I dazi di Trump: il problema non è il Barolo ma il capitalismo finanziario

Il 2 aprile 2025, Donald Trump ha annunciato una nuova guerra commerciale. È partito con tariffe del 10% su tutte le merci in ingresso negli Stati Uniti e del 60% sui prodotti cinesi. Poi, nelle ore e nei giorni successivi, è stato un vero e proprio crescendo: ogni giorno un nuovo annuncio, nuove tariffe, numeri in libertà (l’ultima, dazi di oltre il 3000% sui pannelli solari del sud-est asiatico). Un ritorno in grande stile al nazionalismo economico che aveva già caratterizzato il suo primo mandato, ma con un’aggressività nuova, gangsteristica, sempre giustificata, però, dal bisogno di rilanciare l’industria e difendere il lavoro americano. Ha brandito una tabella truccata, mostrando i saldi commerciali bilaterali come se fossero tariffe applicate dagli altri Paesi alle merci americane. Una mistificazione, perché quei numeri indicano gli squilibri negli scambi, non le imposte doganali. Ma anche un modo per mascherare un problema strutturale ben più profondo e grave. Il vero nodo per gli Usa non è, infatti, l’interscambio col resto del mondo (piuttosto gli squilibri sono la conseguenza di un problema a monte), ma il sistema economico che dagli anni Settanta si è finanziarizzato fino a diventare totalmente dipendente dal privilegio monetario concesso al dollaro. Quello che Trump si guarda bene dal denunciare, dal mettere sotto accusa, essendo lui e la sua cerchia parte integrante di questo mondo parassitario e affaristico.

Il privilegio di stampare moneta. Tutto parte da Bretton Woods, 1944: il dollaro diventa la moneta di riserva mondiale, convertibile in oro. Finché il sistema regge, gli Stati Uniti dominano perché producono, esportano, consumano. Ma negli anni Sessanta le guerre, i consumi a credito e la concorrenza europea e giapponese, l’esplosione del fenomeno degli eurodollari, rendono insostenibile quel sistema. Così, nel 1971 Nixon rompe il vincolo con l’oro e inaugura l’epoca delle monete fiat (il loro valore è legato alla fiducia nei confronti dell’autorità che la emette). Da allora gli Stati Uniti possono stampare dollari senza copertura reale, finanziando disavanzi commerciali cronici che nessun altro Paese potrebbe permettersi. Il gioco funziona perché il mondo intero continua ad accettare dollari: per pagare il petrolio, per commerciare, per investire negli stessi titoli del Tesoro americano e a Wall Street. Tutto questo però, in un mondo che non è più quello di trent’anni fa (secondo i dati dell’FMI, nel terzo trimestre 2024 la quota del dollaro nelle riserve valutarie globali è scesa al 57,4%, rispetto al 71% del 2000), pone dei grossi problemi. Nel 2024, il disavanzo commerciale degli USA ha raggiunto i 1.124 miliardi di dollari: 394 miliardi con la Cina, 217 miliardi con l’Unione Europea. Un’enormità. Come la montagna del debito pubblico, arrivato a superare i 34 mila miliardi di dollari. Sono i frutti avvelenati di un sistema che finora ha consentito agli Stati Uniti di vivere ben oltre le proprie possibilità, importando a credito e rifinanziando il proprio debito con i soldi stessi dei partner commerciali, ma che adesso comincia a mostrare alcune crepe e potrebbe in prospettiva rivelarsi insostenibile.

Deindustrializzazione e povertà. A pagare il prezzo di questo modello è stata senza dubbio l’industria manifatturiera americana. Dal 2000 al 2024 sono scomparsi oltre 5,3 milioni di posti di lavoro industriali, con intere città — Detroit, Cleveland, Pittsburgh — svuotate e impoverite. Trump ha ragione a stigmatizzare questo dato, ma tace sul fatto che l’America ha smesso di produrre non perché i cinesi sono furbi, ma perché i capitali rendevano di più nella finanza e nei servizi a basso salario (terziarizzazione dell’economia). E quello che il tycoon avrebbe dovuto spiegare all’operaio che il 2 aprile ha fatto salire sul palco allestito nel Rose Garden. Insieme al fatto che anche l’esplosione delle disuguaglianze è figlia di questo sistema. Nel 2024 il 10% più ricco della popolazione ha speso quasi la metà dei consumi totali, mentre l’80% meno abbiente si è arrangiato per sopravvivere all’inflazione, che in alcuni settori ha superato il 21%. Nello stesso periodo, i miliardari americani hanno visto il proprio patrimonio crescere di 2.000 miliardi di dollari, toccando quota 15.000 miliardi. Oggi l’1% più ricco controlla il 45% della ricchezza globale. E non è tutto. Secondo il Census Bureau, quasi 40 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà. La povertà infantile, dopo un leggero calo durante la pandemia grazie ai sussidi temporanei, è tornata a superare il 20%. Sono numeri da Paese in via di sviluppo, non da potenza economica che pretende di guidare il mondo.

Dazi come arma geopolitica. Le tariffe di Trump non servono a difendere i lavoratori americani, i loro diritti, ma a rafforzare un sistema globale di dominio commerciale e finanziario a vantaggio di ristrette oligarchie del denaro. Dopo il conflitto ucraino, gli Stati Uniti hanno imposto all’Europa di rinunciare al gas russo e di acquistare quello americano, più caro fino a 4 volte (le esportazioni di LNG verso l’Europa sono aumentate del 432% dal 2021 al 2024, stando ai dati forniti dall’EIA). Lo stesso è accaduto per le forniture militari: dal 2020 al 2024 gli ordini europei di armi statunitensi sono cresciuti del 79%. Ora è sotto il ricatto dei dazi che la Casa Bianca vuole imporre ai partner europei di comprare materie prime energetiche e armi americane. È la cura degli interessi di quello che potremmo definire il “complesso militare-industriale-finanziario”, con l’aggiunta dei petrolieri. L’Europa ha recepito diligentemente questo messaggio, varando un piano di riarmo per centinaia di miliardi di euro, con tanto di moratoria sui vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità. E a festeggiare, da subito, sono stati i titoli legati all’industria bellica, ovviamente americana, o europea con capitali americani (come Leonardo in Italia). Non solo. Per perpetuare il sistema debito-centrico, parassitario, la nuova amministrazione americana ha pensato bene di barattare, caso per caso, il ritiro – o l’alleggerimento – dei dazi con la sottoscrizione di titoli di Stato a lunghissima scadenza, fino a cento anni (i cosiddetti “Matusalem bond”), capaci di garantire agli USA liquidità a condizioni vantaggiose, lasciando i partner europei legati mani e piedi a un debito eterno. Il Financial Times ha definito non a caso questi titoli «un atto di fede geopolitica più che un investimento razionale».

Il viaggio della Meloni. Il recente viaggio di Giorgia Meloni a Washington rappresenta una conferma di quanto stiamo dicendo. Il Governo italiano, attraverso la presidente del Consiglio, ha accettato supinamente di rafforzare il proprio impegno nell’acquisto di armamenti di fabbricazione americana, di gas liquefatto a prezzi maggiorati rispetto al mercato russo pre-guerra, e di una serie di accordi economici e industriali pensati più per sostenere l’economia statunitense e le sue oligarchie che per difendere l’industria e la competitività nazionale. È la riproposizione di quella dinamica coloniale travestita da “alleanza”, in cui il nostro Paese si riduce a importatore di beni strategici decisi altrove, acquirente obbligato di tecnologie e infrastrutture, finanziatore di conflitti altrui. Un modello di dipendenza che, oltre a condizionare la nostra autonomia politica, alimenta il processo di deindustrializzazione del Paese già in corso. La missione americana della Meloni, al di là delle retoriche di facciata, sancisce una resa agli interessi di Washington, confermando l’Italia come anello debole della catena imperialista occidentale.

La sospensione dei dazi che conferma tutto. In questo quadro, la sospensione a sorpresa dei dazi per 90 giorni non è stata soltanto una mossa tattica (o generata dalla paura dei mercati), ma la conferma di una strategia più ampia: alzare la tensione sui mercati e nei rapporti commerciali internazionali per poi usare la leva dei dazi come strumento ricattatorio, costringendo i partner a trattare alle condizioni imposte da Washington. È una dinamica che riproduce su scala geopolitica la stessa logica aggressiva del capitalismo finanziario: creare incertezza, orientare le aspettative, e speculare sulle oscillazioni di mercato. Emblematico, d’altra parte, è il modo in cui è avvenuto l’annuncio. Prima Trump ha dichiarato pubblicamente che «è il momento di comprare», lasciando intendere un imminente alleggerimento delle tensioni commerciali. Quattro ore dopo è arrivata la conferma della sospensione dei dazi. È evidente come questa sequenza non sia stata casuale. La frase presidenziale ha prodotto un’immediata impennata nei mercati finanziari, e chi era nelle condizioni di anticipare o leggere correttamente il messaggio ha potuto realizzare guadagni straordinari in tempi brevissimi (tra questi lo stesso Trump, oltre al suo sodale Elon Musk). L’annunciata politica di difesa degli interessi dell’economia nazionale e dei lavoratori si è trasformata in un’occasione speculativa per un pugno di miliardari e fondi d’investimento, che hanno visto gonfiarsi i propri patrimoni sfruttando l’instabilità programmata di un’economia sempre più governata dalla finanza. Sempre la stessa America. L’episodio conferma che il vero motore del capitalismo americano contemporaneo è la finanza speculativa, e che per andare incontro agli interessi delle classi popolari e reindustrializzare il paese servono programmi politici per il riequilibrio interno tra finanza e produzione, un cambiamento di paradigma (chi impedisce agli Usa di investire in vari settori industriali?), non il populismo ricattatorio di Trump. Il vero problema degli Stati Uniti, insomma, non sono le merci cinesi o il vino italiano, o le banane del Madagascar. È il modello di capitalismo finanziario parassitario, che ha sostituito la produzione con la rendita, il salario con il credito al consumo, la manifattura con le bolle di Wall Street. I dazi sono un diversivo (anche pericoloso). Servono a proteggere un sistema che ha deindustrializzato l’America, impoverito milioni di cittadini, arricchito un’élite finanziaria e trasformato il dollaro in un’arma di ricatto internazionale. E poi c’è sempre il detto secondo cui «il diavolo fa le pentole ma non i coperchi».

La guerra commerciale e la fuga dai titoli di Stato americani. Se c’è un dato che dovrebbe preoccupare la Casa Bianca infatti è il comportamento dei detentori esteri del debito pubblico americano. La guerra commerciale, con le sue ritorsioni e le sue incertezze, sta mettendo in discussione la funzione dei Treasury bond come bene rifugio globale e come pilastro della supremazia finanziaria statunitense. Negli ultimi mesi si è registrata una progressiva riduzione degli acquisti di titoli di Stato americani da parte di Cina, Giappone e di numerosi paesi emergenti, mentre le vendite sul secondario (dalle banche) si sono intensificate, segno che le tensioni commerciali vengono lette anche come un rischio sistemico. Questo ha portato i rendimenti dei titoli decennali a superare il 5%, un livello che non si vedeva da anni, segnalando in primo luogo una perdita di fiducia nella stabilità economica e politica degli Stati Uniti. Non solo. Se gli Stati Uniti utilizzano il dollaro e il debito come strumenti di dominio geopolitico, i paesi coinvolti nella guerra commerciale non hanno più interesse a finanziare un’economia che usa la propria posizione di privilegio per imporre tariffe, sanzioni e restrizioni. Questo significa, in prospettiva, maggiore difficoltà per Washington a collocare i propri titoli sul mercato senza offrire rendimenti più alti, aumentando così il costo del debito pubblico americano, già sopra i 34 trilioni di dollari, come abbiamo visto. Se la fuga dai Treasury dovesse continuare, il rischio sarebbe quello di un crollo di fiducia sul dollaro stesso, con effetti devastanti: inflazione interna, aumento dei tassi, contrazione della domanda globale di dollari. Un paradosso, se si pensa che l’obiettivo “dichiarato” della guerra commerciale è proprio quello di proteggere il sistema produttivo americano. Siamo solo all’inizio di una difficile e insidiosa transizione.

FONTE: https://volerelaluna.it/

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