove Israele ha già mobilitato i riservisti come ha fatto in Siria. Poi c’è il Mar Rosso dove le navi da guerra italiane nello Stretto di Bab el Mandeb affrontano insieme ad altre nazioni, Israele compreso, gli Houti dello Yemen, alleati di Teheran e già entrati in azione contro lo stato ebraico.
LA GUERRA ha anche evidentemente un riscontro economico: dal Golfo, dove l’Iran minaccia di chiudere Hormuz, passa oltre il 20% dei rifornimenti energetici mondiali e dal Mar Rosso e dal canale di Suez oltre il 60-70% dei traffici navali nel Mediterraneo. Non solo si impennano le quotazioni del petrolio e del gas ma anche le azioni delle industrie belliche soprattutto americane, che, come si è vantato Trump, riforniscono gli israeliani con armamenti sofisticati. È questo un indicatore che la guerra è destinata a continuare ma anche un segnale politico che il complesso militar-industriale israelo-americano è una realtà dominante pure per noi che vi partecipiamo con fatturati e utili.
SULL’AGENDA di Netanyahu, che di fatto gli Usa e gli europei appoggiano per contrastare l’arricchimento dell’uranio iraniano, dovremmo soffermarci. Il premier vuole la distruzione dei siti nucleari e la decapitazione della leadership di Teheran. Ha intrapreso tutti e due gli obiettivi dando una deriva esistenziale alla guerra: se ne esce solo con la vittoria di Israele. La distruzione dei siti nucleari però non è completa, alcuni di questi sono protetti da gallerie scavate in profondità. Servono bombe potenti che solo in parte gli israeliani posseggono: quindi è necessario il supporto degli americani e Trump ha già minacciato, se non riprende il negoziato con la resa di Teheran, una distruzione totale.
QUANTO ALLA DECAPITAZIONE del regime, Israele ha già colpito la prima linea militare e fa capire che è pronto a colpire anche quella politica-religiosa, cioè Khamenei, l’avvertimento è venuto prendendo come bersaglio la sua residenza di Teheran, Shamkani, consigliere storico della Guida Suprema ma anche Qom, il vaticano dello sciismo. Netanyahu ha in mano qualche carta importante perché attraverso infiltrati ad alto livello è riuscito a colpire i capi dei pasdaran a casa loro. Un cambio di regime con un sollevamento della popolazione, come vorrebbe il premier ebraico con il suo appello alla popolazione iraniana, però non è probabile: gli iraniani temono il regime ma forse temono ancora di più di fare la fine dell’Iraq e precipitare nel caos e nell’anarchia.
GLI STESSI STATI ARABI e del Golfo, sauditi in testa, contrari alla guerra, hanno ricevuto un messaggio inequivocabile: o accettano la supremazia israeliana o potrebbero finire a loro volta nel mirino, non è certo un viatico al famoso Patto di Abramo sponsorizzato da Trump.
E veniamo alle vie di uscita diplomatiche e al ruolo di Russia e Cina, i due Paesi più vicini a Teheran. Il mediatore Oman non è riuscito a riportare al tavolo negoziale americani e iraniani, Trump rivendica che la guerra di Israele costringerà Teheran a trattare.
Ma su cosa? Finora ha offerto non un accordo ma una resa: blocco del programma nucleare senza nulla in cambio sul versante dell’annullamento o dell’alleggerimento delle sanzioni. Più che un negoziatore è apparso una sorta di postino di Netanyahu. Sarà capace di uscire da questo ruolo umiliante? Lo deve fare, altrimenti perde credibilità fuori e dentro gli Usa. Ma ogni logica politica applicata a questo presidente è preda del suo comportamento erratico e imprevedibile.

QUANTO ALLA REAZIONE di Putin nei confronti dell’attacco all’alleato che lo rifornisce di droni contro l’Ucraina, induce a una riflessione paradossale. È l’unico che ha parlato sia con Netanyahu che con il presidente iraniano Pezeshkian. Quasi surreale: Putin e Netanyahu, due ricercati della corte penale internazionale per crimini di guerra, che discutono di mediazioni diplomatiche. La realtà è che Putin ma anche i cinesi, che si sono opposti alle risoluzioni dell’Aiea, non sembrano disposti a rischiare nulla di concreto per difendere gli ayatollah. E quanto al G-7 che comincia oggi in Canada parte già in salita: forse non ci sarà neppure un comunicato congiunto finale.
Una sola cosa accomuna Netanyahu e Khamenei: la loro strenua volontà di restare al potere, al costo di guerre, conflitti, massacri. Una volontà di sopravvivere che come avrebbe detto un filosofo due secoli fa si traduce in una pulsione cieca, irrazionale e insaziabile che è all’origine di ogni sofferenza. I palestinesi sterminati da Netanyahu ne sanno qualcosa.
*(Fonte: Il Manifesto – Alberto Negri. Editorialista de «Il Manifesto»)

 

05 – Fulvio Grimaldi *: DISTURBO DELIRANTE CONDIVISO SI CHIAMA LA SINDROME CHE HANNO IN COMUNE I DIRIGENTI MASSIMI DELLA COSIDDETTA “COMUNITÀ INTERNAZIONALE”.
DI SOLITO È UN DISTURBO CHE ACCOMUNA COPPIE DI CRIMINALI CHE RECIPROCAMENTE SI STIMOLANO A COMPIERE DELITTI EFFERATI. ESEMPI: BONNY AND CLYDE, AL CAPONE E MOGLIE, BONNIE PARKER E CLIDE BARROW E, PARTICOLARMENTE VICINI ALLA NOSTRA COPPIA DI TESTA, MYRA HINDLEY E IAN BRADY CHE RICORDO DAI MIEI TEMPI ALLA BBC IMPERVERSARE NELLA SWINGING LONDON” ASSASSINANDO, STUPRANDO E TORTURANDO RAGAZZI E RAGAZZE.
Così uno Stato che per ottant’anni ha fatto del furto, dell’esproprio, delle sevizie generalizzate, dell’usurpazione e dell’assassinio di massa fino al genocidio, la sua “biblica” ragione d’essere, si è ora dedicato, dopo quelle a Palestina, Libano, Siria, alla guerra totale all’Iran.
Uno Stato a regime esclusivista, autocratico, guerrafondaio, razzista e teocratico attacca senza motivo uno Stato inclusivista, pacifico, democratico, di potere islamico, con tanto di comunità ebraica libera e prospera al suo interno, considerata membro della famiglia nazionale al pari di tutte le altre confessionali ed etniche (da me intervistata e scoperta a suo agio in Iran e nettamente ostile allo Stato sionista).
Nel momento della quasi conclusione del genocidio del popolo palestinese espropriato, Israele si appresta a scatenare una guerra di proporzioni potenzialmente ancora più tragiche, decapitando di uno Stato pacifico e inoffensivo la dirigenza militare e scientifica, provocando centinaia di vittime civili, provando a distruggere un’industria che era impegnata a offrire alla sua popolazione sviluppo, salute, energia.
Uno Stato che si limita alla difesa, di sé e dei popoli vittime di aggressioni sioniste in Libano, Siria, Yemen, Palestina e che da decenni subisce attentati e assassini su mandato israeliano, che ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, non ha prodotto bombe atomiche, ha concordato con gli USA un’intesa che lo autorizzava ad arricchire l’uranio nei limiti necessari alla produzione di isotopi per la medicina ed energia per le sue case e industrie. La sua rigorosa osservanza di questi limiti, a dispetto dell’accordo annullato da Trump, è stato innumerevoli volte confermata dai controlli dell’AIEA, agenzia delle Nazioni Unite per l’energia atomica.
Lo Statosionista non ha sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Possiede centinaia di ordigni atomici. Ha condannato all’ergastolo il tecnico nucleare Mordechai Vanunu, che di questo arsenale nucleare ha rivelato l’esistenza, dopo averlo rapito a Milano, 1986, con il concorso dei servizi segreti italiani. Non consente alcuna ispezione da parte dell’AIEA che, dato l’atteggiamento benevolo del suo direttore generale, Rafael Grossi, non gliela chiede neanche.
* * * *
ULTIM’ORA: CENTINAIA DI MISSILI IRANIANI SU TEL AVIV E GERUSALEMME. FORATO L’IRON DOME. FORTI ESPLOSIONI A TEL AVIV E GERUSALEMME.TUTTA LA POPOLAZIONE ISRAELIANA NEI BUNKER.
DAJE!
Nel video notiamo la corrispondenza di amorosi sensi tra gli eredi di un’Europa dagli innumerevoli genocidi nel corso dei suoi secoli di dominio e sfruttamento colonialista. Europa assolutista, oligarchica e poi nazifascista, protagonista di due guerre mondiali nella contesa per primati mondiali. Europa complice-vassalla di un imperialismo anglosassone che, a partire dall’alleanza offensiva con gli USA nella NATO, ha condotto guerre d’aggressione, colpi di Stato, regime change, per un totale dal 1945 di circa 50 milioni di morti e di inenarrabili distruzioni, fino al sacrificio di un’Ucraina nazificata in una guerra che mira alla distruzione dell’Europa stessa, oltre che della Russia.

E per tornare ai binomi e quadrinomi dalla sindrome del Disturbo Delirante Condiviso, ne citiamo i protagonisti.
Mark Rutte, segretario NATO: “Siamo l’alleanza più potente e letale del mondo”- “La Russia ci minaccia e attaccherà tra i prossimi 3 o 5 anni”. “O aumentate la spesa per gli armamenti, o è meglio che impariate il russo”.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione UE: “800 miliardi dal PNRR al riarmo” “Per tutti gli europei un kit di sopravvivenza di 72 ore prestiti per la costruzione di rifugi atomici”. “Al riarmo della Germania serviranno 1000 miliardi da sottrarre al Patto di Stabilità”
Friedrich Merz, cancelliere tedesco: “La Germania deve diventare kriegstuechtig, abile alla guerra”. “Faremo delle forze armate tedesche le più potenti d’Europa”. “Difenderemo l’Europa dall’aggressore russo che è pronto a colpirci.”
Sentite odore di anni Trenta e di camicie brune? Non sbagliate. Si chiama “Disturbo delirante condiviso”.
*(Fonte: Sinistrainrete – Fulvio Grimaldi. Giornalista, inviato di guerra, documentarista, scrittore)

 

06 – Alfio Mastropaolo*: SINISTRA SCONFITTA, MA I NEOLIBERISTI NON VINCERANNO MAI- REFERENDUM IL TEMA DEL LAVORO È TORNATO ALL’ORDINE DEL GIORNO E IL PD L’HA ALFINE FATTO SUO. TREDICI MILIONI DI SÌ RACCOLTI NON SONO BRUSCOLINI.

Ci può stare pure la denuncia dell’astensionismo patologico formulata da Landini. Ma ci sta anche la critica severa e approfondita. Più discutibile è il tentativo di maramaldeggiare di qualche esponente sedicente riformista: per loro la vigente normativa sul lavoro è più che appropriata. Non li sfiora il rosario d’incidenti mortali sgranato giorno dopo giorno, né l’estensione smisurata dei lavori mal pagati e precari. Ma esagera anche la sinistra della sinistra, che imputa l’insuccesso agli errori strategici commessi dalla Cgil e dal Pd: di quest’ultimo, in specie, che non ha finora saputo radunare uno schieramento dotato di un minimo di coerenza. Come fosse facile.
Era una sfida da non buttare via. L’istituto del referendum è ormai divenuto un ostacolo alla partecipazione. La società è cambiata dai tempi dalla stagione civile del referendum sul divorzio e dalla stagione antipolitica dei referendum elettorali. Col clima corrente di disaffezione sono infime le possibilità di successo. Mettiamoci oltre quattro milioni di elettori residenti all’estero che alzano sensibilmente la quota dell’astensione.
Landini sperava di far uscire il lavoro dall’angolo e contava su una netta caduta dell’astensione grazie all’eventuale referendum sull’autonomia differenziata. Smantellata la legge Calderoli, la Corte costituzionale l’ha cancellato. Per fortuna. C’era il rischio che non si raggiungesse il quorum ed era meglio non offrire alla maggioranza l’opportunità di riesumare la sua proposta. Ma la Cgil è rimasta col cerino in mano. Schlein e la direzione Pd hanno deciso di affiancarla, contrastando la tiepidezza suggerita dai riformisti. Volendo ravvicinare il partito al mondo del lavoro, smentire il sindacato sarebbe stato un errore su un errore. Mettiamoci l’opera di oscuramento e disinformazione dei media. I meno colpevoli sono stati gli inviti al non voto di Larussa e Meloni. Potrebbero aver più incoraggiato che scoraggiato.
Ciò detto, la sconfitta, pur pesante, è stata onorevole. Il tema del lavoro è tornato all’ordine del giorno e il Pd l’ha alfine fatto suo. Tredici milioni di sì raccolti non sono bruscolini. Non c’è sovrapposizione perfetta, ma l’elettorato ha in qualche modo confermato l’inversione del trend in discesa che aveva condotto il Pd al disastro delle ultime politiche. Le ultime elezioni locali lo ribadiscono.
Ma molti sono i punti dolenti e anche seri. Pd e sinistra – ma pure il sindacato – sono deboli fuori dei grandi e medi centri urbani e quasi inesistenti in Calabria e Sicilia. La supplenza a 5 Stelle è modesta. Ma delude soprattutto il profilo culturale dell’intera opposizione. Visto l’esito del referendum sulla cittadinanza. Il tema è sacrosanto. La pretesa di dieci anni di residenza spicca tra i paesi europei che ne chiedono la metà. La destra semina da anni e in abbondanza panico morale. I promotori, per lo più collocati al centro, non avendo capacità di mobilitazione autonoma contavano sul traino del centrosinistra, da cui dissentono sul lavoro, e non hanno neanche coinvolto i diretti interessati.
Poiché tutto fa pensare che i votanti siano più meno gli stessi, è dunque motivo di sconforto l’insensibilità di un pezzo di elettorato di centrosinistra per un tema di civiltà e umanità. Sarebbe bene che si preoccupassero pure i 5 Stelle, che fanno troppi tatticismi. Infine: anche la Chiesa ha da riflettere! In un paese dove in centinaia di migliaia hanno pianto Francesco e applaudito Leone, la mobilitazione della Cei non è servita.
Che fare? Il centrosinistra soffre il trattamento astioso dei grandi media. Dovrebbe supplire sul piano organizzativo e su quello culturale. Ma non fa neanche chiarezza sulla sua proposta di governo. È ora di elaborarla. La composizione sociale dell’elettorato è cambiata, benché sia una grossolana semplificazione dividerlo tra una prospettiva, diciamo, socialdemocratica e una apertamente neoliberale, che riguarda solo qualche frangia. Semmai sappiamo che gli elettori non solo a sinistra sono affezionati a sanità, pensioni, istruzione, servizi. Le divisioni stanno al vertice, che dovrebbe decidersi a una discussione approfondita, evitata anche in occasione di sconfitte elettorali rovinose.
Due cose possiamo intanto dirle con certezza. La prima è che in Italia, e non solo, sono in ballo principi e regole democratici. Le correnti politiche oscurantiste e autoritarie sono di nuovo all’attacco. L’America di Trump darà loro un’altra spinta. La seconda cosa è che la forza elettorale della destra dipende molto dal diffuso stato di sofferenza provocato dalle politiche neoliberali. Coloro che entro l’opposizione tuttora le condividono sono disposti a trovare un compromesso per salvare il regime democratico? O aspirano piuttosto a fare la sinistra della destra?
*(Fonte: Il Manifesto – Alfio Mastropaolo. Professore/Professoressa emerito/a. Dipartimento di Culture, Politica e Società)

 

07 – Luca Illetterati*: LUIGI PINTOR, ALLA FANTASIA IL POTERE DI FAR QUADRARE I CONTI CON LA REALTÀ – NEL CENTENARIO DALLA NASCITA SEGNATI DA QUEL CULTO DELLA BREVITÀ CHE È INSIEME CIFRA STILISTICA E ANTIDOTO ALLA RETORICA, I RACCONTI DEL GRANDE EDITORIALISTA DEL «MANIFESTO» – «SERVABO», «LA SIGNORA KIRCHGESSNER», «IL NESPOLO», «I LUOGHI DEL DELITTO» – VENGONO ORA RIUNITI DA BOLLATI BORINGHIERI UN UNICO VOLUME, «LA VITA INDOCILE»

La ‘circostanza’ rimanda letteralmente a ciò che sta intorno e dunque alle condizioni in cui qualcuno o qualcosa si trova immerso, agli elementi contestuali che concorrono a determinare quel che accade. E dunque, al tempo stesso rimanda anche a una dimensione di casualità e di contingenza, ovvero a tutto quell’insieme di elementi non scelti, dentro cui assume consistenza un qualsiasi gesto. In questo senso, la circostanza non è mai – nella vita – semplicemente il fondale di una vicenda che rimarrebbe invariata, assumendo al massimo una diversa coloritura o una differenza di tono, al mutarsi dello sfondo. Sono non di rado le circostanze, nel bene e nel male, a dare forma alla vita, a segnarla indelebilmente come ‘quella’ vita. È questo, per molti versi, il tema che fa da basso continuo ai quattro testi narrativi di Luigi Pintor, riuniti – in occasione del centenario dalla nascita – in un unico volume, con il titolo La vita indocile, che Bollati Boringhieri ha appena mandato in libreria, con una breve postfazione di Riccardo Barenghi (pp.272, € 14,00). I testi sono Servabo, pubblicato nel 1991, La signora Kirchgessner del 1998, Il nespolo del 2001 e I luoghi del delitto del 2003, quattro racconti lunghi, diversi l’uno dall’altro per stile della scrittura e tonalità emotiva, e tuttavia tutti rispondenti a una medesima esigenza: servire – si legge nell’epilogo a Servabo – come «un espediente per riordinare nella fantasia dei conti che non tornano nella realtà». Tutte segnate da quel culto della brevitas che costituisce la specificità stilistica di Pintor, e che assume evidentemente anche una dimensione etica in quanto antidoto alla predica e al sermone, queste novelle sono tutte, in modo più o meno dissimulato, testi autobiografici, il cui carattere fondamentale è la meditazione più che il dipanarsi delle vicende.
Pintor ripercorre sotto titoli emblematici e con una scrittura nitida e austera le tappe fondamentali di una vita, facendole scorrere – queste tappe – come gocce di un processo di lenta e lavorata distillazione (e dunque di sottrazione del superfluo) su un piano appena inclinato. E lasciando che siano le tracce lasciate da queste gocce a portare all’evidenza ciò che ha dato una forma perlopiù inattesa a quel percorso vitale. Fra le righe di La signora Kirchgessner il tono si fa forse più intimo e gli episodi decisivi della vita (la morte del fratello Giaime, l’arruolamento come partigiano, la condanna a morte e la salvezza improvvisa, la militanza comunista, la fondazione del «manifesto», la morte del figlio) quasi si confondono e comunque si mescolano con l’infanzia in Sardegna, il rapporto con i genitori, la vita domestica, le lezioni di pianoforte. Il tutto immerso in un’atmosfera insieme disincantata e poetica, tragica e lirica, i cui toni possono anche essere ruvidi e non di rado farsi spietati quando si tratta di dedicarsi al consuntivo di quanto si è fatto, senza cedere mai a quelle forme di intellettualismo che separano i fini dalla vita, i risultati dalle intenzioni. Il nespolo, il più esteso dei quattro racconti, sembra anche quello dotato di un andamento più libero, oltre a essere il più esplicitamente leopardiano, sebbene la presenza del poeta li attraversi più o meno silenziosamente tutti. Qui la meditazione assume non di rado la forma dell’aforisma, dell’epitaffio, della sentenza fulminante e sembra talvolta rinviare oltre che a Leopardi a quella tradizione che ha in Montaigne il suo rappresentante più significativo.
L’ultimo testo, I luoghi del delitto, è una sorta di meditatio mortis – «Il medico curante mi ha detto che ho pochi mesi di vita» è l’incipit del racconto – e anche qui sono la sobrietà, il tono antiretorico e l’ironia a dare il colore a questa sorta di confessione nella quale tornano, in modi a volte misteriosi che richiamano il mythos classico, la morte del fratello, della prima moglie, dei due figli. E dove ancora si impone in modo niente affatto estetizzante, ma radicalmente esistenziale, la dimensione del paradosso, ovvero la necessità di fare i conti con la contraddizione che deriva dal riconoscimento della nostra esigenza di dare un senso alla vita, nelle circostanze dentro cui essa prende forma, e la consapevolezza che quel senso la vita, nella sua concretezza, nelle circostanze che la determinano, tende incessantemente a vanificarlo. Da qui la dimensione tragica dell’esistenza su cui riflette Pintor, la constatazione per cui siamo sempre il risultato di quanto le circostanze – famiglia, tempo storico, opportunità psichiche e non solo – hanno deciso per noi. Ma tutto ciò, lungi dal sottrarre responsabilità alle nostre azioni, rende questa responsabilità più radicale.
A proposito della sua prima, imprudente ribellione partigiana, cercando di spiegarsi un comportamento perlomeno avventato, l’autore scrive: «Semmai fu per un senso del dovere, che può essere ingannevole se non si accompagna a una matura convinzione. O forse fu semplicemente una questione di circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze». Sempre, quando compare, in tutti i testi di Pintor il termine ‘circostanza’ lo si ritrova in luoghi non banali. Non può non venire in mente, a questo proposito, ovvero pensando a come le circostanze determinino la specificità di ogni percorso vitale, la famosa lettera che il fratello di Luigi, Giaime, scrive a lui e non ai genitori e che alla luce dei testi che compongono La vita indocile assume il valore di un evento in grado di innescare quella periagoghè, ovvero quella che, secondo i classici greci, è una rivoluzione radicale dell’individuo: «Senza la guerra – scrive Giaime in quel testo magnifico e giustamente famoso – io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari, avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. (…). Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile».
Mai esplicitamente citate, le parole di Giaime risuonano in ogni rigo dei testi del fratello minore, che le riporta a sé stesso e le fa sue, traducendone il senso con la consueta spietatezza: «Diventare un idiota era la mia aspirazione di adolescente, che per i greci voleva dire stare in disparte con innocenza. Se proprio dovevo crescere mi sembrava il miglior modo».
*( Luca Illetterati. È professore ordinario di filosofia teoretica presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova.)

 

 

 

Views: 97

REFERENDUM su LAVORO e CITTADINANZA 2025 | INFORMAZIONI PER VOTARE ALL’ESTERO

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.