n°19 – 17/05/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

01 – Andrea Colombo*: Meloni a Tirana cerca il rilancio e finisce a litigare con Macron – Crisi Ucraina La premier: «Assente dai Volenterosi perché contraria alle truppe in Ucraina». Il presidente francese: «Falsità, bastano quelle russe» – MA QUANDO, ALLA FINE del vertice, Macron, Merz, Starmer, il polacco Tusk e Zelensky si vedono per fare sul serio e contattano al telefono anche Trump l’ITALIANA non c’è.
02 – Luca Kocci*: «Pace, disarmo, giustizia». Leone parla ai diplomatici – Vaticano «Ridare respiro alle istituzioni internazionali nate per porre rimedio alle contese»
03 – Roberto Ciccarelli*: Michael Hardt, oltre il regime di guerra globale – Intervista Parla il filosofo politico statunitense che domani sarà a Parigi per il convegno «Negri oltre Negri». «I principali movimenti di oggi, da Black Lives Matter ai Gilets Jaunes a Non Una di Meno, cercano di sviluppare forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione
04 – Angela Galloro*: Gli aiuti bloccati e il ruolo della Corte suprema: via libera a Tel Aviv
Palestina Intervista all’associazione israeliana Gisha: «Ignorando il collasso del sistema sanitario a Gaza, usando la fame come strumento di guerra, la Corte ha presentato un manifesto politico più che una sentenza».
05 – A. Grandi*: Coordinamento per la democrazia costituzionale – La decisione del governo Netanyahu di richiamare i riservisti per invadere il 70% di Gaza è una svolta negativa ulteriore in una situazione già insostenibile.
06 – Benjamin Netanyahu vuole nascondere la crisi interna dell’esercito israeliano. Mentre i suoi soldati continuano a bombardare la Striscia di Gaza e a intensificare l’occupazione in Cisgiordania, infatti. (*)

 

 

01 – Andrea Colombo*: Meloni a Tirana cerca il rilancio e finisce a litigare con Macron – Crisi Ucraina La premier: «Assente dai Volenterosi perché contraria alle truppe in Ucraina». Il presidente francese: «Falsità, bastano quelle russe» MA QUANDO, ALLA FINE del vertice, Macron, Merz, Starmer, il polacco Tusk e Zelensky si vedono per fare sul serio e contattano al telefono anche Trump. L’ITALIANA non c’è.

La premier accerchiata e spinta ai margini prova a uscire dal vicolo cieco. Chiede e alla fine ottiene, con oltre 24 ore di ritardo, che il governo tedesco smentisca l’indiscrezione sparata da Die Welt, quella secondo cui l’Italia sarebbe stata depennata dal novero dei paesi di primaria importanza strategica per Berlino su pressione della Spd. Meglio tardi che mai. A Tirana, dove si riunisce la Comunità politica europea, strappa persino una specie di “foto riparatrice” in cui con Zelensky, Starmer, von der Leyen e Tusk c’è lei e non ci sono Macron e Merz. Si gode il trattamento da regina che le riserva il presidente corteggiatore albanese Edi Rama, tipo teatrale che non esita a inginocchiarsi salutandola come «la protettrice dell’Albania».

MA QUANDO, ALLA FINE del vertice, Macron, Merz, Starmer, il polacco Tusk e Zelensky si vedono per fare sul serio e contattano al telefono anche Trump l’italiana non c’è. A casa l’opposizione si scatena: ecco cosa significa essere superflui, non contare assolutamente niente. Lei replica subito e a brutto muso: «L’Italia ha dichiarato di non essere disponibile a mandare truppe in Ucraina. Non avrebbe senso partecipare a format che hanno obiettivi sui quali non siamo disponibili». I riuniti erano i Volenterosi, quelli pronti anzi decisi a inviare truppe per difendere la pace, quando ci si arriverà. L’Italia non intende farlo. Quindi per «chiarezza e coerenza» non era il caso di sedersi a quel tavolo.

MELONI ANZI RILANCIA: «L’opposizione ci chiede di partecipare a questi formati perché dovremmo mandare le truppe o per fare una foto e poi dire di no?». Macron però la rintuzza e la smentisce ruvido: «Non abbiamo parlato di truppe ma di un cessate il fuoco. Di false informazioni bastano quelle russe». I rapporti tra i due leader sono quello che sono, da schiaffoni reciproci, ma è un fatto che dal consesso fosse assente anche Ursula von der Leyen che, come presidente della Commissione, non poteva partecipare a un format limitato ai Volenterosi. Soprattutto resta il fatto che ad avere voce in capitolo sull’Ucraina sono oggi proprio i Volenterosi. Stare fuori da quel gruppo significa finire relegati nell’angolo.
Nell’infilarsi nel vicolo cieco dal quale ora non sa come uscire Meloni ci ha messo del suo, dilapidando in due mesi di sbandata trumpiana il capitale di credibilità europeista che aveva accumulato in oltre due anni proprio grazie alla posizione fermissima sull’Ucraina. Ora prova a recuperare ingranando una piena retromarcia. Il suo discorso di ieri a Tirana è un peana europeista che avrebbe fatto rabbrividire la Meloni di quattro anni fa: «Intorno a questo tavolo c’è chi non ha aderito alla Ue e chi aspira a entrarci. Ma non sono meno europei dei 27 della Ue. L’Europa è la casa comune ed essere qui oggi è un passo nel processo storico di riunificazione dell’Europa». L’Ucraina è tornata a essere quella che era prima dell’ubriacatura trumpiana, il baluardo d’Europa: «La nostra libertà e la nostra sicurezza dipendono dal ristabilimento della forza del diritto sulla legge dei più forti. Ogni giorno l’eroismo e la tenacia del popolo ucraino ci ricordano cos’è l’Europa, il senso più profondo della nostra identità comune: la libertà».
Non basta a dissipare i sospetti addensatisi in poche settimane. Pesa anche l’incontro di mercoledì scorso con il candidato rumeno antieuropeista Simion, nonostante la premier lo abbia visto nella sede del partito e non a palazzo Chigi in quanto aderente al suo stesso eurogruppo, quello dei Conservatori. Incide il clamoroso errore della settimana scorsa, quella scelta di non partecipare di persona al vertice di Kiev che è suonato come una eloquente presa di distanza italiana. Proprio per questo palazzo Chigi si sta adoperando per un nuovo vertice con gli stessi partecipanti, al quale si può star certi che stavolta la premier si presenterà in carne e ossa.
IL TENTATIVO DI ROMPERE l’assedio, comunque, proseguirà con maggior lena oggi stesso e poi domani. Nel pomeriggio a Roma Meloni vedrà Merz. Sarà un incontro lungo e dettagliato. Chiederà un impegno formale a coinvolgere l’Italia ogni volta che un vertice rivesta importanza internazionale reale. Domani, poi, tutti i leader saranno a Roma per l’intronizzazione di Leone XIV e la diplomazia di Chigi cercherà di tessere una tela diplomatica eclatante. Con il miraggio di un incontro a tre: il papa, la premier, il presidente ucraino. Quello sì che sarebbe il colpo grosso: peccato che sia quasi impossibile. Però non si sa mai.
*(Fonte: Il Manifesto – Andrea Colombo, è un giornalista, scrittore e commentatore politico italiano.)

 

02 – Luca Kocci*: «PACE, DISARMO, GIUSTIZIA». LEONE PARLA AI DIPLOMATICI – VATICANO «RIDARE RESPIRO ALLE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI NATE PER PORRE RIMEDIO ALLE CONTESE»

RILANCIARE IL MULTILATERALISMO E LE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI, FERMARE LA PRODUZIONE DI ARMAMENTI: SONO I DUE PILASTRI PER LA COSTRUZIONE DELLA PACE INDICATI IERI MATTINA DA PAPA LEONE XIV NELL’UDIENZA AGLI AMBASCIATORI ACCREDITATI PRESSO LA SANTA SEDE.
Un incontro molto atteso, in cui il nuovo pontefice ha parlato per la prima volta direttamente ai rappresentanti dei 184 Stati che intrattengono relazioni diplomatiche con il Vaticano presentando le linee della politica estera di Oltretevere.
Prevost ha sviluppato il proprio discorso attorno a tre parole – pace, giustizia, verità – che «costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa sede».
LA PRIMA, appunto, è «pace», che per il papa non è solo «assenza di guerra e di conflitto» ma – come del resto ha sottolineato più volte in questo inizio pontificato – ha una dimensione spirituale comune a tutte le fedi religiose. È proprio a partire da questo humus che è possibile «sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista», attraverso «una sincera volontà di dialogo, animata dal desiderio di incontrarsi più che di scontrarsi». In questa prospettiva – ecco il passaggio più politico dell’intervento di Leone – è necessario «ridare respiro alla diplomazia multilaterale e a quelle istituzioni internazionali che sono state volute e pensate anzitutto per porre rimedio alle contese che potessero insorgere in seno alla Comunità internazionale. Certo, occorre anche la volontà di smettere di produrre strumenti di distruzione e di morte, poiché, come ricordava papa Francesco nel suo ultimo messaggio Urbi et Orbi – quello letto a Pasqua, il giorno prima di morire – nessuna pace è possibile senza un vero disarmo e l’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo». Con particolare riferimento ai «contesti più provati, come l’Ucraina e la Terrasanta».
MESSAGGIO CHIARO. Chissà se avrà oltrepassato il Tevere e sarà arrivato anche alle orecchie dei partecipanti al “Gruppo dei 5”, il mini vertice dei ministri della Difesa di Italia, Francia, Germania, Regno unito e Polonia che contemporaneamente e a pochi chilometri dal Vaticano, al Palazzo dell’aeronautica militare, discutevano di come ampliare e rafforzare gli arsenali europei. Oppure ai capi di Stato e di governo dei «volenterosi» riuniti a Tirana.
«GIUSTIZIA» è la seconda parola evidenziata da Prevost. «La Santa sede – ha detto – non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società». Non è mancato da parte del pontefice un appello ai governi a «costruire società civili armoniche e pacificate», investendo «sulla famiglia, fondata sull’unione stabile tra uomo e donna» – piuttosto ovvio visto che a parlare è il papa, anche Bergoglio era solito farlo – e favorendo «contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato».
INFINE «VERITÀ», la terza parola, con l’anticipazione che «quando sarà necessario», la Chiesa parlerà chiaro e utilizzerà «un linguaggio schietto», anche a costo di «qualche iniziale incomprensione», per «affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra».
Intanto viaggia a pieno ritmo la macchina organizzativa per la messa di inizio pontificato domani a San Pietro, per cui sono attese duecentomila persone in piazza e duecento delegazioni estere. E dopo il fallimento dei colloqui di Istanbul fra Russia e Ucraina, il cardinale segretario di Stato Parolin rilancia l’offerta del papa a «mettere a disposizione il Vaticano per un incontro diretto tra le parti».
*(Fonte: Il Manifesto – Luca Kocci, insegnante di italiano e storia nelle scuole superiori. Collabora con il quotidiano il manifesto e con l’agenzia settimanale Adista …)

 

03 – Roberto Ciccarelli*: MICHAEL HARDT, OLTRE IL REGIME DI GUERRA GLOBALE – INTERVISTA PARLA IL FILOSOFO POLITICO STATUNITENSE CHE DOMANI SARÀ A PARIGI PER IL CONVEGNO «NEGRI OLTRE NEGRI». «I PRINCIPALI MOVIMENTI DI OGGI, DA BLACK LIVES MATTER AI GILETS JAUNES A NON UNA DI MENO, CERCANO DI SVILUPPARE FORME ORGANIZZATIVE PER ARTICOLARE UN’AMPIA VARIETÀ DI PROGETTI DI LIBERAZIONE»

Il filosofo statunitense Michael Hardt è a Parigi dove domani inizia il convegno internazionale Negri oltre Negri. L’incontro sull’eredità e le prospettive del lavoro di Antonio Negri avviene mentre DeriveApprodi ha pubblicato la traduzione italiana del libro che Hardt ha dedicato agli anni Settanta sovversivi (DeriveApprodi, qui la recensione di Sandro Mezzadra pubblicata su Alias domenica), un decennio centrale sia per la riflessione di Negri, che per la nostra attualità.
MICHAEL HARDT, COSA HA SIGNIFICATO PER LEI L’INCONTRO CON TONI NEGRI CON IL QUALE HA SCRITTO ALMENO CINQUE LIBRI?
È una domanda difficile. Per oltre trent’anni, ho sempre lavorato con lui su un libro. Abbiamo dovuto parlare spesso al telefono e vederci regolarmente di persona perché c’era un libro da scrivere. A volte ho pensato che avremmo dovuto immaginare la cosa al contrario: scrivere sempre un libro era una condizione della nostra amicizia. Era una scusa, o un veicolo, per continuare a parlare e incontrarsi, per mantenere la vicinanza. Il mio sugli anni Settanta è stato il primo libro che ho scritto da solo, dall’inizio dei Novanta. Ho scoperto che ci si sente soli. O, per dirla in un altro modo, mi sono ricordato di quanto sia bello scrivere insieme a qualcun altro.

IL VOSTRO LAVORO HA PERMESSO DI PENSARE L’«IMPERO». C’È MOLTA CONFUSIONE SU QUESTO CONCETTO OGGI. COSA AVETE INTESO DIRE?
È un modo per parlare dei processi di globalizzazione e riconoscere che l’ordine globale non può più essere dettato e sostenuto da un’unica potenza egemone, né gli Stati uniti né altri Stati nazionali. Abbiamo invece proposto di analizzarlo nei termini di una «costituzione mista» che prevede più livelli coordinati tra loro. A un livello monarchico della costituzione potrebbero essere situati l’arsenale nucleare statunitense e il potere del dollaro; al livello aristocratico, ci sono gli Stati nazionali dominanti, le più potenti società capitalistiche e le istituzioni sovranazionali; al livello più basso, un’ampia varietà di altri poteri, tra cui gli Stati nazionali subordinati, i media e così via. Il punto era per noi creare uno schema per comprendere un ordine globale composto dalla dinamica tra molteplici poteri diseguali.
OGGI SONO TORNATE A GALLA DIVERSE CARATTERISTICHE DELL’IMPERIALISMO. QUAL È IL LORO RAPPORTO CON L’«IMPERO»?
Una delle basi della nostra riflessione è che l’egemonia globale degli Stati Uniti sia in declino. Un’ipotesi che abbiamo condiviso con Giovanni Arrighi. Per molti aspetti, le azioni dell’attuale governo Trump confermano questa ipotesi. Il progetto imperialista statunitense nella seconda metà del XX secolo ha messo in campo varie forme di forza e violenza: guerre, colpi di Stato e simili. Ma è stato in grado di mantenere l’egemonia solo generando un certo livello di consenso internazionale, principalmente attraverso forme di cosiddetto soft power, che vanno dai progetti culturali allo sviluppo economico. Senza di esse gli Stati uniti non potrebbero mantenere l’egemonia.
E COSA SI PUÒ AGGIUNGERE RIGUARDO AL PRESENTE?
Il governo Trump è giunto alla conclusione che questi strumenti di egemonia non sono più efficaci. Mantenerli non vale lo sforzo e le spese, e li sta eliminando tutti molto rapidamente. Non ha più i mezzi per generare consenso su scala internazionale e ricorre a violenze, minacce e ricatti. Non c’è bisogno di Machiavelli e Gramsci per capire che la coercizione, senza consenso, sia una forma di governo molto instabile. È un’altra faccia del regime di guerra globale.
PUÒ SPIEGARCI UN «REGIME DI GUERRA GLOBALE»?
Negli anni Novanta, quando ho scritto Impero con Toni, ci sembrava che da questo processo sarebbe emerso un nuovo ordine. Invece, finora non è emerso alcun ordine stabile, anzi. Oggi, con Sandro Mezzadra, sto cercando di cogliere alcuni aspetti di questa realtà con il concetto di regime di guerra globale. Non solo stiamo assistendo a una proliferazione di guerre apparentemente senza fine, ma anche al fatto che vari settori della società si stanno militarizzando e sono trasformati da logiche militari, attraverso guerre commerciali, guerre culturali e altro ancora.
IL RITORNO AL POTERE DI TRUMP È UN NUOVO FASCISMO?
Il suo secondo mandato sta rapidamente distruggendo le basi primarie della democrazia liberale ed è già una forma di governo terribile e autoritaria. C’è anche il rischio che diventi molto peggiore. Tuttavia, continuo a trovare difficile la questione del fascismo. Per me, una caratteristica centrale del dominio fascista è che non può essere sfidato e trasformato con mezzi politici. Nel fascismo non c’è mediazione con le forze politiche di opposizione, ma solo repressione e violenza. Oggi i mezzi politici di opposizione sono ancora possibili, ma non escludo l’eventualità che si crei una situazione in cui non lo siano, e a quel punto dovremo adattare e cambiare radicalmente la nostra strategia.
L’ANALISI DEGLI ANNI SETTANTA È PARTE DELLA RICERCA DI QUESTA STRATEGIA?
Sì. Sono stati l’inizio della nostra epoca: i loro problemi politici restano i nostri. Riconoscere chiaramente questi problemi, e scoprire come sono stati affrontati dai militanti di allora, può aiutarci a trovare soluzioni oggi.
QUALI SONO I PROBLEMI?
C’è un’opinione comune negli Stati uniti che assume forme simili in altri paesi secondo la quale la frammentazione abbia minato il movimento rivoluzionario negli anni Settanta. C’erano le rivendicazioni dei lavoratori autonomi contro la leadership sindacale tradizionale; le femministe contro le strutture patriarcali; i «razzia lizzati», gli attivisti della liberazione gay e altri. Dobbiamo considerare questo processo non come una tragedia, ma come un’opportunità per progredire e per riunire molteplici processi di liberazione. Articolare queste lotte multiple è diventato un obiettivo centrale dell’agenda e molte esperienze di attivismo, soprattutto tra i gruppi femministi, hanno fatto grandi progressi in questa direzione.
QUEI MOVIMENTI HANNO TROVATO UNA SOLUZIONE?
Hanno individuato i problemi politici reali che sono ancora i nostri. Marx diceva che, una volta che riusciamo a formulare chiaramente i problemi politici reali, siamo già a metà strada per risolverli. Tutti i principali movimenti di oggi, da Black Lives Matter ai Gilets Jaunes a Non Una di Meno, cercano di sviluppare forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione.
IN ITALIA È INFLUENTE L’ASSOCIAZIONE TRA GLI ANNI SETTANTA E GLI «ANNI DI PIOMBO». QUALI SONO STATI GLI EFFETTI?
Questo è stato un ostacolo quando ho iniziato a scrivere il libro. La memoria collettiva è bloccata solo sugli atti spettacolari di violenza politica e le stragi dello Stato e dei gruppi fascisti. Lo stesso accade in molti altri paesi: Giappone, Germania, Stati Uniti e Argentina. Anche lì la straordinaria sperimentazione politica dei movimenti di massa è stata cancellata da un’attenzione apparentemente irresistibile per i drammatici atti di violenza politica. Ciò ha oscurato le straordinarie innovazioni politiche dei movimenti di massa di quel periodo.
CHE TIPO DI LAVORO HA FATTO?
Invece che dai gruppi armati clandestini, sono partito dalle nuove forme di lotta di classe, i movimenti femministi o i movimenti di liberazione gay. La cosa più importante per me è scoprire la continuità tra questi movimenti in diversi paesi. Esiste una continuità tra le pratiche organizzative e le aspirazioni politiche condivise in differenti contesti nazionali. Una volta compreso questo, sono tornato ad analizzare i gruppi clandestini che non hanno risolto il problema posto dai movimenti.
La sinistra è divisa tra un’opzione neoliberista e una nazionalista. Ci sono soluzioni alternative?
Creare un nuovo internazionalismo, un internazionalismo dal basso, che emerga dai movimenti. Il progetto è ampio e difficile. Ma potrebbe essere l’unica strada per sconfiggere i militarismi e le altre opzioni in campo. Sta a noi inventare un modo per porre fine al nuovo regime di guerra globale. Non possiamo aspettare che crolli da solo. È probabile che alla fine fallisca, proprio come sono fallite le occupazioni statunitensi dell’Afghanistan e dell’Iraq, che però hanno creato enormi distruzioni e sofferenze.
*(Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto. Ha pubblicato, tra l’altro, Il Quinto Stato (con Giuseppe Allegri)

 

04 – Angela Galloro*: GLI AIUTI BLOCCATI E IL RUOLO DELLA CORTE SUPREMA: VIA LIBERA A TEL AVIV – PALESTINA INTERVISTA ALL’ASSOCIAZIONE ISRAELIANA GISHA: «IGNORANDO IL COLLASSO DEL SISTEMA SANITARIO A GAZA, USANDO LA FAME COME STRUMENTO DI GUERRA, LA CORTE HA PRESENTATO UN MANIFESTO POLITICO PIÙ CHE UNA SENTENZA»
Aprire i valichi e garantire l’accesso dei rifornimenti a Gaza contro una politica criminale è quello che l’associazione israeliana per i diritti umani Gisha, insieme ad altre ong, chiede in una lettera aperta al primo ministro, al ministro della difesa e al Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories), l’istituzione che si occupa di coordinare l’ingresso di persone e merci a Gaza dal 1967. La lettera è solo l’ultimo tentativo di una serie di petizioni e richieste di trasparenza inviate al governo israeliano dal 7 ottobre.

Dal 2007 uscire dalla Striscia di Gaza per motivi di studio, lavoro, salute è quasi impossibile. I permessi sono rilasciati dal governo israeliano in modo del tutto arbitrario. Se Gaza è, da molto prima di questa guerra, la più grande prigione del mondo, gli avvocati e attivisti di Gisha sono stati l’ora d’aria.
«GISHA LAVORA dal 2005 per proteggere i diritti dei palestinesi a Gaza, con particolare attenzione alla libertà di movimento» raccontano dall’associazione. «Ma dopo gli eventi del 7 ottobre e l’assedio che ne è seguito, Gisha si è adattata per far fronte alla portata della crisi occupandosi di evacuazioni mediche e non, dell’assistenza alle famiglie nella ricerca di persone detenute o disperse che si ritiene siano sotto la custodia israeliana, dell’opposizione alle condizioni di detenzione disumane e della pubblicazione di analisi tempestive sul collasso umanitario nella Striscia».
La questione delle evacuazioni è particolarmente urgente: secondo l’associazione Physicians for Human Rights Israel (Phri), da ottobre 2023 sono state presentate 15.600 richieste di evacuazione medica, ma solo il 34% è stato approvato mentre, per quel che riguarda i bambini, le approvazioni riguardano solo il 51,7% per le età 0-5 anni e il 37% per le età 6-18 anni. Tra i pazienti oncologici, il 50% delle richieste di evacuazione è stato respinto.

Il 18 marzo dello scorso anno, Gisha insieme a Phri e ad altre tre associazioni aveva presentato una petizione alla Corte suprema israeliana per obbligare il governo a dare spiegazioni sul perché non consenta la fornitura «gratuita, rapida e senza ostacoli» di aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, in particolare a Nord, e perché non adempia ai propri obblighi di fornire aiuti umanitari essenziali in quanto potenza occupante.
Su Israele ricade un doppio obbligo, secondo i ricorrenti: quello di consentire il passaggio di tutti gli aiuti umanitari secondo il diritto sui conflitti armati e quello di fornirli direttamente in quanto stato occupante secondo lo stesso diritto costituzionale e amministrativo israeliano oltre che secondo la Convenzione di Ginevra. «Non potevamo ignorare il grido di aiuto delle ong e della popolazione. Le segnalazioni di famiglie costrette a mangiare mangime per animali e a bere acqua contaminata ci hanno portato a questo».
Nonostante il carattere urgente, la petizione è stata rigettata dalla Corte il 27 marzo scorso, pochi giorni dopo la chiusura di tutti i valichi di ingresso a Gaza e la fine del cessate il fuoco temporaneo, con cavilli giuridici e un’evidente alterazione della realtà.
Lo Stato di Israele, da parte sua, ha affermato che le gravi sofferenze subìte dalla popolazione di Gaza erano da attribuirsi al comportamento di Hamas, che «impediva la distribuzione degli aiuti, sequestrava beni, si nascondeva tra i civili e utilizzava la popolazione come scudo umano», si legge nella sentenza. Senza mai portare prove a supporto di queste affermazioni.
«IL PRESIDENTE della Corte suprema Yitzhak Amit ha ritenuto che Israele sia vincolato solo dal diritto dei conflitti armati, e non dal diritto dell’occupazione, in base al fatto che non ha “controllo effettivo” su Gaza. Pertanto deve consentire e facilitare il passaggio degli aiuti, ma non è tenuto a fornirli: una visione critica e, a nostro avviso, distorta delle sue responsabilità giuridiche», affermano gli avvocati di Gisha. Nelle parole del giudice, vi sono tre criteri per determinare se un’area sia considerata occupata ai sensi della legge israeliana sui conflitti armati: presenza fisica dell’esercito, capacità di esercitare l’autorità governativa e vuoto di potere del governo precedentemente in carica.
Secondo la Corte, Israele non occuperebbe l’intero territorio di Gaza mentre la capacità di esercitare azione governativa non è completamente soddisfatta, a detta dello Stato, dalle “brevi” incursioni dell’esercito volte a «garantire la pubblica sicurezza». Inoltre, la Corte ritiene intatta l’autorità di Hamas nella Striscia. Rispetto al diritto internazionale e senza alcuna prova presentata, i giudici hanno stabilito che Israele fa «enormi sforzi» per consentire il passaggio degli aiuti.
«La Corte ha ampiamente adottato la versione dello Stato, respingendo senza spiegazioni le numerose prove del controllo di Israele sullo spazio aereo, sui confini e sulle infrastrutture essenziali di Gaza, nonché la sua autorità di fatto sull’accesso umanitario e ignorando il blocco totale degli aiuti in vigore dal 2 marzo, allarmante violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni della Corte internazionale di Giustizia», è il commento attonito degli avvocati di Gisha.
Proprio alla corte internazionale di Giustizia nei giorni scorsi è iniziata una settimana di udienze a proposito delle accuse riguardanti le privazioni di aiuti umanitari, su richiesta delle Nazioni unite che raccolgono l’allarme del Programma Alimentare mondiale secondo cui le scorte di cibo a Gaza sono finite. Intanto Medici Senza Frontiere avverte che sono passati 100 giorni dal blocco degli aiuti e che «la popolazione non può aspettare oltre».
Secondo lo scenario prospettato dai ricorrenti di Gisha, «per non essere considerata potenza occupante e per sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti del diritto internazionale, Israele può arrivare a sradicare la popolazione locale e concentrarla in campi privi di infrastrutture adeguate o di aiuti umanitari sufficienti, o ancora, dove non è presente l’esercito». Lo sfollamento di massa di civili da una parte all’altra della Striscia, tra le ultime decisioni del governo Netanyahu, può diventare, in pratica, un mezzo per eludere le responsabilità.
Già da qualche mese diverse ong avevano lanciato l’allarme sul piano dell’esercito israeliano di rimanere a Gaza con un controllo più stringente dopo un’eventuale fine del conflitto: si tratterebbe di «hub logistici rigorosamente gestiti» dall’esrercito che renderanno ancora più limitante l’arrivo dei rifornimenti umanitari «e che rischiano di diventare zone di contenimento dove la supervisione umanitaria viene sostituita dal controllo militare e il timore di un uso eccessivo della forza, della violazione dei diritti umani fondamentali dei civili e del disprezzo per la loro vita non fa che aumentare».

IN ISRAELE si svolgono costantemente manifestazioni per il rilascio degli ostaggi e contro il governo di Netanyahu. La reazione indignata della società civile, secondo la ong israeliana è, spesso, opportunistica: «Molti di coloro che manifestano contro il proseguimento della guerra e il blocco degli aiuti lo fanno principalmente per la giustificata preoccupazione per gli ostaggi, ma non accompagnano a questa preoccupazione l’attenzione per la vita o le sofferenze dei civili a Gaza».
La realtà, raccontano, è che «tra l’opinione pubblica israeliana più ampia, profondamente scossa dalle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre, la sentenza della Corte è percepita come un’ulteriore conferma che Israele sta agendo in modo morale, persino generoso, a Gaza».
La sentenza non ha affatto messo in discussione, infine, il ruolo del Cogat, braccio armato della fame e del genocidio, «direttamente coinvolto nell’attuazione di politiche che limitano la circolazione di persone e merci da e verso Gaza, ma anche di ritardi burocratici. Abbiamo dimostrato attraverso numerosi esempi, corroborati da organizzazioni internazionali, come il Cogat abbia omesso di approvare o abbia notevolmente ritardato le consegne di aiuti medici e umanitari. Restrizioni non solo logistiche, ma anche strategiche, che riflettono obiettivi militari e politici più ampi».
I medici internazionali hanno più volte lamentato l’assenza di ventilatori polmonari, bombole di ossigeno, attrezzature per le radiografie, considerati dalle ispezioni di Israele materiale “a duplice uso”, civile e militare. Sull’attuale responsabile del Cogat, il generale Ghassan Alian, pende una richiesta di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Fondazione Hind Rajab alla Corte penale internazionale, richiesta mai rispettata nemmeno dall’Italia. Il generale è stato in visita ufficiale nel nostro paese a gennaio di quest’anno.
«Ignorando totalmente il collasso del sistema sanitario a Gaza, l’uso della fame e delle privazioni come strumenti di guerra, rifiutandosi di portare prove fattuali, i giudici della Corte israeliana hanno presentato un manifesto politico patriottico più che una sentenza». Un manifesto politico di sterminio.
*(Fonte: Il Manifesto – Angela Galloro – giornalista. Si occupa di produzione tv e scrive di innovazione, tendenze culturali, sostenibilità digitale)

 

05 – A. Grandi*: COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE – LA DECISIONE DEL GOVERNO NETANYAHU DI RICHIAMARE I RISERVISTI PER INVADERE IL 70% DI GAZA È UNA SVOLTA NEGATIVA ULTERIORE IN UNA SITUAZIONE GIÀ INSOSTENIBILE.

Dopo la rottura unilaterale della tregua il 18 marzo, i bombardamenti israeliani hanno causato altre migliaia di morti e feriti e ulteriori distruzioni in quel poco che era rimasto degli edifici, mettendo in crisi pressoché totale l’assistenza sanitaria. Il blocco da oltre due mesi di ogni rifornimento di cibo, acqua medicine, carburante ha ridotto alla fame la popolazione di Gaza, già stremata dalle sofferenze di un anno e mezzo di guerra, ponendo una seria minaccia alla sopravvivenza di un intero gruppo etnico.
La situazione era già disperata e ora si presenta come un accanimento inaccettabile sulla popolazione di Gaza per annichilire completamente l’autonomia palestinese e costringere la popolazione ad andarsene o ad accettare di essere rinchiusa in un campo di concentramento sotto dominio militare.
La destra presente nel governo dice quello che Netanyahu non vuole dire pubblicamente e cioè che siamo alla vigilia dello scontro finale che porterà all’occupazione totale di Gaza da parte di Israele e all’annientamento dell’identità palestinese.
Ora occorre prendere posizione e mostrare con forza che le decisioni del governo di Israele lo pongono fuori dalla comunità internazionale e quindi i governi europei se non vogliono essere complici debbono agire per porre fine all’impunità di cui ha sempre goduto il governo israeliano. Pretendere la riapertura immediata dei valichi per soccorrere la popolazione civile, riconoscere lo stato palestinese immediatamente e chiedere la sua piena ammissione all’ONU, richiamare gli ambasciatori per consultazioni al fine di dare istruzioni adeguate contro lo sterminio della popolazione di Gaza, proporre la convocazione immediata di una conferenza di pace sotto la responsabilità dell’Onu e con la presenza della rappresentanza palestinese, intervenire presso il Presidente Usa per chiedergli di interrompere ogni sostegno militare all’iniziativa inaccettabile di Israele a Gaza e anche in Cisgiordania.
Il parlamento italiano e il parlamento europeo debbono prendere al più presto orientamenti precisi per fermare questa deriva drammatica.
*(A. Grandi. politico e sindacalista italiano. Alfiero Grandi. Già, Deputato della Repubblica Italiana.)

 

06 – BENJAMIN NETANYAHU VUOLE NASCONDERE LA CRISI INTERNA DELL’ESERCITO ISRAELIANO. MENTRE I SUOI SOLDATI CONTINUANO A BOMBARDARE LA STRISCIA DI GAZA E A INTENSIFICARE L’OCCUPAZIONE IN CISGIORDANIA, INFATTI, L’IDF SI TROVA A FARE I CONTI CON IL RIFIUTO DI ARRUOLARSI DA PARTE DI DECINE DI MIGLIAIA DI RISERVISTI E CON L’AUMENTO DEI CASI DI SUICIDIO. L’AZIONE DI CENSURA NEI CONFRONTI DELLA STAMPA È FORTISSIMA, SCRIVE MOHAMMAD SHAMANDAFAR.

Restiamo a Gaza con un pezzo di Alice Pistolesi e Monica Pelliccia sulla storia di Zaina, Shahd e Majd: dopo aver ottenuto una borsa di studio presso l’Università di Siena si trovano ancora bloccate nella Striscia. Linda Maggiori, invece, tratta la complicità dell’Italia nel finanziare l’industria bellica di Tel Aviv attraverso la collaborazione con la società Elta Systems Ltd.
Una lucida analisi di Alessandro Volpi aiuta a comprendere le mosse di Donald Trump su dazi, Cina e Medio Oriente, a scapito degli “imbelli europei”.
Torniamo in Italia con l’inchiesta di Duccio Facchini sui contratti che legano il Politecnico di Milano e la Fondazione Milano Cortina 2026, tra clausole di riservatezza e particolari omissis. È da leggere il reportage di Francesca Bellini da Via Padova, a Milano, dove i valori immobiliari crescono in maniera incontrollata ed è in arrivo un altro sfratto. I genitori della scuola di quartiere non ci stanno.
Teniamo poi alta l’attenzione sui Centri di permanenza per il rimpatrio: Aurora Mocci racconta la vicenda di M., che su TikTok documenta la vita e gli abusi all’interno dei Cpr, mentre Luca Rondi torna a occuparsi dell’offerta (“insufficiente”) presentata dalla Cooperativa Sanitalia per aggiudicarsi la gestione del “Brunelleschi” di Torino.
A proposito: come sta cambiando il lavoro sociale in Italia? Se ne occupa il volume “Non facciamo del bene”, appena pubblicato da Donzelli e curato da Gea Scancarello e Andrea Morniroli. L’intervista di quest’ultimo a Gianni Belloni merita. Così come il lavoro delle ricercatrici Cristina Mangia e Sabrina Presto che sono andate alla scoperta delle biografie di dieci “scienziate visionarie” che si sono battute per la trasformazione sociale e la salute pubblica, da Rachel Carson a Katsuko Saruhashi.
Chiudiamo tornando ancora agli esteri: Sara Tanveer scrive del ruolo che giocano le acque del fiume Indo nello scontro militare tra India e Pakistan, mentre in tema di Turchia l’ex sindaco di Diyarbakir, Abdullah Demirbaş, vittima della repressione, dice la sua sul dialogo in corso tra il movimento curdo e il Governo Erdogan a poche ore dall’annuncio dello scioglimento del Pkk.
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*(Fonte: Altraeconomia – la redazione)

 

 

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