
01 – Lia Tagliacozzo*: Auschwitz e la scelta di Sisifo, la sfida per costruire il domani
Giorno della Memoria Intervista a David Bidussa, autore di «Pensare stanca», per Feltrinelli
02 – Mario Di Vito*: «Vogliono cambiare la Costituzione senza nemmeno dialogare»
Intervista Rocco Maruotti (Area Dg): «I giudici non fanno politica, ma è la politica che ha abdicato al suo ruolo»
03 – Alessandro Portelli*: il razzismo come nuovo fondamento – attacco al cuore al centro di questa rinnovata malvagità egemonica sta il ritorno all’arcaico diritto di sangue: sono veri americani (come, peraltro, sono cittadini italiani) quelli che possono vantare che nelle loro vene scorra il puro sangue della nazione
04 – Tommaso Munari . L’American Historical Association e il quesito su “dove stia andando la storia” Il 138° congresso annuale dell’AHA, la più antica società di storici degli Stati Uniti d’America, ha riunito quattromila studiosi dal 3 al 6 gennaio 2025
05 – Marco Santopadre*: Ossessione artica degli Usa, la Groenlandia è solo la punta dell’iceberg
06 – Luca Celada*: A Davos i cortigiani di Trump. Il padrino Il presidente Usa detta la linea del nuovo «radioso» mondo del capitale. Abolizione del Green New Deal, fine delle «ingerenze» Ue
07 – IL MESSICO SI PREPARA A RICEVERE I MIGRANTI CHE TRUMP VUOLE ESPELLERE – IL GOVERNO STA ALLESTENDO GRANDI CENTRI D’ACCOGLIENZA IN NOVE CITTÀ SUL CONFINE CON GLI STATI UNITI, DOPO LE MOLTE MISURE RESTRITTIVE IMPOSTE DAL NUOVO PRESIDENTE
01 – Lia Tagliacozzo*: AUSCHWITZ E LA SCELTA DI SISIFO, LA SFIDA PER COSTRUIRE IL DOMANIGIORNO DELLA MEMORIA INTERVISTA A DAVID BIDUSSA, AUTORE DI «PENSARE STANCA», PER FELTRINELLI
«La prima cosa da dire è che la liberazione di Auschwitz non è avvenuta ottant’anni fa ma è entrata nella coscienza collettiva solo quando abbiamo davvero cominciato a narrare per raccontarla». Storico delle idee, David Bidussa, a lungo direttore della Fondazione Feltrinelli, studioso della contemporaneità con molti titoli all’attivo (l’ultimo è Pensare stanca: passato presente e futuro dell’intellettuale, Feltrinelli, pp. 224, euro 18), ha risposto alle domande del manifesto sul significato del Giorno della memoria, a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata rossa.
HA SENSO CONTINUARE A RICORDARE AUSCHWITZ O È UNA MEMORIA CHE VA LASCIATA ANDARE. È FORSE GIUNTO IL MOMENTO DI CONSEGNARLA ALL’OBLIO?
Ciò che racconti è il preambolo per ciò che vuoi fare dopo. Ritengo che celebriamo la liberazione di Auschwitz perché, in qualche modo, siamo capaci di costruire un domani: la liberazione del più grande campo di sterminio invece, nella mia opinione, è un tempo e un territorio di nessuno. Non è ancora «domani».
AUSCHWITZ, QUINDI, È FUORI DALLA STORIA?
No, affatto, significa che è il momento più profondo dell’esserci nella storia. Usiamo un’immagine letteraria: quella di Albert Camus sul mito di Sisifo. Sisifo può decidere di rimanere seduto a guardare la pietra che sta in fondo al baratro. In quel frangente è sconfitto. Può però decidere di scendere nell’antro e ricominciare a spingere: nel momento in cui prende quella decisione, si alza in piedi e scende verso l’antro, lui è più forte della pietra. Penso che per noi Auschwitz abbia senso esclusivamente se lo immaginiamo come Sisifo che si rialza e scende: fin quando semplicemente guardiamo l’antro e il masso che sta in fondo, siamo subordinati a quella pietra.
E COSA SIGNIFICA OGGI «SCENDERE NELL’ANTRO»?
Significa non assumere come scena della riflessione solo e prevalentemente la figura della morte, la figura del degrado del corpo e provare a considerare un’altra forma della politica.
COME SI PUÒ RESTITUIRE UNA PROSPETTIVA ALLA POLITICA DOPO AUSCHWITZ?
Significa per prima cosa sapere che si può sbagliare. Esci da quel buco se hai dubbi, non se hai certezze. È uno dei difetti della politica di questi tempi ritenere che si possa rispondere ai disastri immaginando di aver ragione: devi mettere in discussione il tuo paradigma culturale perché non è esente da quell’esito.
È POSSIBILE PENSARE AUSCHWITZ SENZA UN’IDEA DI FUTURO?
Il futuro si può immaginare esclusivamente con la consapevolezza dell’errore, se sai che potresti non possedere tutto il sapere per costruire un’alternativa. Futuro è prima di tutto la possibilità di ibridare. Non credere che la tua cultura abbia tutte le risposte per reagire al tempo presente. La scena di Auschwitz comporta una richiesta: se vuoi superarla, devi indagare le premesse culturali e politiche che l’hanno resa possibile. È importante farsi carico di un’analisi delle culture politiche che hanno fatto parte complessivamente di quell’esito.
IN TUTTO CIÒ, CHE RUOLO HA LA MEMORIA, COSÌ COME LA RACCONTIAMO AI RAGAZZI, DESTINATARI DELLA LEGGE SUL GIORNO DELLA MEMORIA E A TUTTI COLORO CHE SONO I DESTINATARI DELLE INIZIATIVE LEGATE A QUESTA DATA?
Dovremmo raccontare tutte le numerose strade tra loro diverse – in alcuni casi intenzionali, in altre non intenzionali, in altre ancora casuali – che conducono a quella scena. Sono convinto che tutti i processi di genocidio e di sterminio siano il risultato della costruzione di un nemico inteso come entità con cui è impossibile coabitare e che io devo eliminare. Perché questo avvenga, però, non basta semplicemente che qualcuno agisca in qualche modo, perché nel Novecento le politiche sono state proprio costruzione di opinioni pubbliche.
E NEL DUEMILA?
La prima necessità è comprendere che i fenomeni di questo genere avvengono puntando sulla dimensione dell’obbedienza. Una volta che analizzi la macchina che è stata Auschwitz, la prima domanda che devi farti non è come sia stato possibile, ma dove fosse l’opposizione. Dov’era un’opinione pubblica che non era d’accordo? Possiamo farci atterrire dalle condizioni fisiche di chi è stato trovato sopravvissuto il 27 gennaio mattina, ma quel sopravvissuto non è altro che l’ultimo step di un lungo percorso in cui, all’origine, c’è un’opinione pubblica che è stata costruita perché quel percorso possa avvenire. Quindi, il primo dato su cui ragionare è se noi ci raccontiamo una storia che riguarda le convinzioni nazionali, come costruisci la categoria di amico-nemico, quale sensibilità politica e culturale viene messa in campo. Dobbiamo cominciare a riflettere sulle società civili acquiescenti e senza opposizioni.
ADESSO CHE I TESTIMONI STANNO SCOMPARENDO, CHE I LUOGHI DELLA MEMORIA SONO SOTTOPOSTI ALL’USURA DEL TEMPO, QUALI STRUMENTI ADOPERARE?
C’è una sfida che si va ad aggiungere: è una sfida in termini di creatività, di capacità di provare emozione. Riguarda tanto l’abilità di tessere un discorso storico quanto la capacità in termini creativi, letterari, cinematografici. C’è un fronte dei sentimenti sul quale si gioca una partita importante.
*(Lia Tagliacozzo, scrive su varie testate, tra cui “il manifesto” èConfronti”, cura documentari per la televisione)
02 – Mario Di Vito*: «Vogliono cambiare la Costituzione senza nemmeno dialogare»
Intervista Rocco Maruotti (Area Dg): «I giudici non fanno politica, ma è la politica che ha abdicato al suo ruolo»
Rocco Maruotti, sostituto procuratore a Rieti e candidato con Area dg al parlamentino dell’Anm, il momento, come sappiamo, è complesso e si sta aprendo una partita decisiva sulle sorti dell’indipendenza della magistratura. Come dovrà e cosa dovrà fare la prossima giunta?
Quello che stiamo attraversando è uno snodo cruciale per il futuro assetto della democrazia, così come ci è stata consegnata dai padri costituenti. Il tentativo di riformare la magistratura mettendo mano al testo costituzionale, senza alcuna disponibilità al confronto e al dialogo, non solo all’esterno ma anche all’interno del Parlamento, è un fatto che dovrebbe preoccupare tutti. La prossima giunta avrà quindi il compito decisivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli che questa riforma porta con sé e dovrà farlo perseguendo l’unità interna e cercando convergenze con tutti quei settori della società civile che hanno già compreso che la posta in gioco non riguarda solo i magistrati, ma tutti i cittadini.
L’ipotesi del referendum sulla riforma è sempre più concreta. Vede il rischio che questo appuntamento si trasformi in un sondaggio pro o contro la magistratura perdendo di vista il fatto che si tratterà di decidere su un’importante questione che tocca la Costituzione?
A voler impostare il referendum come un sondaggio pro o contro la magistratura è Nordio che ha preannunciato che si rivolgerà ai cittadini con un semplice quesito: “Vi piace questa giustizia? Se la risposta è no votate sì al referendum”. È evidente che l’obiettivo è banalizzare questioni molto più complesse. In realtà è bene che si sappia che, in questi termini, il referendum si risolverebbe in un giudizio sull’operato di Nordio, visto che l’articolo 110 della Costituzione affida a lui il compito di assicurare il buon funzionamento della giustizia. L’obiettivo dell’Anm, perciò, dovrà essere quello di continuare a spiegare che gli unici che potranno beneficiare di una eventuale vittoria del sì al referendum sono i politici, che vedranno ridursi il controllo di legalità sul loro operato, a scapito dei cittadini e del principio di uguaglianza.
L’Anm ha già fatto sapere di voler partecipare in maniera, diciamo, incisiva alla futura campagna referendaria. Non teme le accuse di politicizzazione?
La magistratura non fa politica e il magistrato ha, al pari di qualsiasi altro cittadino, il diritto di manifestare il suo pensiero. Inoltre, tra gli scopi statutari dell’Anm vi è quello di “dare il contributo della magistratura nella elaborazione delle riforme legislative, con particolare riguardo all’ordinamento giudiziario”. Piuttosto è la politica che ha smesso di svolgere il suo ruolo di guida autorevole del paese. L’Anm non è mai intervenuta su riforme che non riguardassero la giustizia, e ogni volta che è intervenuta nel dibattito pubblico lo ha fatto al solo scopo di fornire un contributo tecnico altamente qualificato. In questo caso, poi, non sono in discussione le prerogative dei magistrati, poiché la riforma non incide sul nostro status di lavoratori, ma tocca, in definitiva, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che sono i capisaldi della separazione dei poteri, che se questa riforma dovesse passare verranno inevitabilmente messe in discussione, come avviene in tutti quei paesi nei quali le carriere dei magistrati sono già separate.
Se dovesse dirne solo uno, qual è il lato della riforma della giustizia che considera peggiore?
La parte peggiore della riforma è quella che interviene sulla struttura, sulle funzioni e sulla modalità di individuazione mediante sorteggio dei componenti del Csm, perché con il suo sdoppiamento si finirà per allontanare i pm dalla “comune cultura della prova” che oggi li accomuna ai magistrati giudicanti. Con la creazione dell’Alta corte disciplinare si sottrae all’organo di autogoverno il potere disciplinare per affidarlo ad un tribunale speciale altamente gerarchizzato e questo da solo basterà a controllare i magistrati, a condizionarne in modo improprio l’operato e a sanzione quelli sgraditi; ma, soprattutto, l’introduzione del sorteggio priverà di autorevolezza e rappresentatività un organo di rango costituzionale, che diventerà anche l’unico per il quale varrà il motto “uno vale l’altro”, in spregio alla necessità che ad occuparsi di questioni complesse siano persone selezionate per le loro attitudini e per la loro rappresentatività dell’intera categoria dei magistrati.
METTENDO DA PARTE LA RIFORMA, CHE GIUDIZIO DÀ DELL’OPERATO DI QUESTO GOVERNO IN MATERIA DI GIUSTIZIA?
Questo giudizio lo affido agli italiani, i quali, peraltro, disertarono il referendum sulla separazione delle funzioni dei magistrati del 2022, anno delle ultime politiche, a dimostrazione del fatto che chi ha votato per questa maggioranza non lo ha certo fatto perché considera la separazione delle carriere una priorità. Quello che rilevo tuttavia è che un governo che si professa liberale e garantista ha prodotto finora leggi che mirano a ridurre gli spazi di libertà dei cittadini e a propugnare un modello di contrasto al crimine che incide solo sulle fasce più fragili della popolazione, riducendo invece il controllo di legalità sui “colletti bianchi”. Scelte legittime ovviamente, ma che rischiano di determinare una involuzione verso una società meno eguale, meno coesa e meno solidale. Credo che questi temi interessino agli italiani più che la separazione delle carriere, che non servirà ad accorciare di un solo giorno la durata dei processi né a rendere la giustizia più giusta.
Ogni giorno sei esposto a notizie che minacciano la tua serenità. Può capitare che qualcuno ti parli di diseguaglianze, salari bassi e ingiustizie. Non sono persone cattive: solo soltanto persone entrate a contatto con notizie spiacevoli e contrarie ai tuoi valori di Patria e famiglia.
Puoi fare molto per queste persone: dì loro di smettere e proponi una lettura equilibrata, con gattini e curiosità. Perché per informarsi non serve per forza avvelenarsi la giornata.
Se conosci qualcuno che fa uso del manifesto quotidianamente chiedigli di smettere. Con un semplice gesto contribuirai a proteggere l’ambiente da sentimenti tossici e a creare un clima, più sereno e libero da pensieri critici.
*(Mario Di Vito -Cronista politico, si occupa per lo più di giustizia e ingiustizia. Ha scritto alcuni libri, l’ultimo è “La pista anarchica” (Editori Laterza)
03 – Alessandro Portelli*: IL RAZZISMO COME NUOVO FONDAMENTO – ATTACCO AL CUORE AL CENTRO DI QUESTA RINNOVATA MALVAGITÀ EGEMONICA STA IL RITORNO ALL’ARCAICO DIRITTO DI SANGUE: SONO VERI AMERICANI (COME, PERALTRO, SONO CITTADINI ITALIANI) QUELLI CHE POSSONO VANTARE CHE NELLE LORO VENE SCORRA IL PURO SANGUE DELLA NAZIONE
Quando ho visto la foto delle persone in fila per essere deportate ho pensato che doveva essere un falso. Invece è proprio una comunicazione ufficiale della Casa Bianca: non solo non si vergognano delle deportazioni di massa di gente che non ha fatto nulla di male, ma se ne vantano – come tanti nostri governanti da anni si vantano del numero di espulsioni di migranti dalle nostre sacre e incontaminate rive.
Commentando certi episodi di mobilitazioni anti Rom nel mio quartiere, una giovane compagna diceva anni fa: questo non è razzismo, è cattiveria. È cattiveria, nel senso preciso di godere della sofferenza di altri, e invitare a fare di questo perverso godimento il senso comune del nostro tempo.
Al centro di questa rinnovata malvagità egemonica sta il ritorno all’arcaico diritto di sangue: sono veri americani (come, peraltro, sono cittadini italiani) quelli che possono vantare che nelle loro vene scorra il puro sangue della nazione.
A questo punta una promessa-minaccia ancora più radicale della presidenza Trump: l’abolizione dello ius soli, grazie al quale chiunque nasca sul suolo degli Stati uniti è cittadino americano. È qualcosa che sta nelle vene stesse degli Stati uniti, la spina dorsale di quella democrazia inclusiva e molteplice che sono stati e che l’Italia non riesce a diventare (tanto più che adesso potrà contare anche sul modello di un paese da cui scegliamo sempre di imitare il peggio).
L’abolizione dello ius soli infatti va anche oltre la minaccia alle famiglie non interamente «autoctone». Si tratta infatti di un principio garantito dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione, varato subito dopo la Guerra civile: «Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati uniti e dello Stato in cui risiedono».
Varato prima della grande immigrazione di massa, l’emendamento aveva una funzione ancora più radicale: serviva a dichiarare che erano cittadini degli Usa gli afroamericani, appena usciti dalla schiavitù. Pochi anni prima della Guerra civile una memorabile sentenza della Corte suprema aveva sancito, infatti, che gli afroamericani non erano, e non potevano essere, cittadini degli Stati uniti e non avevano nessun diritto che un bianco fosse tenuto a rispettare. C’era voluta la più grande strage che la storia avesse visto prima di allora per cancellare questo orrore.
Cancellare il principio sancito dal quattordicesimo emendamento significa, in ultima analisi, anche cancellare il fondamento della cittadinanza degli afroamericani – non necessariamente in modo esplicito, non necessariamente in tempi brevi (come stanno subito obiettando quei giudici che ancora ci sono in California e altrove, un ordine esecutivo non può cancellare un diritto costituzionale), ma sul piano dell’ideologia e delle pratiche quotidiane. Diventa, in altre parole, la sanzione ufficiale dì quelle pratiche violente e discriminatorie che il movimento Black Lives Matter e le proteste dopo l’assassinio di George Floyd avevano denunciato ma che continuano indisturbate e, adesso, ancora più protette.
C’è un’altra clausola nella prima sezione del quattordicesimo emendamento, che viene evocata da quella foto: «Nessuno Stato potrà privare nessuna persona di vita, libertà o proprietà, senza giusto processo di legge». Attenzione: non dice «nessun cittadino» ma nessuna persona, cittadino o non cittadino, legale o illegale. Le retate di massa, le deportazioni a tamburo battente violano anche questo principio. Ma niente paura: è tutto in regola, l’emendamento dice «nessuno Stato» e a deportare le persone non sono i singoli Stati, ma il governo federale e il suo autocratico presidente, che da oggi si proclama al disopra della legge e al disopra dell’umanità – e se ne vanta.
*(Alessandro Portelli è un critico musicale e storico italiano. È stato professore ordinario di letteratura angloamericana all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”)
04 – Tommaso Munari. L’AMERICAN HISTORICAL ASSOCIATION E IL QUESITO SU “DOVE STIA ANDANDO LA STORIA” IL 138° CONGRESSO ANNUALE DELL’AHA, LA PIÙ ANTICA SOCIETÀ DI STORICI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA, HA RIUNITO QUATTROMILA STUDIOSI DAL 3 AL 6 GENNAIO 2025 – LO STATO DI SALUTE DELLA CONOSCENZA STORICA “SCHIAVITÙ”
Si esce arricchiti, ma al tempo stesso stremati, dal 138° congresso annuale dell’American Historical Association (AHA), la più antica società di storici degli Stati Uniti d’America. Parliamo di quattromila studiosi chiusi per quattro giorni – dal 3 al 6 gennaio 2025 – nei saloni tutti uguali degli hotel Hilton e Sheraton di New York, impenetrabili al minimo spiraglio di luce naturale. D’altra parte il programma del congresso è così fitto da non lasciare
il tempo di pensare che, fuori da quei due enormi edifici di Midtown, il mondo sta correndo a tutta velocità verso il futuro. Un futuro che la Storia, per quanto si atteggi a magistra vitae, non sarà mai in grado di prevedere.
LO STATO DI SALUTE DELLA CONOSCENZA STORICA
Al contrario, il presente è ormai il suo pane quotidiano. Delle circa 550 sessioni in cui si articola il congresso, una buona parte è dedicata a questioni di stretta attualità. Ovviamente è il passato a dominare la maggioranza degli incontri, ma il tema implicito del congresso è lo stato di salute della conoscenza storica: qual è il suo rapporto con il presente? E il suo posto nel dibattito pubblico? Come dev’essere insegnata e divulgata la storia? Ma procediamo con ordine.
Tutto è iniziato alle 11 di venerdì 3: migliaia di studiosi di ogni età (ma prevalentemente sulla trentina) e di ogni provenienza (ma soprattutto nordamericani) rigorosamente in fila per ritirare l’indispensabile pass, un cartoncino con il proprio nome e la propria affiliazione che può arrivare a costare 453 dollari. Prezzi scontati, va detto, sono riservati ai membri dell’AHA, agli studenti, ai disoccupati e ai pensionati, ma i soli a non pagare un centesimo sono i rappresentanti della stampa, i quali, a eccezione del sottoscritto, sembrano però latitare. La storia, evidentemente, non fa notizia.
Una volta infilato al collo il pass, condizione necessaria per potersi muovere liberamente nei meandri del congresso, il tour de force può cominciare, sebbene non sia facile capire da dove: l’offerta è talmente vasta da provocare un senso di vertigine. La strategia migliore è abbandonarsi al caso e affacciarsi qua e là, purché sia chiaro che ciò implicherà continui salti nel tempo e nello spazio: dalle corti dell’Italia barocca ai caffè della scena Punk; dalle miniere andine nel «capitalocene» alle stazioni radio nella Guerra fredda; dalle case editrici dell’India coloniale alle scuole dell’odierna Palestina.
Quest’ultimo, per inciso, è stato l’incontro più acceso del congresso. Dopo una tavola rotonda volta a discutere le conseguenze dello «scolasticidio» perpetrato a Gaza – ovvero l’eradicazione intenzionale del sistema educativo palestinese attraverso la distruzione delle sue infrastrutture e l’uccisione del suo personale – i membri dell’American Historical Association hanno approvato, con 428 voti a favore, 88 contrari e 2 astenuti, una risoluzione di condanna contro la violenza israeliana che ne è all’origine. Una risoluzione incredibilmente bocciata il 17 gennaio dal consiglio elettivo dell’AHA in quanto estranea alla sua missione statutaria: «promuovere gli studi storici attraverso l’incoraggiamento della ricerca, dell’insegnamento e della pubblicazione».
Descritto così, il programma del congresso potrebbe far pensare a una scatenata scorribanda tra i temi e le epoche più disparate. E in parte lo è. Del resto l’incontro annuale dell’AHA è da sempre concepito come una grande vetrina della ricerca storica, in cui gli studiosi s’informano reciprocamente sui risultati dei propri progetti (dicasi dissemination) e stringono contatti utili all’avanzamento delle loro carriere (dicasi networking). Non c’è dubbio, però, che la parola chiave di questa edizione sia «schiavitù». Slave, enslaved e slavery compaiono nel programma (di 144 pagine) ben 65 volte. E alla schiavitù è dedicato anche il presidential address di Thavolia Glymph.
Cento quarantaquattresimo presidente dell’American Historical Association, Glymph è la sedicesima donna a occupare quella posizione e la prima afroamericana. Professoressa di storia alla Duke University, nel 2020 ha pubblicato il pluripremiato The Women’s Fight, dedicato al ruolo delle donne sui vari fronti della guerra civile americana: militare, politico e morale. Uno di questi – la battaglia per la fine della schiavitù – costituisce anche lo sfondo del suo discorso ufficiale.
Offuscato da un titolo un po’ ampolloso che potremmo tradurre con «Tracce di carta nell’archivio meravigliosamente chiassoso della schiavitù», Glymph ha in realtà lanciato un limpido appello a non dimenticare che a volte gli archivi nascondono più di quanto rivelino. In quelli degli schiavisti, dei mercanti e dei banchieri, per esempio, la voce delle persone schiavizzate è spesso assente o distorta. Eppure si può trovare proprio lì, celata tra le righe di quegli infausti documenti che registrano le loro fughe disperate, le loro coraggiose proteste, i loro fermi «preferirei di no».
Con la voce continuamente rotta dalle lacrime, Glymph ha ricordato anche i suoi modelli: Lucile Buchanan e Toni Morrison, rispettivamente la prima donna nera a laurearsi e la prima a vincere il premio Nobel per la letteratura.
Oltre che nel programma del congresso, il tema della schiavitù fa continuamente capolino in quello della Book Fair a esso collegata. Contemporaneamente agli incontri, infatti, nella exhibit hall dell’Hilton, si svolge un salone del libro di storia di tutto rispetto, in cui le maggiori university press americane (ma anche qualche colosso come Penguin) vendono a prezzi calmierati – i libri accademici hanno ormai raggiunto costi proibitivi – le loro ultime pubblicazioni.
Inutile cercare un filo conduttore tra le novità editoriali. I loro argomenti sono ancora più vari dei temi delle sessioni. La memoria di chi scrive ha registrato tra i più curiosi una storia del tatuaggio commerciale in Canada (Needle Work di Jamie Jelinski), uno studio sulla funzione delle note a piè di pagina nelle sentenze della Corte Suprema (The Supreme Court Footnote di Peter Charles Hoffer) e un saggio sull’invenzione della vecchiaia nell’America moderna (Golden Years di James Chappel).
Non meno curiosi sono i gadget di cui gli espositori sono prodighi. A dispetto della crisi della scrittura a mano (scomparso da tempo il corsivo, sopravvive a stento lo stampatello), dominano su tutti le coloratissime biro a scatto. Molte spille. Poche matite. Qualche magnete. Il più agognato è la tote bag di Jstor, la biblioteca digitale accademica più prestigiosa al mondo (solo per abbonati!), forse perché accoppiata a un astuccio per occhiali e a un tatuaggio temporaneo col capolettera «J». Il più originale – ed è una vittoria a mani basse – è invece il burro di cacao della Cambridge University Press, decorato col motto «Cambridge History on everyone’s lips». Originale e utile, perché uscendo dall’Hilton Hotel, alle 9 di sera, il vento di Manhattan taglia la faccia.
05 – Marco Santopadre*: OSSESSIONE ARTICA DEGLI USA, LA GROENLANDIA È SOLO LA PUNTA DELL’ICEBERG
Nei giorni scorsi il presidente eletto ha esplicitamente minacciato sanzioni nei confronti della Danimarca nel caso in cui essa non dovesse accettare l’annessione della Groenlandia da parte degli Stati Uniti, ha espresso la volontà di fare del Canada il 51esimo stato membro degli USA, ha minacciato Panama ed ha promesso un nuovo inferno a Gaza nel caso in cui gli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre del 2023 non vengano immediatamente liberati, chiedendo ai membri della Nato di aumentare le spese militari sino al 5% del proprio Pil.
In generale, Trump sembra voler imporre una politica estera aggressiva e interventista, in linea con la sua volontà di lasciare il segno nella storia e di “fare di nuovo grande” un paese che negli ultimi decenni sta sperimentando una crisi della propria egemonia mondiale e l’affermazione di potenze concorrenti.
Le pretese annessionistiche nei confronti della Groenlandia non sono nuove. Non solo Trump le aveva già esplicitate nel mese di dicembre, ma “l’acquisto” dell’isola artica dalla Danimarca era stato già citato tra le priorità di politica estera durante il primo mandato dell’allora outsider repubblicano. Già nel 2019 il tycoon tentò inutilmente di convincere il regno scandinavo a cedergli l’isola più grande del pianeta.
D’altronde l’interesse strategico di Washington per il territorio autonomo tuttora sottoposto alla sovranità danese risale a parecchi decenni fa. Da oltre un secolo amministrazioni statunitensi di diverso colore politico hanno cercato di mettere le mani sulla distesa di ghiaccio ma senza riuscirci fino in fondo. Già nel 1867, dopo aver acquistato l’Alaska dall’impero russo, il segretario di stato William H. Seward tentò inutilmente di convincere il regno scandinavo a cedere la Groenlandia.
Dopo che nel 1940 la Germania nazista invase la Danimarca, le truppe statunitensi occuparono la Groenlandia installandovi numerosi basi militari e stazioni radar, parte delle quali sopravvivono ancora. Dopo la fine del conflitto, Washington ha infatti continuato a gestire una grande base aerea denominata Thule, recentemente ribattezzata Pituffik in ossequio alle popolazioni Inuit che abitano storicamente quel territorio.
Nel 1946 il presidente Harry Truman offrì segretamente alla Danimarca 100 milioni di dollari (l’equivalente di 1,2 miliardi di euro di oggi) ricevendo però un nuovo diniego.
Dal 1951 un accordo con Copenaghen garantisce comunque agli Stati Uniti un ruolo fondamentale nella “difesa” della Groenlandia in caso di attacco, concedendo intanto a Washington il diritto di realizzare e mantenere basi militari.
Ma evidentemente il solo controllo militare del territorio groenlandese non basta a Trump, che sembra realmente intenzionato ad acquisirlo sia per lasciare il segno nella storia sia per espandere la sfera d’influenza statunitense in una zona che sta diventando sempre più strategica nella competizione tra le grandi potenze. Le ripetute menzioni da parte del presidente eletto, unite al ventilato ricorso a dazi punitivi e a pressioni di carattere militare nei confronti della Danimarca, sembrano dimostrare che l’obiettivo costituisce per Trump un’ambizione radicata e non un capriccio passeggero.
Secondo un collaboratore del Tycoon citato anonimamente da Reuters, l’acquisizione della Groenlandia farebbe parte delle priorità del presidente, che non a caso ha descritto il passo come un imperativo per la difesa nazionale statunitense. Trump vorrebbe anche essere ricordato come il presidente che ha aggiunto nuovi territori alla federazione, cosa che non avviene dal 1959, quando le Hawaii e l’Alaska divennero rispettivamente il 49° e il 50° stato dell’Unione durante la presidenza del repubblicano Dwight Eisenhower.
La futura amministrazione Trump intende contrastare l’aumento dell’influenza russa e cinese nella regione artica, considerato un serio pericolo per gli interessi statunitensi e per la stessa sicurezza nazionale. In questo senso vanno lette anche le aggressive dichiarazioni del tycoon nei confronti del Canada, “invitato” ad entrare a far parte degli Stati Uniti mentre sul web girano delle mappe, approntate dall’entourage di Trump, che mostrano dei “super Stati Uniti” che includono appunto il vicino settentrionale e alla Groenlandia.
Il governo della Danimarca ha risposto duramente alle minacce di Washington ed ha stanziato una cifra consistente per rafforzare la sicurezza dell’isola, decidendo l’invio in zona di alcune navi da guerra. Al tempo stesso Copenaghen – che rappresenta insieme alla Polonia il paese europeo più atlantista – non ha escluso una maggiore collaborazione militare con gli Stati Uniti diretta a soddisfare le “esigenze di sicurezza” del Pentagono.
Un atteggiamento simile a quello manifestato dal governo groenlandese, formato da una coalizione tra la “Comunità del popolo Inuit” (Inuit Ataqatigiit, di sinistra) e i Socialdemocratici (centrosinistra), entrambi con ambizioni indipendentiste. Il premier locale Mute Egede e i suoi collaboratori hanno ribadito più volte che “la Groenlandia appartiene ai groenlandesi” e che “non è in vendita”, ma non hanno chiuso del tutto la porta ad un aumento della cooperazione con Washington e ad un approfondimento dei legami economici con gli Stati Uniti.
Secondo molti analisti, l’amministrazione Trump potrebbe sostenere l’opzione indipendentista – il 6 aprile si vota per il rinnovo del parlamento di Nuuk e il governo è intenzionato a indire anche un referendum per il distacco definitivo da Copenaghen, opzione riconosciuta dalla madrepatria sin dal 2009 ma finora non esercitata – per poi proporre alla Groenlandia la firma di un Compact of Free Association (Cofa), un tipo di trattato di integrazione economica e politica sperimentato negli ultimi decenni con tre paesi insulari del pacifico. Del resto gli indipendentisti groenlandesi sono consci delle difficoltà economiche e logistiche derivanti un eventuale distacco dalla Danimarca, che ogni anno copre, stanziando più di 500 milioni di dollari, più di metà del fabbisogno finanziario dell’enorme territorio abitato solo da 57 mila persone.
Il territorio artico potrebbe utilizzare i vasti giacimenti di idrocarburi e di materie prime, il cui sfruttamento è stato finora minimo a causa di problemi logistici e delle preoccupazioni del governo locale per il forte impatto ambientale delle attività estrattive. Nel sottosuolo groenlandese si trovano quantità spesso abbondanti di “terre rare” e di altri minerali indispensabili per l’industria delle tecnologie che sfruttano le energie rinnovabili o per la produzione di batterie e veicoli a trazione elettrica. Inoltre la Groenlandia potrebbe contare su riserve di petrolio stimate in ben 31 miliardi di barili, finora sfruttate in minima parte.
Dal 2021, anno in cui si è affermato a Nuuk il partito Inuit Ataqatigiit dall’impronta fortemente ecologista, il governo locale ha smesso quasi di concedere licenze per nuove esplorazioni.
Il rapido e progressivo scioglimento dei ghiacci sta però rendendo sempre più appetibile lo sfruttamento minerario della Groenlandia, abbassando i prezzi e diminuendo le difficoltà tecniche e logistiche, e il governo che uscirà dal voto di aprile potrebbe inaugurare una stagione più permissiva nei confronti delle imprese straniere, allo scopo di attirare investimenti e rafforzare l’autosufficienza economica dell’isola.
Se gli Stati Uniti riuscissero a mettere le mani sul grosso delle risorse groenlandesi (la qual cosa suscita già le preoccupazioni della Danimarca e dell’intera Unione Europea) Washington ridurrebbe fortemente lo scarto rispetto alla Repubblica Popolare Cinese, che attualmente controlla più del 60% del mercato delle cosiddette “terre rare” e recentemente ha imposto il divieto di esportazione di alcuni di essi.
https://www.researchgate.net/figure/Map-showing-different-Arctic-Sea-Routes-Northeast-Passage-Northwest-Passage-Transpolar_fig2_367969749
Ma ci sono anche questioni di ordine commerciale e strategico ad animare l’interesse di Washington per la Groenlandia e per l’intera area artica. A causa dello scioglimento dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale, infatti, l’Artide si appresta a diventare il crocevia di una serie di rotte di navigazione e trasporto globali più vantaggiose e rapide rispetto a quelle tradizionali. Negli ultimi dieci anni il traffico navale nell’area è aumentato già del 37%. L’area artica è sempre più ambita dalle diverse potenze mondiali e regionali, sempre più in competizione per aggiudicarsi una posizione di rilievo nel nuovo scenario determinato dai rapidi mutamenti climatici e geografici.
Secondo i servizi di intelligence occidentali, la Cina starebbe cercando di utilizzare la sua alleanza con la Russia – che possiede il 53% della costa artica – per ottenere da Mosca una proiezione economica e strategica nei territori del Polo Nord che finora Pechino non è riuscita ad ottenere. Otto anni fa la Cina ha tentato inutilmente, bloccata da Washington e Copenaghen, di acquistare una vecchia base navale Usa e di costruire tre aeroporti in Groenlandia. Ma nel 2018 Pechino ha avviato la Polar Silk Road, (la Via della Seta Polare), un piano per aprire rotte commerciali ed energetiche attraverso l’estremo nord russo, e le aziende energetiche cinesi hanno già acquisito importanti quote nei progetti di sfruttamento del gas siberiano o in quelli di sviluppo delle infrastrutture portuali russe.
Da parte sua Mosca negli ultimi anni ha moltiplicato le basi militari nelle sue regioni artiche e rafforzato i porti nella penisola di Kola (dove stazione una grande flotta da guerra) e a Murmansk, l’unico porto non ghiacciato situato oltre il Circolo Polare Artico.
La sempre più accesa competizione ha ovviamente anche delle ragioni di ordine militare, visto che dall’artico potrebbe passare un eventuale attacco missilistico lanciato dagli Stati Uniti o dalla Russia contro l’avversario. Non a caso la Pituffik Space Base, in Groenlandia, (l’installazione militare statunitense più a nord, distante 1200 km dal circolo polare artico) ospita il dodicesimo squadrone di allerta spaziale che gestisce il “Ballistic Missile Early Warning System”, un sistema progettato per rilevare eventuali attacchi missilistici contro il territorio americano.
Se finora gli Stati Uniti hanno dovuto subire, nella regione artica, la preponderanza e l’iniziativa russa, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia ha rafforzato lo schieramento di Washington nell’area. Ma le minacce e le mire annessionistiche di Trump nei confronti di Groenlandia e Canada dimostrano che gli Stati Uniti vogliono un controllo totale di tutti i territori che si affacciano sul polo, evidenziando una vera e propria “ossessione artica” di Washington.
Da questo punto di vista, la Groenlandia rappresenterebbe solo la punta dell’iceberg. «Non si tratta solo della Groenlandia. Si tratta dell’Artico. (…) Si tratta di petrolio e gas. Si tratta della nostra sicurezza nazionale. Si tratta di minerali essenziali» ha spiegato nei giorni scorsi, nel corso di un intervento sull’emittente conservatrice Fox News, il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Mike Waltz. Pagine Esteri
* (Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto)
06 – Luca Celada*: A DAVOS I CORTIGIANI DI TRUMP. IL PADRINO IL PRESIDENTE USA DETTA LA LINEA DEL NUOVO «RADIOSO» MONDO DEL CAPITALE. ABOLIZIONE DEL GREEN NEW DEAL, FINE DELLE «INGERENZE» UE
Il pubblico ascolta l’intervento di Donald Trump all’incontro annuale del World Economic Forum a
Trump ha accettato i copiosi complimenti e le congratulazioni a nome della «nuova età dell’oro» ora iniziata per gli Stati uniti e di riflesso quindi per il pianeta «irrorato di luce».
LUMINOSITÀ collettiva che poi, ovviamente andrà verificata nel dettaglio, dato che il racconto del nuovo radioso mondo del capitale fatto da Trump è risultato piuttosto a senso unico. Nella cosmologia trumpiana gli Stati uniti «riaperti e pronti a far business» sono inequivocabilmente al centro dell’universo plasmato dagli affari. Nello specifico il presidente ha descritto i suoi Usa come una sorta di zona economica speciale, un paradiso fiscale dove le aziende, libere da gabelle e normative e i requisiti ambientali del «ridicolo Green New Deal che ho abolito» potranno fiorire rigogliosamente.
«Buone cose accadranno a chi farà affari con noi», ha aggiunto Trump che ha annunciato l’abbassamento delle tasse industriali al 15% ed un ecosistema normativo dove grazie ai poteri conferitigli dalla dichiarazione di «stato di emergenza energetica», potrà «personalmente conferire i permessi necessari nel giro di una settimana».
Il miglior luogo per produrre da ora in poi sono gli Stati uniti, ha aggiunto, chi si ostinerà a non farlo soffrirà le conseguenze.
GLI STATI UNITI perseguiranno una aggressiva campagna di investimenti privati e Trump ha citato quelli di Oracle e Softbank nel progetto Stargate per l’intelligenza artificiale (già smentito però da Elon Musk), e ha parlato di 600 miliardi sauditi promessi da Mohammed Bin Salman («Facciamo 1.000 miliardi, che è più tondo»). Assieme ai dazi, parte del progetto di far finanziare agli stranieri la «rinascita americana».
Parlando come l’amministratore di una riorganizzata Usa Inc., Trump ha delineato invece le cose meno belle cui andrà incontro chi non starà al gioco descrivendo i sopravanzi di export come atti ostili. «Esigeremo rispetto da nazioni come il Canada», ha detto come illustrazione. «Non abbiamo bisogno delle loro foreste e del loro petrolio, ne abbiamo in abbondanza di nostre, né della componentistica per auto. E se non gli sta bene possono sempre diventare il nostro cinquantunesimo stato e andrà tutto a posto». Un minaccioso siparietto emblematico della concezione trumpiana del mercato globale come gioco a somma zero che produce vincitori e vinti.
IN QUESTO SCHEMA gli Stati uniti saranno decisamente vincitori, in sostanziale sintonia con Russia e Cina (Trump si è detto fiducioso nei buoni rapporti con entrambe, perfino di utilizzare i buoni auspici di Pechino per indurre Putin a più miti consigli e una prossima fine della guerra Ucraina).
Decisamente perdente risulterebbe invece l’Europa a cui Trump si è nuovamente rivolto con severità. «La Ue ci tratta molto male». «impongono l’Iva, non prendono i nostri prodotti e ci vendono molte auto». Trump ha lamentato l’imposizione di «dazi non monetari» (presumibilmente normative come la proibizione sugli Ogm) che considera alla stregua di «tariffe occulte». «Sto cercando di essere costruttivo perché amo l’Europa – ha aggiunto in modo poco convincente – ma ci state trattando in modo molto sleale».
PER RIMANERE in tema di ingerenze, Trump ha suggerito che la spesa militare per la Difesa europea debba ammontare al 5% dei Pil nazionali – livelli che gli Usa hanno raggiunto solo all’apice della guerra fredda (oggi si attesta sul 3,4%).
Sollecitato da Stephen Schwartzman, a della mega finanziaria Blackstone, sugli «eccessi normativi» europei, Trump ha specificamente citato le multe imposte ad aziende del complesso tecnologico industriale a stelle e strisce per violazioni del Digital Services Act: Google, Apple e Facebook. «Le consideriamo una forma di tassazione e agiremo di conseguenza».
Nella nuova concezione americana le prerogative sovrane come regole sulla privacy e norme ambientali sono evidentemente ridotte al solo calcolo economico. Se le aziende europee e globali insistono nel modello attuale pagheranno un caro prezzo. Il primato del capitale sulla democrazia sarà comunque sancito anche internamente, come nel caso della spinta americana sull’intelligenza artificiale.
«IL SETTORE avrà bisogno del doppio della attuale generazione elettrica». Il dato che rischia di essere un colpo di grazia per gli obbiettivi ambientali, è per Trump un’altra opportunità di primato americano. «Gli ho detto ‘costruite pure le vostre centrali autonome, molto meglio che essere collegati ad una rete vulnerabile come quella pubblica» ha aggiunto Trump garantendo anche qui la possibilità di aggirare ogni norma. «Usate qualunque fonte disponibile, compreso il carbone»
*(Luca Celada, giornalista e documentarista, è stato per oltre vent’anni corrispondente della Rai da Los Angeles occupandosi di attualità, tematiche sociali,)
07 – IL MESSICO SI PREPARA A RICEVERE I MIGRANTI CHE TRUMP VUOLE ESPELLERE – IL GOVERNO STA ALLESTENDO GRANDI CENTRI D’ACCOGLIENZA IN NOVE CITTÀ SUL CONFINE CON GLI STATI UNITI, DOPO LE MOLTE MISURE RESTRITTIVE IMPOSTE DAL NUOVO PRESIDENTE
Il governo del Messico si sta preparando a gestire l’accoglienza di migliaia di propri cittadini che potrebbero essere espulsi dagli Stati Uniti nell’immediato futuro in quanto migranti irregolari. Non appena entrato in carica, lo scorso 20 gennaio, il presidente statunitense Donald Trump ha introdotto misure molto restrittive sull’immigrazione: tra le altre cose ha promesso che rimuoverà dal paese «milioni e milioni» di persone senza cittadinanza o permesso di soggiorno. Le persone messicane in questa condizione negli Stati Uniti sono circa 5 milioni.
Il governo messicano ha attivato un piano per aprire grosse strutture d’accoglienza temporanee in nove città del nord del paese, vicino al confine con gli Stati Uniti. Una di queste è Ciudad Juarez, sul confine con il Texas: lì il governo messicano sta allestendo strutture e tende capaci di ospitare migliaia di persone, che dovrebbero diventare operative nei prossimi giorni. Le autorità messicane si stanno inoltre preparando per fornire cibo, assistenza sanitaria e una sistemazione provvisoria ai migranti espulsi.
Secondo il piano, i cittadini messicani espulsi dovrebbero ricevere una carta caricata con 2mila pesos (circa 94 euro) per coprire le loro spese. Sarà facilitata la trafila per ottenere i documenti e saranno previsti servizi di autobus, che riporteranno le persone dai centri alla loro città messicana d’origine. «Il Messico farà tutto il necessario per prendersi cura dei nostri compatrioti, e metterà a disposizione tutto il necessario per accogliere quelli che verranno rimpatriati», ha detto lunedì la ministra dell’Interno messicana, Rosa Icela Rodríguez.
Tra le decine di ordini esecutivi che Trump ha firmato nel giorno del suo insediamento, uno ha dichiarato una «emergenza nazionale» al confine con il Messico, cosa che permetterà al governo statunitense di mobilitare fondi speciali e di usare l’esercito in sostegno della polizia di frontiera. Mercoledì un portavoce del Pentagono (il ministero della Difesa statunitense) ha annunciato che entro gennaio verranno inviati sul confine altri 1.500 soldati, anche se con compiti prevalentemente logistici. Secondo un documento visto dal Washington Post, Trump ha intenzione di mandarne in tutto 10mila.
Trump aveva dichiarato l’emergenza anche durante il suo primo mandato, tra il 2017 e il 2021. Questa volta però ha dato agli agenti di frontiera la facoltà, tra le altre cose, di arrestare i migranti irregolari anche in luoghi dove prima era vietato, come le scuole o le chiese.
Secondo il piano dell’amministrazione Trump, le espulsioni partiranno dagli immigrati irregolari che hanno commesso crimini o che hanno precedenti penali. Andranno però incontro a molti ostacoli legali. Si stima che negli Stati Uniti gli immigrati irregolari siano circa 11 milioni, molti dei quali hanno un lavoro, una famiglia e un’estesa rete sociale nel paese. Prima di essere espulsa, poi, la maggioranza di questi immigrati avrà diritto a fare ricorso presso un tribunale statunitense. Axios ha stimato che se i tribunali americani dovessero valutare i ricorsi di tutti gli 11 milioni di immigrati, al ritmo attuale terminerebbero nel 2040.
(Fonte; Il POST, redazione)
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