
di Luigi Pandolfi (da il manifesto 9/4/2025)
Negli USA è scontro aperto tra oligarchi, ormai. Dopo il tonfo delle borse della scorsa settimana sono scesi in campo alcuni tra i pesi massimi di Wall Street contro i dazi. Larry Fink (Blackrock), Ken Griffin (Citadel LLC), ma non solo. Lunedì anche Elon Musk, il pupillo di Trump, ha fatto sentire la sua voce.
A modo suo, postando su X un video dell’economista Milton Friedman, in cui vengono spiegate le catene internazionali del valore con l’esempio della produzione di una matita (il legno che viene da un paese, la grafite da un altro, il metallo della ghiera da un altro ancora, e così via).
Il timore è che possano aumentare i costi per le aziende, soprattutto in settori fortemente integrati nelle catene di approvvigionamento globali, con calo dei profitti e aumento dei prezzi finali. Per i grandi fondi, invece, il problema principale è l’incertezza nei mercati finanziari.
Proprio Larry Fink, infatti, ha sottolineato l’importanza della «prevedibilità» per attrarre investimenti a lungo termine, argomentando che i dazi possono minare la fiducia degli investitori nella stabilità del commercio mondiale.
Di «rischi per l’ecosistema degli investimenti» ha parlato invece Ken Griffin, dall’alto della sua posizione tra i gestori di hedge fund, mentre il co-fondatore di Home Depot (multinazionale di articoli per la casa), Kenneth Langone, più prosaicamente ha detto che le tariffe di Trump sono «una stronzata».
Il nervosismo di Musk, che avrebbe chiesto a Trump di revocare i dazi, riflette quello delle big tech, i gioielli tecnologici che si sono svenati per The Donald.
Sono loro ad aver perso di più in questi giorni. Secondo il New York Times, l’annuncio dei dazi ha portato ad una distruzione di valore di 9,2 trilioni di euro, più della metà del PIL dell’Unione Europea. I «Magnifici 7» – Apple, Nvidia, Microsoft, Amazon, Alphabet, Meta e Tesla – hanno perso a loro volta 1,5 trilioni di dollari in valore di mercato. In particolare, Apple ha lasciato sul campo 311 miliardi di dollari, Nvidia 139.
Il motivo è che queste aziende dipendono molto dalle catene di fornitura globali, che partono soprattutto dal Sud-est asiatico. Parliamo, in ogni caso di titoli sopravalutati rispetto ai fondamentali aziendali. Come i titoli di tante altre società quotate in borsa.
C’è una sproporzione gigantesca, infatti, tra «sovrastruttura finanziaria» e PIL negli Stati Uniti. Le due borse principali, NYSE e NASDAQ, esprimono un «valore di capitalizzazione» (senza i derivati) superiore ai 50 trilioni di dollari, a fronte di un PIL che si attesta sui 26 trilioni.
A prescindere dai dazi, un problema che riguarda la natura stessa del capitalismo americano, insomma. Ci sono poi i petrolieri, anch’essi critici verso le scelte del tycoon. I produttori di shale oil e gas liquefatto hanno bisogno dei mercati esteri per fare profitti.
I dazi, invece, rischiano di richiamare ritorsioni da parte di paesi come la Cina, l’India e l’Europa, che sono importanti acquirenti di materie prime energetiche made in USA.
Non mancano però imprenditori e speculatori che sono dalla parte di Trump. Tra questi il banchiere texano, genio della matematica, Andy Beal, ed i rappresentati della Coalition for a Prosperous America (CPA), l’organizzazione di lobbying del settore manifatturiero, insieme a Scott Bessent, che prima di essere il Segretario del Tesoro è un magnate della finanza speculativa. «Non ci sarà recessione, i mercati continuano a sottovalutare Donald Trump», ha dichiarato infatti quest’ultimo due giorni fa.
A livello politico, la posizione dei democratici non è univoca sul protezionismo di Trump. Come pure quella dell’ala sinistra del partito. Bernie Sanders ha espresso critiche severe verso le scelte del tycoon, definendole «totalmente irrazionali» e destabilizzanti per l’economia mondiale, ma non ha escluso che i dazi possano servire a qualcosa, se adottati in maniera mirata e «razionale».
Il senso della posizione senatore del Vermont può essere così riassunto: la globalizzazione neoliberista ed i processi di finanziarizzazione hanno fatto male alle classi popolari, anche in America che dove è stata delocalizzata la produzione, svalutando il lavoro e facendo esplodere le disuguaglianze.
Anche i dazi, se usati in maniera mirata, potrebbero risultare perciò utili nel quadro di un complessivo cambio di paradigma socio-economico. Quel che non serve, anzi può arrecare ulteriori problemi ai lavoratori, è il gangsterismo economico. Né Trump né Milton Friedman, giustamente.
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