N°40 – 05/10/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01a – Marina Catucci*: Proteste per la pace da New York a Montreal – Israele/Palestina Il lungo weekend americano.
1b – Mario Di Vito*: La piazza palestinese a Roma tra falsi allarmi e vere tensioni.
La mobilitazione Oggi la manifestazione non autorizzata dalla questura. Piantedosi promette «equilibrio». Gli organizzatori: «Non vogliamo scontri». Sarà presente anche Amnesty
02 – Sen. Francesca La Marca* (PD): sull’iter del ddl 1211 “Disposizioni in materia di riapertura del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana e di riduzione dell’importo del contributo per le relative istanze”
03 -­La Marca (PD) incontra il Direttore De Pedys sulla situazione degli Enti Gestori in Nord America.
04 – Redazione*Il Quirinale contro il negazionismo climatico – In Germania «Ricette semplicistiche per problemi complessi sono adatte agli imbonitori». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilanciato l’allarme clima con decisione intervenendo a un seminario nel polo Onu di Bonn, […]
05 – Leo Essen *: Con la fine del tempo di lavoro finisce anche il tempo libero
06 – Riccardo Piccolo*: Treni, tutti gli errori che li hanno bloccati a Roma. La rete nazionale dei trasporti paralizzata per ore a causa di un chiodo, migliaia di passeggeri in attesa nelle stazioni.
07 – Irene Doda*: Come si ferma lo “splinternet”? Il 22 settembre scorso le Nazioni Unite hanno approvato un documento di 16 pagine chiamato Global Digital Compact (GDC
08 – Roberto Ciccarelli*: Giorgetti getta la maschera: «Tagli e sacrifici per tutti» – Il piano Ecco l’austerità del governo: nel mirino la P.A. Aumento delle accise sul diesel: è polemica. Crollo della borsa a Milano dopo l’annuncio di un «contributo» dalle banche e dalle industrie delle armi. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: “Taglieremo le spese.

 

 

01a – Marina Catucci*: Proteste per la pace da New York a Montreal – Israele/Palestina Il lungo weekend americano
NEW YOR
K
È un lungo fine settimana di proteste negli Stati uniti, che si estenderà a lunedì 7. Oggi alle 14 locali, nei vari fusi orari, sono previste manifestazioni da New York a Seattle, Dallas, San Francisco, Washington DC, e nella vicina Montreal, solo per citarne alcune. Le proteste sono organizzate da più gruppi raccolti attorno a Jewish Voice For Peace, «movimento di ebrei e alleati – come si definiscono – che lavorano per la giustizia e l’uguaglianza per palestinesi e israeliani, trasformando la politica degli Stati Uniti».

IL 27 OTTOBRE 2023 Jfp New York aveva organizzato una protesta alla stazione centrale, e da allora rappresenta la parte più visibile a organizzata del movimento di ebrei americani contro l’aggressione di Gaza. «Da 75 anni il sionismo è usato per giustificare i massacri dei palestinesi da parte di Israele – spiega Rosalind, 24 anni, che durante l’estate ha fatto un tirocinio da Jvp a Washington DC – il sionismo non è inevitabile ed essere ebrei non significa essere sionisti. La nostra sicurezza è nella solidarietà e in un futuro condiviso. Il sionismo non è un movimento per l’autodeterminazione ebraica, lo ricordiamo ogni volta che celebriamo lo Shabbat anti sionista nelle piazze. A New York a Washington Square».
In quella piazza lunedì alle 15 inizierà la protesta degli studenti, che hanno una grossa parte in questo movimento. Dopo un anno di lotte fra studenti e atenei, lo scontro è arrivato in tribunale: in Maryland gli avvocati del gruppo Palestine Legal e il Council on American-Islamic Relations hanno fatto una causa per conto del gruppo Students for Justice in Palestine, dopo che l’università aveva annullato una veglia interreligiosa. Gli avvocati hanno affermato che la cancellazione della veglia violava i diritti degli studenti sanciti dal Primo emendamento, e il giudice ha dato loro ragione.
Dopo una primavera di scontri, la posizione ufficiale delle università è facilitare il confronto pacifico. Dopo un inizio relativamente tranquillo del semestre autunnale, i movimenti universitari sanno di dovere affrontare una prova importante, con i manifestanti sia filo-israeliani che filo-palestinesi, a un anno dall’inizio del conflitto in Medio Oriente, allargato ora al Libano. La Columbia University, dove il movimento è cominciato, ha lanciato i «tavoli d’ascolto», in cui i docenti moderano le discussioni faccia a faccia tra studenti con lo scopo di incoraggiare «a mettersi nei panni degli altri senza sentirsi censurati», come ha scritto il professor Gil Eyal in un editoriale pubblicato sul giornale studentesco della Columbia. «Non so quanto tutto questo funzionerà – afferma Samir, studente della Fordham University – il problema sono gli scontri interni fra studenti, ma anche fra studenti e atenei».
LUNEDÌ SERA nella piazza che tradizionalmente celebra il pacifismo newyorkese, Union Square, si svolgerà la veglia organizzata da Israelis for Peace, fra i primi sostenitori di un cessate il fuoco immediato che li aveva messi in una posizione difficile: attaccati dai gruppi intransigenti filo-israeliani e dai manifestanti filo-palestinesi che rifiutavano di collaborare con israeliani di qualsiasi orientamento politico. «Dopo un anno le cose sono cambiate – dice Stewart, 32 anni – Una luce in tutto questo si vede, ed è che non siamo più soli nella nostra richiesta di giustizia e uguaglianza».
*(Corrispondente dagli Stati Uniti per Il Manifesto.)

 

1b – Mario Di Vito*: LA PIAZZA PALESTINESE A ROMA TRA FALSI ALLARMI E VERE TENSIONI.
LA MOBILITAZIONE OGGI LA MANIFESTAZIONE NON AUTORIZZATA DALLA QUESTURA. PIANTEDOSI PROMETTE «EQUILIBRIO». GLI ORGANIZZATORI: «NON VOGLIAMO SCONTRI». SARÀ PRESENTE ANCHE AMNESTY

«NON SCENDIAMO IN PIAZZA PER SCONTRARCI CON LE FORZE DELL’ORDINE, MA PER RIMARCARE UN DIRITTO».
Khaled El Qaisi dell’Unione democratica arabo palestinese detta le coordinate della piazza di oggi (ore 14, a porta San Paolo a Roma) e in qualche modo prova a mettere un punto in fondo a una settimana di divieti e di polemiche, di provocazioni e di ambiguità. Nello specifico: i divieti sono quelli imposti dalla questura alla manifestazione di oggi; le polemiche quelle scatenate dai post sui social dei Giovani palestinesi, che inneggiano all’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 (1.200 morti, 250 sequestrati, 200 scomparsi) e lo raccontano come un eroico momento rivoluzionario; le provocazioni quelle di alcuni sindacati di polizia che invocavano «la mano pesante del governo» e le ambiguità quelle del ministro degli Interni Matteo Piantedosi, che continua a dire e non dire. «Qualsiasi manifestazione in violazione di quel divieto sarebbe innanzitutto illegale, ma sarà gestita col solito equilibrio dalle forze dell’ordine», ha spiegato con il solito inspiegabile tono da grande stratega ai cronisti accorsi al G7 di Mirabella Eclano, in Irpinia.

IERI POMERIGGIO, intanto, la questura di Roma ha disposto i suoi piani operativi. Da quello che filtra sono stati confermati i controlli in autostrada e alle stazioni ferroviarie: l’obiettivo è bloccare quante più persone possibile tra chi appartiene alle decine di realtà sociali che hanno risposto alla chiamata nazionale delle associazioni palestinesi. Le attese sembrano ridimensionate rispetto ai giorni scorsi e non si parla più di migliaia di persone ma al massimo di centinaia, anche se bisogna considerare la tara storicamente al ribasso che le autorità di sicurezza fanno in momenti del genere. Ampio sarà il dispiego di forze in zona Piramide, dove è previsto almeno l’inizio della manifestazione, ma l’ordine di servizio sarebbe di non forzare la mano e provare a gestire la piazza con il dialogo. In questo senso non è da escludere che venga concordato con gli organizzatori un percorso per lasciar partire un corteo. Restano sullo sfondo le immancabili veline su eventuali «infiltrati violenti», non meglio precisati «antagonisti» pronti a scatenare il panico e tutto il cucuzzaro di gravi allarmi e giustificazioni preventive per la repressione violenta dei cattivi soggetti.

NONOSTANTE le ovvie critiche a chi esalta l’offensiva del 7 ottobre, gli appelli di chi sostiene il diritto a manifestare sono stati parecchi negli ultimi giorni, forse più di quelli che il governo si aspettava: non c’è stato l’isolamento della manifestazione, né chi ha mostrato la volontà di partecipare è stato bollato in anticipo come un inemendabile violento. In questo senso hanno fatto molto rumore i pareri di insospettabili come Matteo Renzi, Roberto Morassut del Pd e Massimo Cacciari, tutti concordi nel dire che il divieto imposto dalla questura è da considerare quantomeno un errore, se non proprio un attentato alle libertà costituzionali. Nella giornata di ieri, infine, ha annunciato la sua discesa in piazza anche Amnesty International, quasi un organo di garanzia in questo senso. Infatti la presenza dell’associazione, si legge in un comunicato, è legata alla sua volontà di «monitorare il regolare svolgimento della protesta per la Palestina» perché «il diritto di protesta è protetto da diverse disposizioni sui diritti umani e in particolare dall’interazione dei diritti alla libertà di riunione pacifica e di espressione».

L’ELENCO di chi ci sarà, in ogni caso, è lungo: le sigle che hanno aderito si contano ormai nell’ordine delle centinaia, tra partiti, associazioni, sindacati di base, rappresentanze locali e organizzazioni varie. Confermata, tra le altre, la presenza del jewish bloc. Il tema del massacro in corso a Gaza è stato una costante di tutti gli appuntamenti di piazza dell’ultimo anno, quale che fosse il tema in sé della protesta: una corrispondenza osmotica tra le lotte che rivedremo anche oggi. A Roma non ci saranno soltanto attivisti dei gruppi palestinesi, ma anche pacifisti, esponenti dei conflitti territoriali e tanti contrari al ddl sicurezza di prossima emanazione. Vista l’aria che tira e gli eventi delle ultime settimane, alla fine sarà anche una manifestazione per il diritto di manifestare.
*(Mario Di Vito – Cronista politico, si occupa per lo più di giustizia e ingiustizia.)

 

02 – Sen. Francesca La Marca* (PD): SULL’ITER DEL DDL 1211 “DISPOSIZIONI IN MATERIA DI RIAPERTURA DEL TERMINE PER IL RIACQUISTO DELLA CITTADINANZA ITALIANA E DI RIDUZIONE DELL’IMPORTO DEL CONTRIBUTO PER LE RELATIVE ISTANZE”
Cari Amici,

in seguito alle tantissime sollecitazioni che ricevo settimanalmente sull’iter del mio ddl 1211 – “Disposizioni in materia di riapertura del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana e di riduzione dell’importo del contributo per le relative istanze” ho voluto fare un breve video in inglese anche per renderlo accessibile ai tanti italo-discendenti nel mondo.
Se anche voi avete a cuore il tema della riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana, vi prego di diffondere questo video! Un caro saluto,
*(Sen. Francesca La Marca. 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

03 -­La Marca (PD) INCONTRA IL DIRETTORE DE PEDYS SULLA SITUAZIONE DEGLI ENTI GESTORI IN NORD AMERICA
Nella giornata di lunedì 30 settembre, la Sen. La Marca ha incontrato, presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Direttore Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale, Alessandro De Pedys, e il Dottor Filippo Romano, Capo dell’Ufficio V della Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale, per fare il punto sulla situazione critica di molti enti promotori di lingua e cultura italiana nel mondo, soprattutto in Nord America
.
“La Circolare 4 del 2022 – dichiara la Senatrice – ha introdotto criteri troppo stringenti per attingere al finanziamento ministeriale previsto dal fondo per lo sviluppo della lingua e cultura, che penalizzano molti enti gestori nel mondo, alcuni anche storici che operano in Canada e negli Stati Uniti. Ho voluto incontrare il Direttore De Pedys nuovamente, dopo due anni dal nostro ultimo incontro, per proporre lui eventuali modifiche alla modulistica necessaria e ai criteri troppi rigidi richiesti per la presentazione di una domanda di accesso ai finanziamenti ministeriali. Per l’anno 2024/2025, soltanto otto Enti Gestori negli Stati Uniti e due in Canada hanno avuto accesso ai finanziamenti, numeri in calo rispetto a prima dell’entrata in vigore delle ultime due Circolari ministeriali, costruite sullo stesso impianto normativo.”
“L’eccesso di burocrazia, come precedentemente spiegato, nel processo di richiesta dei finanziamenti – continua la Senatrice – ha penalizzato diversi Enti Gestori storici che operano sul territorio come il Picai di Montréal, l’Accademia dei Ragazzi e il Centro Scuola e Cultura Italiana di Toronto o come l’Italian Language Center di New York, i quali non hanno avuto accesso ai finanziamenti per i progetti da realizzare nell’anno scolastico 2024/2025. Occorre una rivisitazione dell’impianto della Circolare 4 in ottica di semplificazione dei requisiti e della modulistica attualmente prevista.”
“Ho proposto al Direttore De Pedys un tavolo di lavoro che coinvolga i Presidenti degli Enti di Promozione di lingua e cultura per coinvolgerli nel percorso di revisione della Circolare 4 del 2022 e di miglioramento dell’offerta che riguarda la promozione di lingua e cultura in Nord America. Il mio impegno non si esaurisce per cercare di salvaguardare la promozione della lingua e cultura italiana nel mondo”.
*(Sen. Francesca La Marca 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa Electoral College – North and Central America)

 

04 – IL QUIRINALE CONTRO IL NEGAZIONISMO CLIMATICO – IN GERMANIA «RICETTE SEMPLICISTICHE PER PROBLEM I COMPLESSI SONO ADATTE AGLI IMBONITORI». IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERGIO MATTARELLA HA RILANCIATO L’ALLARME CLIMA CON DECISIONE INTERVENENDO A UN SEMINARIO NEL POLO ONU DI BONN, […]

«Ricette semplicistiche per problemi complessi sono adatte agli imbonitori». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilanciato l’allarme clima con decisione intervenendo a un seminario nel polo Onu di Bonn, nell’ultima giornata della sua visita in Germania. Mattarella ha spiegato come non ci sia alcuna alternativa ad una rapida de-carbonizzazione del pianeta, sferzando quanti, in Europa e in Italia, negano o sottovalutano la portata del problema.
«Per troppo tempo – ha detto il Capo dello Stato – abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico, opponendo artificiosamente fra loro le ragioni della gestione dell’esistente a quelle del futuro dei nostri figli e nipoti». Il Presidente della Repubblica ha anche ricordato che «l’intensificazione della frequenza delle catastrofi naturali condiziona ogni aspetto della vita; Le conseguenze dei nostri ritardi sono sotto gli occhi di tutti e sempre nefaste».
«Quello per combattere il cambiamento climatico è un progetto ambizioso che potremo realizzare – ha concluso Mattarella – solo accettando una maggiore cooperazione che ci consenta di muovere verso una Unione dell’energia».
*(Redazione Il Manifesto)

 

05 – Leo Essen *: CON LA FINE DEL TEMPO DI LAVORO FINISCE ANCHE IL TEMPO LIBERO.

(KLINE HUNNICUTT È PROFESSORE DI STORIA ALL’UNIVERSITÀ DELL’IOWA.LA SUA RICERCA SI È CONCENTRATA SULLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO. MOLTO NOTO È IL SUO LIBRO KELLOGG’S SIX-HOUR DAY, SULLE PROSPETTIVE E GLI EFFETTI DELLA RIDUZIONE DELLA SETTIMANA LAVORATIVA PRESSO KELLOGG’S, LA MULTINAZIONALE DELLE MERENDINE. CON STUDIOSI COME JOSEPH PIEPER E HANNAH ARENDT HA ANCHE ESPLORATO L’«ASCESA DEL LAVORO TOTALE».)

IN UN ARTICOLO PUBBLICATO NEL 1999 SULLA RIVISTA NORD SUD, HUNNICUTT SI CONFRONTA CON GIOVANNI MAZZETTI, ESPONENTE EUROPEO DI PRIMO PIANO DEGLI STUDI SULLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO.
Come mai, si chiede Hunnicutt, in Occidente abbiamo abbandonato la riduzione dell’orario? Per quale ragione, dopo aver ridotto la giornata lavorativa della metà nel corso del “secolo della riduzione del tempo di lavoro” e dopo aver immaginato un’età dell’oro, con un tempo libero così ampio da poter perseguire il vero bene della vita – i liberi prodotti della mente, la comunità, lo spirito – per quale ragione, dicevo, ci siamo rivolti verso un tempo pieno di lavoro, perdendo di vista il vecchio principio secondo il quale il lavoro non è che un mezzo per altri fini? Le risposte che mi sono dato si possono riassumere così: consumismo e mercificazione della vita; politica governativa di creazione del lavoro; cambiamento culturale corrispondente all’inversione del rapporto tra lavoro e tempo disponibile.

L’idea di lavoro, dice Hunnicutt, ha invaso e sottomesso tutta l’azione e l’esistenza umana. Tutta la vita moderna ha finito con l’essere dominata dall’ideologia del lavoro. Il lavoro ha finito per essere considerato come connaturato alla condizione umana, come una proprietà naturale. E invece, dice, il lavoro deve essere considerato come storico e relativo.

Non è manifestazione di una condizione umana naturale. È piuttosto una delle invenzioni culturali più nuove – il prodotto occidentale di un passato recente. Il lavoro è un’invenzione dell’uomo, è storico, e poiché ha una data di nascita avrà anche una data di morte.

L’aspirazione a un lavoro a tempo pieno e a un “buon lavoro” fa parte di un’ideologia che considera il lavoro come un dato naturale, intrascendibile. Si tratta dell’ascesa di un principio che ribalta il motto «Lavorare per vivere e non vivere per lavorare».

Per più di cento anni i lavoratori hanno dato un giusto valore alla riduzione del tempo di lavoro. Il movimento si esaurì subito dopo la depressione del 1929, quando l’orario si stabilizzò attorno alle 40 ore settimanali e tale rimase per lungo tempo.

Oggi il lavoro è presentato come “senza fine”, è naturalizzato. Non c’è altro che lavoro e cose prodotte dal lavoro o che possono essere comperate col denaro.

Ma le cose non stanno così, dice Hunnicutt. La produttività aumenta, e la scelta che abbiamo di fronte riguarda il possibile uso di questa nuova ricchezza. L’accresciuta produttività offre due tipi di relazione alla ricchezza, non una sola. Possiamo usare questa ricchezza come abbiamo fatto dalla seconda guerra mondiale in poi, spendere la produttività in nuovi consumi, investimenti, spese governative, ecc., oppure possiamo convertire questa ricchezza in tempo libero. Possiamo Scegliere di mantenere il nostro attuale livello di vita, con le macchine sportive e tutto il resto, oppure possiamo optare per più tempo di vita al di fuori del lavoro, al di là del consumo aggiuntivo e della razionalità strumentale.

Posso scegliere di avere più tempo libero da passare con la famiglia a cena, dice Hunnicutt, più tempo per passeggiare con mia figlia Emmalee nel parco, più tempo per suonare, per amare, per ridere, per discutere, per raccontare storie, per giocare, per imparare, per osservare gli uccelli, perfino per pregare. Tutto ciò, dice Hunnicutt, è indubbiamente libero e costituisce un fine in sé.

È vero che oggi il lavoro assorbe le persone più di ieri, e che esso è in fondo più inumano di quanto non sia stato per gli schiavi. Il lavoro è più totalitario, in quanto non lascia spazio per null’altro, nessun gioco, nessuna indipendenza, nessuna vita familiare. È per questa sua invadenza, per questo suo aspetto totalitario, che diventa allora necessario compensare questa situazione con una sorta di ideologia secondo la quale il lavoro è posto come una virtù, un bene, un riscatto, un’elevazione. Se il lavoro fosse interpretato ancora come una maledizione, dice Hunnicutt, esso sarebbe radicalmente intollerabile per l’operaio. Il lavoro è divenuto simile a una moderna religione, o a un credo che non può essere sottoposto a critica. Essere un buon cittadino significa essere un buon lavoratore. Con il sudore della fronte si conquista la salvezza. Con il lavoro si accede al consumo, al piacere, alla soddisfazione, alla realizzazione di sé, alla dignità umana. Più lavoro significa più reddito, e più reddito significa più agio, più consumo, più gioia.

Eppure, dice Hunnicutt, se ai lavoratori con un reddito più elevato fosse offerta la Scelta di lavorare meno o ricevere redditi ancora più alti, sarebbe del tutto sensato che essi scegliessero il tempo libero piuttosto che comperare un’altra barca o una macchina sportiva più potente. Con questa scelta, questi lavoratori potrebbero fare spazio ad altri, che non hanno lavori così buoni, e che potrebbero dunque essere pagati di più.

Mazzetti rigetta completamente l’impostazione di Hunnicutt. Seppur concordi con il collega americano sull’esigenza della riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione dei frutti dell’aumentata produttività, lo fa a partire da considerazione molto diverse.

Innanzitutto, contesta l’uso del concetto di libertà. La libertà di cui parla Hunnicutt è la libertà borghese. In secondo luogo contesta il concetto di tempo libero. In terzo luogo contesta il concetto di vita. Non c’è alcuna vita al di là del lavoro. Nessun pulpito sul quale salire per giudicare la società del lavoro, la società borghese.

La società borghese, il lavoro, la libertà borghese, il tempo, che è un tempo eminentemente storico e borghese, vanno giudicati a partire dalla società borghese, dal lavoro borghese, dalla libertà borghese, dal tempo borghese. Non c’è un fuori contesto – qualcun altro direbbe non c’è un fuori testo -, un luogo fuori da questa storia e dal quale giudicare questa storia. La soppressione del lavoro borghese segue la stessa strada del lavoro borghese. Non ci sono uomini liberi, o una libertà a partire dalla quale giudicare la società borghese. E ciò per motivi evidenti, stringenti, di fatto e, soprattutto, di diritto.

Di fatto, dice Mazzetti, oggi nessuno può vivere fuori dal lavoro. Nessuno è in grado di produrre da solo i prodotti che consuma. E i prodotti che consuma sono composti da materie prime e semilavorati che nessuno è in grado di produrre da solo. La divisione del lavoro è spinta a un livello tale che nessuna nazione è in grado di produrre da sola ciò di cui ha bisogno, comprese le nazioni più grandi e più potenti. Dunque, dice Mazzetti, il legame che unisce i produttori non deriva da una scelta. Nella nostra società la possibilità di soddisfare i propri bisogni, grazie all’appropriazione di una parte del prodotto complessivo, deriva dalla capacità di vendere la propria forza lavoro o i propri prodotti. Dipende cioè dalla domanda di altri, dipende da altri – non è libera. Perlopiù, dove si volge lo sguardo, tutti dipendono dal lavoro per soddisfare i propri bisogni. Anche quelli che godono del tempo libero consumano beni e servizi prodotti dal lavoro altrui: dipendono in tutto dal lavoro.

La libertà che si sperimenta nella società borghese, la libertà della proprietà privata, e in primo luogo il libero lavoro, non sono un dato naturale. La servitù e la corporazione, il vincolo personale, l’obbligo di impegnare le proprie risorse e capacità solo e soltanto entro i limiti di casta, di famiglia, di feudo, eccetera, sono stati spazzati via dalla libertà borghese, sono stati prodotti, hanno una storia.

Nel caso specifico del lavoro questa libertà implica soltanto la libertà dal vincolo personale e la libertà di controllo sulla proprietà della forza lavoro, la libertà di offrire o non offrire la propria prestazione a chicchessia. Ma non significa – perlomeno fino a quando non si afferma e permane un diritto al lavoro – non significa obbligo di acquisto. Questa libertà è ancora soggetta, sottoposta al vincolo, della domanda, e più propriamente, dice Mazzetti, al vincolo della valorizzazione. Là dove la valorizzazione non è possibile, l’offerta rimane inevasa e la libertà in essa espressa sperimentare la propria dipendenza dalla domanda.

La borghesia reifica – naturalizza – questa libertà nei diritti dell’uomo e del cittadino. Locke scrive: l’uomo nasce libero. È naturalmente libero. È in uno stato di perfetta libertà, nel quale non deve chiedere permesso a chicchessia, e senza dipendere dal volere di nessun altro uomo può fare ciò che gli piace e disporre di ciò che possiede, non meno che della sua persona. Rousseau scrive: ogni uomo nasce libero. Questa reificazione è parte integrante del processo di liberazione dai vincoli precedenti – ne costituisce un momento importante. Senza questa liberazione, e senza la nuova struttura della proprietà privata, non ci sarebbe stato l’afflusso di forza-lavoro di cui le nuove industrie avevano bisogno. Se la forza-lavoro fosse stata ancora vincolata al feudo o alla corporazione o alla famiglia le imprese non avrebbero avuto accesso a quel bacino di forza di cui avevano bisogno. Entrando in fabbrica la forza lavoro diventa valore di scambio – si reifica, diventa lavoro generico, lavoro astratto, lavoro misurabile, alla stregua di una forza naturale – forza motrice.
STESSO PROCESSO SUBISCE IL TEMPO. La borghesia reifica – naturalizza – il tempo attraverso i campanili e gli orologi. Il tempo come cornice dell’esistenza umana, il tempo vuoto e uniforme, il tempo kantiano, il tempo libero, da riempire con gli acquisti, con l’ozio, con il consumo e con il piacere, con la vacanza e con le cene in famiglia, il tempo per suonare uno strumento e il tempo per pregare, il tempo per cantare e scrivere poesie, eccetera, questo tempo riempibile a piacere, questa cornice della vita quotidiana, questo contenitore generico e adattabile, persino il tempo stesso di piacere, nasce come tempo di lavoro (Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante). Il tempo libero rimanda al tempo di lavoro. Non c’è tempo libero fuori dal tempo di lavoro. Così come si reifica il lavoro e si arriva al lavoro sans phrase, così si reifica il tempo, e si arriva al tempo libero. Non si può produrre lavoro libero senza tempo libero.

COSA POSSONO FARE LE PERSONE QUANDO NON LAVORANO E NON CONSUMANO? CHIEDE HUNNICUTT.

Possono Giocare! risponde. Possono impegnarsi in attività che sono ludiche, e valevoli in sé e per sé stesse, al di là del lavoro e del denaro! Possono sperimentare la loro vita in modo diretto, senza l’intermediazione dei media o degli specialisti culturali, persino preparare un pasto per i loro figli prediletti.

Non esiste gioco, risponde Mazzetti, non esiste oggetto che possa entrare in un uso libero, non esiste un tempo vuoto che posso riempire a piacere, non esiste piacere. Anche il piacere è preso in una struttura di rimandi, la quale, addirittura, richiede il dispiacere. E la stessa famiglia non diventa il luogo di quella libertà alla quale fa riferimento Hunnicutt, se non nella società borghese.
La famiglia come espressione di un libero legame tra gli individui che la compongono è, dice Mazzetti, un prodotto borghese, in quanto si fonda sull’indipendenza degli individui, una conquista sacrosantamente borghese. Poiché, dice, e in questo faccio mia l’analisi di Marx, è il denaro che separa gli individui. In altri termini: è la mercificazione che crea lo spazio per quella libertà, che poi si esprimerà anche nella famiglia. Dunque, dice, naturalizzare questa libertà sarebbe fuorviante. È la società borghese che naturalizza la libertà nel denaro. L’arcano di questa libertà è la divisione sociale del lavoro, la collaborazione nella produzione. La condizione di questa libertà è ancora il lavoro.
Bisogna fare attenzione a questo passaggio. Mazzetti non dice che non si dà tempo libero e libertà in generale. Dice che questo tempo e questa libertà sono strettamente legati con il lavoro borghese – non con ogni lavoro, ma con il lavoro borghese. Locke può enunciare la libertà borghese, perché questa libertà è già nei fatti una libertà che gli inglesi possono rivendicare per sé stessi. Locke rivendica questa libertà in nome e per conto di un soggetto – l’uomo – che è appena apparso sulla scena. L’uomo che chiede da sé e per sé il potere è una novità. In precedenza il potere era teologico. La creatura chiedeva il permesso al creatore. Persino il Re doveva chiedere il permesso per governare. Locke spaccia questa conquista storica della borghesia come un dato naturale. Come una proprietà connaturata al nuovo sovrano apparso sulla scena – l’uomo. Come un al di là della storia – come un dato, e non come un prodotto. Come un elemento non superabile.
MAZZETTI CONTESTA questo naturalismo che innerva il discorso di Hunnicutt. Non esiste attività ludica che sia un al di là del lavoro – dice. Non esistono oggetti di gioco che non siano ripresi nella dinamica del lavoro, nei suoi momenti liberatori e nei suoi momenti frustranti.
Mi rendo conto che si può ragionare come Karl Polanyi, dice Mazzetti, e dire che gli oggetti possono diventare merce senza problemi, mentre se sono le relazioni personali a diventare merce ciò crea problemi. Ma la cosa non mi convince, dice. Su questo argomento, dice, concordo pienamente con la posizione di Marx, secondo il quale le cose non sono inerti – neutre -, bensì contribuiscono a dare forma alla vita, non meno di quanto lo facciano le relazioni dirette. Gli oggetti materiali, i prodotti, si presentano cioè come un momento di quelle relazioni, e queste non esistono a prescindere da quelli. Se esiste il telefono ho un rapporto diverso con gli altri, rispetto ad un mondo nel quale il telefono non esiste. Se ci sono i giornali e la TV ho un rapporto diverso con coloro che mi raccontano eventi accaduti, rispetto ad un mondo nel quale quei prodotti non esistono. Se combatto contro uomini armati di lance e di frecce lo faccio in modo diverso da come combatto contro uomini armati di bombe e di cannoni. Il mondo dei rapporti è fatto anche dalle cose, e il mondo delle cose è popolato di determinati rapporti che a quelle cose corrispondono. Quando viene inventato e prodotto il biberon e vengono scoperti nuovi metodi di sterilizzazione e conservazione dei cibi, cambiano anche i ruoli all’interno della famiglia. Ad allattare può essere anche il padre, e non solo la madre. Lo scambio di genere – il queer – inizia così. Dunque, conclude Mazzetti, la contrapposizione di Polanyi è inconsistente appunto perché, se si astrae nel rapporto con le cose, non si può non procedere astrattamente nel rapporto degli individui tra loro.
Qui siamo davanti a un materialismo raffinatissimo. Persino gli oggetti entrano nella storia, una storia che non è separabile dalla storia umana. Esprimendosi più correttamente: non si dà storia umana in generale, non c’è un uomo che prima è, e successivamente ha una storia, non c’è un mondo-ambiente che prima è, e poi accoglie una storia. Non abbiamo da una parte l’uomo e dall’altra la spazialità nuda e astratta. L’ambiente e gli oggetti sono sempre legati in una struttura di rimandi, il martello martella, l’ascia taglia, il loro senso rimanda sempre a un fare, e il fare dell’uomo rimanda sempre a un oggetto. Solo a partire da questa relazione si afferma l’oggetto astratto, indifferente, la semplice cosa (la semplice presenza), il martello equivalente, indifferente al suo uso – la merce. L’indifferenza – la libertà – scaturisce da questa reificazione. L’oggetto che serve chiunque, indistintamente, come oggetto di gioco è la merce. La forza generica e il tempo generico che possono essere spesi, indifferentemente, nella preghiera o nella preparazione di una cena per il figlio o in una gita al faro sono lavoro astratto – è il lavoro storico di tipo borghese, affermatosi con la borghesia e destinato a tramontare. Con la fine del tempo di lavoro, finisce anche il tempo libero. La grande scoperta di Marx, rispetto agli economisti precedenti, è proprio questa: la scoperta del lavoro astratto. E ciò che analizza senza fine è questo lavoro astratto: la sua reificazione, le sue diramazioni, l’estensione e la pervasività, la libertà che produce, e i limiti che incontra.
Il lavoro generico, l’oggetto generico, il valore di scambio, la merce, e tutti i suoi corrispettivi giuridici, politici, economici e metafisici, l’oggetto d’uso generico – il pezzo di ricambio -, il lavoro libero, l’offerta, la libertà, la sovranità, la proprietà privata, la scelta, la decisione, la sostanza, e tutte le loro figure, dal capo dello stato al premier, al duce, all’imprenditore, allo startupper, al genio, all’artista, eccetera, sono momenti ed espressione di ciò che prudentemente chiamo società borghese.
Tu poni l’enfasi sul lato soggettivo, dice Mazzetti a Hunnicutt. Poni l’accento sul valore positivo e libero di una scelta che suggerisci. Consideri la redistribuzione del tempo di lavoro come dipendente da una scelta, da una decisione, da una libertà che si possiede in proprio, come il sovrano possiede il diritto all’ultima parola, la decisione estrema, il dir di sì (o il dir di no) che concede la grazia e la libertà. Mentre io privilegio un confronto con le resistenze. Non disconosco il lato attivo, positivo della scelta. Ma non posso nascondere il lato passivo che condiziona la scelta.
Semplificando al massimo, continua Mazzetti, potremmo dire che il tuo approccio è prevalentemente storico-idealistico e il mio soprattutto storico-materialistico. Non nego che gli uomini facciano la propria storia, che dunque abbiano un ruolo attivo, che la scelta conti, e conti parecchio. Ma, e in ciò sono ancora pienamente d’accordo con Marx, sebbene gli uomini facciano la loro storia, non la fanno secondo il loro libero arbitrio. La storia non è il solo frutto di scelte individuali o collettive, di scelte politiche, eccetera. In essa non si esprime la sovranità o la libertà. Né gli uomini fanno la storia in circostanze da essi stessi prescelte. Anche le circostanze – non solo il mondo delle relazioni, anche il mondo delle cose – fanno la storia, e non sono frutto di una scelta. Queste circostanze sono date dal passato. Il passato dà qualcosa, quel qualcosa in cui l’uomo si trova situato. Dunque, il passato vanta qualche pretesa sul futuro. Il futuro non è totalmente nelle mani del presente, non è totalmente presente. Una parte del destino si gioca nel passato, nelle condizioni date, e queste condizioni – questa passività che oppone resistenza – reclama il suo diritto. Queste circostanze condizionano lo stesso processo attraverso il quale i presenti cercano di soddisfare i loro bisogni e di porre rimedio alle loro catastrofi. La storia, infatti, mostra che ogni generazione si trova donato un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui tra loro, che è stato tramandato dalle generazioni precedenti; una massa di forze produttive, capitale e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalle nuove generazioni, ma che dall’altra parte impone a esse le sue proprie condizioni di vita e dà uno sviluppo determinato; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.
È mia convinzione, dice Mazzetti, che quando un individuo “sceglie” si pone in una relazione esterna rispetto all’oggetto della sua “scelta”. Pertanto, se diciamo che le persone possono “scegliere” la riduzione dell’orario, facciamo passare la convinzione che essi non abbiano bisogno di passare attraverso un radicale mutamento di sé per conquistare la libertà connessa con quella trasformazione sociale. Facciamo passare l’idea, aggiungo io, che la libertà è già qui, che bisogna solo approfittarne, che la libertà è uno stato di cose e non un movimento, che la libertà è una presenza, un oggetto, persino una merce.
(Il testo del confronto Mazzetti – Hunnicutt si trova a questo indirizzo. Si tratta della più lucida e sintetica presentazione del materialismo storico elaborata da Mazzetti.)
*(Leo Essen ha studiato all’università di Bologna)

 

06 – Riccardo Piccolo*: TRENI, TUTTI GLI ERRORI CHE LI HANNO BLOCCATI A ROMA. LA RETE NAZIONALE DEI TRASPORTI PARALIZZATA PER ORE A CAUSA DI UN CHIODO, MIGLIAIA DI PASSEGGERI IN ATTESA NELLE STAZIONI. TRENITALIA SOSPENDE IL CONTRATTO CON LA DITTA RESPONSABILE, MENTRE EMERGONO CRITICITÀ SISTEMICHE NELLA MANUTENZIONE FERROVIARIA
Un semplice chiodo ha mandato in tilt l’Alta velocità di Roma e i treni in Italia. Quello che doveva essere un intervento di manutenzione ordinaria si è trasformato in un incubo per migliaia di passeggeri, con ritardi fino a 160 minuti e decine di treni cancellati. L’incidente, avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 ottobre
2024, ha messo in luce le fragilità dell’infrastruttura ferroviaria nazionale e riacceso il dibattito sulla necessità di un “cambio di rotta” nella gestione della rete.
L’EFFETTO DOMINO
L’incidente è avvenuto intorno alle 3 del mattino, quando una ditta esterna incaricata della manutenzione ha inavvertitamente danneggiato un cavo elettrico cruciale nel nodo ferroviario di Roma. “Un chiodo piantato male durante un regolare intervento di manutenzione ordinaria ha mandato in tilt le ferrovie italiane”, riporta Today Roma. Il danno, apparentemente banale, ha innescato una reazione a catena che ha paralizzato l’intera rete nazionale.
Il cavo danneggiato alimentava una cabina elettrica fondamentale per il funzionamento della circolazione nel nodo di Roma. Nonostante la presenza di sistemi di backup, qualcosa è andato storto. Gianpiero Strisciuglio, amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), ha spiegato: “La cabina di per sé ha una dotazione che le consente di supplire al primo malfunzionamento. Ma in realtà all’interno della stessa cabina, come detto, qualcosa si è bloccato. E questo è tuttora oggetto di ulteriori approfondimenti”.
Robert Downey Jr e Christopher Nolan rispondono alle domande del web
Il sistema ha continuato a funzionare grazie alle batterie di emergenza fino alle 6:30, quando si sono esaurite. A quel punto, è scoppiato il caos. La circolazione dei treni si è praticamente fermata, con ripercussioni immediate su tutto il territorio nazionale. Secondo i dati forniti da Trenitalia, sono state cancellate 35 corse dell’Alta Velocità e degli Intercity, altre 40 hanno subito una parziale cancellazione e ulteriori 54 hanno avuto ritardi superiori a 60 minuti.
Ma come rivela Il Post, dietro al singolo errore umano si celano falle ben più gravi nei sistemi di sicurezza. A partire dal guasto al gruppo di continuità che avrebbe dovuto garantire l’alimentazione elettrica di emergenza. Entrato in funzione alle 3 del mattino dopo il black out, si è spento appena tre ore dopo per cause da accertare. Lasciando la stazione al buio fino all’alba. “Una circostanza rara”, minimizzano i tecnici di Rfi, che puntano il dito contro la ditta appaltatrice: “Eventi come questi non devono accadere”, tuona l’Ad Gianpiero Strisciuglio annunciando la sospensione del contratto. Mentre il ministro Salvini chiede i danni.
GLI EFFETTI DEL GUASTO
L’impatto dell’incidente è stato ingente. Alla stazione Termini di Roma, cuore nevralgico del sistema ferroviario italiano, si sono registrati ritardi fino a 160 minuti per i treni dell’Alta Velocità. I pendolari si sono trovati bloccati nelle stazioni o a bordo di treni fermi, con scarse informazioni e senza alternative valide per raggiungere le proprie destinazioni. Le ripercussioni economiche sono state altrettanto significative. Secondo le stime riportate da La Stampa, i danni causati dall’incidente ammonterebbero a una cifra compresa tra i 20 e i 40 milioni di euro. Una parte di questi costi dovrà essere sostenuta da Trenitalia, che ha già annunciato misure di rimborso per i passeggeri colpiti dai ritardi.
UN PROBLEMA SISTEMICO
L’incidente del 2 ottobre, per quanto eccezionale, ha riportato l’attenzione su problemi più ampi e radicati nel sistema ferroviario italiano. L’estate del 2024 è stata particolarmente critica per i trasporti su rotaia, con numerosi guasti e ritardi che hanno messo a dura prova la pazienza dei viaggiatori. Tra gennaio e giugno 2024, l’80% dei treni dell’Alta Velocità rispettava gli orari previsti. Tuttavia, a luglio l’indice di puntualità è crollato al 61,1%, con 4 treni su 10 che hanno subito ritardi. La situazione non è migliorata significativamente nei mesi successivi, con l’indice di puntualità che a settembre si attestava al 73%.
Ancora più preoccupanti sono i dati forniti dall’Autorità garante dei trasporti ferroviari. Nella sua ultima relazione al Parlamento, l’Autorità ha certificato che ogni anno si verificano circa 10.000 interruzioni di linea, ovvero 27 al giorno. La durata di queste interruzioni è in costante aumento: nel primo semestre del 2024 hanno raggiunto le 22.904 ore complessive, contro le 17.913 ore dello stesso periodo del 2022.
*(Riccardo Piccolo. Giornalista professionista specializzato in web editing e social media management per diverse testate online, tra cui Wired Italia e Linkiesta.)

 

07 – Irene Doda*: COME SI FERMA LO “SPLINTERNET”? IL 22 SETTEMBRE SCORSO LE NAZIONI UNITE HANNO APPROVATO UN DOCUMENTO DI 16 PAGINE CHIAMATO GLOBAL DIGITAL COMPACT (GDC). SI TRATTA DI UN ACCORDO TRA GLI STATI MEMBRI, CHE SI IMPEGNANO A RIDURRE IL DIVARIO DIGITALE, E PROMUOVERE UNO “SPAZIO DIGITALE CHE RISPETTI E SOSTENGA I DIRITTI UMANI”.
Sulla carta il documento non appare particolarmente controverso. Anzi, sembra affrontare alcune delle questioni più pressanti del panorama tecnologico attuale: come fermare la disinformazione, come regolare l’intelligenza artificiale, come proteggere le persone più fragili che utilizzano la rete. Ma a luglio un gruppo di scienziati e ingegneri, in una lettera aperta pubblicata a luglio scorso, ha espresso alcune preoccupazioni:

“Man mano che i pericoli associati a Internet e al web diventano più evidenti, i governi desiderano agire attraverso regolamenti e leggi. L’architettura tecnica può consentire e influenzare le modalità di utilizzo di Internet, ma da sola non può affrontare abusi, disinformazione, disuguaglianze o molti altri problemi. Ciononostante, la regolamentazione e la legislazione rappresentano un potenziale pericolo, se minano la natura fondamentalmente autonoma di Internet”, si legge nel testo.
Alcune parti del GDC possono essere infatti lette come un “mandato per una governance più centralizzata”. Anche perché, notano i firmatari, il processo multilaterale ha coinvolto principalmente attori statali, con poca considerazione per la società civile e la comunità scientifica.
Per capire meglio le preoccupazioni rispetto al GDC, occorre fare un passo indietro per vedere come la governance del web è stata gestita fino ad ora. A guidarla sono diverse istituzioni, come la Internet Engineering Task Force (IETF), responsabile di mantenere i protocolli (cioè l’insieme di regole che i dispositivi connessi usano per comunicare tra loro), Il World Wide Web Consortium (W3C) che sviluppa standard e linguaggi e la Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN), che si occupa della gestione dei domini. A guidare lo sviluppo del web, in breve, sono sempre state organizzazioni non governative, per cui, per altro, la maggior parte dei firmatari della lettera aperta lavora.
A essere a rischio, secondo la lettera aperta, è una caratteristica fondamentale di Internet come la conosciamo: la decentralizzazione. La rete è un’infrastruttura distribuita. Il tentativo degli stati di renderla più gerarchica suscita dunque preoccupazioni sul suo futuro. Un futuro che avrà ripercussioni sull’esperienza online dei cittadini di tutti gli stati. “Temiamo che il documento sia in gran parte una creazione dei soli governi scollegata da Internet e dal Web come li esperiscono attualmente le persone di tutto il mondo”.
Le preoccupazioni espresse si ricollegano anche al concetto emergente di “splinternet”: ovvero la frammentazione di Internet in reti nazionali o regionali separate, ciascuna regolata da normative e regole anche radicalmente diverse. Se da una parte il Global Digital Compact mira, almeno sulla carta, a stabilire una governance più armonica e globale, dall’altra rischia di favorire una frammentazione della rete, dove diversi stati adottano approcci sempre più divergenti riguardo alla regolamentazione del web e dei suoi rischi. Questo scenario non solo minaccia la natura aperta e decentralizzata di Internet, come notato dalla comunità scientifica. Ma potrebbe anche amplificare le barriere digitali tra paesi, limitando l’accesso a informazioni globali e creando delle vere e proprie “bolle” di contenuti e servizi accessibili solo all’interno dei confini nazionali.
*(Irene Doda, scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Ha scritto per Wired, Singola, Il Tascabile e altre riviste online e cartacee)


08 – Roberto Ciccarelli*: GIORGETTI GETTA LA MASCHERA: «TAGLI E SACRIFICI PER TUTTI» – IL PIANO ECCO L’AUSTERITÀ DEL GOVERNO: NEL MIRINO LA P.A. AUMENTO DELLE ACCISE SUL DIESEL: È POLEMICA. CROLLO DELLA BORSA A MILANO DOPO L’ANNUNCIO DI UN «CONTRIBUTO» DALLE BANCHE E DALLE INDUSTRIE DELLE ARMI. IL MINISTRO DELL’ECONOMIA GIANCARLO GIORGETTI: “TAGLIEREMO LE SPESE.

Sarà uno sforzo che l’intero paese deve sostenere: individui, società piccole e grandi, Pubblica amministrazione”
Sacrifici per tutti, tagli alla spesa, privatizzazioni, un «contributo» chiesto alle imprese che ha provocato un crollo della borsa. E poi, forse, un aumento delle accise sui carburanti. Da ieri, dopo tante chiacchiere, siamo finalmente entrati nella discussione sulla legge di bilancio. La terza del governo Meloni, la prima con le nuove regole del patto di bilancio europeo. È l’inizio della nuova austerità.

IL TONO DELLA GIORNATA è stato dato dal ministro dell’economia Giorgetti che ha smesso di nascondersi dietro un dito. «Taglieremo le spese – ha detto – Nel percorso esigente di rientro del deficit è evidente che ci apprestiamo ad approvare una manovra che richiederà sacrifici a tutti. Sarà uno sforzo che l’intero paese deve sostenere: individui, ma anche società piccole, medie e grandi».

IN QUESTA RETORICA austeritaria, quella già vista ai tempi di Monti, è chiaro che ci sarà il taglio della pubblica amministrazione (scuola, sanità, pensioni, enti locali, e così via) che sarà «chiamata a essere molto più performante e produttiva. Quindi, fare risultati migliori con spese migliori» ha detto Giorgetti. Tradotto: gli aumenti contrattuali promessi saranno sottodimensionati rispetto a quanto i salari hanno perso in questi anni di mega-inflazione. Obiettivo: raggranellare 12-13 miliardi di deficit ogni anno, a partire dal prossimo, per i prossimi sette. Questo è l’impegno contratto dal governo con Bruxelles. Per questo proseguiranno le privatizzazioni: «Sarà un autunno-inverno molto denso – ha detto Giorgetti – a cominciare da Poste e Mps».

IL SECONDO ELEMENTO emerso dalle parole di Giorgetti è sembrato meno chiaro: i «sacrifici» chiesti alle società che hanno realizzato profitti speculativi dal Covid alle nuove guerre: banche, farmaceutica, energia e armi. Giorgetti si è proposto di «tassare profitti e ricavi in maniera corretta». Il ministro ha precisato: «Prevalentemente taglieremo spese [sociali, quelle dei «ministeri» non basteranno, ndr.] ma un concorso alle entrate ci sarà».

TUTTO STA A CAPIRE in cosa consisterà il «concorso». Per esempio quello degli «utili della difesa che oggi va particolarmente bene» ha detto Giorgetti. In effetti gli italiani sono i terzi fornitori di armi a Israele. Lo stesso vale per le banche che hanno indicato al governo una soluzione: un contributo una tantum e non retroattivo. La non chiarezza del gergo di Giorgetti ha provocato un crollo in borsa a Milano: -1,5%. È il segnale che certi interessi non si toccano.

UN’ALTRA PROVA della nuova austerità è venuta ieri da una polemica su un aumento delle accise sul carburante. Lo avrebbe stabilito il Piano strutturale di bilancio (Psb), cioè il quadro entro il quale agirà la prossima manovra. In tre righe, in un testo di centinaia di pagine, il governo ha scritto che aumenterà le tasse sul diesel per riequilibrarle con quelle della benzina: «Utilizzare – si legge – l’allineamento delle aliquote delle accise per diesel e benzina e/o politiche di riordino delle agevolazioni presenti in materia energetica». L’«allineamento» sarebbe stato deciso per rispondere alle esigenze della «transizione energetica e ambientale». In pratica, un governo ostile al Green Deal, come tutte le destre, lo evoca per intervenire sulla tassazione dei carburanti richiesta sia dal Pnrr che dall’impegno, mai rispettato, della riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi. Fino a ieri Meloni & Co. non avevano mai mostrato una simile passione «verde» per giustificare un intervento confuso e imbarazzato sulle aborrite tasse.
UN AUMENTO DELLE ACCISE equivarrebbe a una stangata da 3,1 miliardi di euro ha sostenuto Assoutenti. Per Federconsumatori ogni automobilista pagherebbe 112 euro annui in più. Per Unimpresa ciò porterebbe all’innesco di una nuova spirale inflazionistica. Per Assotir costerebbe 350 milioni di euro all’anno ai camionisti. Per il Codacons le famiglie pagherebbero 7,5 miliardi di costi aggiuntivi sui prezzi al dettaglio. Panico. Così il ministero dell’economia è stato costretto a smentire ciò che ha scritto nel Psb definendo «del tutto fuorvianti» le valutazioni delle associazioni. L’intervento sarà definito nella delega fiscale e consisterà «non nella scelta semplicistica dell’innalzamento delle accise, ma in una rimodulazione». Nell’interpretazione del sottosegretario Federico Freni questo significa che il totale delle tasse sui carburanti resterà immutato, ma cambieranno le parti tra il diesel e la benzina.
LA SMENTITA non ha convinto le opposizioni. Elly Schlein (Pd) ha parlato di «tassa Meloni per tre miliardi» mostrando alle telecamere l’estratto del Psb. Schlein ha ricordato un video fatto da Giorgia Meloni nel 2019 quando prometteva di abolire le accise. Cosa che non ha fatto già negli ultimi due anni e continuerà a non fare nei prossimi, con o senza «rimodulazione». «I tre miliardi che Meloni otterrebbe – ha osservato Peppe De Cristofaro (Avs) – potevano essere trovati tassando gli extraprofitti. E invece si colpiscono i cittadini». Almeno un elemento si è capito da questa polemica di giornata. La tanto annunciata, quanto velleitaria, intenzione del governo di intervenire nella manovra sulle cosiddette «Tax expenditures» (agevolazioni fiscali) è un’impresa proibitiva.
NON GLI RESTA che tagliare la spesa per rilanciare la «crescita». La ricetta catastrofica di 15 anni fa. Non è cambiato niente. Nemmeno un paese impoverito che punta sulla piccola rendita individualistica e corporativa. Si salvi chi può per non tirare le cuoia.
*(Roberto Ciccarelli, Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto».)

 

 

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