n° 08 – 22/02/25 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

01 – Mario Di Vito*: Ministri finti e milioni veri. La storia I truffatori che si spacciavano per Crosetto e chiedevano soldi agli industriali per liberare ostaggi all’estero. Il mondo rovesciato dei ricchi ingenui e la facilità con cui tirano fuori i soldi.
02 – Mario Di Vito*: Caso Cospito, Delmastro condannato a otto mesi. Ora aria Il sottosegretario ha violato il segreto del 41 bis. La procura aveva chiesto di assolverlo. La requisitoria tra fatti e dottrina: «Non ci sono state due testimonianze uguali tra loro». Per il Pm mancava l’elemento soggettivo del reato. C’è anche un anno di interdizione dai pubblici uffici.
03 – Roberta De Monticelli*: C’è qualcosa di terribile nel silenzio con cui filosofi, giuristi, intellettuali specie accademici assistono oggi non solo alla violazione su larghissima scala, ma all’ostentato ripudio, da parte di molti governi occidentali, dei principi di civiltà enunciati nelle costituzioni rigide delle democrazie e nelle Carte del costituzionalismo globale che la seconda metà del Novecento ha prodotto.
04 – Sandra Burchi*: Perché Meloni dice «tossica» – Commenti Giorgia Meloni dice le cose con una tale sicumera che bisogna davvero concentrarsi per rendersi conto degli slalom efficacissimi che compie tra i pezzi di realtà che nomina e quelli […]
05 – SUDAFRICA. Denunciato per “tradimento” il gruppo che chiede intervento di Trump
SUDAFRICA. Denunciato per “tradimento” il gruppo che chiede intervento di Trump (*)
06 – La corsa araba per trovare un’alternativa al piano di Trump per Gaza – (*)
07 – Eliana Riva*: Il metodo Gaza per svuotare i campi profughi in Cisgiordania – Palestina/Israele Il tipo e la durata delle operazioni militari israeliane e lo sfollamento forzato indicano un obiettivo chiaro: rendere le comunità invivibili. Nella Striscia un raid israeliano distrugge uno dei pochi bulldozer per rimuovere le macerie
08 – Tommaso Di Francesco*: Lo «gnommero» della guerra ucraina – La strategia di Trump è gangsteristica, ma invece di intravvedere la possibilità che si apre, l’Europa ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo.

 

 

01 – Mario Di Vito*: MINISTRI FINTI E MILIONI VERI. LA STORIA I TRUFFATORI CHE SI SPACCIAVANO PER CROSETTO E CHIEDEVANO SOLDI AGLI INDUSTRIALI PER LIBERARE OSTAGGI ALL’ESTERO. IL MONDO ROVESCIATO DEI RICCHI INGENUI E LA FACILITÀ CON CUI TIRANO FUORI I SOLDI.

Nel mondo realmente rovesciato, si sa, il vero è un momento del falso. Ma nell’epoca in cui il mondo al contrario è quello del generale Vannacci, anche Debord serve a poco, perché le notizie scorrono impazzite e non concedono il tempo necessario a riflettere. La cronaca giudiziaria, del resto, è il sottofondo di ogni giornale. Può nascondersi ovunque: nella politica, certo, ma anche negli esteri, nello sport, negli spettacoli. O in una terra sospesa tra l’assurdo e l’incredibile, quasi come il film di Orson Welles sui falsari, quello che si apre con la frase di Picasso che era bravissimo a dipingere dei finti Picasso.
C’ERA DUNQUE una volta, un paio di settimane fa in Italia, una banda di truffatori che aveva preso di mira un certo numero di noti imprenditori. Parliamo di nomi, anzi di cognomi, di peso: Massimo Moratti, Giorgio Armani, Diego Della Valle, Marco Tronchetti Provera, Patrizio Bertelli, i Beretta, i Caltagirone, gli Aleotti. Il trucco funzionava così: prima c’era l’aggancio, con i truffatori che si presentavano come funzionari del ministero della Difesa. Poi arrivava la telefonata con la voce, simulata forse attraverso un software o per merito di un talentuoso imitatore, di Guido Crosetto in persona. Infine la richiesta: soldi per liberare concittadini, per lo più giornalisti, prigionieri in Siria e in Iran. La scusa era che il governo non poteva trattare con i rapitori né pagare loro direttamente un riscatto, quindi serviva del cash istantaneo. Ma niente paura, poi ci avrebbe pensato la Banca d’Italia a rimborsare il tutto con un bonifico. Se questo non sembra un piano geniale è perché in effetti non lo è. La storia fa evidentemente acqua da tutte le parti. Ma qualcuno c’è cascato lo stesso. Sin qui l’unico che lo ha ammesso è Massimo Moratti, che avrebbe sganciato quasi un milione di euro sull’unghia. Mistero sugli altri, ma è probabile che il petroliere non sia stato il solo a versare l’obolo al fino Crosetto. La procura di Milano indaga: ci sarebbero già due persone nel mirino (stranieri, pare), via via stanno venendo fuori i conti correnti esteri sui quali i soldi estorti viaggiavano come palline da ping pong tra Hong Kong e i Paesi Bassi e già si sprecano le ipotesi su chi avrebbe architettato la truffa.
«C’è di mezzo la criminalità estera», dicono alcuni. «Ma i mandanti sono sicuramente italiani», sostengono altri. Non che la questione abbia grande importanza, anche se nel paese dei complotti, delle congiure e delle verità dette quasi sempre a sproposito, leggere nella stessa storia nomi di miliardari e di ministri fa sempre effetto.

C’È CHI si è concentrato sul lato umano della dura vicenda, soprattutto da un punto di vista classista: la plebe invidiosa non vedeva l’ora di prendere in giro i ricchi, ha scritto il noto corsivista di un grande giornale convinto che in Italia la vera categoria discriminata sia quella di chi ha i milioni in banca. Pochi hanno sottolineato che in realtà è vero il contrario: la signora di mezza età che cade nelle grinfie del tizio che si spaccia per ufficiale in pensione su Facebook è un’ingenua sprovveduta sulla quale è lecito riversare il nostro feroce e compiaciuto cinismo. Il ricchissimo che crede davvero alla favola del ministro che chiede l’elemosina invece merita tutta la comprensione del mondo. Questi software sono micidiali, no? e se ti chiama Crosetto che vuoi fare?

ECCO, forse il vero punto della vicenda è questo: se il ministro, un qualsiasi ministro, chiama, che si fa? La storia dei rapporti tra imprenditoria e politica, in Italia, rientra a pieno titolo nel romanzone tricolore della criminalità. Per dire, un formidabile cronista di giudiziaria come Luigi Ferrarella, un giorno del 2022, scrisse sul Corriere della Sera che su 2.565 indagati per Tangentopoli le condanne e i patteggiamenti alla fine sono stati 1.408, con 448 prosciolti per prescrizione, amnistia o morte del reo: significa 4 su 5, in proporzione. Mani pulite di certo è stata costellata di eccessi inquisitori ai limiti del tollerabile e inappropriati atteggiamenti da rockstar da parte di molti dei componenti del famoso pool, e probabilmente l’ordine dal caos andava cercato con gli strumenti della politica e non con quelli dei tribunali, ma, numeri alla mano, ha anche prodotto risultati processuali difficili da discutere. Con buona pace dei tanti garantisti per mancanza di prove, quelli che per i ricchi e potenti mettono mano a Beccaria, mentre per i poveri e disgraziati basta Lombroso. Hanno individuato delle persone disponibili per l’Italia, per l’amore che hanno per l’Italia, a fare un bonifico.
AD OGNI MODO, la parabola dei finti Crosetti – incidentalmente ambientata a Milano proprio come Tangentopoli – forse autorizzerebbe a porsi qualche domanda sulla facilità con cui i portafogli si aprono in certi ambienti. Non lo sta facendo nessuno, per il momento. Quindi, che fare se chiama il ministro? Va detto che in questa storia Crosetto è stato bravo. È stato il primo a insospettirsi, ha sporto denuncia e ha aperto il caso. Il resto è arrivato di conseguenza. Ha raccontato il ministro, infatti, di aver ricevuto una telefonata da un amico imprenditore che gli chiedeva conto di una chiamata della sua segreteria. Un fatto strano, perché Crosetto e questo imprenditore si conoscono bene e non hanno alcun bisogno di fare passaggi formali per parlarsi. Da qui la rivelazione del misfatto: tanti capitani d’impresa contattati, la voce di un tale generale Giovanni Montalbano che parlava di sicurezza nazionale e raccontava delle difficoltà di gestione della vicenda di Cecilia Sala, detenuta a Teheran per tre settimane e poi riportata a casa con uno scambio. Sarebbe bastato pochissimo però per capire che la situazione non quadrava neanche un po’: Sala era sì prigioniera, ma di uno stato straniero non di un’organizzazione terroristica. E lo scambio è sì avvenuto, ma non per un pugno di dollari: quello che voleva l’Iran era la liberazione di un suo ingegnere esperto di droni arrestato a Malpensa su ordine degli Usa. E poi, insomma, nei casi «veri» di sequestri in zone calde del pianeta, l’Italia ha la fama di essere uno di quei paesi che paga (per fortuna) e nessuno ha mai minimamente pensato che lo Stato potesse avere problemi a trovare i soldi necessari.
RESTA, a fondo pagina, spazio per una frase che ha detto Crosetto sui truffatori e sui truffati: «Hanno individuato delle persone che magari alla richiesta di un ministro erano anche disponibili per l’Italia, per l’amore che hanno per l’Italia, a fare un bonifico». Nel mondo realmente rovesciato in cui non sta bene fare domande su chi tira fuori i milioni, l’amore è l’alibi perfetto.
*(Mario Di Vito – Cronista politico, si occupa per lo più di giustizia e ingiustizia. Ha scritto alcuni libri, l’ultimo è “La pista anarchica” Editori Laterza)

 

02 – Mario Di Vito*: CASO COSPITO, DELMASTRO CONDANNATO A OTTO MESI. ORA ARIA IL SOTTOSEGRETARIO HA VIOLATO IL SEGRETO DEL 41 BIS. LA PROCURA AVEVA CHIESTO DI ASSOLVERLO. LA REQUISITORIA TRA FATTI E DOTTRINA: «NON CI SONO STATE DUE TESTIMONIANZE UGUALI TRA LORO». PER IL PM MANCAVA L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO. C’È ANCHE UN ANNO DI INTERDIZIONE DAI PUBBLICI UFFICI.

Otto mesi di condanna e un anno di interdizione dai pubblici uffici. Questo il prezzo giudiziario che l’ottava sezione penale del tribunale di Roma ha stabilito per il sottosegretario Andrea Delmastro, colpevole di aver rivelato documenti segreti con le conversazioni tra Alfredo Cospito e altri detenuti al 41 bis del carcere di Sassari. Materiale che, il 31 gennaio del 2023, il deputato Giovanni Donzelli ha utilizzato in aula per attaccare la delegazione del Pd andata a far visita all’anarchico durante il suo lungo sciopero della fame, definendola come una specie di ponte tra il movimento libertario e la mafia. Un’assurdità politica mal sostenuta da documenti che dovevano restare riservati, anche perché il senso del «carcere duro», se ancora ne ha uno, è proprio quello di evitare che i detenuti possano comunicare con l’esterno.

LA SENTENZA è arrivata dopo un paio d’ore scarse di camera di consiglio e, soprattutto, dopo che il procuratore aggiunto Paolo Ielo aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato perché «il fatto non costituisce reato». Durante la requisitoria, andata in scena ieri mattina, la sostituta Rosalia Affinito aveva cominciato dicendo che il fatto sussisteva, e cioè che il segreto in effetti era stato rivelato, perché le carte con le conversazioni tra detenuti al 41 bis comunque erano uscite dal Dap e non ci sono mai stati dubbi sul fatto che fossero «a limitata divulgazione». Poi Ielo è intervenuto sul filo della dottrina: «Il segreto amministrativo è una materia complessa», ha ripetuto a più riprese il Pm davanti ai giudici, ricordando che lui già aveva chiesto l’archiviazione per Delmastro, poi negata dal gip che ha disposto coattivamente il processo. Il punto, per Ielo, è che mancava l’elemento soggettivo del reato. «E questo lo dico perché faccio il Pm e non sono l’avvocato dell’accusa», ha rintuzzato.

IN SOSTANZA Delmastro sarebbe incappato nel complesso giro delle «norme matrioska» che regolano il sottile confine tra documenti riservati, documenti segreti e documenti a limitata divulgazione: «Si tratta di un errore su norma extrapenale che ha prodotto un errore sul fatto». Da qui la richiesta di assolvere il sottosegretario perché il suo comportamento non avrebbe costituito reato. A queste parole il presidente Francesco Rugarli ha annuito, confermando l’antica credenza, diffusissima tra i processualisti, che quando un giudice fa segno di sì con la testa non è mai un buon segno per l’imputato. In effetti le tesi di Ielo lasciavano ampio spazio a una considerazione ulteriore: se il fatto sussiste ma non costituisce reato vuol dire tutto sta nell’interpretazione del concetto giuridico di segreto. E se il giudice ne ha una diversa rispetto alla procura, la condanna è da ritenersi pressoché scontata. E così è stato. A Delmastro, in ogni caso, sono state riconosciute sia le attenuanti generiche sia la sospensione della pena (compresa l’interdizione). Respinte le richieste di risarcimento delle parti civili, cioè dei tre esponenti del Pd finiti nel mirino di Donzelli. Avevano richiesto 5 euro. Una cifra simbolica. «Avrebbero dovuto costituirsi anche la Camera, il Senato e il ministero della Giustizia», ha attaccato durante il suo intervento l’avvocato Mitja Gialuz.

DELMASTRO, con la sua ormai celebre scorta, è arrivato in tribunale a udienza appena cominciata e si è seduto di fianco al suo avvocato. Se n’è andato alla fine della requisitoria, senza nemmeno guardare in faccia i cronisti a caccia di sue dichiarazioni. A sentenza pronunciata, in compenso, sui social di Fratelli d’Italia è apparsa la versione ufficiale del partito: «Se tocchi il Partito Democratico finisci condannato? Nonostante la richiesta di assoluzione del PM, il sottosegretario Andrea Delmastro è stato condannato dal Tribunale. Il motivo? Aver condiviso con un collega dei documenti, non segreti e già rivelati dalla stampa, che mettevano in imbarazzo il Pd». Le cose non sono andate proprio così: la difesa di Delmastro durante tutto il processo ha insistito molto sulle notizie «già diffuse dalla stampa». Ma il pezzo di Repubblica che avrebbe dovuto provare questa tesi era successivo rispetto alle richieste di Delmastro al Dap sulle conversazioni di Alfredo Cospito in carcere. «In questa storia non ci sono mai state due testimonianze uguali», ha concluso Ielo.

GIÀ PERCHÉ tra email e appunti fatti partire dal Gom verso il ministero «a mezzo di un motociclista», le spiegazioni sul giro che hanno fatto i documenti non hanno mai convinto nessuno per tutta la durata del processo. «Spero ci sia un giudice a Berlino, ma non mi dimetto», il commento finale di Delmastro. Che di giudice comunque ne ha incontrato uno a Roma.
*(Mario Di Vito. Cronista politico, si occupa per lo più di giustizia e ingiustizia. Ha scritto alcuni libri, l’ultimo è “La pista anarchica” Editori Laterza)

 

03 – Roberta De Monticelli*: C’È QUALCOSA DI TERRIBILE NEL SILENZIO CON CUI FILOSOFI, GIURISTI, INTELLETTUALI SPECIE ACCADEMICI ASSISTONO OGGI NON SOLO ALLA VIOLAZIONE SU LARGHISSIMA SCALA, MA ALL’OSTENTATO RIPUDIO, DA PARTE DI MOLTI GOVERNI OCCIDENTALI, DEI PRINCIPI DI CIVILTÀ ENUNCIATI NELLE COSTITUZIONI RIGIDE DELLE DEMOCRAZIE E NELLE CARTE DEL COSTITUZIONALISMO GLOBALE CHE LA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO HA PRODOTTO.
A esemplificare questo assunto, non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Guerre e politiche di escalation bellica illimitata. Riarmo selvaggio nei programmi della maggior parte dei governi europei, genocidi tollerati alla luce del sole, deportazioni annunciate di interi popoli, respingimenti di massa di migranti e immigrati, detenzioni illegali, razzismo ostentato ai vertici dei governi, attacchi violenti all’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali e al diritto internazionale, asservimento delle politiche pubbliche a enormi concentrazioni di ricchezza privata, privatizzazione dello spazio cosmico, recesso dai pochi vincoli esistenti alla devastazione dell’ecosistema.
Assistiamo del resto – come ai tempi in cui fu scritto il famoso romanzo di Camus, La peste – al contagio inquietante con cui il cinismo della Realpolitik, sdoganata ai livelli di governo in alcuni stati democratici occidentali, si diffonde nella sfera dell’informazione e del dibattito pubblico; e al fenomeno complementare del silenzio, della non-partecipazione, quindi dell’apparente indifferenza che vi risponde.
Ma si può tacere quando su un grande giornale nazionale di tradizione progressista si legge, a proposito del piano trumpiano di deportazione di massa della popolazione di Gaza, che si tratta di una proposta, «fuori dagli schemi», e che da parte europea sarebbe segno di «poco coraggio» non prenderla in considerazione (Molinari, Repubblica 13 febbraio)? Oltre certi limiti cinismo o silenzio e indifferenza, i sintomi più classici della «banalità del male», equivalgono a complicità nei crimini: è il fenomeno che Luigi Ferrajoli chiama «l’abbassamento dello spirito pubblico» e il «crollo del senso morale a livello di mass» (L’ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni e il crollo del senso morale a livello di massa, sito di Costituente Terra).
La domanda che sottende questa angosciata constatazione è: c’è una corresponsabilità del dotto, dello studioso, del “filosofo” in senso lato in questo «abbassamento dello spirito pubblico»? E una risposta è: certamente.
È la lettura puramente politologica che ha prevalso della democrazia, tanto diversa da quella ancora prevalente da Calamandrei al primo Bobbio, e, sul piano globale, nel pensiero che portò alla Dichiarazione Universale del ’48. Un pensiero che sta al polo opposto di quello che, a destra e a sinistra, riduce l’idealità, il vincolo etico in funzione di cui sono progettate tutte le istituzioni democratiche, a ideologia. Cioè a pura retorica di battaglia.
Quel pensiero etico non si è prolungato fra gli intellettuali della guerra fredda prima, e di un atlantismo triumphans poi, ma nei documenti della perestroika e della politica dell’«Europa Casa comune» dello sconfitto Gorbaciov, assai più dei “nostri” leader consapevole della connessione inscindibile fra ordine internazionale e democrazia in ciascuno stato. E pensare che la sciagurata storia della nostra democrazia incompiuta, sempre di nuovo violentemente intimorita, avrebbe dovuto rendercene fin troppo consapevoli.
A proposito di Alleanza atlantica. Giova accostare gli estremi, il grande statista sconfitto e la visionaria che de Gaulle fece confinare in uno stambugio di Londra perché non intralciasse la politica, nel ’43 – e crepasse pure d’inedia e di dolore: Simone Weil. Profetici entrambi. «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente», scrisse Gorbaciov (appena prima di morire). «Sappiamo bene che dopo la guerra l’americanizzazione dell’Europa è un pericolo molto grave», scrisse Simone nel suo stambugio. La perdizione dell’Oriente (non solo mediterraneo) è la perdita del passato e dello spirito.
Ciò che accade oggi, e di cui siamo responsabili, è l’esito dell’avvenuta politicizzazione (ovvio, se l’idealità non è che ideologia) di ogni sfera di valori e di norme, dunque in particolare dell’etica e del diritto, una politicizzazione nel senso più arcaico e tribale di “politica”, intesa come sfera delle relazioni amico-nemico e continuazione della guerra con altri mezzi. Un’evoluzione dell’autoritarismo – più ferino e insieme indissociabile dalla tecnologia, e soprattutto radicato ormai nel potere aziendale e digitale, un completo rovesciamento del Leviatano o “stato etico” fascista, un nazismo a guida privata. Dove l’abolizione della differenza fra il vero e il falso avviene in nome della libertà di opinione e di espressione, e con la forza degli algoritmi che governano i social, per cui poi l’attacco allo straccio di stampa che resta sembra ancora quasi onesto: ti bastono perché non mi piace ciò che dici, all’antica.
Intanto il re non riscrive il passato (che importa) ma i nomi sul mappamondo. E noi? Vorrei rispondere con le parole di Raji Sourani, Raji Sourani, fondatore e direttore del Centro per i diritti umani a Gaza:
«Mi sarei aspettato che l’Europa ci chiedesse di rinunciare alle armi. Macché. Ci chiedeva di rinunciare al diritto».
(Roberta De Monticelli, filosofa nota anche per i suoi interventi pubblici)

 

04 – Sandra Burchi*: PERCHÉ MELONI DICE «TOSSICA» – COMMENTI GIORGIA MELONI DICE LE COSE CON UNA TALE SICUMERA CHE BISOGNA DAVVERO CONCENTRARSI PER RENDERSI CONTO DEGLI SLALOM EFFICACISSIMI CHE COMPIE TRA I PEZZI DI REALTÀ CHE NOMINA E QUELLI […]

Giorgia Meloni dice le cose con una tale sicumera che bisogna davvero concentrarsi per rendersi conto degli slalom efficacissimi che compie tra i pezzi di realtà che nomina e quelli che nega o copre o fa sparire, da abile prestigiatrice. Parlando recentemente alla Cisl e cambiando di volta in volta toni e linguaggi, ha tenuto insieme supposti successi del governo, record in tema di occupazione, promesse mantenute, tecnicismi (reskilling e upskilling), denatalità, attacchi alle banche, lemmi gramsciani (l’ottimismo della volontà) e l’invito (futurista?) a «guardare in alto, guardare oltre». Questo pastiche in cui i comunicatori della presidente sono ormai sempre più esperti è servito solo a presentare il gran finale: «Ricostruire la dinamica tra imprese e lavoro significa gettare le fondamenta di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori, fondata sulla condivisione degli oneri e degli onori». Prefigurando la sua immagine di sindacato ideale, perfettamente incarnato dalla Cisl, la presidente del Consiglio ha dichiarato che è ora di «superare una volta per tutte quella tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere».
Che questo governo abbia una certa ostilità nei confronti di tutto quello che si muove nella società generando dissenso è noto. Cos’è il disegno di legge sicurezza se non un gigantesco attacco frontale al conflitto sociale e alle forme attraverso cui classicamente si esprime? Ma definire «tossica» la visione di chi non ritiene pacificata o consociabile la relazione tra le imprese e il lavoro è un passo in più, questo sì un passo oltre. Meloni ha preso dal linguaggio comune una parola che è diventata di uso corrente per definire una relazione che si ammala, in cui una sostanza produce qualcosa di ingovernabile che porta alla ripetizione senza senso di una dinamica di potere e di sofferenza. Una parola che è transitata dal linguaggio della psicopatologia al linguaggio del quotidiano, esaurendo efficacemente ed esaustivamente tutto l’arco delle complicazioni che possono sorgere in un legame d’amore. Meloni se ne appropria e con un’immagine accosta il conflitto a una dinamica che intrappola le parti immobilizzandole in azioni perverse. Basta andare sul web per trovare migliaia di coach e psicologi che insegnano a riconoscere una relazione tossica dai suoi sintomi, e una persona tossica dalla capacità che ha di rovinare la vita di chi gli sta intorno. Dicono anche come guarire da tutto ciò, chiudendo ogni contatto e andando oltre. La presidente è riuscita ad accartocciare in una parola associata a un dolore personale impossibile da elaborare, la dinamica sociale portata avanti dall’intera storia dei movimenti. Non è un caso che elogiando il segretario uscente, Luigi Sbarra, Meloni abbia scelto di citare un passaggio in cui «Gigi» liquida il Novecento, un secolo caratterizzato da «pregiudizi, antagonismo e furore ideologico», anticaglie che non servono a chi sa fare il sindacato del futuro.
Visione tossica, furore, il conflitto sociale è ripetutamente ridotto all’eccesso e a uno stato di alterazione del senso di realtà e del limite. Quel «qualcuno» che se ne fa ancora interprete, anche nel sindacato è tutt’altro che un soggetto vago. Il riferimento è diretto è al segretario della Cgil, evocato tra le righe anche nel passaggio sulla «rivolta sociale». E infatti Landini, chiamato in causa, le ha risposto via stampa sminuendo l’aggettivo e provando a condividerlo con «tutti i lavoratori tossici». Nell’intervento di Meloni non c’è nessuna attenzione al linguaggio inclusivo, naturalmente: tutti i soggetti, compreso lei stessa, sono al maschile: lavoratori, operai, tecnici, professionisti, sindacalisti. Unica eccezione le «mamme lavoratrici». Anche tutto il corredo valoriale non ha incrinature: coraggio, rispetto, onore, tutta roba da galantuomini. Solo quando sceglie di duellare a distanza con il capo della Cgil Meloni plana sul linguaggio pop ed evoca il fantasma di un’aggressività senza ragioni, la stessa che in molti casi si rivela distruttiva nella dinamica tra i generi senza portare a niente di buono.
Sui giornali in questi giorni sono in molti ad affannarsi a rimettere in fila lotte e democrazia, conflitti sociali e diritti, ma servirà del lavoro per raffreddare il pathos con cui Meloni – da presidente del Consiglio e non da pasionaria di un partito di destra – è riuscita a rappresentare la dialettica tra le parti sociali come nociva al «bene dei lavoratori» e della Nazione. Nel frattempo ha fatto capire bene cosa intende lei per sindacato.
*(Fonte: Il Manifesto. Sandra Burchi – Laurea in Filosofia presso Università di Pisa. · Diplome d’Etudes Approfondies presso Université Sorbonne Paris IV).

 

05 – SUDAFRICA. DENUNCIATO PER “TRADIMENTO” IL GRUPPO CHE CHIEDE INTERVENTO DI TRUMP – SUDAFRICA. DENUNCIATO PER “TRADIMENTO” IL GRUPPO CHE CHIEDE INTERVENTO DI TRUMP (*)

In Sudafrica la popolazione bianca rappresenta l’8% del totale e possiede i tre quarti di tutti i terreni privati del Paese. Il governo ha proposto una legge sulla riforma agraria che prevede la ridistribuzione delle terre in senso più equo. La riforma è fortemente voluta dal partito dell’ex presidente sudafricano Jacob Zuma, MK, che negli ultimi anni ha aumentato vistosamente voti e consensi, fino ad arrivare terzo alle elezioni del 2024.
Fortemente contrario alla riforma il gruppo AfriForum, che sostiene la minoranza bianca Afrikaner in Sudafrica e che ha portato avanti nelle ultime settimane una campagna di delegittimazione della proposta di legge sia sui media che negli ambienti politici statunitensi. Quando la scorsa settimana il presidente Usa Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che taglia l’assistenza finanziaria al Paese, ha citando tra le motivazioni proprio la legge sull’esproprio della terra, oltre all’accusa di genocidio contro Israele che Pretoria ha presentato alla Corte penale internazionale.
Il governo ha difeso la legge agraria, spiegando che il suo obiettivo è quello di correggere le ingiustizie del passato. Ma il presidente Trump ha sposato la tesi dell’AfriForum secondo cui la minoranza Afrikaner, i discendenti di coloni prevalentemente olandesi del XVII secolo, sarebbe perseguitata in Sudafrica. Tale ipotesi è stata giudicata falsa e rigettata dal governo e da quasi la totalità dei partiti politici. Ma Donald Trump ha dichiarato che gli Afrikaner potranno richiedere asilo politico negli Stati Uniti perché oppressi nel proprio Paese.
Il partito MK ha presentato lunedì formale denuncia per tradimento contro AfriForum, responsabile, a suo dire, di una campagna di disinformazione con lo scopo di influenzare e ottenerne l’intervento.
Gli eventi stanno esacerbando questioni razziali che perdurano in Sudafrica dal tempo dell’Apartheid. Problemi come la disoccupazione e la differenza salariale colpiscono soprattutto la maggioranza nera rispetto alla minoranza bianca. Gli agricoltori commerciali bianchi possiedono circa 61 milioni di ettari di terreno, che rappresenta il 78% dei terreni agricoli privati e il 50% di tutti i terreni in Sudafrica. Durante l’apartheid i terreni agricoli venivano confiscati alla popolazione nera per poi essere consegnati ai coloni bianchi. L’obiettivo di una graduale ridistribuzione è stato per questo sempre di primaria importanza nel Sudafrica post-apartheid. Pagine Esteri
*(Fonte: di redazione | 11 Feb 2025 | Africa, In evidenza)

 

06 – LA CORSA ARABA PER TROVARE UN’ALTERNATIVA AL PIANO DI TRUMP PER GAZA – LA CORSA ARABA PER TROVARE UN’ALTERNATIVA AL PIANO DI TRUMP PER GAZA (*)
L’Arabia Saudita sta guidando gli sforzi arabi per sviluppare un piano per il futuro di Gaza, al fine di contrastare l’ambizione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di creare una Riviera del Medio Oriente svuotata dei suoi abitanti palestinesi.
Le bozze di idee saranno discusse in una riunione che si terrà a Riyadh questo mese tra Paesi come Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Le proposte potrebbero riguardare un fondo di ricostruzione guidato dal Golfo e un accordo per mettere da parte Hamas.
L’Arabia Saudita e i suoi alleati arabi sono rimasti sconcertati dal piano di Trump di “ripulire” i palestinesi da Gaza e di reinsediarne la maggior parte in Giordania e in Egitto, un’idea immediatamente respinta dal Cairo e da Amman e vista nella maggior parte della regione come profondamente destabilizzante.
Lo sgomento in Arabia Saudita è aggravato dal fatto che il piano eliminerebbe la richiesta del regno di un percorso chiaro verso la creazione di uno Stato palestinese come condizione per normalizzare i rapporti con Israele – cosa che aprirebbe anche la strada a un ambizioso patto militare tra Riyadh e Washington, rafforzando le difese del regno contro l’Iran.
Reuters ha parlato con 15 fonti in Arabia Saudita, Egitto, Giordania e altrove per costruire un quadro degli sforzi affrettati degli Stati arabi per mettere insieme le proposte esistenti in un nuovo piano da vendere al Presidente degli Stati Uniti – anche chiamandolo eventualmente “piano Trump” per ottenere la sua approvazione.
Tutte le fonti hanno rifiutato di essere identificate perché la questione coinvolge sensibilità internazionali o interne e non erano autorizzate a parlare in pubblico.
Una fonte governativa araba ha dichiarato che sono già state elaborate almeno quattro proposte per il futuro di Gaza, ma quella egiziana sta emergendo come centrale nella ricerca araba di un’alternativa all’idea di Trump.

LA PROPOSTA EGIZIANA
L’ultima proposta egiziana prevede la formazione di un comitato nazionale palestinese per governare Gaza senza il coinvolgimento di Hamas, la partecipazione internazionale alla ricostruzione senza sfollare i palestinesi all’estero e un avanzamento della soluzione a due Stati, hanno dichiarato tre fonti di sicurezza egiziane.
L’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti e i rappresentanti palestinesi esamineranno e discuteranno il piano a Riyadh prima di presentarlo a un vertice arabo in programma il 27 febbraio, ha detto la fonte governativa araba.
Il ruolo del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, noto come MBS, si preannuncia fondamentale.
“Stiamo dicendo agli americani che abbiamo un piano che funziona. L’incontro con MBS sarà fondamentale. Sarà lui a prendere l’iniziativa”, ha dichiarato un funzionario giordano.
Il principe ereditario ha avuto un rapporto privilegiato con la prima amministrazione Trump ed è sempre più al centro dei legami arabi con gli Stati Uniti durante la nuova era Trump
Da tempo un importante partner regionale degli Stati Uniti, il principe ereditario sta espandendo le relazioni dell’Arabia Saudita attraverso gli affari e la politica a livello globale.
Il fondo sovrano dell’Arabia Saudita terrà una conferenza a Miami questo mese, alla quale Trump dovrebbe partecipare, come ha rivelato Reuters. Riyadh dovrebbe anche ospitare i suoi prossimi colloqui con il presidente russo Vladimir Putin per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina.
La Casa Bianca non ha risposto a diverse richieste di commento su questa notizia.
Il Segretario di Stato americano Marco Rubio, parlando giovedì, ha fatto riferimento al prossimo incontro arabo, dicendo: “Al momento l’unico piano – a loro non piace – ma l’unico piano è quello di Trump. Quindi se ne hanno uno migliore, è il momento di presentarlo”.
I portavoce di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Israele non hanno ancora risposto alle richieste di commento richieste da Reuters.

ZONA CUSCINETTO
Si è già dimostrato difficile sviluppare piani chiari per il futuro postbellico di Gaza, in quanto richiedono una presa di posizione su dibattiti controversi riguardanti la governance interna del territorio, la gestione della sicurezza, i finanziamenti e la ricostruzione.
Israele ha già respinto qualsiasi ruolo di Hamas o dell’Autorità Palestinese nel governare Gaza o nel garantirne la sicurezza. Anche i Paesi arabi e gli Stati Uniti hanno detto di non voler dispiegare truppe sul terreno per farlo.
Gli Stati del Golfo, che storicamente hanno pagato per la ricostruzione di Gaza, hanno detto di non volerlo fare questa volta senza garanzie che Israele non distruggerà nuovamente ciò che hanno costruito.
Lunedì, durante il loro incontro alla Casa Bianca, il re di Giordania Abdullah ha sottolineato a Trump che stava lavorando con l’Arabia Saudita e l’Egitto su un piano per Gaza che potesse funzionare, ha dichiarato un funzionario giordano.
Abdullah ha detto nei commenti televisivi dopo l’incontro che i Paesi arabi avrebbero esaminato un piano egiziano e “saremo in Arabia Saudita per discutere come possiamo lavorare con il presidente e gli Stati Uniti”.
Reuters non è riuscita a contattare immediatamente il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi per un commento. Dopo l’incontro di Abdullah con Trump, Safadi ha detto: “Stiamo ora lavorando per cristallizzare il piano arabo”.
Le proposte iniziali condivise dalle fonti di sicurezza egiziane relative alla ricostruzione e al finanziamento sembrano avanzate.
Verrebbe eretta una zona cuscinetto e una barriera fisica per impedire la costruzione di tunnel attraverso il confine di Gaza con l’Egitto. Non appena le macerie saranno rimosse, 20 aree saranno adibite a zone abitative temporanee. Circa 50 aziende egiziane e straniere verrebbero coinvolte per eseguire i lavori.
Per il finanziamento si prevede l’impiego di fondi internazionali e del Golfo, ha dichiarato una fonte regionale a conoscenza della questione. Un potenziale fondo potrebbe essere chiamato “Fondo Trump per la ricostruzione”, ha detto il funzionario del governo arabo.
Tuttavia, le questioni più difficili riguardanti la governance e la sicurezza interna di Gaza devono ancora essere decise, ha affermato il funzionario.
Secondo il funzionario arabo e le fonti egiziane, sarebbe fondamentale costringere Hamas a rinunciare a qualsiasi ruolo a Gaza.
Hamas ha già detto di essere disposto a cedere il governo di Gaza a un comitato nazionale, ma vorrebbe avere un ruolo nella scelta dei suoi membri e non accetterebbe il dispiegamento di forze di terra senza il suo consenso.
Le fonti egiziane hanno affermato che, sebbene il piano non contenga nulla di nuovo, ritengono che sia abbastanza buono da far cambiare idea a Trump e che possa essere imposto ad Hamas e all’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas.

“NON È CONTENTO”
L’IRRITAZIONE SAUDITA A PROPOSITO DI GAZA SI ERA GIÀ MANIFESTATA PRIMA DELL’ANNUNCIO DI TRUMP.
Il regno aveva ripetutamente affermato che la normalizzazione con Israele era subordinata alla creazione di uno Stato palestinese nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est, occupate da Israele.
Questa posizione si è indurita con l’aumentare della rabbia dell’opinione pubblica saudita per la distruzione e la morte a Gaza. A novembre, il principe ereditario ha accusato pubblicamente Israele di genocidio durante un vertice islamico e ha ribadito la necessità di una soluzione a due Statil
Secondo fonti di intelligence regionali, la frustrazione nel regno era alta per la guerra in corso.
Washington sembrava pronta a superare la richiesta di Riyadh di avere due Stati. Il giorno prima dell’annuncio di Gaza, a Trump è stato chiesto se un accordo di normalizzazione potesse andare avanti senza una soluzione a due Stati. Ha risposto: “L’Arabia Saudita sarà molto disponibile”.
L’inviato di Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, ha avuto incontri a Riyadh a fine gennaio. Diplomatici di alto livello hanno detto che Witkoff ha indicato un calendario di tre mesi per il processo di normalizzazione.
Ma la frustrazione saudita si è rapidamente trasformata in sorpresa e poi in rabbia quando Trump ha annunciato la sua idea su Gaza. Una fonte vicina alla corte reale saudita ha commentato la reazione del principe Mohammed: “Non è contento”.
Il livello di rabbia è stato subito evidente nelle trasmissioni dei media statali – che secondo gli analisti sono spesso una misura del punto di vista ufficiale dei sauditi – con servizi televisivi che hanno criticato personalmente il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
“Sono indignati”, ha detto Aziz Alghashian, un analista saudita che ha familiarità con il pensiero ufficiale, descrivendo lo stato d’animo degli alti funzionari sauditi. “Più che di frustrazione, si tratta di un altro livello”.
Secondo molti esperti, Trump potrebbe utilizzare un vecchio stratagemma di contrattazione tratto dal suo libro di giochi diplomatici, ovvero definire una posizione estrema come apertura per i negoziati. Durante il suo primo mandato, ha spesso emesso dichiarazioni di politica estera considerate esagerate, molte delle quali non si sono mai realizzate.

CIÒ HA COMUNQUE COMPLICATO I COLLOQUI DI NORMALIZZAZIONE.
L’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, che attualmente non ricopre alcun ruolo nel governo, ha dichiarato in un’intervista alla CNN la scorsa settimana che se Trump visitasse Riyadh, “sono sicuro che riceverebbe una strigliata dalla leadership qui”.
Alla domanda se vedesse una prospettiva di avanzamento dei colloqui di normalizzazione con Israele, ha risposto: “Per niente”.
*(di redazione | 13 Feb 2025 | Medioriente, Primo Piano – di L’Orient Le Jour –Reuters)

 

07 – Eliana Riva*: IL METODO GAZA PER SVUOTARE I CAMPI PROFUGHI IN CISGIORDANIA – PALESTINA/ISRAELE IL TIPO E LA DURATA DELLE OPERAZIONI MILITARI ISRAELIANE E LO SFOLLAMENTO FORZATO INDICANO UN OBIETTIVO CHIARO: RENDERE LE COMUNITÀ INVIVIBILI. NELLA STRISCIA UN RAID ISRAELIANO DISTRUGGE UNO DEI POCHI BULLDOZER PER RIMUOVERE LE MACERIE.

Va avanti ormai da più di tre settimane l’operazione militare israeliana nella Cisgiordania occupata. 40mila persone sfollate, secondo i dati dell’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa dei profughi palestinesi. I numeri, la violenza e le modalità dell’attacco lo rendono diverso dalle centinaia di raid degli ultimi anni. «Il tentativo – dice il sindaco di Jenin, Mohammad Jarrar – è rendere permanente lo sfollamento».
Questa volta le persone sono costrette a rimanere lontane dalle proprie case per periodi più lunghi e, se hanno il permesso di ritornare, ciò che trovano è distruzione. I campi profughi, che portano già i segni dell’occupazione e delle distruzioni operate dall’esercito israeliano in passato, stanno diventando luoghi invivibili. Grazie al «metodo Gaza» di esplosioni e incendi. L’esercito israeliano ha dichiarato di non voler cacciare i palestinesi, ma di offrire loro un passaggio sicuro per lasciare i campi durante i combattimenti.
BEN DIVERSE le testimonianze degli abitanti. I militari usano bombe e spari contro le case di chi si rifiuta di andar via. Annunci intimidatori vengono emessi in arabo dagli altoparlanti delle moschee, diffusi attraverso volantini e poster. La sensazione di tanti è che questo attacco intenda completare l’espulsione dell’Unrwa: se i campi profughi non esistono più, non c’è motivo che l’agenzia rimanga in Cisgiordania.
Secondo il commissario generale Philippe Lazzarini, Israele porta avanti una campagna di disinformazione in giro per il mondo, con cartelloni e annunci pubblicitari che descrivono l’Unrwa come un’entità terroristica. L’obiettivo, per Lazzarini, è «spogliare i palestinesi del loro status di rifugiato» e l’attacco starebbe «mettendo a rischio la vita del personale, specialmente in Cisgiordania».
Ma non sono solo i campi profughi del nord a essere attaccati. Ieri un bambino palestinese di 14 anni è stato colpito al collo dalle schegge di un proiettile sparato dai soldati israeliani a Nablus. L’esercito è entrato anche a Betlemme e Hebron, improvvisando nuovi posti di blocco e chiudendo le arterie principali con cancelli elettrici. Centinaia di auto sono rimaste in coda per ore.
Le strade riservate ai coloni israeliani rimangono, invece, liberamente percorribili. Coloni che moltiplicano i propri raid nei villaggi palestinesi, attaccando gli abitanti, le loro proprietà e occupando le terre.
Anche nella Striscia proseguono le aggressioni, soprattutto con droni. Ieri l’agenzia Wafa ha fatto sapere che ad al-Mughraga, nel centro dell’enclave, l’esercito ha bombardato un bulldozer impegnato a rimuovere le macerie delle case distrutte. Due feriti.
ALTRE DECINE di corpi, intanto, sono state recuperate e il ministero della salute ha aggiornato il numero delle vittime nella Striscia a 48.264 dal 7 ottobre 2023. A cui si aggiungono le circa 12mila persone rimaste sotto le macerie. Mentre riaprono i panifici gestiti dal Programma alimentare mondiale, gli aiuti restano insufficienti e in migliaia sono costretti a sistemarsi tra le macerie o a dormire nei cimiteri.
*(Fonte: Il Manifesto. Eliana Riva, Storica, esperta di Paesi Islamici, documentarista)

 

08 – Tommaso Di Francesco*: LO «GNOMMERO» DELLA GUERRA UCRAINA – COMMENTI LA STRATEGIA DI TRUMP È GANGSTERISTICA, MA INVECE DI INTRAVVEDERE LA POSSIBILITÀ CHE SI APRE, L’EUROPA RAGIONA COME SE INCREDIBILMENTE LA PACE FOSSE UN PERICOLO.

C’è una parola in particolare che descrive quello che è diventata la guerra ucraina. La prendiamo dal vocabolario del grande scrittore Emilio Gadda, che la mutuò da quello romanesco per il romanzo Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, ed è «gnommero». Vuol dire groviglio, garbuglio, matassa annodata, per la quale, se non si va al capo iniziale con cui il gomitolo è stato inizialmente avvolto, non c’è alcuna possibilità di sbrogliarlo. Perché è ormai proprio uno gnommero la crisi che da quasi tre anni si consuma nel sangue di tante giovani vite, ucraine e russe, una intera generazione mandata al macello nel cuore d’Europa. Ma non dimenticando, ecco il punto, l’inizio del 2014 con l’oscura vicenda di Majdan e gli otto anni di guerra civile interna tra esercito ucraino e milizie ucraine filo russe. Nei quali anni abbiamo sentito di tutto, quasi mai una parola di pace dalle leadership internazionali che dopo ben due negoziati, Minsk 1 e Minsk 2 abilmente fatti fallire, hanno abbandonato l’Ucraina al suo destino infausto. Perché bisognava, o meglio ancora bisogna, arrivare ad una «vittoria militare» dell’Ucraina, all’inflessibile ingresso di Kiev nella Nato che, dimenticando che è stata la «ragione» della guerra, è stato rivendicato e praticato fino a poche ore fa come obiettivo dall’Alleanza atlantica.
Da Zelenski da molti Paesi Ue e dai comandi militari in primis dal “nostro” Dragone, nonostante gli Stati uniti – che ne hanno la guida militare e politica – siano stati e sono contrari, prima di Trump lo stesso Biden, comprendendo che lo sbocco sarebbe quello di una guerra totale, atomica con la Russia.
Ora accade che l’isolazionista imperiale Trump – perché è chiaro che il suo isolazionismo lo paghiamo noi, con gli acquisti monopolisti di armi, di energia e sotto l’imposizione di feroci dazi economici – muova a una mediazione e trattativa con l’ultimo nemico dell’Occidente, zar Putin; dopo tre anni di combattimenti e di spargimento di sangue in Ucraina e anche in Russia. È pur vero che una pace fatta di sole imposizioni, sbilanciata e quindi ingiusta non sarebbe che l’anticamera di una nuova guerra come dichiarò Keynes per il trattato di Versailles dopo la Prima guerra mondiale. Ma resta sicuramente altrettanto vero e più accettabile che un cessate il fuoco subito e una trattativa di pace sostenuta dai protagonisti internazionali – non come quella di Istanbul, accettata sia da Kiev che da Mosca, che poteva far finire il conflitto e venne fatta fallire dall’ex leader britannico e transatlantico Boris Johnson – con la prospettiva di un accordo di non belligeranza sarebbe a questo punto meglio di qualsiasi guerra.
L’aspettativa diffusa tra i popoli è grande, come all’interno dei Paesi coinvolti, in Ucraina dove abbiamo sostenuto ogni addestramento alle nuove armi che per miliardi e miliardi abbiamo inviato a Kiev senza accorgerci che centinaia di migliaia di giovani si organizzavano per rifiutare il reclutamento, anche a rischio della loro vita e libertà; e in Russia dove solo la fine di questa guerra può aprire una prospettiva politica diversa dal neo-zarismo putiniano dando voce a quanti la guerra non l’hanno voluta e che rifiutano i processi autarchici del potere di Putin, che indubbiamente la rivendicherà come vittoria, ben misera però; perché a ben vedere a mala pena riuscirà a nascondere la ferita nel corpo sociale della Federazione russa e nel mondo con il chiaro timore della violenza sottesa ad ogni sua promessa. Una sorta di isolazionismo forzato, «rispettato» perché armato, vincente sul terreno dei rapporti di forza ma non del diritto, della civiltà e della democrazia.
Ora, invece di intravvedere le possibilità che si apre, si ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo, un rischio. E ogni armamentario ideologico è buono, sempre nella fretta di azzerare le nostre responsabilità e il passato, quello remoto e quello prossimo che più o meno consapevolmente abbiamo vissuto tutti noi. Si ripete dagli scranni del parlamento e dei giornali mainstream che «la sicurezza è stata rimessa in discussione dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina» e che con Trump «stiamo abbandonando il canone occidentale».
Ma la domanda è: tutte le guerre che negli ultimi 30 anni l’Occidente ha condotto, con massacri di massa e spargimento di sangue in Somalia, ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia e pure in Siria quale sicurezza hanno costruito nel mondo?
E quale messaggio di sicurezza e canone occidentale sono arrivati a Putin che per anni ha chiesto di non allargare la Nato a est con basi militari, sistemi d’arma, missili ai confini russi?
Cosa che inesorabilmente e perfino, militarmente tronfi, abbiamo fatto contro ogni evidenza e consapevolezza, diffusa perfino nelle alte gerarchie militari occidentali e nelle analisi dei promotori bipartisan della stessa politica estera Usa?
Sarà sfuggito al cattolico presidente Mattarella che perfino papa Bergoglio per spiegare quel che è accaduto con l’Ucraina abbia azzardato la metafora pungente dell’«abbaiare della Nato ai confini russi»?
E quale canone occidentale è emerso da tutte le “nostre “guerre se non quello del «dominio espansivo» – proprio come da lectio magistralis presidenziale? E poi non è singolare il fatto che mentre si azzardano paragoni con il nazismo, a fomentare nella Germania i neonazisti sia l’amico amerikano?
Ma all’occasione di una trattativa di pace, certo ambigua e pericolosa e che può risolversi in un nulla d fatto e precipitarci ancora di più nel baratro, non solo non viene colta ma si risponde con l’impegno ad aumentare i già inutili finanziamenti miliardari in armi a Kiev perché continui la guerra a nome nostro e ora addirittura con la sospensione del famigerato Patto di stabilità per produrre nuove micidiali armi. Vale a dire più odio, più vittime, più guerra. Alimentando in modo cieco l’idea che raggiungere oltre il 3% della spesa atlantica e/o un modello unificato a forza della difesa europea comune – provate a mettere insieme il controllo dell’atomica francese con il comando delle autoblinde lituane -, rappresenti la risposta alla voragine aperta dalla nuova strategia compradora-gangsteristica di Trump – questo è con chiarezza in Medio Oriente, sulla pelle dei palestinesi.

NO, LA RISPOSTA NON SONO LE ARMI. IL VERO DEFICIT DELL’EUROPA UNITA FIN QUI REALIZZATA, È UN DEFICIT POLITICO. L’UNIONE NON HA STRUTTURALMENTE UNA SUA POLITICA ESTERA CHE È STATA FIN QUI GUIDATA DALL’ALLEANZA ATLANTICA, E A DIRE ETERODIRETTA DA WASHINGTON.
Prima di ogni difesa comune, dai costi impensabili, è fondamentale che l’Unione europea decida quale è il suo ruolo nel mondo e se non è ora di tornare a ragionare, oltre i troppi muri e fili spinati, degli obiettivi internazionali, inclusivi e democratici verso tutto l’Est – fin qui fatto entrare tutto nella Nato a caccia del nuovo nemico – e verso il Mediterraneo, vale a dire il segmento orientale che è fa parte della sua storia. Solo una strategia estera di pace sarà capace di togliere acqua e alimento a ogni pretesa autarchica, che cresce solo sulla base della rivendicazione nazionalista-identitaria e violenta. Altrimenti le autocrazie e l’estrema destra suprematista cresceranno nel cuore d’Europa sempre più. E a ogni rifiuto di strategia di pace dell’Europa si apriranno, come ora, crisi locali che ingoieranno ogni futuro.
*(fonte: Il Manifesto. Tomaso Di Francesco, è condirettore del quotidiano comunista il manifesto, fa parte del gruppo del Manifesto dalla radiazione dal Pci a fine 1969)

 

 

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