
01 – Sergio Bellucci :Les jeux sont faits, rien ne va plus.
02 – Baudino Stefano*: Gli USA hanno bloccato la risoluzione ONU per il cessate il fuoco immediato a Gaza. Quattordici voti favorevoli su quindici. Nessun astenuto. Eppure, ancora una volta, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite resta paralizzato.
03 – Moira Margi*: Al via la Global March: migliaia di persone a piedi per rompere l’assedio di Gaza, Inizierà il 13 giugno la marcia che dal Cairo vuole raggiungere il valico di Rafah, in protesta contro il genocidio in corso e per chiedere l’apertura della frontiera e il passaggio degli aiuti umanitari.
04 – Geraldine Colotti*: LATINOAMERICA. La rubrica mensile di Pagine Esteri – Maggio MESSICO,
05 – Alfiero Grandi *: Risultati scarsi: la destra al governo si rifugia nella prepotenza
06 – Michele Giorgio*: le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record.
01 – Sergio Bellucci* :LES JEUX SONT FAITS, RIEN NE VA PLUS. LE FORME DELLA GUERRA E LE NUOVE ARMI, DOPO L’AVVENTO DELLE INTELLIGENZE ARTIFICIALI, STRAVOLGONO I CONCETTI DEI CONFLITTI CHE AVEVAMO FINO A IERI… È UN TERRENO DI RICERCA OBBLIGATO QUELLO DI CAPIRE COME GOVERNI ED ESERCITI STANNO TRASFORMANDO LE FORME DEL POTERE, DELLA POLITICA E DELLA GUERRA… ANCHE QUI ESISTONO VARIE “SFUMATURE” CHE DIPENDONO DAI PAESI (E CULTURE) DI ORIGINE.
Ucraina e Palestina sono campi di sperimentazione per Russia, NATO e Israele… (i palestinesi appaiono come il gorilla di Kubrick davanti al monolite… o lo spadaccino di Indiana Jones che non comprende la differenza tra spada e pistola nello scontro…).
Esserci fatti catalogare fino al nostro DNA ha costruito il nuovo tessuto del controllo sociale e politico che, quando serve, si trasforma o in oppressione politica (diretta o indiretta, guardiamo gli USA oggi…) o in progettazione di uccisioni di massa per destrutturare la forma sociale di un popolo e condannarlo ad una regressione nella storia o alla sua scomparsa.
Siamo in una nuova fase ma facciamo fatica a capirne i contorni e le qualità… tutti “ancorati” agli schemi del passato e ai suoi “giudizi” e “pregiudizi”… tifosi di una partita che è abbondantemente finita e sospinti, inconsapevolmente, in un campo di gioco che neanche riusciamo a “vedere”…
Questa è la Transizione… e questa è una parte di quel cambiamento delle fondamenta delle società dell’umano di cui facciamo parte ma non lo sappiamo…
Mi vengono in mente le parole di Pavese:
“Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.”
*(Fonte: rivista italiani.net – Bellucci Sergio, è uno scrittore e giornalista italiano)
02 – Baudino Stefano*: GLI USA HANNO BLOCCATO LA RISOLUZIONE ONU PER IL CESSATE IL FUOCO IMMEDIATO A GAZA. QUATTORDICI VOTI FAVOREVOLI SU QUINDICI. NESSUN ASTENUTO. EPPURE, ANCORA UNA VOLTA, IL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE RESTA PARALIZZATO.
IERI SERA, INFATTI, GLI STATI UNITI D’AMERICA HANNO POSTO IL VETO A UNA RISOLUZIONE CHE CHIEDEVA UN CESSATE IL FUOCO «IMMEDIATO, INCONDIZIONATO E PERMANENTE» NELLA STRISCIA DI GAZA, IL RILASCIO DEGLI OSTAGGI E LA RIMOZIONE DI OGNI RESTRIZIONE AGLI AIUTI UMANITARI, GIUDICANDO IL TESTO «INACCETTABILE». A PRESENTARLA, I DIECI MEMBRI ELETTI DEL CONSIGLIO (E10), MA È BASTATO IL NO DI WASHINGTON PER FARLA AFFONDARE.
Nel frattempo, mentre in tutto il mondo crescono le proteste in solidarietà con la Palestina e diminuisce il consenso per lo Stato Ebraico, i massacri israeliani nella Striscia proseguono senza soluzione di continuità.
Tutti i Paesi, sia i membri permanenti che quelli eletti a rotazione, hanno votato a favore della mozione. Soltanto gli Stati Uniti hanno detto no. La decisione nordamericana è stata motivata dall’ambasciatrice ad interim Dorothy Shea, la quale ha definito il testo «inaccettabile per ciò che dice, per ciò che non dice e per il modo in cui è stato avanzato», sostenendo che al suo interno non fosse presente una condanna esplicita di Hamas e che, al contrario, la mozione avrebbe finito per «premiare l’intransigenza» del gruppo palestinese. In realtà, Hamas aveva risposto alla proposta di cessate il fuoco elaborata dagli Stati Uniti e sottoscritta da Israele lo scorso giovedì 29 maggio chiedendo di apportare alcune modifiche, dichiarando che avrebbe rilasciato 10 ostaggi vivi e 18 salme in cambio del rilascio di un certo numero di ostaggi palestinesi da parte di Israele. Hamas aveva però aggiunto la richiesta di giungere a un cessate il fuoco permanente, al ritiro completo di Israele dalla Striscia e alla garanzia di adeguati flussi di aiuti umanitari alla popolazione dell’enclave. Una proposta che l’inviato speciale degli Stati Uniti Witkoff ha però definito «inaccettabile», chiudendo ogni margine di trattativa.
La posizione americana all’ONU ha però evidenziato una frattura sempre più profonda con il resto del Consiglio. I quattro membri permanenti con diritto di veto – Cina, Russia, Regno Unito e Francia – hanno votato a favore del testo. E anche numerosi alleati storici degli Stati Uniti stanno prendendo le distanze dall’intransigenza della Casa Bianca su Gaza, mentre aumenta l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale per la mattanza dei palestinesi. All’uscita dal Palazzo di Vetro, l’ambasciatrice americana non si è presentata ai giornalisti. Lo hanno fatto invece diversi diplomatici, e i toni sono stati spesso duri. L’ambasciatore russo Vasily Nebenzia ha parlato con sarcasmo di un Consiglio «molto unito», avendo espresso 14 voti a favore della mozione contro uno. Il rappresentante palestinese Riyad Mansour è stato ancora più esplicito: «Smettete di inviare armi a Israele, riconoscete lo Stato di Palestina, colpite chi sta uccidendo il popolo palestinese». Ha poi fatto appello ai governi affinché agiscano «nella loro capacità nazionale», con sanzioni e pressioni diplomatiche. Anche l’ambasciatore del Pakistan ha espresso forte frustrazione: «L’intera comunità internazionale è da un lato, solo la potenza occupante si oppone», ha affermato.
È la prima volta che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vota una risoluzione sul conflitto israelo-palestinese da quando è iniziato il secondo mandato presidenziale di Trump, ma gli Stati Uniti, ponendo il veto, non hanno fatto altro che continuare la linea storicamente adottata – e mantenuta senza oscillazioni – da parte di Joe Biden. Che, dal 23 ottobre del 2023, ha posto numerose volte il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per evitare conseguenze per Israele. La prima volta è stata ad ottobre 2023, quando gli USA sono stati l’unico membro del Consiglio di Sicurezza a votare contro una risoluzione che chiedeva una «tregua permanente» nei combattimenti in Medioriente. Poi è avvenuto a dicembre, quando sempre gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco umanitario, immediato e permanente all’interno della Striscia di Gaza. A febbraio 2024 la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva ancora una volta l’immediato cessate il fuoco a Gaza è stata bloccata nuovamente dal veto USA, favorevoli piuttosto ad un «sostegno temporaneo» e «appena possibile». In ultimo, ad aprile dell’anno scorso, Gli Stati Uniti hanno bloccato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che chiedeva l’adesione piena della Palestina alle Nazioni Unite.
*(Stefano Baudino. Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.)
03 – Moira Margi*: AL VIA LA GLOBAL MARCH: MIGLIAIA DI PERSONE A PIEDI PER ROMPERE L’ASSEDIO DI GAZA, INIZIERÀ IL 13 GIUGNO LA MARCIA CHE DAL CAIRO VUOLE RAGGIUNGERE IL VALICO DI RAFAH, IN PROTESTA CONTRO IL GENOCIDIO IN CORSO E PER CHIEDERE L’APERTURA DELLA FRONTIERA E IL PASSAGGIO DEGLI AIUTI UMANITARI.
Una marcia globale in solidarietà con il popolo palestinese, una marcia “via terra, via mare e via aria” che vedrà migliaia di persone di 35 Paesi camminare per 50 km fino alle porte di Gaza, nel tentativo di rompere l’assedio imposto dall’esercito israeliano da oltre un anno. La marcia partirà appena dieci giorni dopo la Freedom Flottilla, salpata domenica 1° giugno dal porto di Catania carica di aiuti umanitari, sfidando nuovamente via mare il blocco illegale di Tel Aviv dopo che appena un mese fa un’altra delle loro imbarcazioni era stata attaccata al largo delle coste maltesi da un drone di Israele.
«Global March To Gaza è un movimento apartitico e pacifista» dice Antonietta Chiodo, la referente italiana per la Marcia globale a L’Indipendente. «Siamo un gruppo di persone provenienti da paesi e culture diverse che hanno scelto di portare la voce di persone comuni in prima linea perché siamo convinti che quella del popolo sia stata silenziata per troppo tempo e che sia arrivato il momento di tornare in prima linea. Un singolo individuo non può cambiare il mondo ma milioni di persone si, possono farcela. La marcia rappresenta l’esodo del popolo palestinese, camminare e dormire sotto le stelle è ciò che la popolazione di Gaza subisce da troppo tempo, senza cibo e acqua e in condizioni disumane».
Alla marcia parteciperanno delegazioni da 35 Paesi del mondo. Per ora il gruppo italiano ha ricevuto 400 moduli di adesione; le iscrizioni chiuderanno il 5 giugno e i moduli si trovano sul canale Telegram dell’iniziativa. Secondo Antonietta, con il sostegno dei Paesi arabi la previsione globale è di raggiungere almeno le 5.000 persone. «Il nostro obiettivo primario è ridare fiducia nei popoli, nelle persone comuni, fare comprendere che nonostante la politica ci stia ignorando o voglia silenziarci oggi viviamo un periodo storico molto pericoloso, dove i diritti umani ed il diritto internazionale sono stati sgretolati e infangati. Noi abbiamo l’obbligo nei confronti di chi è stato ucciso, di chi è prigioniero e soprattutto nei confronti dei nostri figli di fermare questa mattanza e ridimensionare il potere. Siamo persone comuni che non accettano di essere considerate solo quando si aprono le votazioni per eleggere un partito. Noi esistiamo e lo proveremo tutti insieme, porteremo questo messaggio a Rafah».
L’organizzazione è complessa: i compiti sono stati divisi tra i vari gruppi nazionali, con un grande sostegno da parte dei gruppi solidali egiziani. Da settimane sono state inoltrate le richieste di permesso per raggiungere Rafah al Cairo; per ora le autorizzazioni non sono state concesse, ma nemmeno negate. Se non verranno rifiutate esplicitamente la marcia proverà a partire. Altrimenti probabilmente il governo egiziano si ritroverà 5000 persone nella capitale, a protestate sotto le sedi del potere internazionale e nazionale. «Non sarà una passeggiata: abbiamo informato tutti i partecipanti della possibilità di essere rimpatriati o di non potere superare i check point nel Sinai. Questo è dovuto all’indifferenza dei politici italiani, sarebbe forse bastato avere un parlamentare che marciasse con noi per ottenere tutti i passaggi. Le persone dovranno compilare il modulo online che è pubblicato sui nostri social, questo è importante per ottenere sostegno legale e logistico, poi verranno ricontattati via mail per una conferma ulteriore e messi in contatto con i referenti di regione; da lì in poi verranno seguiti fino all’arrivo al Cairo. Come ben sappiamo, la causa palestinese per molti è diventata propaganda e quindi probabilmente il sapere che non avranno un podio da esporre sui social media ha portato i politici italiani a voltarsi dall’altra parte, senza rendersi conto dell’enorme errore che stanno commettendo. Perché gli italiani questo lo ricorderanno».
I solidali si ritroveranno all’aeroporto del Cairo il 12 giugno: il 13 partiranno in bus verso Al-Arish, nel Sinai, per poi proseguire a piedi fino a raggiungere al valico di Rafah e accamparsi lì davanti. Il rientro in Italia è previsto per il 20 di giugno. «I palestinesi, compresi quelli della Cisgiordania, sono topi in gabbia a cui è negato da sempre di potere conoscere il mondo. Il Valico di Rafah è l’unico budello di congiunzione con Gaza per uscire; ho documentato negli anni passati come reporter l’umiliazione di chi si accampava al valico in attesa di uscire nonostante fosse stato approvato il permesso mesi prima, e per giorni vi erano donne, uomini, anziani e bambini sdraiati per terra in attesa di questa apertura. C’è una vergogna più grande di questa? Non penso. Il valico va aperto, non si può tenere in ostaggio una popolazione» conclude Antonietta Chiodo.
Intanto, nella Striscia di Gaza, la mattanza continua. I bombardamenti israeliani stanno uccidendo decine di sfollati al giorno, continuando a distruggere tutte le infrastrutture civili. La monopolizzazione della distribuzione degli aiuti alle ong americane ha trasformato anche quei momenti in violenze contro la popolazione, con spari sulla folla e morti. Mentre vecchi e bambini continuano a morire di fame.
*(Moira Amargi esiste ed è una persona specifica, ma il nome è uno pseudonimo, usato quando pubblica report sulla Palestina o dall’interno di cortei e momenti di conflitto sociale a rischio repressione. È stata corrispondente per L’Indipendente dai Territori Palestinesi occupati.)
04 – Geraldine Colotti*: LATINOAMERICA. La rubrica mensile di Pagine Esteri
MESSICO, SI VOTA LA RIFORMA GIUDIZIARIA
Un’occasione storica quella del 1° giugno in Messico. Per la prima volta, infatti, rappresentanti e funzionari del potere giudiziario non verranno più nominati a porte chiuse, ma eletti direttamente dai cittadini. Quasi 100 milioni gli aventi diritto al voto e 1.881 gli incarichi in lista. Un procedimento seguito all’approvazione della nuova legge, passata con maggioranza qualificata – 86 voti a favore, 41 contrari e 0 astensioni – secondo quanto stabilito dalla Legge Organica del Congresso, e pubblicata in Gazzetta il 15 settembre 2024, giorno in cui si commemora il “Grido d’Indipendenza” del Messico. La sessione parlamentare ha dovuto svolgersi nella sede alternativa, la Casona de Xicoténcatl, per le furibonde proteste dei settori dell’opposizione contro la riforma.
La “Riforma Giudiziaria” ha infatti provocato un acceso dibattito nel paese fin da quando è stata annunciata dall’ex presidente, Andrés Manuel López Obrador (Amlo). I candidati legislatori del Partito Morena e la stessa Claudia Sheinbaum, eletta presidente con il 59,5% dei suffragi il 2 giugno dell’anno scorso, ne hanno fatto un argomento di campagna elettorale, mettendo in evidenza il suo carattere democratico e anti-corporativo. Toccare i privilegi di chi guadagna in un giorno una cifra equivalente a 55 salari minimi – i membri della Corte suprema di giustizia hanno un reddito giornaliero di 13.698 pesos messicani – ha scatenato, però, le reazioni degli apparati giudiziari e dei poteri forti, timorosi di vedersi chiudere la porta in faccia, quando l’avevano avuta sempre spalancata.
Per fare qualche esempio: nel 2022, la Corte Suprema di Giustizia ha bloccato la riforma del sistema elettrico che cercava di rafforzare la sovranità energetica del Messico, dando priorità alla Commissione Federale di Elettricità rispetto agli interessi privati stranieri. Il 70% delle sentenze della Corte che hanno avuto un impatto fiscale sono servite a condonare le tasse alle imprese, non a chiedere loro conto. Per non parlare della via crucis delle donne che chiedono giustizia a un sistema corrotto in cui femminicidi, stupratori di bambine, aggressori recidivi vengono rilasciati da giudici certi di non ricevere alcuna sanzione. Ora l’apparato giudiziario accusa la riforma di attentare alla “neutralità” della giustizia e di voler politicizzare le decisioni.
Secondo alcuni poderosi gruppi economici nazionali e transnazionali, sostenuti dalle grandi agenzie della comunicazione, la riforma avrà un impatto negativo sull’economia messicana: perché genererà sfiducia nei tribunali messicani, che non verranno scelti per risolvere i conflitti sorti nell’ambito del Trattato di Libero Scambio con il Nord America; di conseguenza, si produrrà “incertezza e mancanza di investimenti in Messico”.
Quel che è in gioco – dicono i commentatori di sinistra – , non è solo una riforma amministrativa, ma un cambio di marcia sostanziale affinché la giustizia cessi di essere un privilegio blindato da codici e patti occulti, un sistema elitario, crudele con le donne e punitivo verso i poveri, e cominci a essere un diritto esercitato e preteso dalla maggioranza della popolazione.
PANAMA, IL GOVERNO DI CHIQUITA
Da oltre un mese, il Sindacato dei Lavoratori dell’Industria del Banano e delle Imprese Collegate (Sitraibana) protesta contro la riforma a una legge della sicurezza sociale, imposta dal governo di José Raúl Mulino, per ridurre i benefici lavorativi, e contro i 4.800 licenziamenti decisi dalla multinazionale Chiquita. Gli scioperi si stanno allargando ad altre categorie, come educatori e lavoratori edili. Il governo ha risposto con la repressione, anteponendo la fine degli scioperi a ogni cambio di indirizzo. Fulcro delle proteste, Bocas del Toro, una delle province più povere di Panama (38,9%, il tasso di povertà multidimensionale), dove l’industria bananiera rappresenta il principale motore economico. I licenziamenti sono avvenuti dopo che un tribunale del lavoro ha dichiarato illegale lo sciopero guidato da Sitraibana. L’azienda ha giustificato la decisione adducendo l’abbandono del lavoro e perdite economiche che ammontano a 75 milioni di dollari. Chiquita, che controlla il 90% della produzione nazionale di banane, svolge un ruolo chiave nell’economia panamense. Nel primo trimestre di quest’anno, la banana, che è rimasta il principale prodotto di esportazione, ha rappresentato il 17,5% delle vendite all’estero, e ha generato 324,4 milioni di dollari, il valore più alto in 15 anni. L’industria bananiera impiega oltre 7.000 persone a Bocas del Toro, dove si sviluppano anche attività come la produzione di platano, cacao e l’allevamento.
Tuttavia, i blocchi hanno generato scarsità di prodotti di base e una mancanza di entrate per i commerci locali, mettendone a rischio l’apertura. I leader sindacali hanno finora respinto la proposta di modifica della legge, proposta dal governo, chiedendo l’abrogazione della riforma della Sicurezza Sociale e soluzioni strutturali per combattere la povertà e garantire la stabilità lavorativa..
Chiquita, intanto, ha sospeso la sua attività nella regione, il che ha spinto l’Esecutivo a istituire una commissione di alto livello per cercare soluzioni, incluso un dialogo con l’azienda per evitare la sua definitiva uscita dal paese.
Colombia, il X Vertice dei Capi di Stato dell’AEC
Il 29 maggio 2025, si è svolta a Cartagena, in Colombia, la 30ª Riunione Ordinaria del Consiglio dei Ministri dell’Associazione degli Stati dei Caraibi (AEC). Un incontro nell’ambito della “Settimana dei Grandi Caraibi”, un evento più ampio che ha avuto luogo dal 26 al 30 maggio 2025. Il 30 maggio, a Monteria, sempre in Colombia, si è tenuto il X Vertice dei Capi di Stato e/o di Governo dell’AEC.
L’AEC è un’organizzazione intergovernativa creata nel 1994 mediante un accordo internazionale con l’obiettivo di promuovere la consultazione, la cooperazione e l’azione concertata tra i paesi dell’area.
Attualmente è composta da 25 Stati Membri e 10 Associati, inclusi i paesi partecipanti della CARICOM, i paesi del Gruppo dei 3, i membri del CACM, Cuba, la Repubblica Dominicana, Haiti e Suriname. Si basa sui principi del multilateralismo, del rispetto della sovranità e dell’unità nella diversità che caratterizza la regione dei Caraibi. Con questo spirito, l’iniziativa di quest’anno di è proposta di posizionare la regione dei Grandi Caraibi come attore chiave nella governance globale e nella costruzione di un ordine multipolare più equilibrato, in un contesto geopolitico denso di sfide e in rapida trasformazione.
La Sessione di Alto Livello ha esaminato il ruolo del Sud Globalee il potenziale della regione per rafforzare la cooperazione Sud-Sud, diversificare le sue economie, promuovere il commercio regionale, ridurre le disuguaglianze, ampliare l’accesso ai finanziamenti per lo sviluppo, e consolidare alleanze strategiche. Tra i temi in discussione vi sono stati l’integrazione economica, la connettività regionale, la trasformazione digitale inclusiva, la giustizia climatica, la protezione del Mar dei Caraibi e l’economia blu. Temi affrontati con un’attenzione particolare alla lotta alla povertà e alla promozione di un ordine globale più equo.
Si è approvata la Dichiarazione della Colombia, che si basa sulle raccomandazioni formulate durante la 30ª Riunione Ordinaria del Consiglio dei Ministri, tenutasi il giorno precedente a Cartagena. Durante il vertice, il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha consegnato la presidenza pro tempore del blocco regionale al presidente panamense, José Raúl Mulino. Pagine Esteri
*( fonte: Pagine Estere – Geraldine Collotti, giornalista)
05 – Alfiero Grandi *: RISULTATI SCARSI: LA DESTRA AL GOVERNO SI RIFUGIA NELLA PREPOTENZA – IL GOVERNO CAMBIA PELLE. LA CONTINUITÀ È IL RACCONTO DI UN PAESE CHE NON ESISTE, IN CUI TUTTO VA PER IL MEGLIO, MENTRE ANCHE NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI L’ITALIA È AI MARGINI, INEFFICACE.
L’ansia di costruire una credibilità internazionale del governo lascia il passo a una marginalità evidente, la rivendicazione di essere un ponte tra Usa ed Europa è un’autoesaltazione esagerata. Mentre sono evidenti la ritrosia a prendere iniziative forti per fermare la strage in corso a Gaza compiuta da un alleato come Nethanyau, l’imbarazzo a fare i conti con le follie di Trump non solo sui dazi (contrastate dai magistrati) dipinto addirittura come un riferimento politico, per non parlare dello stallo europeo nel prendere iniziative per la pace in Ucraina nel vuoto che sta lasciando l’inconcludente iniziativa americana.
Sfumano le grandi riforme istituzionali dell’assetto dello Stato
All’inizio il governo Meloni ha usato la grande maggioranza ottenuta in parlamento per dare credibilità a proposte di legge bandiera per le 3 destre al governo: autonomia regionale differenziata alla Calderoli, attacco all’autonomia della magistratura, elezione diretta del Presidente del Consiglio, da trasformare in un capo assoluto del governo, che per di più potrebbe contare su un parlamento subalterno, iniziando la costruzione di una vera e propria “capo-crazia” (Ainis) non lontana da un’autocrazia.
Meloni e Orban
Il luccicore di queste proposte oggi è appannato. La Consulta ha bocciato largamente la legge di Calderoli, il quale oggi cerca di rimontare con un progetto di legge correttivo che ha la sfacciataggine di raccontare all’Italia che i livelli di prestazione che verranno (a chiacchiere) garantiti non costeranno un euro in più. Siamo da capo: alcune regioni forti potrebbero prendersi i poteri perché hanno le risorse mentre altre non potranno farlo. I cittadini sarebbero sempre più diversi tra loro a seconda se risiedono nelle regioni più ricche o in quelle deboli e per di più i cittadini rivolgerebbero le loro critiche alle regioni inadempienti anziché al governo nazionale.
Ora nel mirino c’è la magistratura
L’attacco all’autonomia della magistratura ha conquistato la prima fila tra le modifiche delle destre alla Costituzione, da realizzare ora perché il governo è convinto di vincere il referendum popolare previsto dall’articolo 138 e perché i controlli della magistratura sugli atti del governo gli risultano insopportabili. Ultimo caso la sentenza della Cassazione sui centri di detenzione per i migranti in Albania. Il governo ha deciso di portare avanti l’attacco all’autonomia della magistratura partendo dalla separazione delle carriere ma proponendo il sorteggio della loro rappresentanza nel Csm (anzi dei Csm) per indebolire l’autonomia della magistratura nella nostra Repubblica.
Il premierato per ora marcia sul posto, in attesa, perché questa proposta è vittima anzitutto delle sue contraddizioni. Alcune nel testo, come il rapporto stretto con la legge elettorale e ancora di più il contrasto evidente con il ruolo del Presidente della Repubblica che si vorrebbe drasticamente ridimensionare ma Mattarella è molto apprezzato in Italia e all’estero. Rischiare lo scontro frontale con il Presidente della Repubblica potrebbe essere un guaio per il governo Meloni, per questo sta esaminando altre strade come cambiare prima la legge elettorale, una sorta di acconto sul premierato, e spostare il referendum popolare a dopo le elezioni del 2027. Deve essere chiaro che le destre puntano a essere decisive nell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica nella prossima legislatura.
Sulle modifiche istituzionali e costituzionali siamo entrati in una nuova fase. Il governo Meloni ha perso lo slancio del 2022 e usa la maggioranza parlamentare (15% di premio di maggioranza) come un randello sull’opposizione. È evidente l’ansia del governo Meloni di non riuscire a spiegare al paese come mai malgrado tanto potere si sia realizzato così poco nelle politiche concrete.
L’Istat dimostra che il Paese è sempre più in difficoltà
L’ultimo rapporto Istat dimostra che l’Italia è in difficoltà, ha un peggioramento nelle condizioni di vita, i poveri superano i 6 milioni, i redditi da lavoro e da pensione sono in riduzione, non a caso i metalmeccanici sono costretti ad un altro sciopero generale per il contratto. Si rischia perfino di non usare bene i fondi del PNRR o di doverli restituire in parte.
Da questo deriva la frenesia di fare in fretta (e male) con decreti legge affastellati, combinati con i voti di fiducia, diventati una regola, e riducendo il parlamento a un ruolo subalterno al governo, visto che è “obbligato” ad approvare quello su cui il governo chiede la fiducia.
Un tecnicismo rivela la fretta e il clima da caserma in parlamento. Pur di fare approvare in fretta le modifiche della Costituzione sulla magistratura la presidenza del Senato – a maggioranza – ha deciso che il “canguro” (un emendamento del governo che assorbe tutti gli altri) può essere usato già in commissione che è la sede più importante di confronto nell’esame delle proposte di legge. Così si vuole tagliare il dibattito e ottenere un’approvazione rapida delle proposte di legge, il confronto parlamentare con le opposizioni può attendere.
Il manganello per relegare l’opposizione sociale in un recinto
Viene usato il manganello imponendo le decisioni, relegando l’opposizione in un recinto senza darle la possibilità di incidere. Anziché essere parlamento, cioè discussione, è il dominio del noi contro voi, una sorta di nuovo, invisibile muro di Berlino, che cambia la sostanza del funzionamento della democrazia. Le opposizioni stanno ritrovando voce e qualche sintonia in più e questo è positivo, ma debbono trovare la forza di una sintesi che renda evidente all’Italia che una alternativa alle destre è possibile ed è una speranza da sostenere. Un primo appuntamento importante sono i 5 referendum dell’8/9 giugno, ricordando sempre che la partecipazione al voto elettorale e quello ai referendum è diverso. Con i referendum si decide una scelta con un Si o un No, in modo preciso e in questo caso sono diritti di chi lavora e dei migranti per favorirne l’integrazione.
Anche sul decreto sicurezza il governo ha deciso di troncare la discussione per imporre 14 nuovi reati e 9 aggravamenti di pena. Il governo ha trasformato in decreto legge le norme su cui il parlamento stava discutendo da 14 mesi. Difficile sostenere l’urgenza del decreto. L’argomento è stato sottratto al parlamento per accreditare un’iniziativa dura, per fare la faccia feroce con le aree marginali, per colpire le proteste e il dissenso, mentre verso i colletti bianchi ha cancellato il reato dell’abuso d’ufficio, ha reso complicate le indagini dei magistrati riducendo a 15 giorni le intercettazioni.
Evidentemente il clima nel paese è cambiato e si vuole ottenere strumenti di repressione che comportano più galera in un paese che ha le carceri che scoppiano. Una deriva securitaria. Il professor Rondelli ha affermato in parlamento che ogni svolta autoritaria è anticipata da strette repressive giustificate con l’obiettivo della sicurezza, un avviso all’Italia.
Siamo oltre la metà della legislatura e da settori amici il governo viene rimproverato di avere perso tempo e quindi reagisce preoccupato perché il carniere dei risultati non è così forte, solo quello dei tanti condoni, ed usa i numeri in parlamento con arroganza, “dimenticando” l’enorme regalo di maggioranza parlamentare ricevuto, non di voti.
È emerso un lato autoritario per la preoccupazione di avere pochi argomenti a favore e pochi risultati da rivendicare. Che bisogno c’era delle destre al governo per tenere i conti pubblici in ordine ? Bastavano un Monti o un Draghi. Anche perché i conti pubblici in ordine Giorgetti li realizza sequestrando il drenaggio fiscale sulla differenza tra redditi reali, che sono calati, e i redditi nominali che crescono un poco ma vengono ridotti dal prelievo.
La propaganda sostituisce le scelte, viene messa all’indice l’opposizione, spesso insultata, si vuole argomentare senza possibilità di replica, sono tutte tecniche autoconsolatorie. Difficile non vedere similitudini autoritarie con Trump e il suo fastidio per chi la pensa in altro modo, per fortuna anche negli Usa ci sono magistrati coraggiosi.
Magistratura e provvedimenti definiti per la sicurezza sono ora al centro dell’iniziativa di un governo in difficoltà, nervoso, ansioso di fare presto ad ogni costo.
Contrastiamo fino in fondo la proposta sulla “sicurezza”, che vuole impedire le manifestazioni di protesta, i picchetti degli operai che difendono il loro lavoro, vuole cacciare dalle case occupate sbattendo sotto i ponti i più deboli, e prepariamoci ad appoggiare i magistrati contro chi li vorrebbe separati nelle carriere, sorteggiati per azzerare il valore della loro rappresentanza, sotto il controllo disciplinare di una commissione estranea, in sostanza subalterni. Non a caso il Ministro Nordio ha iniziato a criticare sentenze e decisioni dei magistrati, il passo successivo è quello di un governo che punta a dare direttive ai magistrati, sicuramente a quelli inquirenti, mandando in soffitta la loro autonomia dal potere esecutivo.
Più aumentano le difficoltà e sono scarsi i risultati, più aumenta la deriva autoritaria e prepotente della maggioranza delle destre.
*(Fonte: strisciarossa – Alfiero Grandi)
06 – Michele Giorgio*: LE ESPORTAZIONI DI ARMI ISRAELIANE HANNO RAGGIUNTO LA CIFRA RECORD DI 14,8 MILIARDI DI DOLLARI NEL 2024, NONOSTANTE LO STATO DI ISRAELE STIA AFFRONTANDO CRESCENTI CRITICHE PER IL SUO ATTACCO DISTRUTTIVO A GAZA CHE HA UCCISO ALMENO 54MILA PALESTINESI. IL MINISTERO DELLA DIFESA HA ANNUNCIATO OGGI I DATI, SOTTOLINEANDO CHE IL 54% DELLE ESPORTAZIONI DI ARMI È STATO DIRETTO AI PAESI EUROPEI.
Lo scorso anno, i sistemi di difesa aerea israeliani hanno rappresentato quasi la metà delle esportazioni totali, trainati da importanti accordi con nazioni europee e asiatiche. In particolare, Israel Aerospace Industries ha firmato un contratto da 3,8 miliardi di dollari con la Germania per il sistema di difesa missilistica Arrow 3, segnando il più grande accordo nella storia israeliana. Anche i sistemi Barak MX di IAI e David’s Sling di Rafael hanno registrato una forte domanda.
La domanda europea è stata alimentata dagli aiuti militari all’Ucraina, compresi i trasferimenti di armi dalle scorte nazionali e dai programmi per accrescere le capacità offensive e difensive.
Il record di vendite è stato raggiunto nonostante lo scorso anno le aziende israeliane siano state escluse da diverse importanti fiere della difesa in Europa. Inoltre il Ministero della Difesa spagnolo ha recentemente sospeso un contratto da 300 milioni di dollari con Rafael per missili anticarro e in precedenza aveva annullato un accordo da 6,6 milioni di dollari per munizioni con Elbit Systems.
Nonostante queste battute d’arresto, l’Europa ha superato l’Asia-Pacifico diventando il principale mercato di armi per Israele. Le esportazioni verso l’Asia-Pacifico sono diminuite dal 25% al 23% delle vendite totali.
Le esportazioni verso i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele in base agli Accordi di Abramo del 2020 sono salite al 12%, rispetto al 3% del 2023. Tra queste, il Marocco ha firmato un accordo all’inizio di quest’anno per gli obici ATMOS di Elbit, per un valore compreso tra 150 e 200 milioni di euro. In precedenza, aveva acquistato il sistema missilistico PULS e, secondo alcune fonti, il sistema Barak MX di IAI e un satellite da ricognizione.
L’aumento delle vendite all’estero è stato sostenuto anche da un aumento dei contratti tra governi, che hanno rappresentato il 54% di tutti gli accordi nel 2024, in aumento rispetto al 35% dell’anno precedente. Tali accordi spesso aggirano le lunghe procedure di appalto e consentono un’attuazione più rapida.
Le esportazioni belliche israeliane hanno raggiunto livelli record per il quarto anno consecutivo e il loro valore è raddoppiato negli ultimi cinque anni.
(Fonte: Pagine Estere – Michele Giorgio, giornalista)
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