n°21 – 31/05/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

00 – Ester Nemo*: Poco cibo e più bombe, Gaza allo stremo – In briciole Cessate il fuoco? Nell’attesa 70 uccisi ieri dai raid aerei israeliani. «Armi proibite su al-Bureij». E ancora spari sulla folla affamata.
01 – Micaela Bongi*: MANGANELLO NELLE PIAZZE, CLAVA NEI PALAZZI – DDL sicurezza Fin dal suo esordio il governo della destra più destra ha inanellato provvedimenti fortemente ideologici e identitari certo coerenti con la cultura politica di appartenenza, a volte dal sapore solo propagandistico ma che hanno prodotto anche pesanti conseguenze
02 – Roberto Ciccarelli*: l piano anti-dazi di Meloni: girare alle imprese i fondi Ue.
Guerre di classe In attesa che Trump dica quanto vuole punire l’Europa si torna a parlare di 25 miliardi tolti anche da clima e da coesione. Il ministro Urso: l’esecutivo è al lavoro per usare le risorse che non si riescono a spendere per i territori con il Pnrr. Cgil: sui soldi alla Sanità dal Pnrr il governo fa propaganda. Uil: speso solo il 5% dei finanziamenti strutturali
03 – Roberto Ciccarelli*: Fmi: anche senza dazi va tagliata la spesa sociale – Poche alternative Il Fondo monetario Internazionale esplicita tutti i problemi del governo Meloni messo alle strette dai dazi di Trump e dall’aumento della spesa militare: deve continuare a tagliare la spesa sociale, e aggredire le pensioni, nell’illusione che ciò serva a diminuire il debito pubblico
04 – Lavinia Marchetti *: all’improvviso la macchina della propaganda giornalistica scopre il genocidio……………PERCHÉ?
05 – Eurodeputata sventola la bandiera della Palestina al Giro d’Italia: i carabinieri la identificano
Eurodeputata sventola la bandiera della Palestina al Giro d’Italia: i carabinieri la identificano
L’eurodeputata Cristina Guarda è stata identificata dai carabinieri dopo aver sventolato la bandiera della Palestina durante il Giro d’Italia
06 – Marina Catucci* NEW YORK «Tariffe illegali». Una corte gela Trump, un’altra lo salva
Il gioco del dazio La prima sentenza: non si può invocare una falsa «emergenza economica» per esautorare il Congresso. Ma lui la spunta in appello
07 – di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra*: Neoliberalismo: che cosa c’è in un nome? Una rottura di fase e una secca discontinuità: da tempo le abbiamo registrate.

 

00 – Ester Nemo*: POCO CIBO E PIÙ BOMBE, GAZA ALLO STREMO – IN BRICIOLE CESSATE IL FUOCO? NELL’ATTESA 70 UCCISI IERI DAI RAID AEREI ISRAELIANI. «ARMI PROIBITE SU AL-BUREIJ». E ANCORA SPARI SULLA FOLLA AFFAMATA, IL MINISTERO DELLA SALUTE HA AGGIORNATO IL NUMERO UFFICIALE DEI MORTI (54,249) E QUELLO DEI FERITI (123,492), A 601 GIORNI DALL’INIZIO DEI RAID ISRAELIANI.

LONTANO DAL TRAFFICO DI PROPOSTE E CONTROPROPOSTE PER GIUNGERE A UN CESSATE IL FUOCO – MENTRE SCRIVIAMO TRUMP ANNUNCIA-ANNUNCI PER LE «PROSSIME ORE» E AL ARABIYA DÀ PER CONCLUSO L’ACCORDO, MENTRE ALTRE FONTI CONFERMANO PIUTTOSTO LE RISERVE DI HAMAS -, CON IL CONSUETO SFONDO DI BOMBARDAMENTI E UN BILANCIO DI VITTIME CHE CONFERMA IL CARATTERE DI ESCALATION DI RAID ISRAELIANI, NELLA STRISCIA IERI SI È CONSUMATO ANCHE IL TERZO GIORNO DI DELIRANTE OPERATIVITÀ DEL DISPOSITIVO GAZA HEALTH FOUNDATION (GHF), IL PIANO DI PRESUNTI AIUTI ORDITO DA USA E ISRAELE, CHE SOLO USA E ISRAELE SI OSTINANO A DIFENDERE.
UN TERZO CENTRO di distribuzione ha aperto i battenti al mattino nei pressi di Rafah, con lo schema già sperimentato – nei suoi esiti disastrosi – di contractors, filo spinato e controlli biometrici. Di fronte, le scene di una disperazione tutto sommato composta, di chi tormentato dalla fame si è esposto magari a un lungo tragitto della speranza, rischiando la vita nella calca o per la risposta armata dell’esercito o dei contractor privati, che anche ieri non si è fatta attendere nei momenti più concitati della ressa.
Ben pochi sono riusciti ad accaparrarsi l’ormai celebre scatola della GHF con il suo imponderabile dosaggio di calorie. Una folla incurante dei colpi di arma da fuoco che si udivano chiaramente si è vista anche a Deir el-Balah, nel centro della Striscia, dove sono morte due persone mentre veniva prelevato quel che rimaneva di un deposito del Programma alimentare mondiale.
Da tempo si muore anche per un sacco di farina a Gaza, o per la sua mancanza. Per le agenzie dell’Onu e le organizzazioni umanitarie gli aiuti così intesi non solo risultano largamente insufficienti rispetto a necessità palesemente, immensamente maggiori, ma il meccanismo stabilito da Washington e Tel Aviv svela definitivamente il disegno di distrarre l’opinione pubblica dalle stragi di civili e soprattutto la volontà di spingere inesorabilmente la popolazione di Gaza verso sud, per confinarla in lembi di terra inabitabili.
È una «campagna sistematica di sfollamento – denuncia l’ultimo rapporto di Oxfam – per rinchiudere oltre 2 milioni di civili in 5 aree costiere sovraffollate e prive di qualsiasi servizio, che costituiscono meno del 20% del territorio della Striscia. Un fatto che sommato all’uso della fame come arma di guerra – prosegue il comunicato – rivela la strategia di occupare completamente Gaza, non di neutralizzare specifici obiettivi militari».
ISRAELE INSOMMA PUNTA A RENDERE LA FAME PIÙ PERSUASIVA DELLE BOMBE. NESSUN CAMION DI AIUTI HA RAGGIUNTO LE ZONE SETTENTRIONALI DELLA STRISCIA DA QUANDO È STATO BLOCCATO DEFINITIVAMENTE IL FLUSSO GIÀ SCARSO DI AIUTI, 12 SETTIMANE ORSONO. L’Unrwa ha così reiterato ieri il bisogno urgente di cibo, medicine e altri beni essenziali per scongiurare un’ulteriore ecatombe. Gli effetti della malnutrizione sulla popolazione sono sempre più evidenti. E gli ospedali sempre più impotenti, privi di tutto e bersagliati da ordini di evacuazione come quello che ieri ha riguardato l’al-Awda Hospital di Jabalia, una delle ultime strutture parzialmente funzionanti.
E non si placa l’intensità degli attacchi condotti dall’aviazione: ieri almeno 70 vittime in diverse zone della Striscia. Il raid più letale ha sbriciolato interi palazzi e ucciso 23 persone, tra cui donne e bambini, nel campo profughi di al-Bureij. I corpi giunti all’al-Aqsa erano carbonizzati in modo anomalo, denuncia il portavoce dell’ospedale, che accusa Israele di utilizzare in zone densamente popolate armi vietate dalle leggi internazionali.
NOVE AGENTI DI POLIZIA della Striscia sono stati invece ammazzati da un missile a Gaza City. Secondo il ministero degli Interni di Hamas sono morti stavano dando la caccia a dei ladri. Altri sei poliziotti, riporta al Jazeera, sono stati uccisi da un drone a Deir el-Balah, anche qui, sempre secondo le autorità, mentre erano in servizio.

IL MINISTERO DELLA SALUTE HA AGGIORNATO IL NUMERO UFFICIALE DEI MORTI (54,249) E QUELLO DEI FERITI (123,492), A 601 GIORNI DALL’INIZIO DEI RAID ISRAELIANI.
L’offensiva muscolare di Tel Aviv prosegue in altre forme anche in Cisgiordania, tra operazioni militari, ruspe e violenze dei coloni. A Duma c’è stata un’incursione dell’esercito che prelude a nuovi ordini di demolizione, come quelli emessi per 58 edifici, con conseguente cacciata dei residenti, secondo quanto riporta l’agenzia palestinese Wafa, nel campo di Tulkarem. Che resta sotto assedio, con tutte le vie di accesso bloccate dall’esercito. Stessa situazione nel campo di Nur Shams.
Pastori e agricoltori palestinesi residenti intorno a Ramallah e Nablus restano invece sotto attacco dei coloni, insieme ai loro animali e ai loro campi.
*(Fonte: Il Manifesto. Ester Nemo corrispondente da Gaza)

 

01 – Micaela Bongi*: MANGANELLO NELLE PIAZZE, CLAVA NEI PALAZZI – DDL SICUREZZA FIN DAL SUO ESORDIO IL GOVERNO DELLA DESTRA PIÙ DESTRA HA INANELLATO PROVVEDIMENTI FORTEMENTE IDEOLOGICI E IDENTITARIE CERTO COERENTI CON LA CULTURA POLITICA DI APPARTENENZA, A VOLTE DAL SAPORE SOLO PROPAGANDISTICO MA CHE HANNO PRODOTTO ANCHE PESANTI CONSEGUENZE

Una manganellata in testa al portavoce della rete No dl sicurezza e assessore municipale Luca Blasi mentre cerca di mediare tra manifestanti e poliziotti è la rappresentazione plastica, suggello e insieme sintesi della “visione” che ispira l’attuale governo. L’iniziale ddl è stato infilato nel tritatutto insieme a mesi e mesi di lavori parlamentari, sostituito da un decreto che sarà approvato con la fiducia. Manganello nelle piazze, clava nei palazzi. Prevaricazione insieme al tentativo incessante di delegittimare l’opposizione (la «sinistra che va a trovare i mafiosi» …), repressione del dissenso e anche del banale buon senso.
Del resto a spiegare quale sia l’urgenza che ha giustificato l’adozione di un decreto sostituendo in corsa il disegno di legge è il capogruppo di Fratelli d’Italia alla camera, Galeazzo Bignami, quello che – va sempre ricordato – si vestiva da nazista: il decreto serve precisamente per reprimere manifestazioni come quella di ieri, cioè chi contesta il governo.
E serve a riempire le carceri di ecoattivisti, lavoratori in difficoltà, senza casa, poveri e migranti, donne preferibilmente rom con i loro bambini e bambine, perché evidentemente per la Madre d’Italia Giorgia Meloni i diritti dei più piccoli vengono per primi ma dipende da chi sono i genitori. E siccome secondo un modo di dire da bulli che si addice perfettamente a questo governo «chi mena per primo mena due volte», gli stessi “criminali” che andranno a inzeppare le carceri saranno ulteriormente puniti se oseranno protestare anche passivamente per le insopportabili condizioni detentive.
Cattiveria al quadrato. È il mood del momento non solo da questa parte del civile occidente e spiega le affinità elettive tra Giorgia Meloni e altri leader mondiali. Distinguere tra il premier che gioca in casa e quella in trasferta è un esercizio sempre più vuoto.
Forse è invece il caso di domandarsi fino a che punto, da questa parte del civile occidente, può spingersi senza incontrare troppi ostacoli la forzatura istituzionale e costituzionale (quella denunciata da tanti giuristi a proposito di questo ennesimo decreto).
Fin dal suo esordio il governo della destra più destra ha inanellato provvedimenti fortemente ideologici e identitari certo coerenti con la cultura politica di appartenenza, a volte dal sapore solo propagandistico ma che hanno prodotto anche pesanti conseguenze. Dal ridicolo decreto rave al decreto Caivano che ha moltiplicato la presenza di minori in carcere, passando per i vari decreti Cutro e Albania. Una trama che disegna un progetto di futuro mortifero, dove mentre ci si stracciano le vesti per il crollo della natalità si mettono nel mirino i più giovani e i potenziali nuovi cittadini.
Il ministro della giustizia Carlo Nordio sostiene che il sovraffollamento carcerario non è provocato dalle leggi approvate dall’attuale maggioranza ma dai giudici che mandano le persone in carcere. È un’affermazione surreale, ma Nordio è pur sempre il ministro e va preso sul serio. Moltiplicazione dei reati, carceri sempre più piene, sistema giudiziario sovraccaricato e nello stesso tempo magistratura tenuta sotto scacco. È la perversa quadratura del cerchio che va spezzata.
*(Fonte: Il Manifesto – Micaela Bongi-caporedattrice del settore politico del giornale.)

 

02 – Roberto Ciccarelli*: L PIANO ANTI-DAZI DI MELONI: GIRARE ALLE IMPRESE I FONDI UE.
GUERRE DI CLASSE IN ATTESA CHE TRUMP DICA QUANTO VUOLE PUNIRE L’EUROPA SI TORNA A PARLARE DI 25 MILIARDI TOLTI ANCHE DA CLIMA E DA COESIONE. IL MINISTRO URSO: L’ESECUTIVO È AL LAVORO PER USARE LE RISORSE CHE NON SI RIESCONO A SPENDERE PER I TERRITORI CON IL PNRR. CGIL: SUI SOLDI ALLA SANITÀ DAL PNRR IL GOVERNO FA PROPAGANDA. UIL: SPESO SOLO IL 5% DEI FINANZIAMENTI STRUTTURALI UE

In attesa che Trump decida la quantità di dazi da elargire all’Europa, previa contrattazione, Adolfo Urso ieri ha di nuovo esplicitato il senso della dicitura del ministero che si trova casualmente a guidare: «Imprese e del made in Italy». Urso ha confermato che il governo sta pensando al piano anti-dazi da «25 miliardi di euro» da dare alle imprese come forma di compensazione dei mancati incassi derivanti dalle tariffe che Trump sceglierà, prima o poi, di mettere anche sul «made in Italy.
L’ELEMENTO INTERESSANTE del «piano» annunciato è che i soldi saranno presi dai fondi europei già esistenti: il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) i fondi per la coesione territoriale e quelli per la transizione climatica per l’auto motive. Sempre ammesso che si possa fare, e che si riescano a spendere (due elementi non scontati), questi fondi sono gli stessi che il governo, e gli enti locali, in gran parte non riescono a spendere per una consolidata tradizione nazionale, e anche per una volontà politica di non affrontare i nodi decisivi per rendere giusta e efficiente la spesa.
I dazi di Trump sono un regalo avvelenato al governo Meloni
NON È UNA PARTITA che si gioca con i soldi del «Monopoli». C’è una ragione politica. Si usa ora la scusa per i dazi per dare più soldi alle imprese. E non al Welfare e alla sanità, o al diritto all’abitare: vere emergenze. È una prassi. Per esempio, nelle rimodulazioni che il governo ha fatto del Pnrr, ha sostenuto l’Osservatorio Pnrr Openpolis, 11,1 miliardi in più sono stati dirottati verso le imprese sotto forma di incentivi e sgravi fiscale. Quelli destinati alla transizione ecologica dell’auto motive sono stati tagliati di 4,6 miliardi. Probabilmente sono andati alla spesa militare. Insomma, si sta trasferendo ricchezza pubblica nelle mani di pochi. Ogni scusa è buona. Del resto, le guerre commerciali sono anche guerre di classe.
Big Tech, gas e armi: il costo salato dell’alleanza Trump-Meloni
PER ARRICCHIRE IL QUADRO in cui sta avvenendo tutto questo si può leggere il nuovo monitoraggio della Cgil sui fondi Pnrr per la sanità. Daniela Barbaresi, segretaria confederale del sindacato, ha sostenuto ieri che sui 19,2 miliardi di fondi disponibili del Pnrr per la sanità, ne sono stati spesi appena 3,7, pari al 19,3%, e solo il 37,9% dei progetti risulta completato. Per le «Case della Comunità», dei 2,8 miliardi di euro di finanziamenti, ne sono stati spesi il 12,4%. Per 420 strutture i lavori non sono ancora partiti e altri 267 progetti devono ancora completare la fase di progettazione. Per gli «Ospedali di Comunità», è stato speso l’11% dei fondi (1,3 miliardi di euro) e sono stati completati solo il 2,6% dei progetti. «Con questo ritmo ci vorranno sette anni per spenderli tutti» sostiene Barbaresi. Il problema è che il Pnrr scade tra un anno. E i soldi torneranno indietro. Nel frattempo Meloni & Co. cercano di darne una parte alle imprese.
Il governo nell’«imbuto» del Pnrr: soldi non spesi e non sa perché
A CHI SARANNO TOLTI i soldi Pnrr? Alla Sicilia per esempio. Lo sostiene la locale associazione dei costruttori. Per Salvo Russo, presidente di Ance Sicilia, sono stati «sottratti 3 miliardi in silenzio e dirottati in Liguria e Veneto. Suona come il de profundis alla Sicilia». Per i fondi Pnrr si tratta di due lotti sulla Palermo-Catania: il tratto ferroviario Dittaino-Catenanuova (588 milioni) un tratto della Dittaino-Enna (stanziati buona parte dei 594 milioni) e il passaggio di Augusta (116 milioni). Non è stato indicato quando saranno rifinanziati. Russo ha criticato l’invito della Commissione Ue ad usare i fondi di coesione per «tecnologie innovative, colonnine di ricarica, bonus per l’acquisto delle auto elettriche e per il riarmo europeo». Quest’ultimo però è stato escluso dal governo. Forse non basterà un risarcimento alle imprese promesso dal piano anti-dazi del governo.
QUANTO AGLI ALTRII FONDI europei, è devastante il monitoraggio pubblicato ieri dalla Uil. Solo il 5% è stato speso su quelli previsti dalla programmazione 2021-2027. Su un totale di 74,9 miliardi di euro per la coesione, ne sono stati spesi circa 3,8 miliardi di euro. Sui 48,3 miliardi di euro dei programmi regionali, ne sono stati spesi 3. Sui 44,1 del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), gli interventi programmati sono al 15,6% e la spesa effettiva al 4,78%. Per il Fondo sociale europeo plus (Fse+) che finanzia interventi per il lavoro, la formazione e l’inclusione, su un totale di 28,6 miliardi la spesa effettiva è al 5,61%.
Pnrr, case e ospedali di comunità al palo: completato solo il 2%
«LA LENTEZZA – ha sostenuto la segretaria confederale Uil Ivana Veronese – non può essere un alibi per riprogrammare gli interventi, significherebbe tradire il principio della riduzione delle disuguaglianze». Sta già accadendo. Con o senza dazi.
*(FONTE: Il Manifesto – Roberto Ciccarelli , Filosofo e giornalista)

 

03 – Roberto Ciccarelli*: FMI: ANCHE SENZA DAZI VA TAGLIATA LA SPESA SOCIALE – POCHE ALTERNATIVE IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE ESPLICITA TUTTI I PROBLEMI DEL GOVERNO MELONI MESSO ALLE STRETTE DAI DAZI DI TRUMP E DALL’AUMENTO DELLA SPESA MILITARE: DEVE CONTINUARE A TAGLIARE LA SPESA SOCIALE, E AGGREDIRE LE PENSIONI, NELL’ILLUSIONE CHE CIÒ SERVA A DIMINUIRE IL DEBITO PUBBLICO
Che ci siano, o meno, i dazi di Trump l’Italia dovrà continuare a tagliare la spesa sociale e aggredire anche quella delle pensioni.
Ciò vale anche per l’altro dossier aperto, uno dei tanti lasciati in sospeso dal governo Meloni per mancanza di iniziativa e spazio politico di azione: l’aumento della spesa militare prevista ora al 2% del Pil. Qualsiasi nuova misura di spesa imposta dagli «choc» economici provocati dal trumpismo, o dalle decisioni politiche europee legate all’economia di guerra, «dovrebbe essere pienamente compensata da ulteriori risparmi in altri settori».

Nelle conclusioni di una missione del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), realizzata in Italia dal 14 al 28 maggio e avvenute nell’ambito del processo di consultazione sullo stato dell’economia, è stata enunciata la situazione drammatica in cui si trova l’esecutivo. L’illusione, spacciata per verità incontrovertibile, è che il taglio della spesa serva a fare diminuire il debito e dunque sia la condizione per rilanciare la crescita economica. è una delle regole dell’Fmi che è tornato a fare il guardiano dell’austerità, inflessibile stavolta, e a mascherarla per quella che non è: cioè una politica economica di tipo «anti-ciclico». Nel rapporto della missione dell’Fmi si legge infatti la seguente frase: «Gli sforzi di risanamento fiscale [cioè i tagli, oggi 12 miliardi di euro a ministeri e enti locali, ndr.], combinati con riforme volte a stimolare la crescita, dovrebbero proseguire anche in caso di shock macroeconomici avversi, tranne quelli più gravi, rendendo gli stabilizzatori automatici la principale risposta anticiclica».
Ecco come i tagli di Giorgetti sono diventati la nuova normalità
La storia recente della prima ondata delle politiche di austerità (2008-2015) ha, in realtà, dimostrato che queste politiche sono la premessa di una nuova crisi. Non si contano le analisi che, in questi anni, hanno dimostrato che l’Italia (e non solo) non si è ancora ripresa dalla crisi economica e sociale di 15 anni fa prodotta anche da questi rimedi. Firmando il patto di stabilità europeo il governo Meloni sta proseguendo su questa strada. Visto che non ha soldi, deve trovarli dal blocco della spesa sociale per di più in mancanza di una crescita strutturale. Il problema è semmai ammorbidire la ferocia della logica «austeritaria», cercando i modi per rinviare e annacquare (si pensi al piano Ue di riarmo basato su deficit e debito), o puntando sul delirio di Trump (tanto più insiste nelle sue politiche illegali sui dazi, tanto più i tribunali Usa lo bloccheranno). È la strategia dell’opossum: fare finta di essere morti, in attesa che la minaccia passi e qualcosa cambi. Ma, in fondo, altro non si fa che applicare il paradigma dominante, camuffandolo.
Sistema precario: l’unico record è di lavoratori poveri
L’FMI è tornato su un altro classico del teppismo neoliberale. L’idea per cui l’aumento del l’età pensionabile (da noi tra le più alte per le «riforme» Dini-Fornero) serva a «stimolare l’offerta di lavoro». Gli effetti della tesi sono stati dimostrati dall’ultimo rapporto della Fondazione di Vittorio « Precarietà e salari bassi a 10 anni dal Jobs Act» (Il Manifesto, 1 maggio). I record dell’occupazione presentati da Meloni come un successo sono in parte attribuibili al fatto che gli over 50 e 60 dovranno restare al lavoro più a lungo. E ciò avverrà sempre di più, tra carriere intermittenti, precariato sistematico e vite dissestate.
FONTE: Il Manifesto – Roberto Ciccarelli, Filosofo e giornalista

 

04 – Lavinia Marchetti *: ALL’IMPROVVISO LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA Giornalistica SCOPRE IL GENOCIDIO……………PERCHÉ?

Israele sta perdendo la guerra. Non quella militare, quella morale. E chi aveva tenuto la bocca chiusa per diciannove mesi, chi aveva finto di non vedere, chi aveva giustificato l’ingiustificabile, adesso comincia a cambiare registro.
È il momento in cui i topi abbandonano la nave. E la nave è l’apparato retorico che per un anno e mezzo ha sostenuto, coperto, depotenziato il genocidio di Gaza. Ora che affonda, tutti cercano un salvagente.
Editoriali che fino a ieri tacevano si mettono il lutto al braccio. Il Financial Times parla di vergogna (maggio 2025). The Economist evoca l’uscita da una guerra che non ha più giustificazioni (maggio 2025). The Independent pubblica un editoriale che accusa Starmer di silenzio complice (11 maggio 2025). The Guardian si chiede senza remore: “Cos’è questo, se non un genocidio?” (12 maggio 2025).
Persino The Times, storicamente conservatore, si sbilancia. Sono comitati editoriali, non giornalisti individuali. Sono istituzioni della stampa che fino ad ora hanno gestito la cornice narrativa e che solo adesso cambiano posizione.
E questo cambio di paradigma avviene solo ora. Non nel 2023, non nei mesi iniziali del massacro, non quando i dati parlavano già di crimini di guerra. È un ritardo strategico. Una reazione tardiva alla paura: perdere lettori, perdere voti, perdere l’ultima occasione di non essere complici, come chi dopo il 1944 si affrettò a dichiararsi antifascista per salvarsi la coscienza e la reputazione.
È un riflesso da regime in caduta. Come i funzionari del partito fascista che nel 1944 si scoprivano all’improvviso antifascisti. Come i gerarchi che, vista la disfatta, si dicevano sempre stati in dissenso. Non è una conversione. È un modo per non marcire con la nave. È la parte più vigliacca della coscienza: quella che non agisce quando vede l’orrore, ma quando fiuta che l’orrore ha esaurito la sua legittimità.
Eppure i dati c’erano. Le immagini c’erano. I bambini carbonizzati. I convogli umanitari colpiti. Le denunce dell’ONU, delle ONG, dei giornalisti sul campo. Già nel 2023 Amnesty e Human Rights Watch parlavano di crimini di guerra. Già a novembre 2023 oltre 750 giornalisti firmavano una lettera in cui accusavano i media di normalizzare una pulizia etnica.
Il punto di non ritorno arriva tra dicembre e gennaio, con la Corte Internazionale di Giustizia che riconosce la plausibilità dell’accusa di genocidio. Poi i bombardamenti su Rafah, poi gli attacchi agli ospedali, poi le immagini che nemmeno la stampa embedded riesce più a filtrare. E allora, sì, qualcosa si incrina. Ma non per pietà. Per strategia. Per evitare di essere ricordati tra quelli che sapevano e tacevano.
Nel frattempo, a Gaza, i numeri crescono. Più di 50.000 morti a maggio 2025. La maggioranza donne e bambini. Fame, sete, ferite aperte. E tra questi anche oltre 85 giornalisti uccisi sotto fuoco israeliano. 124 giornalisti sono stati uccisi nel mondo nel corso del 2024, 85 di questi sono stati uccisi da fuoco israeliano durante il conflitto a Gaza e in Libano.
Il 70% dei giornalisti di guerra UCCISI NEL MONDO, SONO STATI UCCISI DA ISRAELE. Una guerra contro i testimoni. Una censura che uccide. E allora anche la stampa si rivolta. Anche chi aveva taciuto per paura ora parla per non essere linciato dalla storia.
Nel linguaggio delle redazioni il genocidio diventa plausibile. Poi probabile. Poi reale. Non perché ci sia stata una rivelazione. Ma perché la bilancia del consenso ha oscillato. Perché i lettori cambiano idea. Perché i manifestanti sono diventati troppi. Perché i sondaggi mostrano il crollo di fiducia. Perché il mercato editoriale non perdona chi rimane indietro.
Si chiama effetto resistenza, ma non è nei giornali. È nei corpi che hanno resistito prima. Nelle università occupate. Nei giornalisti che si sono licenziati. Nei giovani che hanno perso tutto per dire la verità quando non conveniva. Loro sono la resistenza vera. I giornali arrivano dopo. Arrivano quando si può. Quando è utile. Quando è già tardi.
*( Lavinia Marchetti – Giornalista A City News dal 2013. Scrive di spettacolo, costume e società su Today)

 

05 – EURODEPUTATA SVENTOLA LA BANDIERA DELLA PALESTINA AL GIRO D’ITALIA: I CARABINIERI LA IDENTIFICANO – EURODEPUTATA SVENTOLA LA BANDIERA DELLA PALESTINA AL GIRO D’ITALIA: I CARABINIERI LA IDENTIFICANO – L’EURODEPUTATA CRISTINA GUARDA È STATA IDENTIFICATA DAI CARABINIERI DOPO AVER SVENTOLATO LA BANDIERA DELLA PALESTINA DURANTE IL GIRO D’ITALIA. VENERDÌ SCORSO, L’EUROPARLAMENTARE DI EUROPA VERDE SI TROVAVA A LONIGO, IN PROVINCIA DI VICENZA E DAL TERRENO DI PROPRIETÀ DELLA SUA FAMIGLIA HA ESPOSTO LA BANDIERA PALESTINESE AL PASSAGGIO DEI CICLISTI, PRIMA DI ESSERE FERMATA DALLE FORZE DELL’ORDINE. (*)

“Subito il dopo il passaggio del Giro d’Italia nel mio paese, – ha raccontato – sono stata identificata dai carabinieri per aver esposto una bandiera della Palestina. Mi trovavo all’interno del campo agricolo di proprietà della mia famiglia, a Lonigo (Vicenza), e avevo appena riposto la bandiera dopo il passaggio dei ciclisti”, ha spiegato. “Tutto ciò è assurdo, Perché occupare così le forze dell’ordine? Mi chiedo perché identificare chi vuole solamente mostrare solidarietà nei confronti del popolo palestinese, vittima delle atrocità del governo Netanyahu”, ha denunciato Guarda. “Come parlamentare europea non posso tacere di fronte al massacro e mi sono sentita in dovere di essere presente, sulle strade del giro, con la bandiera di Palestina come tante e tanti in tutta la penisola”, ha aggiunto.

Nel video si vedono i carabinieri chiedere alla donna le sue generalità una volta appreso che la bandiera sventolata fosse quella Palestinese. Sempre nel filmato Guarda replica che il terreno su cui si trova appartiene alla sua famiglia e spiega di star liberamente esprimendo il suo pensiero. Alla richiesta del motivo dell’identificazione, gli agenti rispondono che si tratta di “un semplice controllo”. Ma l’europarlamentare non ci sta. “Il mio non è un episodio isolato: in questi giorni, è stato fatto di tutto per nascondere le manifestazioni a sostegno della Palestina sulle strade del Giro”, ha ricordato. “Con scarsi risultati, visto che la bandiera sono presenti in tutte le tappe. Un bellissimo segnale, anzitutto di umanità, che non può più essere ignorato dal governo. Ma ecco cos’ho imparato oggi: se volete scendere in piazza con una bandiera palestinese, non dimenticate di portare un documento d’identità”, ha concluso.
L’eurodeputata ha raccolto la solidarietà della delegazione italiana dei Verdi all’Euro camera. “Quanto accaduto alla collega è inaccettabile”, hanno commentato in una nota Benedetta Scuderi, Ignazio Marino e Leoluca Orlando della delegazione italiana dei Verdi al Parlamento europeo. “Il fatto che una rappresentante delle Istituzioni venga identificata per avere esposto una bandiera, per giunta all’interno di una sua proprietà, dà la dimostrazione di quanto sia pericolosa una prassi che sta prendendo sempre più piede in Italia. In questo modo viene messo in discussione, da parte dello Stato stesso, uno dei cardini della nostra Costituzione, ossia la libera manifestazione del pensiero”, hanno aggiunto “Lo ripetiamo, questa deriva autoritaria è inaccettabile. In generale e, come in questo caso, davanti al massacro che sta avvenendo a Gaza, la libertà di esprimere la propria opinione, insieme a gesti anche simbolici come quello della collega Guarda, non possono essere oggetto di repressione”, hanno concluso
*(NdR)

 

06 – Marina Catucci* NEW YORK «TARIFFE ILLEGALI». UNA CORTE GELA TRUMP, UN’ALTRA LO SALVA IL GIOCO DEL DAZIO LA PRIMA SENTENZA: NON SI PUÒ INVOCARE UNA FALSA «EMERGENZA ECONOMICA» PER ESAUTORARE IL CONGRESSO. MA LUI LA SPUNTA IN APPELLO

Dopo una botta e risposta serrato fra Donald Trump e i giudici, una corte d’appello federale ha autorizzato il Tycoon ad andare avanti con l’applicazione dei dazi doganali rivolti a decine di paesi, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa), una legge del 1977 che conferisce al presidente dei poteri di emergenza. Una vittoria per Trump, almeno per ora, mentre la sua amministrazione sta impugnando un’ordinanza che annulla la maggior parte delle sue politiche economiche.
LA CORTE D’APPELLO del Circuito Federale ha accolto una mozione d’urgenza dell’amministrazione Trump, sostenendo che la sospensione è «fondamentale per la sicurezza nazionale del Paese», dopo che due tribunali avevano deliberato per fermare l’applicazione dei dazi. Accogliendo la mozione d’urgenza dell’amministrazione Trump, la corte d’appello ha temporaneamente sospeso l’ordinanza emessa il giorno prima da una corte commerciale federale.
«La legge sui poteri di emergenza economica internazionale – aveva dichiarato il giudice della Corte distrettuale di Washington Rudolph Contreras – non autorizza il presidente a imporre i dazi previsti da quattro ordini esecutivi emessi all’inizio di quest’anno». La decisione di Contreras era arrivata meno di 24 ore dopo la sentenza espressa dalla Court of International Trader, la Corte del Commercio internazionale, un organo del sistema giudiziario federale con competenza specifica in materia di commercio, che per prima aveva deciso di bloccare i dazi imposti dal tycoon il 2 aprile scorso, nel cosiddetto «Giorno della liberazione».
Le borse respirano, Bruxelles resta nell’incertezza
CON LA DECISIONE si affermava che la Costituzione Usa conferisce il potere esclusivo di regolare il commercio con le altre nazioni al Congresso e che tale potere non è superato dal compito del presidente di salvaguardare l’economia. La sentenza era basata su due casi: quello intentato dal Liberty Justice Center che ha agito per conto di diverse piccole imprese che si occupano di importazioni e quello di una coalizione di governi statali. A deliberare era stato un collegio formato da tre giudici della Court of International Trade, nominati da presidenti diversi, tra i quali uno nominato proprio da Trump. Dopo la sentenza l’amministrazione Trump ha subito presentato ricorso alla Corte d’Appello per il Circuito Federale e il portavoce della Casa Bianca, Kush Desai, ha affermato polemicamente in un comunicato che le relazioni commerciali svantaggiose e sleali avevano già «decimato le comunità americane, lasciando indietro i nostri lavoratori e indebolendo la nostra base industriale di difesa, tutti fatti che la corte non ha contestato».
In realtà bastava analizzare chi fossero i ricorrenti di questo caso per entrare in una narrazione completamente diversa degli eventi. Nel primo caso si tratta di cinque piccoli imprenditori e di uno studio legale di stampo conservatore che si è fatto notare per le battaglie legali contro la chiusura delle scuole durante il lockdown e per quelle contro la sindacalizzazione di massa dei dipendenti pubblici.
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IL LIBERTY JUSTICE CENTER ha sede ad Austin, in Texas, si descrive come una società libertaria senza scopo di lucro che «cerca di proteggere la libertà economica, i diritti di proprietà privata, la libertà di parola e altri diritti fondamentali». Tra i suoi precedenti sostenitori figurano i miliardari Robert Mercer e Richard Uihlein, che sono stati anche dei finanziatori delle campagne presidenziali di Trump.
Mercer è un gestore di hedge fund e uno storico mecenate di Breitbart News e Cambridge Analytica, due entità di ultradestra, a cui ha versato milioni di dollari distribuiti fra entrambe le società.
Ha personalmente diretto Cambridge Analytica per far sì che, durante il referendum britannico del 2016 che ha portato all’uscita del Regno unito dall’Unione europea, si concentrasse sulla campagna «Leave» a favore del distacco dall’Europa.
TRA LE AZIENDE rappresentate dal Liberty Justice Center in questa causa contro i dazi non si trovavano nomi di multinazionali ma di piccole imprese, tra cui un’azienda vinicola e un rivenditore di attrezzature e abbigliamento per la pesca.
L’altro gruppo che aveva citato in giudizio l’amministrazione Trump, invece, è una coalizione di 12 procuratori generali di Stati democratici.
Negli Usa, in un periodo così polarizzato, è stato decisamente bizzarro vedere una causa portata avanti da una realtà fortemente conservatrice e un’altrettanta fortemente liberal, ma i dazi di Trump erano riusciti a mettere d’accordo tutti.
*(Corrispondente dagli Stati Uniti per Il Manifesto.)

 

07 – di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra*: NEOLIBERALISMO: CHE COSA C’È IN UN NOME? UNA ROTTURA DI FASE E UNA SECCA DISCONTINUITÀ: DA TEMPO LE ABBIAMO REGISTRATE.

La seconda Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza (e tutt’altro che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla crisi finanziaria del 2007/8 e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina.
Il capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta cambiando pelle. Un diffuso autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici (di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo); l’articolazione tra gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il ritorno al centro della scena degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e politico in molte parti del mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato “regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e degli investimenti verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use” contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello sviluppo di settori come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della profondità della rottura in cui siamo immersi.

Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari).

Se il “neoliberalismo”, almeno nelle fasi aurorali del suo progetto, poneva come principi ineliminabili per una “economia sana” la libera concorrenza e la libera formazione dei prezzi, ci sembra che le politiche dei dazi, il monopolio proprietario sui dati da parte delle grandi piattaforme, con la loro proiezione infrastrutturale nelle reti satellitari, e l’uso politico della moneta come strumento di contesa nella contraddittoria tracciatura di nuovi equilibri multipolari, indichino un passaggio irrecuperabile rispetto a esso. Torneremo più avanti su alcuni di questi punti.

Sia chiaro: i nomi che si usano per definire il nemico non sono certo tutto. Ciò nondimeno, rivestono la loro importanza. Questo vale anche per il concetto di neoliberalismo, che a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo si è rapidamente imposto come “etichetta” attraverso cui la “sinistra” e i movimenti sociali hanno indicato il proprio obiettivo polemico. Dapprima genericamente associato a termini come globalizzazione e “pensiero unico”, e ritenuto in buona sostanza sinonimo di “deregolamentazione”, il neoliberalismo si è progressivamente caricato di valenze politiche, sociali e culturali che lo hanno configurato come un sistema complesso e articolato di governo. Non è certo nostra intenzione mettere in discussione l’importanza e le acquisizioni dei dibattiti e degli studi attorno alle diverse tradizioni e realizzazioni del neoliberalismo.

Abbiamo tuttavia l’impressione che questo concetto non si sia mai del tutto liberato della sua origine, ovvero del fatto che il suo uso critico nasceva dall’esigenza di rendere conto della crisi e del superamento della fase precedente nella storia del capitalismo, quella che in Occidente è variamente descritta attraverso concetti come Fordismo e “compromesso keynesiano”. Di qui, una diffusa tendenza a formulare la critica del neoliberalismo nella prospettiva indicata da questi concetti, in molti casi assunti come sinonimi di un capitalismo “normale”. C’è qui del resto un tratto paradossale considerato che il neoliberalismo (tanto nelle sue origini austriache e tedesche negli anni Venti quanto nella sua genealogia statunitense) nasce come progetto per fronteggiare una crisi – e in fondo è esso stesso crisi. La sua capacità di normalizzazione, attraverso la crescita esponenziale del capitale finanziario, la complessiva riscrittura dei codici delle relazioni sociali e la riorganizzazione del mercato mondiale, ha in fondo finito per fare della crisi la nuova normalità. E questo comporta che siano le premesse del progetto neoliberale complessivo a essere, è questa la nostra ipotesi, irrimediabilmente compromesse.

Ci pare una questione attorno a cui vale la pena aprire la discussione oggi, quando il termine neoliberalismo – di cui è stato ampiamente sottolineato il carattere proteiforme e plastico – continua a essere usato a fronte di una congiuntura che pure appare drasticamente mutata. Certo, si sottolinea che il neoliberalismo assume tratti nuovi, si combina con il conservatorismo (cosa che in verità era apparsa evidente fin dalla formazione della “coalizione Reagan” sul finire degli anni Settanta negli USA) e con l’autoritarismo (il che difficilmente può stupire ad esempio in Cile). Nel dibattito politico e teorico, in ogni caso, resta prevalente l’inclinazione a usare il concetto di neoliberalismo per indicare la congiuntura in cui stiamo vivendo. Vorremmo sollevare qualche dubbio a questo riguardo, con l’intenzione di contribuire a una più precisa definizione del sistema complessivo di dominazione contro cui si indirizzano le nostre lotte. Quelle che proponiamo non sono altro che alcune annotazioni preliminari, attorno a cui rilanciare il dibattito e la ricerca.

C’è subito da dire che una delle ragioni per cui il riferimento al neoliberalismo continua spesso a essere dato per scontato è che indubbiamente alcune sue componenti non cessano di riprodursi. Si prenda ad esempio la teoria del “capitale umano”, la cui traduzione retorica più nota è l’ingiunzione a divenire “imprenditori di se stessi”. Questa teoria e questa retorica continuano a nutrire politiche economiche e sociali in molte parti del mondo, assecondando la diffusione all’interno dei rapporti sociali della forma impresa e dispiegando effetti profondi sotto il profilo di quella che abbiamo chiamato la produzione di soggettività. Ulteriori esempi – certo non gli unici – possono essere quelli delle politiche urbane e delle politiche dell’istruzione, durevolmente trasformate dalla razionalità neoliberale in molte parti del mondo. Il punto è, tuttavia, che queste politiche prendono forma e si sviluppano oggi in un contesto che è ormai del tutto diverso rispetto a quello che in termini generali (scontando cioè le differenze tra le diverse tradizioni di pensiero e di azione politica) è stato definito dal neoliberalismo. Certo, quest’ultimo non può essere ridotto alle sue dimensioni macroeconomiche: già abbiamo ricordato quanto sia stata importante la sua lettura in termini di sistema e razionalità di governo. Ciò detto, tuttavia, la cornice economica generale delle teorie e delle politiche neoliberali non può certo essere considerata irrilevante.

Da questo punto di vista, la congiuntura attuale presenta aspetti che conviene considerare con attenzione. Questo vale, in primo luogo, per il contesto internazionale: dovrebbe essere ovvio che dazi e guerre commerciali, cominciate prima del secondo mandato di Trump (ad esempio sui semi-conduttori) sono del tutto inconciliabili con il neoliberalismo. Quest’ultimo, fin dalle sue origini tra le due guerre mondiali, considerava i dazi e le barriere tariffarie come analoghi alle rivendicazioni salariali operaie per l’effetto di ostruzione delle dinamiche di mercato che determinavano. Certo, per garantire queste dinamiche e più in generale l’ordine della concorrenza, il neoliberalismo – contro la tendenza ancor oggi diffusa a ridurlo a un dispositivo di deregolamentazione – ha fatto ampio uso dello Stato: politiche fiscali, sfruttamento delle differenze tra le tutele sociali del lavoro e delle discrepanze tra le regolamentazioni in tema di protezione ambientale sono soltanto alcuni esempi in questo senso. La stessa egemonia del capitale finanziario ha richiesto continui interventi di regolazione, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. Questi interventi, tuttavia, sono sempre stati orientati a tutelare la sfera della circolazione, e sono del tutto diversi rispetto a un uso dei dazi che punta a ridefinire complessivamente (e in modo violento) le geografie della valorizzazione e dell’accumulazione di capitale agendo sulle fratture del mercato mondiale. È bene ripeterlo: questo uso, che si combina con retoriche e misure di sapore coloniale, non è certo compatibile con il neoliberalismo.

La dimensione del mercato mondiale è stata del resto di decisiva importanza per la formazione del neoliberalismo, che almeno in alcune sue componenti (quella riconducibile a Mises e Hayek, ad esempio) si è posto esplicitamente il problema di riorganizzarlo sotto il profilo capitalistico dopo la fine del colonialismo e degli Imperi. Le profonde fratture che oggi segnano il mercato mondiale, alla radice della congiuntura di guerra in cui viviamo, costituiscono contraddizioni essenziali per la prospettiva neoliberale, e hanno ricadute fondamentali – secondo la stessa dottrina neoliberale – all’interno di ogni singolo spazio economico e politico. A questo si deve aggiungere che, per i teorici neoliberali a cui ci riferiamo, un momento decisivo sotto il profilo dell’organizzazione del mercato a livello internazionale sono stati gli anni Settanta del Novecento, con l’emergere di quelli che questi teorici chiamavano “nazionalismi economici” nel Sud del mondo. Si trattava, ai loro occhi, di nuove “barriere” al dispiegamento del mercato, che andavano spezzate a ogni costo. Si capisce, in questo senso, che anche il ruolo e le pretese del “Sud globale” oggi rappresentino elementi difficilmente componibili in un quadro neoliberale (e poco conta che molti Paesi del “Sud globale” adottino politiche economiche e sociali in cui il riferimento al concetto di “capitale umano” è implicito quando non esplicito).

Questo è uno degli elementi fondamentali, ci sembra, dell’attuale fase di scomposizione e di riconfigurazione dei rapporti internazionali. Il mercato mondiale è sottoposto a contraddittorie tensioni geopolitiche e condizionato dal protagonismo di attori che sconvolgono le tradizionali gerarchie attraverso le quali esso si è affermato, consolidato ed espanso. E le fibrillazioni che lo attraversano ci sembrano senz’altro più rapide e accelerate di quanto non siano in grado di registrarle i dispositivi di mercatizzazione e di riforma neoliberale nei singoli punti di snodo della sua istituzionalizzazione: la sostanziale paralisi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio è in questo senso esemplare.

Vi è un altro punto che a nostro giudizio va considerato. Oggi siamo in presenza di formidabili processi di concentrazione del capitale, evidenti ad esempio per quel che riguarda le grandi piattaforme infrastrutturali (ma non certo limitati a essi). Concentrazione di capitale, di ricchezza e dunque di potere, con tendenze strutturali alla formazione di oligopoli e di monopoli: è un altro punto di contraddizione con l’orizzonte complessivo del neoliberalismo, che si è anzi sforzato (in particolare con l’ordoliberalismo tedesco) di espellere anche in termini teorici il monopolio dal processo economico. La concorrenza celebrata dalla teoria del capitale umano richiede un’organizzazione del mercato che ne esalti la capacità di rendere dinamici e aperti i rapporti sociali. Ci sembra che ci sia qui una delle radici della torsione autoritaria che caratterizza il nostro presente, e questa radice – nuovamente – non è compatibile con il neoliberalismo.

È certo vero che la teoria del “capitale umano”, sin dal suo inizio, incorpora, occultandoli, elementi gerarchici e di potere. La libera concorrenza non è mai stata liscia, come invece rappresentata nella sua teoria. La razza e il genere hanno permesso di far funzionare il mercato del lavoro come dispositivo di selezione e di sfruttamento e hanno permesso di alimentare i suoi processi di differenziazione interna. Ma l’emersione di autentici blocchi di potere nella composizione del capitale complessivo ci sembra evidenziare ancora di più una linea di tendenza – l’articolarsi l’uno sull’altro di comando politico e operazioni del grande capitale – destinata a segnare un mutamento irrecuperabile agli assets della governance neoliberale. Blocchi di potere multipolari e, al loro interno, ma soprattutto al di fuori di essi, autentici centri di potere oligarchico nei quali si indetermina la differenza tra “politico” ed “economico”, caratterizzano l’attuale fase internazionale. Ci sembra che anche questo costituisca un elemento in tensione con la formula del paradigma neoliberale di governo.

C’è poi da dire qualcosa a proposito della moneta e del ruolo delle Banche centrali. Il neoliberalismo è stato strettamente associato al monetarismo, e dal punto di vista storico un momento di fondamentale importanza per l’affermazione dell’egemonia neoliberale è stato il cosiddetto Volcker shock (1979), con la politica monetaria restrittiva e l’innalzamento del tasso d’interesse da parte della Federal Reserve, che ha tra l’altro piegato le resistenze dei “nazionalismi economici” nel Sud del mondo. Anche da questo punto di vista, ci sembra che l’attuale congiuntura sia caratterizzata da una serie di sviluppi difficilmente riconducibili a un quadro neoliberale. Questo vale non soltanto per l’azione di molte Banche centrali durante la pandemia (e in fondo anche per l’Inflation Reduction Act di Biden). Vale soprattutto, ancora una volta, sotto il profilo del mercato mondiale, dove la posizione del dollaro come moneta “sovrana” è al tempo stesso sempre più cruciale per gli USA (per la sostenibilità del debito in primo luogo) e sempre più messa in discussione da incipienti tendenze al multipolarismo monetario. Ne derivano formidabili tensioni, che non possono non ricadere sulle singole monete e sul loro governo, aprendo scenari inediti.

Si tratta, riteniamo, di un punto particolarmente importante. Una parte significativa del riassetto dei poteri nel quadro del multipolarismo centrifugo e conflittuale, si gioca proprio sul controllo della moneta e, attraverso la moneta, sul controllo del debito (con gli Stati Uniti che si trovano oggi in una posizione opposta a quella degli anni del Volcker shock). Ciò che con questo entra in crisi è il progetto neoliberale di globalizzazione finanziaria basata sul dollaro per come esso è stato posto in cantiere e realizzato a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Anche in questo caso, tuttavia, più che una lineare transizione – non vi è moneta in grado di assolvere immediatamente il ruolo svolto dal dollaro negli ultimi cinquant’anni e di sostituirlo – ciò che è alle viste è una frammentazione degli spazi monetari (in concorrenza in alcuni casi e in altri complementari tra di loro, come ulteriore elemento di ridefinizione degli spazi economici e politici globali), associata a processi di digitalizzazione privata e pubblica della moneta. Negli anni Ottanta, anche interpretando questo punto cruciale delle politiche monetarie e riferendosi al dollaro come base degli scambi internazionali, Margareth Thatcher aveva pronunciato il suo there is no alternative. E alternative tutt’ora sembrano non esserci, se per alternativa si intende la lineare sostituzione del dollaro da parte di una potenza capace di imporre la propria egemonia monetaria sullo scenario globale. Frammentazione politica e frammentazione monetaria inaugurano una fase segnata da tensioni, contraddizioni e contorti sviluppi difficilmente allocabili nel paradigma neoliberale inteso come “nuova ragione del mondo”.

Abbiamo indicato alcuni punti su cui la congiuntura attuale sembra ormai molto distante da quella definita dal neoliberalismo. Dazi e guerra; concentrazione di capitale e moneta: non sono questioni secondarie. Tuttavia, come annunciato, ci siamo limitati a proporre alcune considerazioni preliminari, che dovranno essere approfondite. Si dovrà guardare ad esempio al tema dello Stato, dove in particolare negli USA la critica dello “Stato amministrativo” da parte di Trump e Musk mostra certo elementi di continuità con il progetto di Reagan (efficacemente riassunto nello slogan “affamare la bestia”) ma anche significative discontinuità: a essere assunte come modello per la riorganizzazione dello Stato, oggi, non sono tradizionali imprese industriali ma le grandi piattaforme infrastrutturali, il che pone tra l’altro il problema dell’intreccio con le tendenze monopolistiche che abbiamo brevemente discusso.

Per dirla in maniera brutale: ci sembra che un generale processo di scissione tra costituzione materiale e costituzione formale stia radicalizzandosi e investendo frontalmente lo Stato. Anche questo passaggio, che fa dello Stato uno Stato-crisi, nel generale processo di normalizzazione della crisi, e che di esso ridefinisce il ruolo nel quadro delle trasformazioni che abbiamo sommariamente indicato, ci sembra davvero significativo. Il divenire-piattaforma dello Stato implica l’uso differenziale delle sue strutture e dei suoi apparati, in termini di allocazione di risorse, di implementazione giuridica, di logoramento delle tutele, ai fini immediati dell’accumulazione, facendo una volta di più saltare i perimetri che tradizionalmente separano politica ed economia, Stato e mercato. Torneremo a parlarne, certo in proficuo dialogo con le analisi di chi continua a utilizzare il concetto di neoliberalismo. Non si tratta davvero, per noi, di condurre battaglie nominalistiche!
C’è tuttavia una questione generale su cui vorremmo concludere. Il neoliberalismo, in alcune sue correnti più che in altre naturalmente, è stato nel suo complesso caratterizzato da una natura promissoria: le sue retoriche, in altri termini, hanno sempre parlato di un futuro migliore, oltre le rigidità di fabbrica e burocrazia, nella prospettiva di uno scatenamento di una libertà certo codificata in termini di mercato ma non per questo fittizia. Lo metteva in evidenza Michel Foucault proprio riferendosi al concetto di “capitale umano”, che “nella prospettiva del lavoratore” suggeriva che “il lavoro non è una merce ridotta per astrazione alla forza lavoro e al tempo impiegato per utilizzarla”. Abbiamo combattuto questo tratto “promissorio” del neoliberalismo sul suo terreno, puntando a demistificarlo e a fare materialmente spazio per altre pratiche di libertà – coniugandola con l’uguaglianza. Bene, ci pare necessario riconoscere che questo orizzonte promissorio appare oggi del tutto esaurito. In Occidente, in particolare, le retoriche dominanti delle destre non sembrano più in grado di delineare un futuro che non sia quello della restaurazione di fantasie nazionaliste, razziste e sessiste – mentre ristrette élite proiettano nello spazio (su Marte, per essere chiari) il loro desiderio di secessione da un mondo reso sempre più inabitabile da guerre, povertà e crisi climatica. Indipendentemente dal nome con cui decideremo di chiamare tutto questo, il nostro compito non può che essere immaginare e costruire un futuro in cui valga la pena vivere – per i molti e per le molte.
*(Fonte: Sinistrainrete – Sandro Chignola insegna Filosofia politica presso l’Università degli studi di Padova – Sandro Mezzadra insegna Filosofia politica all’Università degli Studi di Bologna ed è adjunct research fellow presso l’Institute for Culture and Society della Western Sydney University.)

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